Per notizia.
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10/05/2012 201202712 Sentenza 4
N. 02712/2012REG.PROV.COLL.
N. 09539/2009 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9539 del 2009, proposto da:
Presidenza del Consiglio dei Ministri Commissione Per Le Provvidenze Ai Perseguitati Politici Antifascisti e Razziali, Ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi dall'Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
OMISSIS, rappresentata e difesa dall'avv. Gregorio Troilo, con domicilio eletto presso Gregorio Troilo in Roma, via Carlo Poma, 2;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III n. 04984/2009, resa tra le parti, concernente DINIEGO DI RICONOSCIMENTO DEL BENEFICIO DI CUI ALL'ART 2 DELLA L 932/80 QUALE EREDE DELLA SORELLA OMISSIS
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di OMISSIS;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 dicembre 2011 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Raffaele Pendibene su delega di Gregorio Troilo e Luca Ventrella (Avv. St.);
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con l’appello0 in esame, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’economia e delle finanze impugnano la sentenza 8 maggio 2009 n. 4984, con la quale il TAR per il Lazio, sez. III, ha accolto il ricorso proposto dalla signora OMISSIS, avverso il decreto di rigetto del ricorso gerarchico da lei proposto contro la determinazione negativa della Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici, antifascisti o razziali.
Tale Commissione aveva rigettato la domanda della sig.ra OMISSIS, tendente ad ottenere, in qualità di erede della sorella OMISSIS, il riconoscimento del beneficio di cui all’art. 5 l. n. 96/1955, cui aveva titolo la dante causa.
La sentenza appellata afferma che l’art. 5 l. n. 96/1955 ha inteso disporre che “il diritto di richiedere la ricostruzione delle pensioni spettanti ai perseguitati politici e razziali spetta ai superstiti, e quindi anche agli eredi di questi ultimi, atteso che l’interpretazione restrittiva fatta propria dall’amministrazione, secondo cui gli eredi acquistano il diritto di ricevere tali prestazioni solamente se i suddetti benefici erano stati riconosciuti al de cuius in esito ad una procedura, da quest’ultimo preventivamente attivata, non necessitava di una specifica previsione normativa”.
Avverso tale sentenza, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
violazione e falsa applicazione art. 8 l. n. 36/1974, in quanto:
a) diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, “nella legislazione della previdenza sociale . . . il concetto di superstiti non è perfettamente coincidente con quello d erede nel diritto successorio” e, nel caso di specie, alla ricorrente in I grado non può essere riconosciuta la qualità di superstite “e quindi di soggetto destinatario del diritto alla ricostruzione della pensione spettante alla collaterale sig.ra OMISSIS, non sussistendo le condizioni per qualificarla come superstite avente diritto”;
b) in ogni caso, sarebbe infondato anche il secondo motivo di ricorso – considerato assorbito dal Tribunale – poiché il “primo atto persecutorio” dal quale far decorrere, ai sensi di legge, il periodo da coprire con i contributi figurativi, non può essere individuato nella espulsione dalla scuola pubblica, sia perché “non risulta in alcun modo dagli atti, né dalla narrazione fatta dalla dante causa, né può comunque ricollegarsi ad una espressa manifestazione di volontà, come è avvenuto nella domanda del 26 settembre 1970”.
Si è costituita i giudizio la sig.ra OMISSIS, che ha concluso per il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza di I grado.
All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.
DIRITTO
Il Collegio ritiene innanzi tutto necessario precisare che il thema decidendum deve essere delimitato al motivo di appello con il quale le amministrazioni appellanti impugnano la sentenza n. 4984/2009 del TAR per il Lazio, e non comprende, pertanto, le argomentazioni svolte nell’atto di appello, in relazione al motivo di ricorso in I grado dichiarato assorbito dal detto Tribunale.
Infatti, non è possibile proporre impugnazione avverso statuizioni non presenti nella sentenza appellata, dovendosi intendere le suddette argomentazioni come una mera rappresentazione dovuta a tuziorismo e/o scrupolo difensivo.
D’altra parte, l’appellata nel costituirsi, pur controdeducendo sul punto, non ha inteso proporre appello incidentale, come si evince anche dalle conclusioni della memoria datata 9 novembre 2011 (e già prima dall’atto di costituzione datato 16 aprile 2010), dove si chiede il rigetto dell’appello e la “conferma integrale della sentenza di I grado”.
Tanto precisato, l’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto.
Come si evince dagli atti di causa, la sig.ra OMISSIS, con domanda del 31 gennaio 2005, ha richiesto il beneficio previsto dall’art. 2 l 22 dicembre 1980 n. 932 e la qualifica di perseguitata razziale per la sorella OMISSIS
La Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici, antifascisti e razziali, con deliberazione 2 agosto 2006 n. 87235, ha negato la concessione del beneficio, assumendo:
- che non è dimostrata la qualità di erede dell’istante;
- che con precedente deliberazione, ai sensi dell’art. 5 l. 10 marzo 1955 n. 96, erano stati già riconosciuti a OMISSIS i periodi scoperti di contribuzione;
- che “le situazioni nascenti da rapporti di diritto pubblico sono intrasmissibili, anche se a contenuto patrimoniale, salvo che non si tratti di diritti o obblighi già entrati a far parte del patrimonio del dante causa”.
Proposto ricorso gerarchico, lo stesso è stato rigettato con decreto 19 febbraio 2008 n. 86395 del direttore generale del Ministero dell’economia e finanze, ritenendosi:
- sia l’intrasmissibilità delle situazioni di diritto pubblico, di modo che il diritto di richiedere il beneficio ex art. 2 l. n. 932/1980 “è un diritto personale ed esclusivo della beneficiaria, subordinato ad una sua esplicita manifestazione di volontà”;
- sia che l’interessata (OMISSIS), dopo l’entrata in vigore della l. n. 932/1980, “non aveva prodotto alcuna istanza tendente ad ottenerne l’applicazione”.
Orbene, l’art. 2 della l. 22 dicembre 1980 n. 932, del quale l’appellante ha chiesto applicazione, sostituisce l’art. 5 l. 10 marzo 1955 n. 96, il quale ultimo prevede::
“Ai fini del conseguimento delle prestazioni inerenti all'assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, sono considerati utili i periodi scoperti da contribuzione a partire dal primo atto persecutorio subito nelle circostanze di cui all'articolo 1 della presente legge e fino al 25 aprile 1945, dai cittadini italiani che possano far valere una posizione assicurativa nell'assicurazione predetta, o periodi di lavoro assoggettabili a contribuzione dell'assicurazione stessa, ai sensi delle vigenti norme di legge.
È a carico dello Stato l'importo dei contributi figurativi da accreditare a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali, per i periodi riconosciuti utili a pensione nell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti e nelle forme di previdenza sostitutive, esonerative ed esclusive della medesima dalla commissione di cui all'articolo 8.
Per la ricostruzione delle pensioni si seguono le procedure previste dalla legge 15 febbraio 1974, n. 36”.
Ciò che viene contestato dalle amministrazioni appellanti è la legittimazione stessa dell’appellata OMISSIS a poter richiedere (e dunque, sussistendo i presupposti in capo alla sorella OMISSIS, a usufruire) i benefici di cui alla disposizione ora riportata.
Orbene, l’art. 8, co. 4, l. n. 36/1974, prevede che:
“Le riliquidazioni, supplementi, maggiorazioni e prestazioni in genere di cui ai precedenti commi spettano anche ai superstiti aventi diritto con riferimento sia alle prestazioni dirette che sarebbero spettate all'assicurato sia alle prestazioni indirette e di riversibilità”.
E’ sulla base di tale ultima disposizione – e sui diritti che essa riconosce ai “superstiti” – che il primo giudice ha ritenuto sussistente la legittimazione a richiedere i benefici ex art. 5 l. n. 96/1955, anche alla sorella del originaria beneficiaria, e sua erede.
Il Collegio ritiene, innanzi tutto, che la disciplina in esame, stante le ragioni che ne hanno motivato l’adozione da parte del legislatore riconducibili, tra l’altro, a vicende storiche di discriminazione e persecuzione razziale, e consistenti in finalità umanitarie ed equitative e (nei limiti del possibile) riparatorie, non possa essere soggetta a stretta interpretazione, né che per i casi in essa contemplati possano trovare immediata, automatica applicazione le ordinarie norme del diritto previdenziale, dovendosi, al contrario, propendere per interpretazioni volte ad accordare – anziché ad escludere – la concessione del beneficio.
Tanto premesso sul piano generale, il Collegio condivide l’interpretazione fatta propria dalla sentenza appellata, posto che – come riconosciuto dalle stesse amministrazioni appellanti - nella categoria dei “superstiti”, rientrano comunque anche i fratelli e le sorelle, e non sussistono evidenti ragioni normative per escludere gli eredi. A ciò deve aggiungersi che:
- per un verso, gli atti impugnati, nell’escludere la titolarità del diritto a richiedere il beneficio in capo alla sig.ra OMISSIS, non hanno affatto motivato tale diniego con riferimento ad una mancanza delle condizioni per qualificarla come superstite (come invece dedotto in appello: v. pag. 7);
- per altro verso, che sussiste, per le ragioni esposte, la legittimazione della sig.ra OMISSIS a richiedere il beneficio;
- per altro verso ancora, le eventuali somme derivanti dalla applicazione del beneficio richiesto, in quanto afferenti – ora per allora - al patrimonio del de cuius, rientrano pienamente nell’asse ereditario
Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata.
Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando sull’appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Ministero dell’economia e delle finanze (n. 9539/2009 r.g.), lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza appellata.
Condanna le amministrazioni appellanti, in solido, al pagamento, in favore dell’appellata, delle spese, diritti ed onorari di giudizio, che liquida in complessivi Euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre accessori come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2011 con l'intervento dei magistrati:
Gaetano Trotta, Presidente
Raffaele Greco, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Diego Sabatino, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/05/2012
Pensioni ai perseguitati politici e razziali e agli eredi
Re: Pensioni ai perseguitati politici e razziali e agli ered
deportazione in campi di sterminio.
concessione dell’assegno vitalizio, ax art. 1 della l. 791/80, nonché la contribuzione figurativa prevista dall’art. 2 della l. 94/94, in ragione dell’avvenuta deportazione in campi nazisti di sterminio.
Il CdS rigetta l'Appello della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze.
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07/04/2014 201401619 Sentenza 4
N. 01619/2014REG.PROV.COLL.
N. 04570/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4570 del 2011, proposto da:
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
E. S., e per esso, di M. S. (erede);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 36098/2010, resa tra le parti, concernente richiesta di attribuzione dei contributi figurativi ex art. 2 l. n. 94/94 per i periodi di deportazione fino alla guarigione non avvenuta.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 febbraio 2014 il Cons. Giulio Veltri e uditi per la parte ricorrente l'avvocato dello Stato Anna Collabolletta;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Il sig. S… chiedeva con un’unica istanza, in data 8/8/2005, la concessione dell’assegno vitalizio, ax art. 1 della l. 791/80, nonché la contribuzione figurativa prevista dall’art. 2 della l. 94/94, in ragione dell’avvenuta deportazione in campi nazisti di sterminio. L’amministrazione, con provvedimento n. 60400 del 4 giugno 2009, respingeva la domanda di assegno vitalizio, ritenendo “non comprovata la restrizione a fini di sterminio” (l’interessato sarebbe cioè stato sì ristretto, ma a fini di lavoro coatto); con provvedimento n. 60401 in pari data, richiamato il provvedimento 60400, e considerata la mancata produzione di idonea documentazione sanitaria attestante la patologia riportata a causa della deportazione, respingeva anche la domanda di riconoscimento della contribuzione figurativa.
Il TAR Lazio, investito del gravame in relazione al solo provvedimento n. 60401, lo accoglieva ed annullava il diniego, sostenendo che l’amministrazione, avuto riguardo alla drammaticità dei fatti e del periodo storico, avrebbe dovuto collaborare nella ricerca della prova e non limitarsi a chiedere documentazione.
Appella ora l’amministrazione. Sostiene che il TAR abbia travisato i fatti: ciò che mancava, in realtà, era il presupposto principale, ossia l’avvenuta deportazione in campi di sterminio, essendo l’istante stato ristretto per lavori forzati (circostanza desumibile dal provv. 60400, non impugnato); la considerazione del tragico contesto evocato non giustificherebbe, del resto, il completo ribaltamento dell’onere probatorio inammissibilmente operato dal Giudice di prime cure.
Nelle more del giudizio il sig. S…. è deceduto, sicché l’amministrazione ha riassunto il giudizio nel confronti dell’erede M. S..
La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 18 febbraio 2014.
L’appello non è fondato.
Si discute dell’applicazione dell’art. 2 della l. 94/94: “Ai fini del conseguimento delle prestazioni inerenti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, sono considerati utili i periodi scoperti da contribuzione a partire dal primo atto subìto che portò alla privazione della libertà ed alla deportazione, nelle circostanze di cui all'articolo 1 della legge 18 novembre 1980, n. 791 (ndr deportazione nei campi di sterminio K.Z. per ragioni di razza, fede, idelologia), e fino alla data del rimpatrio, se non affetti da malattie, o fino alla data della conseguita guarigione clinica, se ammalati, dei cittadini italiani che possono far valere una posizione assicurativa nell'assicurazione predetta o periodi di lavoro assoggettabile a contribuzione dell'assicurazione stessa ai sensi delle vigenti norme di legge”.
Il Giudice di primo grado, dopo aver sottolineato la rilevanza epocale e drammatica dei fatti dai quali scaturisce la domanda, ha ritenuto che: a) il ricorrente rientri, in quanto deportato, nelle categorie indicate dalle legge quali destinatarie dei benefici; b) egli abbia prodotto le certificazioni sanitarie in suo possesso; c) l’insufficienza delle stesse avrebbe dovuto indurre l’amministrazione ad approfondire ufficiosamente l’istruttoria, anche attraverso idonei accertamenti sanitari.
L’amministrazione focalizza le proprie censure soprattutto sulla mancata considerazione dell’insussistenza del presupposto primario del beneficio: l’essere stato, l’istante, deportato in Germania per “finalità di sterminio”. L’insussistenza di tale presupposto, evincibile per relationem dal tenore del provvedimento n. 60400, renderebbe ultroneo l’esame dell’idoneità della documentazione sanitaria sulla quale prevalentemente si incentra la motivazione del provvedimento n. 60401.
Il punto merita approfondimento. Ed occorre partire da un primo dato, di carattere formale: il provvedimento n. 60401 è tutto incentrato sull’insufficienza ed inidoneità della documentazione sanitaria, sul mancato riscontro da parte dell’istante alle pregresse richieste di documentazione sanitaria”integrativa, nonché sull’onus probandi incombente sull’istante. Non un solo cenno è fatto alla mancanza del presupposto dell’avvenuta restrizione in campi di concentramento a fini di sterminio. E’ pur vero che sono richiamati gli estremi del provvedimento n. 60400, emesso in pari data, ma senza che a questo richiamo sia attribuita alcuna specifica significatività e valenza (ed anzi, è persino menzionata erroneamente la natura concessiva di quest’ultimo, con conseguente totale imperscrutabilità del riferimento).
Ciò posto, il principio citato dall’appellante, secondo il quale, quando una motivazione ostativa sussiste, essa è di per sé sola sufficiente a sostenere il diniego, a prescindere dalla validità delle altre concorrenti motivazioni, avrebbe dovuto informare innanzitutto l’azione dell’amministrazione, inducendola – diversamente da quanto è avvenuto – a non porre l’accento su una circostanza subordinata (quella della patologia), se già quella principale difettava. Non è pertanto frutto di un travisamento l’attenzione che il primo giudice ha posto proprio sugli aspetti sanitari.
In relazione a questi ultimi, anche a voler prescindere dalla drammaticità del contesto, emerge dagli atti che: 1) con DM del 23/9/55 (epoca più prossima ai fatti) è stata concessa al ricorrente una pensione di guerra per infermità conseguente ad “esiti ………..”; 2) dal verbale di visita medica del 1949 (dunque in epoca antecedente all’emanazione delle leggi contemplanti i benefici per cui è causa) emerge in particolare che, nel 1944, “durante la prigionia in Germania” fu ferito al …….. da militari tedeschi.
Trattasi di indizi sufficienti a documentare la patologia e la sua genesi (in disparte ogni considerazione in ordine alla gravità o meno della stessa), e comunque sufficienti a stimolare eventuali ed ulteriori accertamenti medici ufficiosi.
Quanto poi alla questione propedeutica della restrizione subita dal ricorrente nei campi di concentramento, dalla documentazione emerge che il nominativo del medesimo è inserito in un elenco di deportati dall’Italia redatto dal Comitato ricerche deportati (si veda relazione del Capo dell’ufficio di collegamento italiano presso l’ITS, e relativi allegati).
L’ulteriore indagine sulle effettive finalità della restrizione presso “Fossoli, Ratibor, Wiesbaden, Sargemin, Frankental e Landau” (se cioè essa era finalizzata allo sterminio, o ai lavori forzati), è invero difficile da approfondire; ed in ogni caso, anche a volerne ammettere la rilevanza, essa compete all’amministrazione e non all’istante, e deve essere rigorosa, poiché, nel dubbio, non può che ammettersi una presunzione relativa pro istante.
L’appello è pertanto respinto.
Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza della costituzione di parte intimata.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 febbraio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sandro Aureli, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 07/04/2014
concessione dell’assegno vitalizio, ax art. 1 della l. 791/80, nonché la contribuzione figurativa prevista dall’art. 2 della l. 94/94, in ragione dell’avvenuta deportazione in campi nazisti di sterminio.
Il CdS rigetta l'Appello della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze.
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07/04/2014 201401619 Sentenza 4
N. 01619/2014REG.PROV.COLL.
N. 04570/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4570 del 2011, proposto da:
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
E. S., e per esso, di M. S. (erede);
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I n. 36098/2010, resa tra le parti, concernente richiesta di attribuzione dei contributi figurativi ex art. 2 l. n. 94/94 per i periodi di deportazione fino alla guarigione non avvenuta.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 febbraio 2014 il Cons. Giulio Veltri e uditi per la parte ricorrente l'avvocato dello Stato Anna Collabolletta;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Il sig. S… chiedeva con un’unica istanza, in data 8/8/2005, la concessione dell’assegno vitalizio, ax art. 1 della l. 791/80, nonché la contribuzione figurativa prevista dall’art. 2 della l. 94/94, in ragione dell’avvenuta deportazione in campi nazisti di sterminio. L’amministrazione, con provvedimento n. 60400 del 4 giugno 2009, respingeva la domanda di assegno vitalizio, ritenendo “non comprovata la restrizione a fini di sterminio” (l’interessato sarebbe cioè stato sì ristretto, ma a fini di lavoro coatto); con provvedimento n. 60401 in pari data, richiamato il provvedimento 60400, e considerata la mancata produzione di idonea documentazione sanitaria attestante la patologia riportata a causa della deportazione, respingeva anche la domanda di riconoscimento della contribuzione figurativa.
Il TAR Lazio, investito del gravame in relazione al solo provvedimento n. 60401, lo accoglieva ed annullava il diniego, sostenendo che l’amministrazione, avuto riguardo alla drammaticità dei fatti e del periodo storico, avrebbe dovuto collaborare nella ricerca della prova e non limitarsi a chiedere documentazione.
Appella ora l’amministrazione. Sostiene che il TAR abbia travisato i fatti: ciò che mancava, in realtà, era il presupposto principale, ossia l’avvenuta deportazione in campi di sterminio, essendo l’istante stato ristretto per lavori forzati (circostanza desumibile dal provv. 60400, non impugnato); la considerazione del tragico contesto evocato non giustificherebbe, del resto, il completo ribaltamento dell’onere probatorio inammissibilmente operato dal Giudice di prime cure.
Nelle more del giudizio il sig. S…. è deceduto, sicché l’amministrazione ha riassunto il giudizio nel confronti dell’erede M. S..
La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 18 febbraio 2014.
L’appello non è fondato.
Si discute dell’applicazione dell’art. 2 della l. 94/94: “Ai fini del conseguimento delle prestazioni inerenti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, sono considerati utili i periodi scoperti da contribuzione a partire dal primo atto subìto che portò alla privazione della libertà ed alla deportazione, nelle circostanze di cui all'articolo 1 della legge 18 novembre 1980, n. 791 (ndr deportazione nei campi di sterminio K.Z. per ragioni di razza, fede, idelologia), e fino alla data del rimpatrio, se non affetti da malattie, o fino alla data della conseguita guarigione clinica, se ammalati, dei cittadini italiani che possono far valere una posizione assicurativa nell'assicurazione predetta o periodi di lavoro assoggettabile a contribuzione dell'assicurazione stessa ai sensi delle vigenti norme di legge”.
Il Giudice di primo grado, dopo aver sottolineato la rilevanza epocale e drammatica dei fatti dai quali scaturisce la domanda, ha ritenuto che: a) il ricorrente rientri, in quanto deportato, nelle categorie indicate dalle legge quali destinatarie dei benefici; b) egli abbia prodotto le certificazioni sanitarie in suo possesso; c) l’insufficienza delle stesse avrebbe dovuto indurre l’amministrazione ad approfondire ufficiosamente l’istruttoria, anche attraverso idonei accertamenti sanitari.
L’amministrazione focalizza le proprie censure soprattutto sulla mancata considerazione dell’insussistenza del presupposto primario del beneficio: l’essere stato, l’istante, deportato in Germania per “finalità di sterminio”. L’insussistenza di tale presupposto, evincibile per relationem dal tenore del provvedimento n. 60400, renderebbe ultroneo l’esame dell’idoneità della documentazione sanitaria sulla quale prevalentemente si incentra la motivazione del provvedimento n. 60401.
Il punto merita approfondimento. Ed occorre partire da un primo dato, di carattere formale: il provvedimento n. 60401 è tutto incentrato sull’insufficienza ed inidoneità della documentazione sanitaria, sul mancato riscontro da parte dell’istante alle pregresse richieste di documentazione sanitaria”integrativa, nonché sull’onus probandi incombente sull’istante. Non un solo cenno è fatto alla mancanza del presupposto dell’avvenuta restrizione in campi di concentramento a fini di sterminio. E’ pur vero che sono richiamati gli estremi del provvedimento n. 60400, emesso in pari data, ma senza che a questo richiamo sia attribuita alcuna specifica significatività e valenza (ed anzi, è persino menzionata erroneamente la natura concessiva di quest’ultimo, con conseguente totale imperscrutabilità del riferimento).
Ciò posto, il principio citato dall’appellante, secondo il quale, quando una motivazione ostativa sussiste, essa è di per sé sola sufficiente a sostenere il diniego, a prescindere dalla validità delle altre concorrenti motivazioni, avrebbe dovuto informare innanzitutto l’azione dell’amministrazione, inducendola – diversamente da quanto è avvenuto – a non porre l’accento su una circostanza subordinata (quella della patologia), se già quella principale difettava. Non è pertanto frutto di un travisamento l’attenzione che il primo giudice ha posto proprio sugli aspetti sanitari.
In relazione a questi ultimi, anche a voler prescindere dalla drammaticità del contesto, emerge dagli atti che: 1) con DM del 23/9/55 (epoca più prossima ai fatti) è stata concessa al ricorrente una pensione di guerra per infermità conseguente ad “esiti ………..”; 2) dal verbale di visita medica del 1949 (dunque in epoca antecedente all’emanazione delle leggi contemplanti i benefici per cui è causa) emerge in particolare che, nel 1944, “durante la prigionia in Germania” fu ferito al …….. da militari tedeschi.
Trattasi di indizi sufficienti a documentare la patologia e la sua genesi (in disparte ogni considerazione in ordine alla gravità o meno della stessa), e comunque sufficienti a stimolare eventuali ed ulteriori accertamenti medici ufficiosi.
Quanto poi alla questione propedeutica della restrizione subita dal ricorrente nei campi di concentramento, dalla documentazione emerge che il nominativo del medesimo è inserito in un elenco di deportati dall’Italia redatto dal Comitato ricerche deportati (si veda relazione del Capo dell’ufficio di collegamento italiano presso l’ITS, e relativi allegati).
L’ulteriore indagine sulle effettive finalità della restrizione presso “Fossoli, Ratibor, Wiesbaden, Sargemin, Frankental e Landau” (se cioè essa era finalizzata allo sterminio, o ai lavori forzati), è invero difficile da approfondire; ed in ogni caso, anche a volerne ammettere la rilevanza, essa compete all’amministrazione e non all’istante, e deve essere rigorosa, poiché, nel dubbio, non può che ammettersi una presunzione relativa pro istante.
L’appello è pertanto respinto.
Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza della costituzione di parte intimata.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Nulla per le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 febbraio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sandro Aureli, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 07/04/2014
Re: Pensioni ai perseguitati politici e razziali e agli ered
l’interessato ha chiesto l’attribuzione dell’assegno vitalizio di benemerenza previsto dall’art. 3 della legge n. 932 del 1980, quale perseguitato razziale.
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LAZIO SENTENZA 362 15/04/2014
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
LAZIO SENTENZA 362 2014 PENSIONI 15/04/2014
Sent 362/2014
REPVBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LAZIO
***
Visto il ricorso iscritto al numero 73185/PG del registro di Segreteria;
Udìti - nella pubblica udienza del giorno 11 aprile 2014 – in rappresentanza della parte attrice l’avv. R. P., ed in rappresentanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze la dott.ssa Anna Maria Alimandi: che hanno confermato le conclusioni in atti;
Visti gli atti di causa;
ha pronunciato
SENTENZA
nel giudizio introdotto con il ricorso in premessa, proposto da D. P M., nato a ….., rappresentato e difeso dall’avv. R. P., presso il cui studio in Roma via Po n. 28 è elettivamente domiciliato – nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Economia e delle Finanze - avverso la delibera n. ….. della Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali.
MOTIVI della DECISIONE
Con il ricorso in epigrafe parte attrice contesta la legittimità della delibera in epigrafe, che ha respinto la domanda pervenuta in data 21.07.2008 con cui l’interessato ha chiesto l’attribuzione dell’assegno vitalizio di benemerenza previsto dall’art. 3 della legge n. 932 del 1980, quale perseguitato razziale.
Deduce il ricorrente: 1. violazione articolo 10 bis della legge n. 241/1990, per non aver l'Amministrazione inviato al ricorrente alcun preavviso di diniego; 2. Violazione dell'art. 4 L. 261/1967, come modificato dall'art. 3 L. 932/1980; l'art. 4 della legge 24 aprile 1967 n. 261, come modificato dall'art. 3 L. 932/80, prevede che "Ai cittadini italiani che siano stati perseguitati nelle circostanze di cui all'articolo 1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, a successive modificazioni, verrà concesso, a carico dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza, riversibile ai familiari superstiti ai sensi delle disposizioni vigenti in materia, pari al trattamento minimo di pensione erogato dal fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, nel caso in cui abbiano raggiunto il limite di età pensionabile o siano stati riconosciuti invalidi a proficuo lavoro. L'assegno di reversibilità compete anche ai familiari di quanti sono stati perseguitati nelle circostanze di cui all'articolo 1 della legge 10 Marzo 1955, n. 96, e successive modificazioni, e non hanno potuto fruire del beneficio perché deceduti prima dell'entrata in vigore della presente legge. L'assegno vitalizio di benemerenza non è cumulabile con l'assegno di cui all'articolo 1 citato e la non cumulabilità è estesa ai rispettivi assegni di riversibilità."; l'art, 1 L. 10 marzo 1955 n. 96 prevede che "Ai cittadini italiani, i quali siano stati perseguitati, a seguito dell'attività politica da loro svolta contro il fascismo anteriormente all'8 settembre 1943, e abbiano subito una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al 30 per cento, verrà concesso, a carico del bilancio dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza in misura pari a quello previsto dalla tabella C annessa alla legge 10 agosto 1950, n. 648 compresi i relativi assegni accessori, per il raggruppamento gradi: ufficiali inferiori. Tale assegno sarà attribuito qualora causa della perdita della capacità lavorativa siano stati:[ ...] c) atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all'estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista[…]; l'art. 6 L. 261/67 ("Prove comprovanti la persecuzione") prevede che: "nell'esame delle domande, la Commissione di cui all'articolo 4 della legge 8 novembre 1956, n. 1317, può ritenere validi, a comprovare le persecuzioni e la insorgenza delle infermità, atti notori e testimonianze dirette, quando non sia possibile il reperimento di documenti ufficiali".
Quanto ai fatti persecutori: si ritiene pacifica, ai fini del presente giudizio perché ammessa anche dalla Commissione, la sussistenza del fatto persecutorio denunciato, vale a dire la nascita del sig. M. D. p in un istituto di suore, dove i suoi genitori (ebrei) si erano dovuti rifugiare per sfuggire alle persecuzioni; la gravità della situazione emerge dall'atto notorio in data 2.4.09 (Rep. 394 Racc. 222 notaio Bissi di Roma) depositato presso l'Amministrazione, e rilevante nel caso di specie come in analoghi benefici ad ex perseguitati (cfr. art. 6 L. 261/67), sottoscritto da attestanti oculari dell'epoca, partecipi ai fatti ove si dichiara: "il sig. M. D. p nacque a …… nel convento sito in Roma, via …… da D.S. e D. p G., rispettivamente nati a Roma …….. e deceduti a Roma rispettivamente il ……… di "razza ebraica" secondo il RDL 17 novembre 1938, n. 1728 e pertanto rifugiati e nascosti nel suddetto convento nel periodo autunno 1943-giugno 1944 in territorio extranazionale allo scopo di sfuggire alla deportazione nei lager di sterminio nazifascisti essendo ricercati come ebrei dai tedeschi occupanti. II bimbo nacque senza la dovuta assistenza ed in condizioni di grandi difficoltà essendo impossibile uscire dal convento ed avere medici e/o ostetriche correndo grave pericolo di vita nei primi mesi della sua esistenza"; quanto sopra è stato confermato in un recente libro di Alessia Falfiglio, Salvati dai Conventi (Edizioni Sanpaolo), depositato presso l'Amministrazione.
Sulla qualificazione giuridica del fatto quale atto persecutorio rilevante ai sensi dell'art. 1 lett. c) L. 96/55; l'Amministrazione ritiene che la persecuzione sarebbe tale solo se chi la subisce sia anche in grado di "percepire" la portata persecutoria del fatto; tuttavia è la violazione o la non violazione di un diritto fondamentale a qualificare l'antigiuridicità di un fatto, non la percezione soggettiva di quel fatto; quando poi la violazione di un diritto primario è commessa in danno di un bambino indifeso assume connotati di gravità, odiosità ed antigiuridicità ancor più gravi e censurabili.
Si richiama al riguardo la sentenza del TAR Lazio, che proprio su questa stessa circostanza (la nascita del ricorrente in un convento) in un giudizio tra le medesime parti e con riferimento ai medesimi fatti persecutori occorsi al sig. M. d. p oggetto della delibera qui impugnata, con sentenza e statuizione passata in giudicato ha affermato: “Invero, seppure per pochi giorni, tenuto conto che l'interessato è nato il ….. e Roma è stata liberata dal regime nazi-fascista il 4 giugno 1944, il ricorrente è stato assoggettato ad un regime e relative leggi persecutorie di carattere razziale, come dimostra, al di là di qualsiasi possibile o ragionevole dubbio, il certificato suddetto e, prima ancora di esso, l'avvenuta nascita del ricorrente, in condizioni certamente di emergenza, in un convento romano che all'epoca forniva rifugio ed assistenza agli ebrei di Roma durante l'occupazione nazista della città. Quanto poi alla mancanza di pregiudizi fisici, economici e morali, cui si riferisce la P.A. nell'atto impugnato, le circostanze esposte dal ricorrente ne comprovano invece l'inveramento, quanto meno sotto il profilo morale, non potendo del resto il pregiudizio subito nel caso negarsi in ragione dell'età che l'interessato aveva (pochi giorni) all'epoca dei fatti, poiché anzi le lesioni di valori primari della persona, anche di natura morale, sono più gravi ed odiose proprio se e quando rivolte contro soggetti minori ed indifesi." (TAR Lazio sentenza n. 5880/5.7.2011).
La circostanza che fatti persecutori siano stati perpetrati e occorsi a bambini non può che aggravare il fatto, non rendere il fatto "non persecutorio"; stante il diritto primario di ogni essere umano nascere in situazioni che garantiscano almeno la sopravvivenza e che non compromettano (neppure potenzialmente) quegli standard minimi di salute e sicurezza cui ogni creatura umana che viene alla luce ha diritto.
Sul concetto di "violenza morale" si richiamano le sentenze a sezioni riunite 9/QM/1998 e 8/QM/2003, e una decisione della Corte Costituzionale (sentenza 268/98) che fissano tre principi fondamentali: (i) la violenza deve concretizzarsi in atti di violenza (anche morale) subiti uti singulus; (ii) la violazione di diritti costituzionalmente garantiti costituisce atto di violenza morale rientrante tra quelli ex art. 1 L. 96/55 comma 1 lett. c); (iii) rilevano certamente per i perseguitati razziali, e per i fatti occorsi agli stessi, i fatti successivi al 1943 dove la persecuzione dei diritti divenne persecuzione delle vite.
Il sig. M. d. p , che dovette nascere in un istituto di suore da genitori in fuga dai nazisti, ed in situazioni precarie di grave pericolo per la sua salute e per la sua stessa vita, ha certamente subìto personalmente, uti singulus, la violazione di diritti primari costituzionalmente garantiti, tra cui il diritto inviolabile alla salute, al decoro della propria persona e all'uguaglianza (artt. 2, 3, e 32 della Costituzione), aggravati proprio dall'essere il ricorrente un bambino indifeso.
Materiale probatorio; i fatti persecutori (la nascita del ricorrente nell'istituto di suore) risultano pacifici anche per l'Amministrazione; la valutazione del materiale probatorio in procedimenti per il riconoscimento delle provvidenze previste in leggi speciali (es. L. 96/55, L. 932/80; L. 781/80, ecc.) per deportati e perseguitati razziali è stata oggetto di ripetuti interventi sia legislativi che giurisprudenziali, tutti ispirati da un lato alla semplificazione probatoria (dando rilevanza anche agli atti notori ed alle dichiarazioni dirette degli interessati), dall'altra recuperando - atteso il tempo passato e la gravità dei fatti storici denunciati - l'istituto delle "presunzioni"; in particolare l'art. 6 L. 261/67, dispone che: "nell'esame delle domande, la Commissione di cui all'articolo 4 della legge 8 novembre 1956, n. 1317, può ritenere validi, a comprovare le persecuzioni e la insorgenza delle infermità, atti notori e testimonianze dirette, quando non sia possibile il reperimento di documenti ufficiali";
In conclusione, si chiede che questa Corte dichiari il diritto del sig. M. D. P. alla corresponsione dell'assegno vitalizio di benemerenza previsto dall'art. 3 della legge 22 dicembre 1980, n. 932 (che modifica l'art. 4 L. 261/67) dalla data del 21/7/2008 quale perseguitato razziale, in una ai pregressi ratei dalla medesima data, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla medesima data di decorrenza dell'assegno di benemerenza; con vittoria di onorari e spese di giudizio.
Con memoria difensiva pervenuta il 22.10.2013 il Ministero dell'Economia e delle Finanze / Dipartimento dell'Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi / Direzione Centrale dei Servizi del Tesoro ha rappresentato quanto segue; con deliberazione n. ….. del 22/09/2009 la competente Commissione interministeriale non accolse l'istanza prodotta dall'interessato il 21/7/2008, intesa, tra l'altro, ad ottenere l'assegno vitalizio di benemerenza previsto dall'art. 3 della L.932/80 in quanto, dalla disamina degli atti, non risultava comprovato che l'istante avesse subito alcuno degli atti persecutori espressamente previsti dall'arti della L. 96/55 e successive modificazioni, per il conferimento dell'assegno, neanche sotto il profilo della violenza morale, nell'accezione estensiva dell'ipotesi sub c) del citato art. 1; la prevalente giurisprudenza ha ritenuto che gli "atti di violenza" di cui all’art. 1 L. 96/55 per dare titolo all'assegno "devono consistere in atti persecutori da cui siano derivati, direttamente od indirettamente, effetti lesivi del diritto della persona posti in essere, per motivi razziali, da persone alle dipendenze dello stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o da emissari del partito fascista, ovvero siano stati da essi ordinati o promossi ovvero quando gli stessi- avendone avuto la possibilità- non li abbiano impediti; l'interessato, durante le normative antiebraiche del 1938, nacque il ….. presso il Convento ……. a Roma, evento che non può configurarsi come atto persecutorio in quanto il medesimo non poteva avere piena consapevolezza del fatto in considerazione sia dell'età che del periodo di tempo in cui rimase nell’Istituto, troppo breve per poter determinare quei significativi effetti lesivi valutabili per il riconoscimento del diritto all'assegno vitalizio; inoltre, quando il ricorrente aveva circa dodici giorni, con la liberazione di Roma il 4 giugno 1944, venivano a cessare le conseguenze dell'applicazione delle leggi razziali e pertanto, il brevissimo lasso di tempo durante il quale l'interessato rimase nell'istituto religioso fino alla liberazione di Roma, non poteva di per sé determinare nel soggetto alcuna persecuzione così come previsto dalla legge vigente; con la liberazione di Roma venivano meno, in quella città, gli effetti discriminatori prodotti dalle leggi razziali e ciò trova conferma anche dai certificati di iscrizione nel registro di popolazione che normalmente vengono rilasciati dalla Comunità Ebraica di Roma, dai quali si rileva che gli iscritti alla predetta Comunità furono soggetti alle conseguenze delle leggi razziali fino alla liberazione di Roma nel giugno 1944; in conclusione si chiede il rigetto del ricorso.
Con ulteriori memorie pervenute il 1.04.2014 le parti hanno sostanzialmente ribadito le conclusioni in atti.
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Il ricorso è fondato.
Invero l'art. 3 della legge n. 932 del 1980 prevede: “Ai cittadini italiani che siano stati perseguitati nelle circostanze di cui all'art. 1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, e successive modificazioni, verrà concesso, a carico dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza, riversibile ai familiari superstiti ai sensi delle disposizioni vigenti in materia, pari al trattamento minimo di pensione erogato dal fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, nel caso in cui abbiano raggiunto il limite di età pensionabile o siano stati riconosciuti invalidi a proficuo lavoro ….”.
L'art. 1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, prevede tra le altre come circostanze persecutorie “ c) atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all'estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista”.
La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che tra gli "atti di violenza" di cui all'art. 1, lett. c), della legge n. 96 del 1955 vanno ricompresi quelli che si siano concretizzati in reali "azioni lesive" idonee a compromettere i fondamentali valori della persona, anche ove tali azioni si siano estrinsecate nella forma della cosiddetta "violenza morale" ( e.g.: Sezione prima di appello n. 177 del 2000).
Alla luce del diritto vivente univocamente rinvenibile dalla citata giurisprudenza, pacifici i fatti relativi alle condizioni in cui nacque il sig. M. D. p (nascita a ….. il ……. nel Convento sito in Roma, via …… da genitori di “razza ebraica” ex rdl n. 1728/17.11.1938, allo scopo di sfuggire alla deportazione nei lager di sterminio essendo ricercati come ebrei; siccome da atto notorio notaio Bissi n. 304/04.05.2009), il ricorso può essere accolto, non essendo revocabile in dubbio che possa concretare un "atto di violenza" di cui all'art. 1, lett. c), della legge n. 96 del 1955 l’avvenuta nascita del ricorrente in condizioni di emergenza in un convento per sfuggire ad atti persecutori per motivi razziali, in violazione di fondamentali valori della persona; a nulla rilevando il breve lasso di tempo in cui l’interessato rimase nell’Istituto fino alla liberazione di Roma, atteso che la valutazione di sussistenza della lesione di un valore primario dell’individuo quale quello di nascere in condizioni di libertà e sicurezza, non è subordinata alla percezione consapevole delle sue conseguenze negative da parte del medesimo, altrimenti postulandosi che la posizione stessa di soggetto minore lo privi per definizione di ogni tutela.
Ne consegue il riconoscimento del diritto del ricorrente al richiesto assegno vitalizio di benemerenza di cui all'art. 3 della legge n. 932 del 1980 dalla data della domanda; sulle somme dovute spettano altresì gli interessi nella misura legale ex art.1284 del codice civile e l’eventuale maggior danno da svalutazione calcolato secondo gli indici Istat di cui all’art.150 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, nella sola misura eccedente detti interessi; quanto sopra, a decorrere dalle scadenze de jure dell’assegno sino all’effettivo soddisfo.
La peculiarità della fattispecie induce a compensare le spese di giudizio.
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Per Questi Motivi
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio
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ACCOGLIE
nei suesposti termini il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Così deciso in Roma, nell’udienza pubblica del giorno 11 aprile 2014.
IL GIUDICE
( f.to Cons. Enrico TORRI )
Pubblicata mediante deposito in Segreteria il 15/04/2014
P. Il Direttore
f.to Domenica LAGANA’
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LAZIO SENTENZA 362 15/04/2014
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
LAZIO SENTENZA 362 2014 PENSIONI 15/04/2014
Sent 362/2014
REPVBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LAZIO
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Visto il ricorso iscritto al numero 73185/PG del registro di Segreteria;
Udìti - nella pubblica udienza del giorno 11 aprile 2014 – in rappresentanza della parte attrice l’avv. R. P., ed in rappresentanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze la dott.ssa Anna Maria Alimandi: che hanno confermato le conclusioni in atti;
Visti gli atti di causa;
ha pronunciato
SENTENZA
nel giudizio introdotto con il ricorso in premessa, proposto da D. P M., nato a ….., rappresentato e difeso dall’avv. R. P., presso il cui studio in Roma via Po n. 28 è elettivamente domiciliato – nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Economia e delle Finanze - avverso la delibera n. ….. della Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti o razziali.
MOTIVI della DECISIONE
Con il ricorso in epigrafe parte attrice contesta la legittimità della delibera in epigrafe, che ha respinto la domanda pervenuta in data 21.07.2008 con cui l’interessato ha chiesto l’attribuzione dell’assegno vitalizio di benemerenza previsto dall’art. 3 della legge n. 932 del 1980, quale perseguitato razziale.
Deduce il ricorrente: 1. violazione articolo 10 bis della legge n. 241/1990, per non aver l'Amministrazione inviato al ricorrente alcun preavviso di diniego; 2. Violazione dell'art. 4 L. 261/1967, come modificato dall'art. 3 L. 932/1980; l'art. 4 della legge 24 aprile 1967 n. 261, come modificato dall'art. 3 L. 932/80, prevede che "Ai cittadini italiani che siano stati perseguitati nelle circostanze di cui all'articolo 1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, a successive modificazioni, verrà concesso, a carico dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza, riversibile ai familiari superstiti ai sensi delle disposizioni vigenti in materia, pari al trattamento minimo di pensione erogato dal fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, nel caso in cui abbiano raggiunto il limite di età pensionabile o siano stati riconosciuti invalidi a proficuo lavoro. L'assegno di reversibilità compete anche ai familiari di quanti sono stati perseguitati nelle circostanze di cui all'articolo 1 della legge 10 Marzo 1955, n. 96, e successive modificazioni, e non hanno potuto fruire del beneficio perché deceduti prima dell'entrata in vigore della presente legge. L'assegno vitalizio di benemerenza non è cumulabile con l'assegno di cui all'articolo 1 citato e la non cumulabilità è estesa ai rispettivi assegni di riversibilità."; l'art, 1 L. 10 marzo 1955 n. 96 prevede che "Ai cittadini italiani, i quali siano stati perseguitati, a seguito dell'attività politica da loro svolta contro il fascismo anteriormente all'8 settembre 1943, e abbiano subito una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al 30 per cento, verrà concesso, a carico del bilancio dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza in misura pari a quello previsto dalla tabella C annessa alla legge 10 agosto 1950, n. 648 compresi i relativi assegni accessori, per il raggruppamento gradi: ufficiali inferiori. Tale assegno sarà attribuito qualora causa della perdita della capacità lavorativa siano stati:[ ...] c) atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all'estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista[…]; l'art. 6 L. 261/67 ("Prove comprovanti la persecuzione") prevede che: "nell'esame delle domande, la Commissione di cui all'articolo 4 della legge 8 novembre 1956, n. 1317, può ritenere validi, a comprovare le persecuzioni e la insorgenza delle infermità, atti notori e testimonianze dirette, quando non sia possibile il reperimento di documenti ufficiali".
Quanto ai fatti persecutori: si ritiene pacifica, ai fini del presente giudizio perché ammessa anche dalla Commissione, la sussistenza del fatto persecutorio denunciato, vale a dire la nascita del sig. M. D. p in un istituto di suore, dove i suoi genitori (ebrei) si erano dovuti rifugiare per sfuggire alle persecuzioni; la gravità della situazione emerge dall'atto notorio in data 2.4.09 (Rep. 394 Racc. 222 notaio Bissi di Roma) depositato presso l'Amministrazione, e rilevante nel caso di specie come in analoghi benefici ad ex perseguitati (cfr. art. 6 L. 261/67), sottoscritto da attestanti oculari dell'epoca, partecipi ai fatti ove si dichiara: "il sig. M. D. p nacque a …… nel convento sito in Roma, via …… da D.S. e D. p G., rispettivamente nati a Roma …….. e deceduti a Roma rispettivamente il ……… di "razza ebraica" secondo il RDL 17 novembre 1938, n. 1728 e pertanto rifugiati e nascosti nel suddetto convento nel periodo autunno 1943-giugno 1944 in territorio extranazionale allo scopo di sfuggire alla deportazione nei lager di sterminio nazifascisti essendo ricercati come ebrei dai tedeschi occupanti. II bimbo nacque senza la dovuta assistenza ed in condizioni di grandi difficoltà essendo impossibile uscire dal convento ed avere medici e/o ostetriche correndo grave pericolo di vita nei primi mesi della sua esistenza"; quanto sopra è stato confermato in un recente libro di Alessia Falfiglio, Salvati dai Conventi (Edizioni Sanpaolo), depositato presso l'Amministrazione.
Sulla qualificazione giuridica del fatto quale atto persecutorio rilevante ai sensi dell'art. 1 lett. c) L. 96/55; l'Amministrazione ritiene che la persecuzione sarebbe tale solo se chi la subisce sia anche in grado di "percepire" la portata persecutoria del fatto; tuttavia è la violazione o la non violazione di un diritto fondamentale a qualificare l'antigiuridicità di un fatto, non la percezione soggettiva di quel fatto; quando poi la violazione di un diritto primario è commessa in danno di un bambino indifeso assume connotati di gravità, odiosità ed antigiuridicità ancor più gravi e censurabili.
Si richiama al riguardo la sentenza del TAR Lazio, che proprio su questa stessa circostanza (la nascita del ricorrente in un convento) in un giudizio tra le medesime parti e con riferimento ai medesimi fatti persecutori occorsi al sig. M. d. p oggetto della delibera qui impugnata, con sentenza e statuizione passata in giudicato ha affermato: “Invero, seppure per pochi giorni, tenuto conto che l'interessato è nato il ….. e Roma è stata liberata dal regime nazi-fascista il 4 giugno 1944, il ricorrente è stato assoggettato ad un regime e relative leggi persecutorie di carattere razziale, come dimostra, al di là di qualsiasi possibile o ragionevole dubbio, il certificato suddetto e, prima ancora di esso, l'avvenuta nascita del ricorrente, in condizioni certamente di emergenza, in un convento romano che all'epoca forniva rifugio ed assistenza agli ebrei di Roma durante l'occupazione nazista della città. Quanto poi alla mancanza di pregiudizi fisici, economici e morali, cui si riferisce la P.A. nell'atto impugnato, le circostanze esposte dal ricorrente ne comprovano invece l'inveramento, quanto meno sotto il profilo morale, non potendo del resto il pregiudizio subito nel caso negarsi in ragione dell'età che l'interessato aveva (pochi giorni) all'epoca dei fatti, poiché anzi le lesioni di valori primari della persona, anche di natura morale, sono più gravi ed odiose proprio se e quando rivolte contro soggetti minori ed indifesi." (TAR Lazio sentenza n. 5880/5.7.2011).
La circostanza che fatti persecutori siano stati perpetrati e occorsi a bambini non può che aggravare il fatto, non rendere il fatto "non persecutorio"; stante il diritto primario di ogni essere umano nascere in situazioni che garantiscano almeno la sopravvivenza e che non compromettano (neppure potenzialmente) quegli standard minimi di salute e sicurezza cui ogni creatura umana che viene alla luce ha diritto.
Sul concetto di "violenza morale" si richiamano le sentenze a sezioni riunite 9/QM/1998 e 8/QM/2003, e una decisione della Corte Costituzionale (sentenza 268/98) che fissano tre principi fondamentali: (i) la violenza deve concretizzarsi in atti di violenza (anche morale) subiti uti singulus; (ii) la violazione di diritti costituzionalmente garantiti costituisce atto di violenza morale rientrante tra quelli ex art. 1 L. 96/55 comma 1 lett. c); (iii) rilevano certamente per i perseguitati razziali, e per i fatti occorsi agli stessi, i fatti successivi al 1943 dove la persecuzione dei diritti divenne persecuzione delle vite.
Il sig. M. d. p , che dovette nascere in un istituto di suore da genitori in fuga dai nazisti, ed in situazioni precarie di grave pericolo per la sua salute e per la sua stessa vita, ha certamente subìto personalmente, uti singulus, la violazione di diritti primari costituzionalmente garantiti, tra cui il diritto inviolabile alla salute, al decoro della propria persona e all'uguaglianza (artt. 2, 3, e 32 della Costituzione), aggravati proprio dall'essere il ricorrente un bambino indifeso.
Materiale probatorio; i fatti persecutori (la nascita del ricorrente nell'istituto di suore) risultano pacifici anche per l'Amministrazione; la valutazione del materiale probatorio in procedimenti per il riconoscimento delle provvidenze previste in leggi speciali (es. L. 96/55, L. 932/80; L. 781/80, ecc.) per deportati e perseguitati razziali è stata oggetto di ripetuti interventi sia legislativi che giurisprudenziali, tutti ispirati da un lato alla semplificazione probatoria (dando rilevanza anche agli atti notori ed alle dichiarazioni dirette degli interessati), dall'altra recuperando - atteso il tempo passato e la gravità dei fatti storici denunciati - l'istituto delle "presunzioni"; in particolare l'art. 6 L. 261/67, dispone che: "nell'esame delle domande, la Commissione di cui all'articolo 4 della legge 8 novembre 1956, n. 1317, può ritenere validi, a comprovare le persecuzioni e la insorgenza delle infermità, atti notori e testimonianze dirette, quando non sia possibile il reperimento di documenti ufficiali";
In conclusione, si chiede che questa Corte dichiari il diritto del sig. M. D. P. alla corresponsione dell'assegno vitalizio di benemerenza previsto dall'art. 3 della legge 22 dicembre 1980, n. 932 (che modifica l'art. 4 L. 261/67) dalla data del 21/7/2008 quale perseguitato razziale, in una ai pregressi ratei dalla medesima data, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla medesima data di decorrenza dell'assegno di benemerenza; con vittoria di onorari e spese di giudizio.
Con memoria difensiva pervenuta il 22.10.2013 il Ministero dell'Economia e delle Finanze / Dipartimento dell'Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi / Direzione Centrale dei Servizi del Tesoro ha rappresentato quanto segue; con deliberazione n. ….. del 22/09/2009 la competente Commissione interministeriale non accolse l'istanza prodotta dall'interessato il 21/7/2008, intesa, tra l'altro, ad ottenere l'assegno vitalizio di benemerenza previsto dall'art. 3 della L.932/80 in quanto, dalla disamina degli atti, non risultava comprovato che l'istante avesse subito alcuno degli atti persecutori espressamente previsti dall'arti della L. 96/55 e successive modificazioni, per il conferimento dell'assegno, neanche sotto il profilo della violenza morale, nell'accezione estensiva dell'ipotesi sub c) del citato art. 1; la prevalente giurisprudenza ha ritenuto che gli "atti di violenza" di cui all’art. 1 L. 96/55 per dare titolo all'assegno "devono consistere in atti persecutori da cui siano derivati, direttamente od indirettamente, effetti lesivi del diritto della persona posti in essere, per motivi razziali, da persone alle dipendenze dello stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o da emissari del partito fascista, ovvero siano stati da essi ordinati o promossi ovvero quando gli stessi- avendone avuto la possibilità- non li abbiano impediti; l'interessato, durante le normative antiebraiche del 1938, nacque il ….. presso il Convento ……. a Roma, evento che non può configurarsi come atto persecutorio in quanto il medesimo non poteva avere piena consapevolezza del fatto in considerazione sia dell'età che del periodo di tempo in cui rimase nell’Istituto, troppo breve per poter determinare quei significativi effetti lesivi valutabili per il riconoscimento del diritto all'assegno vitalizio; inoltre, quando il ricorrente aveva circa dodici giorni, con la liberazione di Roma il 4 giugno 1944, venivano a cessare le conseguenze dell'applicazione delle leggi razziali e pertanto, il brevissimo lasso di tempo durante il quale l'interessato rimase nell'istituto religioso fino alla liberazione di Roma, non poteva di per sé determinare nel soggetto alcuna persecuzione così come previsto dalla legge vigente; con la liberazione di Roma venivano meno, in quella città, gli effetti discriminatori prodotti dalle leggi razziali e ciò trova conferma anche dai certificati di iscrizione nel registro di popolazione che normalmente vengono rilasciati dalla Comunità Ebraica di Roma, dai quali si rileva che gli iscritti alla predetta Comunità furono soggetti alle conseguenze delle leggi razziali fino alla liberazione di Roma nel giugno 1944; in conclusione si chiede il rigetto del ricorso.
Con ulteriori memorie pervenute il 1.04.2014 le parti hanno sostanzialmente ribadito le conclusioni in atti.
***
Il ricorso è fondato.
Invero l'art. 3 della legge n. 932 del 1980 prevede: “Ai cittadini italiani che siano stati perseguitati nelle circostanze di cui all'art. 1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, e successive modificazioni, verrà concesso, a carico dello Stato, un assegno vitalizio di benemerenza, riversibile ai familiari superstiti ai sensi delle disposizioni vigenti in materia, pari al trattamento minimo di pensione erogato dal fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, nel caso in cui abbiano raggiunto il limite di età pensionabile o siano stati riconosciuti invalidi a proficuo lavoro ….”.
L'art. 1 della legge 10 marzo 1955, n. 96, prevede tra le altre come circostanze persecutorie “ c) atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all'estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista”.
La giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che tra gli "atti di violenza" di cui all'art. 1, lett. c), della legge n. 96 del 1955 vanno ricompresi quelli che si siano concretizzati in reali "azioni lesive" idonee a compromettere i fondamentali valori della persona, anche ove tali azioni si siano estrinsecate nella forma della cosiddetta "violenza morale" ( e.g.: Sezione prima di appello n. 177 del 2000).
Alla luce del diritto vivente univocamente rinvenibile dalla citata giurisprudenza, pacifici i fatti relativi alle condizioni in cui nacque il sig. M. D. p (nascita a ….. il ……. nel Convento sito in Roma, via …… da genitori di “razza ebraica” ex rdl n. 1728/17.11.1938, allo scopo di sfuggire alla deportazione nei lager di sterminio essendo ricercati come ebrei; siccome da atto notorio notaio Bissi n. 304/04.05.2009), il ricorso può essere accolto, non essendo revocabile in dubbio che possa concretare un "atto di violenza" di cui all'art. 1, lett. c), della legge n. 96 del 1955 l’avvenuta nascita del ricorrente in condizioni di emergenza in un convento per sfuggire ad atti persecutori per motivi razziali, in violazione di fondamentali valori della persona; a nulla rilevando il breve lasso di tempo in cui l’interessato rimase nell’Istituto fino alla liberazione di Roma, atteso che la valutazione di sussistenza della lesione di un valore primario dell’individuo quale quello di nascere in condizioni di libertà e sicurezza, non è subordinata alla percezione consapevole delle sue conseguenze negative da parte del medesimo, altrimenti postulandosi che la posizione stessa di soggetto minore lo privi per definizione di ogni tutela.
Ne consegue il riconoscimento del diritto del ricorrente al richiesto assegno vitalizio di benemerenza di cui all'art. 3 della legge n. 932 del 1980 dalla data della domanda; sulle somme dovute spettano altresì gli interessi nella misura legale ex art.1284 del codice civile e l’eventuale maggior danno da svalutazione calcolato secondo gli indici Istat di cui all’art.150 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, nella sola misura eccedente detti interessi; quanto sopra, a decorrere dalle scadenze de jure dell’assegno sino all’effettivo soddisfo.
La peculiarità della fattispecie induce a compensare le spese di giudizio.
***
Per Questi Motivi
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio
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ACCOGLIE
nei suesposti termini il ricorso in epigrafe.
Spese compensate.
Così deciso in Roma, nell’udienza pubblica del giorno 11 aprile 2014.
IL GIUDICE
( f.to Cons. Enrico TORRI )
Pubblicata mediante deposito in Segreteria il 15/04/2014
P. Il Direttore
f.to Domenica LAGANA’
Re: Pensioni ai perseguitati politici e razziali e agli ered
Le Amministrazioni perdono l'Appello proposto al CdS
1) - diniego di attribuzione dei benefici previsti dal combinato disposto delle leggi n. 541/1971 e n. 336/1970.
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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201805896
- Public 2018-10-12 –
Pubblicato il 12/10/2018
N. 05896/2018 REG. PROV. COLL.
N. 00546/2017 REG. RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 546 del 2017 proposto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri - Commissione per le provvidenze agli ex perseguitati politici antifascisti o razziali, in persona del Presidente pro tempore, e dal Ministero dell'economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Raffaele Pendibene, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Nomentana, 671;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, Sezione Terza n. 6614 dell’8 giugno 2016, resa tra le parti, concernente diniego di attribuzione dei benefici previsti dal combinato disposto delle leggi n. 541/1971 e n. 336/1970.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della signora -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 luglio 2018 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti gli avvocati Raffaele Pendibene e l'avvocato dello Stato Roberta Guizzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La controversia riguarda l’azione proposta dalla signora -OMISSIS- per l'annullamento del provvedimento n. 93574 del 14.7.2014 adottato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti e razziali, recante il rigetto della richiesta avanzata dalla medesima in data 10 luglio 2013 per l’attribuzione, ai sensi della legge 8 luglio 1971, n. 541, dei benefici previsti dalla legge 24 maggio 1970, n. 336.
1.1. L’Amministrazione aveva ritenuto:
a) insussistenti i requisiti previsti dall’art. 8, lett. d), del R.D.L. del 17.11.1938;
b) mancanti gli altri elementi indicativi dell’appartenenza della signora -OMISSIS- alla razza ovvero alla religione ebraica, quali “l’iscrizione a una comunità israelitica o una manifestazione di ebraismo fatta in qualsiasi modo dalla signora -OMISSIS-”;
c) non comprovato che all’epoca delle leggi razziali l’interessata fosse stata considerata dall’apparato statale quale appartenente alla razza ebraica e che, quindi, fosse stata soggetta alla concreta applicazione della normativa antiebraica.
1.2. La ricorrente impugnava la predetta delibera per “Violazione di legge in relazione all’art. 1 della Legge n. 17 del 1978, all’art. unico L. n. 541 del 1971 - Difetto di motivazione per travisamento dei fatti, sviamento e illogicità - Carenza di istruttoria”.
2. Il T.a.r. per il Lazio, Roma, Sezione Terza, con la sentenza n. 6614 dell’8 giugno 2016, accoglieva il ricorso e condannava le amministrazioni erariali alla refusione, in favore della ricorrente, delle spese di lite liquidate in complessivi euro 1000,00 oltre accessori di legge.
3. La Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’economia e delle finanze appellavano la sentenza affidandosi ad un unico motivo: “Infondatezza ed erroneità della sentenza impugnata per errata valutazione circa la sussistenza dei presupposti di applicabilità della normativa di cui alle leggi n. 17/1978 e n. 541/1971 – Violazione e/o falsa applicazione delle citate leggi n. 17/1978 e n. 541/1971; in particolare falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 17/1978 – Travisamento dei fatti”.
3.1. In sintesi, assumevano che il primo giudice:
a) non avrebbe tenuto in considerazione le argomentazioni difensive svolte nella memoria depositata l’11 gennaio 2016, corredata di documentazione, limitandosi ad esaminare le sole censure mosse dalla parte ricorrente;
b) avrebbe erroneamente interpretato le vigenti norme sul riconoscimento della “origine ebraica” del soggetto richiedente, non ancorandole al concetto di appartenenza alla “razza ebraica”, elaborato al tempo della vigenza delle cd. leggi razziali;
c) non avrebbe tenuto conto, in particolare, dell’esistenza di un documento ufficiale (il certificato rilasciato dalla Comunità ebraica di Torino) che esclude l’appartenenza della signora -OMISSIS- alla detta comunità, nonché del fatto che la ricorrente, all’età di quattro anni, non aveva seguito il padre ebreo in fuga, ma aveva continuato a vivere insieme alla madre italiana, sotto il di lei cognome (OMISSIS) presso alcuni parenti, anch’essi italiani;
d) si sarebbe erroneamente spinto a valutare la sussistenza di un fatto secondario (l’avere, la signora -OMISSIS-, subito atti persecutori) senza prima avere accertato l’esistenza del fatto presupposto (la “ebraicità” del soggetto richiedente), entrando così anche nel merito dell’azione amministrativa.
4. Si è costituita la signora -OMISSIS- chiedendo il rigetto dell’avverso gravame e l’accertamento del diritto della medesima ad ottenere la qualifica di ex perseguitata razziale, ai fini dell’applicazione delle leggi n. 541/1971 e n. 336/1970.
5. All’udienza pubblica del 12 luglio 2018 la causa è stata discussa e trattenuta dal Collegio in decisione.
6. L’appello è infondato.
6.1. La prima censura, con la quale si critica il mancato (integrale o parziale) esame del thema decidendum dedotto nel primo grado di giudizio ad opera della parte resistente, mediante la memoria difensiva, non ha pregio.
Al di là della pedissequa riproduzione grafica, nel corpo della sentenza, delle tesi difensive esposte dalle parti (riproduzione letterale che può anche mancare), è palese dalla mera lettura della pronuncia impugnata che il primo giudice ha avuto piena contezza dell’intera materia del contendere e delle questioni giuridiche sottese, svolgendo un ragionamento logico-giuridico onnicomprensivo e di senso compiuto su entrambe le tesi contrapposte.
Ciò è tanto vero che l’appellante ha potuto articolare specifici motivi di appello avverso la pronuncia, ripercorrendo in senso critico (e contrario) il ragionamento del primo giudice e mettendo in rilievo quelli che, secondo il suo avviso, ne sono stati i punti critici.
6.2. Anche la seconda censura, con cui si critica la scorretta interpretazione delle leggi vigenti nella delicata materia dei benefici ai perseguitati politici antifascisti o razziali, non ha pregio.
La legge n. 336 del 24.5.1970 riconosce taluni benefici in favore dei dipendenti civili di ruolo e non di ruolo dello Stato, compresi quelli delle amministrazioni e delle aziende con ordinamento autonomo, ai quali possa riconoscersi lo status soggettivo di “ex combattenti, partigiani, mutilati ed invalidi di guerra, vittime civili di guerra, orfani, vedove di guerre, o per causa di guerra, profughi per l'applicazione del trattato di pace e categorie equiparate” (artt. 1 e 2).
Il riconoscimento degli anzidetti benefici è stato esteso dalla legge 8 luglio 1971, n. 541 “anche agli ex deportati ed agli ex perseguitati, sia politici che razziali, assimilati agli ex combattenti” (articolo unico).
Il legislatore, con la legge n. 17 del 16 gennaio 1978, ha chiarito che:
“1. Ai fini dell'applicazione della legge 8 luglio 1971, n. 541, la qualifica di ex perseguitato razziale compete anche ai cittadini italiani di origine ebraica che, per effetto di legge oppure in base a norme o provvedimenti amministrativi anche della Repubblica sociale italiana intesi ad attuare discriminazioni razziali, abbiano riportato pregiudizio fisico o economico o morale. Il pregiudizio morale è comprovato anche dalla avvenuta annotazione di «razza ebraica» sui certificati anagrafici.
2. A norma dell’art. 6, legge 16 maggio 1967 n. 261, nell’esame delle domande la Commissione per le provvidenze ai perseguitati politico-razziali “può ritenere validi, a comprovare le persecuzioni e la insorgenza delle infermità, atti notori e testimonianze dirette, quando non sia possibile il reperimento di documenti ufficiali”.
Tale ultima disposizione scolpisce in maniera netta il significato da dare al concetto di “ebraicità” del soggetto richiedente, che è legato all’origine dello stesso richiedente e non al possesso di ulteriori (e non previsti, dalla legge) requisiti.
Il chiaro tenore letterale della norma esime, pertanto, da ulteriori e non richiesti sforzi esegetici: ai fini della legge n. 17/1978, è soggetto legittimato a presentare la richiesta di cui al combinato disposto delle leggi n. 336/1970 e n. 541/1971, colui che è cittadino italiano, che ha un’origine ebraica e che assume di essere stato oggetto di persecuzione in dipendenza della detta origine.
Al lume di ciò, la pretesa dell’Amministrazione di ancorare –invece- l’origine ebraica del richiedente alla nozione di “razza ebraica” contenuta nell’art. 8, lettera d), R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938 (“è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che alla data del 1º ottobre 1938, apparteneva a religione diversa da quella ebraica”) è operazione logico-giuridica scorretta per due concorrenti motivi:
a) il primo motivo è di ordine esegetico: la norma posta dalla legge n. 17/1978 è chiara nella sua formulazione e perfettamente auto-applicativa, senza necessità di ulteriori o diverse specificazioni contenute in testi normativi diversi, tanto più se oggetto di intervenuta abrogazione;
b) il secondo motivo è di ordine sostanziale: è irragionevole e sproporzionata la pretesa dell’Amministrazione di far dipendere (in senso sfavorevole al richiedente) il possesso di un requisito per l’accesso a un beneficio di legge, dall’applicazione di una norma razziale (l’art. 8, lettera d, dell’abrogato R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938) lesiva dei diritti fondamentali della persona e, soprattutto, rispetto alla quale le leggi post razziali n. 336/1970, n. 541/1971 e n. 17/1998 hanno inteso porre rimedio. Viene tradito, nella sostanza, lo spirito stesso della nuova disciplina.
La ratio legis dell’attribuzione del beneficio, infatti, riposa sulla necessità di compensare con attribuzioni economiche pregiudizi patiti da soggetti (cittadini italiani) per il fatto in sé di avere un’origine ebraica e rispetto ai quali il torto subito (fisico, economico o morale) è dipeso dall’applicazione di una norma di legge o dall’adozione di un atto amministrativo.
Sicché il pretendere, oggi, di far uso di concetti e di categorie giuridiche elaborate al tempo della vigenza delle leggi razziali, finirebbe inevitabilmente per implicare la perpetuazione, in senso sfavorevole all’interessato, dell’efficacia di definizioni giuridiche basate sul concetto di appartenenza alla razza e sorte all’unico scopo di discriminare tra di loro gli individui.
La riprova di ciò è contenuta nello stesso art. 8, lettera d), R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938, la cui chiara formulazione manifesta che, in disparte i natali del soggetto (“colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica”), ciò che rappresentava un disvalore giuridico per il legislatore dell’epoca era l’appartenenza del medesimo alla religione ebraica o la sua iscrizione ad una comunità israelitica ovvero l’avere fatto in qualsiasi modo una manifestazione di ebraismo.
Il legislatore del 1978, invece, del tutto coerentemente col sistema di benefici costruito con la legge n. 336 del 1970 e poi esteso nel suo ambito soggettivo di efficacia con la legge n. 541 del 1971, ha assunto quale unico presupposto (concorrente, ovviamente, con quello del possesso dello status di cittadino italiano) quello di avere un’origine ebraica, al di là e a prescindere dalla professione di fede, dalla formale appartenenza ad una comunità israelitica e dal compimento di atti di manifestazione di ebraismo.
Solo in tale prospettiva (e non già in quella, opposta, sostenuta dalle Amministrazioni appellanti) può cogliersi il valore di precedente conforme rappresentato dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4580 del 2 agosto 2011: anche in quell’occasione la Sezione aveva avuto modo di motivare in ordine all’art. 8 dell'abrogato R.D.L. n. 1728 del 1938, ma solo al fine di precisare che l’iscrizione ad una comunità israelitica poteva ben essere apprezzata, sul piano probatorio, per qualificare come ebreo, tra gli altri, colui il quale fosse nato anche da un solo genitore appartenente alla razza ebraica, e non già al diverso scopo di elaborare un principio di diritto in base al quale inferire che l’origine ebraica dovesse ricostruirsi, sic et simpliciter, sulla base dell’abrogato decreto del 1938.
Va inoltre considerato che, in base alla richiamata norma del 1938, l’attribuzione della qualità soggettiva fonte del regime discriminatorio (l’appartenenza alla razza ebraica) avrebbe dovuto essere a contrario esclusa per tutti coloro che, nati da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, non appartenevano alla religione ebraica, non erano iscritti ad una comunità israelitica ovvero non avevano fatto in qualsiasi altro modo manifestazioni di ebraismo.
Sicché, sarebbe davvero ben strano far dipendere (oggi) il possesso di un requisito, in senso sfavorevole al richiedente, dalla presenza di condizioni estrinseche (il culto della religione, la formale iscrizione ad una comunità, la effettiva manifestazione di fede) che all’epoca delle stesse leggi razziali erano considerate indice di disvalore giuridico solo laddove sussistenti e non, invece, mancanti.
Dai documenti versati agli atti, risulta indiscutibilmente l’origine ebraica della ricorrente, figlia di padre ebreo costretto a lasciare il lavoro (era medico all’Ospedale le Molinette a Torino) e la famiglia e a fuggire, e di madre italiana, della quale utilizzò il cognome (OMISSIS) in luogo di quello paterno (-OMISSIS-), a tutti noto come cognome ebraico, sicché sotto tale profilo l’appello non merita favore.
6.3 Parimenti infondata è, infine, l’ulteriore censura con cui si critica l’invasione, ad opera del primo giudice, della sfera di competenza riservata all’Amministrazione, sull’assunto e nel presupposto che quest’ultimo avrebbe (altresì) statuito in ordine al possesso, in capo alla ricorrente, degli ulteriori requisiti previsti dalla legge per potere accedere al beneficio.
L’assunto non ha pregio.
Dal tenore formale dell’atto impugnato si evince chiaramente che l’Amministrazione ha provveduto, ai fini del diniego dell’accesso al beneficio, esclusivamente in ordine all’aspetto inerente all’origine ebraica del soggetto, non pronunciandosi affatto in ordine al possesso (o meno) di eventuali ulteriori requisiti di legge.
Pertanto (e conseguentemente) il primo giudice si è espresso solo sulla materia del contendere rimessa al suo vaglio, nei limiti dei motivi di ricorso, come si evince chiaramente anche dal dispositivo, limitato all’annullamento dell’atto impugnato e non già al (non consentito) accertamento dichiarativo del diritto ex sé al beneficio ai sensi dell’art. 34 del c.p.a..
7. In conclusione, l’appello va respinto, con salvezza degli ulteriori provvedimenti da assumere a cura dell’Amministrazione preposta, in relazione a eventuali ulteriori presupposti di legge per potere accedere al beneficio.
8. La regolazione delle spese di lite del presente grado, liquidate in dispositivo secondo i parametri di cui al decreto n. 55 del 2014 e s.m.i., segue il principio della soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna le Amministrazioni appellanti, in solido tra di loro, alla refusione delle spese di lite liquidate in favore dell’appellata nella misura di euro 3.000,00 oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., se dovute, come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la persona dell’appellata.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 luglio 2018 con l'intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere
Daniela Di Carlo, Consigliere, Estensore
Alessandro Verrico, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Daniela Di Carlo Filippo Patroni Griffi
IL SEGRETARIO
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
1) - diniego di attribuzione dei benefici previsti dal combinato disposto delle leggi n. 541/1971 e n. 336/1970.
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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201805896
- Public 2018-10-12 –
Pubblicato il 12/10/2018
N. 05896/2018 REG. PROV. COLL.
N. 00546/2017 REG. RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 546 del 2017 proposto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri - Commissione per le provvidenze agli ex perseguitati politici antifascisti o razziali, in persona del Presidente pro tempore, e dal Ministero dell'economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
-OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Raffaele Pendibene, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Nomentana, 671;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, Sezione Terza n. 6614 dell’8 giugno 2016, resa tra le parti, concernente diniego di attribuzione dei benefici previsti dal combinato disposto delle leggi n. 541/1971 e n. 336/1970.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della signora -OMISSIS-;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 luglio 2018 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti gli avvocati Raffaele Pendibene e l'avvocato dello Stato Roberta Guizzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. La controversia riguarda l’azione proposta dalla signora -OMISSIS- per l'annullamento del provvedimento n. 93574 del 14.7.2014 adottato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti e razziali, recante il rigetto della richiesta avanzata dalla medesima in data 10 luglio 2013 per l’attribuzione, ai sensi della legge 8 luglio 1971, n. 541, dei benefici previsti dalla legge 24 maggio 1970, n. 336.
1.1. L’Amministrazione aveva ritenuto:
a) insussistenti i requisiti previsti dall’art. 8, lett. d), del R.D.L. del 17.11.1938;
b) mancanti gli altri elementi indicativi dell’appartenenza della signora -OMISSIS- alla razza ovvero alla religione ebraica, quali “l’iscrizione a una comunità israelitica o una manifestazione di ebraismo fatta in qualsiasi modo dalla signora -OMISSIS-”;
c) non comprovato che all’epoca delle leggi razziali l’interessata fosse stata considerata dall’apparato statale quale appartenente alla razza ebraica e che, quindi, fosse stata soggetta alla concreta applicazione della normativa antiebraica.
1.2. La ricorrente impugnava la predetta delibera per “Violazione di legge in relazione all’art. 1 della Legge n. 17 del 1978, all’art. unico L. n. 541 del 1971 - Difetto di motivazione per travisamento dei fatti, sviamento e illogicità - Carenza di istruttoria”.
2. Il T.a.r. per il Lazio, Roma, Sezione Terza, con la sentenza n. 6614 dell’8 giugno 2016, accoglieva il ricorso e condannava le amministrazioni erariali alla refusione, in favore della ricorrente, delle spese di lite liquidate in complessivi euro 1000,00 oltre accessori di legge.
3. La Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’economia e delle finanze appellavano la sentenza affidandosi ad un unico motivo: “Infondatezza ed erroneità della sentenza impugnata per errata valutazione circa la sussistenza dei presupposti di applicabilità della normativa di cui alle leggi n. 17/1978 e n. 541/1971 – Violazione e/o falsa applicazione delle citate leggi n. 17/1978 e n. 541/1971; in particolare falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 17/1978 – Travisamento dei fatti”.
3.1. In sintesi, assumevano che il primo giudice:
a) non avrebbe tenuto in considerazione le argomentazioni difensive svolte nella memoria depositata l’11 gennaio 2016, corredata di documentazione, limitandosi ad esaminare le sole censure mosse dalla parte ricorrente;
b) avrebbe erroneamente interpretato le vigenti norme sul riconoscimento della “origine ebraica” del soggetto richiedente, non ancorandole al concetto di appartenenza alla “razza ebraica”, elaborato al tempo della vigenza delle cd. leggi razziali;
c) non avrebbe tenuto conto, in particolare, dell’esistenza di un documento ufficiale (il certificato rilasciato dalla Comunità ebraica di Torino) che esclude l’appartenenza della signora -OMISSIS- alla detta comunità, nonché del fatto che la ricorrente, all’età di quattro anni, non aveva seguito il padre ebreo in fuga, ma aveva continuato a vivere insieme alla madre italiana, sotto il di lei cognome (OMISSIS) presso alcuni parenti, anch’essi italiani;
d) si sarebbe erroneamente spinto a valutare la sussistenza di un fatto secondario (l’avere, la signora -OMISSIS-, subito atti persecutori) senza prima avere accertato l’esistenza del fatto presupposto (la “ebraicità” del soggetto richiedente), entrando così anche nel merito dell’azione amministrativa.
4. Si è costituita la signora -OMISSIS- chiedendo il rigetto dell’avverso gravame e l’accertamento del diritto della medesima ad ottenere la qualifica di ex perseguitata razziale, ai fini dell’applicazione delle leggi n. 541/1971 e n. 336/1970.
5. All’udienza pubblica del 12 luglio 2018 la causa è stata discussa e trattenuta dal Collegio in decisione.
6. L’appello è infondato.
6.1. La prima censura, con la quale si critica il mancato (integrale o parziale) esame del thema decidendum dedotto nel primo grado di giudizio ad opera della parte resistente, mediante la memoria difensiva, non ha pregio.
Al di là della pedissequa riproduzione grafica, nel corpo della sentenza, delle tesi difensive esposte dalle parti (riproduzione letterale che può anche mancare), è palese dalla mera lettura della pronuncia impugnata che il primo giudice ha avuto piena contezza dell’intera materia del contendere e delle questioni giuridiche sottese, svolgendo un ragionamento logico-giuridico onnicomprensivo e di senso compiuto su entrambe le tesi contrapposte.
Ciò è tanto vero che l’appellante ha potuto articolare specifici motivi di appello avverso la pronuncia, ripercorrendo in senso critico (e contrario) il ragionamento del primo giudice e mettendo in rilievo quelli che, secondo il suo avviso, ne sono stati i punti critici.
6.2. Anche la seconda censura, con cui si critica la scorretta interpretazione delle leggi vigenti nella delicata materia dei benefici ai perseguitati politici antifascisti o razziali, non ha pregio.
La legge n. 336 del 24.5.1970 riconosce taluni benefici in favore dei dipendenti civili di ruolo e non di ruolo dello Stato, compresi quelli delle amministrazioni e delle aziende con ordinamento autonomo, ai quali possa riconoscersi lo status soggettivo di “ex combattenti, partigiani, mutilati ed invalidi di guerra, vittime civili di guerra, orfani, vedove di guerre, o per causa di guerra, profughi per l'applicazione del trattato di pace e categorie equiparate” (artt. 1 e 2).
Il riconoscimento degli anzidetti benefici è stato esteso dalla legge 8 luglio 1971, n. 541 “anche agli ex deportati ed agli ex perseguitati, sia politici che razziali, assimilati agli ex combattenti” (articolo unico).
Il legislatore, con la legge n. 17 del 16 gennaio 1978, ha chiarito che:
“1. Ai fini dell'applicazione della legge 8 luglio 1971, n. 541, la qualifica di ex perseguitato razziale compete anche ai cittadini italiani di origine ebraica che, per effetto di legge oppure in base a norme o provvedimenti amministrativi anche della Repubblica sociale italiana intesi ad attuare discriminazioni razziali, abbiano riportato pregiudizio fisico o economico o morale. Il pregiudizio morale è comprovato anche dalla avvenuta annotazione di «razza ebraica» sui certificati anagrafici.
2. A norma dell’art. 6, legge 16 maggio 1967 n. 261, nell’esame delle domande la Commissione per le provvidenze ai perseguitati politico-razziali “può ritenere validi, a comprovare le persecuzioni e la insorgenza delle infermità, atti notori e testimonianze dirette, quando non sia possibile il reperimento di documenti ufficiali”.
Tale ultima disposizione scolpisce in maniera netta il significato da dare al concetto di “ebraicità” del soggetto richiedente, che è legato all’origine dello stesso richiedente e non al possesso di ulteriori (e non previsti, dalla legge) requisiti.
Il chiaro tenore letterale della norma esime, pertanto, da ulteriori e non richiesti sforzi esegetici: ai fini della legge n. 17/1978, è soggetto legittimato a presentare la richiesta di cui al combinato disposto delle leggi n. 336/1970 e n. 541/1971, colui che è cittadino italiano, che ha un’origine ebraica e che assume di essere stato oggetto di persecuzione in dipendenza della detta origine.
Al lume di ciò, la pretesa dell’Amministrazione di ancorare –invece- l’origine ebraica del richiedente alla nozione di “razza ebraica” contenuta nell’art. 8, lettera d), R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938 (“è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che alla data del 1º ottobre 1938, apparteneva a religione diversa da quella ebraica”) è operazione logico-giuridica scorretta per due concorrenti motivi:
a) il primo motivo è di ordine esegetico: la norma posta dalla legge n. 17/1978 è chiara nella sua formulazione e perfettamente auto-applicativa, senza necessità di ulteriori o diverse specificazioni contenute in testi normativi diversi, tanto più se oggetto di intervenuta abrogazione;
b) il secondo motivo è di ordine sostanziale: è irragionevole e sproporzionata la pretesa dell’Amministrazione di far dipendere (in senso sfavorevole al richiedente) il possesso di un requisito per l’accesso a un beneficio di legge, dall’applicazione di una norma razziale (l’art. 8, lettera d, dell’abrogato R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938) lesiva dei diritti fondamentali della persona e, soprattutto, rispetto alla quale le leggi post razziali n. 336/1970, n. 541/1971 e n. 17/1998 hanno inteso porre rimedio. Viene tradito, nella sostanza, lo spirito stesso della nuova disciplina.
La ratio legis dell’attribuzione del beneficio, infatti, riposa sulla necessità di compensare con attribuzioni economiche pregiudizi patiti da soggetti (cittadini italiani) per il fatto in sé di avere un’origine ebraica e rispetto ai quali il torto subito (fisico, economico o morale) è dipeso dall’applicazione di una norma di legge o dall’adozione di un atto amministrativo.
Sicché il pretendere, oggi, di far uso di concetti e di categorie giuridiche elaborate al tempo della vigenza delle leggi razziali, finirebbe inevitabilmente per implicare la perpetuazione, in senso sfavorevole all’interessato, dell’efficacia di definizioni giuridiche basate sul concetto di appartenenza alla razza e sorte all’unico scopo di discriminare tra di loro gli individui.
La riprova di ciò è contenuta nello stesso art. 8, lettera d), R.D.L. n. 1728 del 17.11.1938, la cui chiara formulazione manifesta che, in disparte i natali del soggetto (“colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica”), ciò che rappresentava un disvalore giuridico per il legislatore dell’epoca era l’appartenenza del medesimo alla religione ebraica o la sua iscrizione ad una comunità israelitica ovvero l’avere fatto in qualsiasi modo una manifestazione di ebraismo.
Il legislatore del 1978, invece, del tutto coerentemente col sistema di benefici costruito con la legge n. 336 del 1970 e poi esteso nel suo ambito soggettivo di efficacia con la legge n. 541 del 1971, ha assunto quale unico presupposto (concorrente, ovviamente, con quello del possesso dello status di cittadino italiano) quello di avere un’origine ebraica, al di là e a prescindere dalla professione di fede, dalla formale appartenenza ad una comunità israelitica e dal compimento di atti di manifestazione di ebraismo.
Solo in tale prospettiva (e non già in quella, opposta, sostenuta dalle Amministrazioni appellanti) può cogliersi il valore di precedente conforme rappresentato dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4580 del 2 agosto 2011: anche in quell’occasione la Sezione aveva avuto modo di motivare in ordine all’art. 8 dell'abrogato R.D.L. n. 1728 del 1938, ma solo al fine di precisare che l’iscrizione ad una comunità israelitica poteva ben essere apprezzata, sul piano probatorio, per qualificare come ebreo, tra gli altri, colui il quale fosse nato anche da un solo genitore appartenente alla razza ebraica, e non già al diverso scopo di elaborare un principio di diritto in base al quale inferire che l’origine ebraica dovesse ricostruirsi, sic et simpliciter, sulla base dell’abrogato decreto del 1938.
Va inoltre considerato che, in base alla richiamata norma del 1938, l’attribuzione della qualità soggettiva fonte del regime discriminatorio (l’appartenenza alla razza ebraica) avrebbe dovuto essere a contrario esclusa per tutti coloro che, nati da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, non appartenevano alla religione ebraica, non erano iscritti ad una comunità israelitica ovvero non avevano fatto in qualsiasi altro modo manifestazioni di ebraismo.
Sicché, sarebbe davvero ben strano far dipendere (oggi) il possesso di un requisito, in senso sfavorevole al richiedente, dalla presenza di condizioni estrinseche (il culto della religione, la formale iscrizione ad una comunità, la effettiva manifestazione di fede) che all’epoca delle stesse leggi razziali erano considerate indice di disvalore giuridico solo laddove sussistenti e non, invece, mancanti.
Dai documenti versati agli atti, risulta indiscutibilmente l’origine ebraica della ricorrente, figlia di padre ebreo costretto a lasciare il lavoro (era medico all’Ospedale le Molinette a Torino) e la famiglia e a fuggire, e di madre italiana, della quale utilizzò il cognome (OMISSIS) in luogo di quello paterno (-OMISSIS-), a tutti noto come cognome ebraico, sicché sotto tale profilo l’appello non merita favore.
6.3 Parimenti infondata è, infine, l’ulteriore censura con cui si critica l’invasione, ad opera del primo giudice, della sfera di competenza riservata all’Amministrazione, sull’assunto e nel presupposto che quest’ultimo avrebbe (altresì) statuito in ordine al possesso, in capo alla ricorrente, degli ulteriori requisiti previsti dalla legge per potere accedere al beneficio.
L’assunto non ha pregio.
Dal tenore formale dell’atto impugnato si evince chiaramente che l’Amministrazione ha provveduto, ai fini del diniego dell’accesso al beneficio, esclusivamente in ordine all’aspetto inerente all’origine ebraica del soggetto, non pronunciandosi affatto in ordine al possesso (o meno) di eventuali ulteriori requisiti di legge.
Pertanto (e conseguentemente) il primo giudice si è espresso solo sulla materia del contendere rimessa al suo vaglio, nei limiti dei motivi di ricorso, come si evince chiaramente anche dal dispositivo, limitato all’annullamento dell’atto impugnato e non già al (non consentito) accertamento dichiarativo del diritto ex sé al beneficio ai sensi dell’art. 34 del c.p.a..
7. In conclusione, l’appello va respinto, con salvezza degli ulteriori provvedimenti da assumere a cura dell’Amministrazione preposta, in relazione a eventuali ulteriori presupposti di legge per potere accedere al beneficio.
8. La regolazione delle spese di lite del presente grado, liquidate in dispositivo secondo i parametri di cui al decreto n. 55 del 2014 e s.m.i., segue il principio della soccombenza.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna le Amministrazioni appellanti, in solido tra di loro, alla refusione delle spese di lite liquidate in favore dell’appellata nella misura di euro 3.000,00 oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A., se dovute, come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare la persona dell’appellata.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 luglio 2018 con l'intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere
Daniela Di Carlo, Consigliere, Estensore
Alessandro Verrico, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Daniela Di Carlo Filippo Patroni Griffi
IL SEGRETARIO
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Re: Pensioni ai perseguitati politici e razziali e agli eredi
Appello accolto (sentenza però pubblicata oggi 03/12/2019 in BB.DD.)
- assegno di benemerenza
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Sezione PRIMA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO Esito SENTENZA Materia PENSIONISTICA
Anno 2019 Numero 198 Pubblicazione 24/09/2019
198/19
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DEI CONTI SEZIONE PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE DI APPELLO
Composta dai seguenti magistrati: Agostino Chiappiniello Presidente
Antonio Ciaramella Consigliere relatore
Pina Maria Adriana La Cava Consigliere
Enrico Torri Consigliere
Rossella Cassaneti Consigliere
Ha pronunziato la seguente
SENTENZA
Nel giudizio di appello in materia di pensioni civili, iscritto al n. 53978 del Registro di Segreteria, proposto da G.P. B., rappresentata e difesa dall’avv. Raffaele Pendibene, elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma via Nomentana, 671;
avverso la sentenza n. XXX/XXXX, depositata il XX XXXXXXX XXXX, del Giudice unico in materia pensionistica della Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio;
e nei confronti del Ministero dell’economia e finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato nel giudizio di primo grado dalla dott.ssa Anna Maria Alimandi, domiciliato in Roma, via Casilina n. 3;
della Presidenza del Consiglio dei Ministri - commissione per le provvidenze ai perseguitati politici, antifascisti e razziali - , in persona del rappresentante legale pro tempore, domiciliato in Roma, via Casilina n. 3;
Visti gli atti e i documenti di causa;
Uditi, nell’udienza del 27 giugno 2019, il Consigliere relatore Antonio Ciaramella, l’avv. Raffaele Pendibene per l’appellante e per il ministero dell’economia e finanze…..
Premesso in fatto.
Con la sentenza oggetto dell’appello in esame il giudice unico per le pensioni presso la sezione giurisdizionale per il Lazio ha respinto la domanda della sig.ra G. P. B. diretta ad ottenere l’assegno di benemerenza di cui all’art. 3 della legge n. 932 del 1980, quale perseguitata razziale nel periodo 1938-1945. Ciò in quanto gli atti escludevano che la ricorrente avesse nel periodo in questione subìto atti qualificabili come violenza morale.
Avverso la sentenza ha proposto appello la sig.ra P. B. per i seguenti motivi:
violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge n. 261 del 1967e dell’art. 6 di tale legge. Omessa o apparente motivazione. In particolare, la violenza morale subìta dall’appellante si sarebbe estrinsecata sotto l’aspetto della violazione del diritto costituzionalmente rilevante al nome, in quanto al momento della nascita fu denunciata all’anagrafe con il nome falso, di G. M., era nata in una clinica di fortuna gestita da suore, era stata costretta a cambiare abitazione in una porzione di due stanze in cinque persone di un appartamento preso in sublocazione in un altro quartiere di Roma;
violazione del giudicato amministrativo che aveva riconosciuto all’appellante sulla base degli stessi fatti evidenziati ai fini in discorso la qualifica di perseguitata razziale ai sensi delle leggi n. 541 del 1971 e 140 del 1985.
Si è costituito il ministero dell’economia e finanze deducendo quanto segue:
inammissibilità del gravame per omesso deposito della procura speciale all’avv. Pendibene;
inammissibilità del gravame per mancata indicazione dei motivi di diritto ed in quanto verterebbe solo su questioni di fatto già valutate dal primo giudice;
nel merito, mancherebbero comunque i presupposti per la concessione all’appellante dell’assegno in discorso, in assenza di atti persecutori specifici subiti dall’appellante, come richiesto dalla giurisprudenza contabile in materia.
Considerato in diritto.
In primo luogo, l’appello è ammissibile in quanto risulta depositata la procura speciale all’avv. Pendibene.
L’appello è fondato.
Il Collegio non disconosce quanto affermato in materia dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti con la sentenza n. 8 del 25 marzo 2003, nella quale hanno ribadito quanto già affermato con la sentenza n. 9/98/Q.M. sul punto che gli atti di violenza considerati dalla legge ai fini del riconoscimento del beneficio in questione, vanno identificati “in tutti gli atti che abbiano concretamente determinato la lesione del diritto della persona in uno dei suoi valori costituzionalmente protetti” e comprendono anche le ipotesi di violenza morale, per “l’esigenza di non isolare, nell’ambito dei diritti della persona, un unico valore (quello dell’integrità fisica) trascurando tutti gli altri che completano il diritto della personalità”.
In detta sentenza è stato anche affermato che “il legislatore ha sostanzialmente sancito l’impossibilità di riconoscimento automatico del beneficio economico di che trattasi, in virtù della sola dimostrazione di appartenenza del richiedente all’assegno di benemerenza alla minoranza ebraica collettivamente assoggettata a norme generali ed astratte di tipo persecutorio”, dovendosi aggiuntivamente accertare l’eventuale sussistenza di specifici fatti lesivi recanti grave pregiudizio per il richiedente.
Nel caso di specie tali fatti sono stati rappresentati dalla ricorrente, ma sugli stessi il primo giudice non ha fornito una effettiva motivazione.
Infatti, ad avviso del Collegio, sussiste un’apparente motivazione della sentenza di primo grado in merito a due elementi di fatto decisivi al fine di valutare la sussistenza di una violenza morale specifica subita dall’appellante, a seguito delle note vicende persecutorie che hanno coinvolto i cittadini italiani di religione ebraica durante l’ultimo conflitto mondiale, che costituisce, com’è noto, il presupposto per il riconoscimento del beneficio in discorso.
In primo luogo, riguardo agli elementi di fatto che hanno realizzato la violazione del diritto costituzionale al nome dell’appellante, il primo giudice afferma l’insussistenza della stessa, in quanto, a seguito di procura speciale, fu posta in essere una corretta denuncia anagrafica dell’appellante.
Però, tale rettifica, avvenuta dopo alcuni giorni, non esclude comunque il dato di fatto, non smentito nemmeno dal primo giudice, che una falsa denuncia delle generalità dell’appellante all’anagrafe vi fu, né i motivi che spinsero i genitori a porla in essere, cioè quelli di evitare atti persecutori nei confronti dell’appellante. Inoltre, la successiva rettifica, non solo non elimina tale dato di fatto, ma la stessa, dettata dall’esigenza di far riconoscere diritti a quest’ultima nel caso non improbabile di scomparsa dei genitori, costituiva comunque un rischio per l’appellante. Sul rilievo di tali circostanze al fine di riconoscere eventualmente in capo a quest’ultima una lesione rilevante al fine in discorso, il giudice di primo grado non ha offerto alcuna motivazione.
Allo stesso modo, il giudice di primo grado esclude la sussistenza di una violenza morale nel fatto che la famiglia dell’appellante era stata costretta a trasferirsi in un altro quartiere di Roma, in quanto quest’ultimo sarebbe stato caratterizzato già all’epoca da una elevata qualità media delle abitazioni. Però, nemmeno tale circostanza esclude il fatto che il trasferimento non era stato affatto volontario ma dettato, evidentemente, dalle persecuzioni in atto. Inoltre, il ministero appellato non ha smentito che l’appartamento in questione fosse stato preso in sublocazione e che la famiglia P. vivesse in cinque in due stanze dello stesso. Anche su tali circostanze che avrebbero potuto portare ad una differente decisione, il primo giudice non si è pronunciato.
Il gravame, pertanto, deve essere accolto con rinvio degli atti al primo giudice per il giudizio sul merito e la pronuncia sulle spese del grado di appello.
P.Q.M.
La Corte dei conti - Sezione Prima Giurisdizionale Centrale- definitivamente pronunciando,
Accoglie l'appello avverso la sentenza indicata in epigrafe e rinvia gli atti al primo giudice per il giudizio sul merito della causa e la pronuncia sulle spese del grado di appello.
Nulla per le spese di giudizio.
Manda alla Segreteria per gli adempimenti di competenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 26 giugno 2019. L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
F.to Antonio Ciaramella F.to Agostino Chiappiniello
Depositata in Segreteria il 24 settembre 2019
IL DIRIGENTE
F.to Sebastiano Rota
- assegno di benemerenza
--------------------------------
Sezione PRIMA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO Esito SENTENZA Materia PENSIONISTICA
Anno 2019 Numero 198 Pubblicazione 24/09/2019
198/19
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DEI CONTI SEZIONE PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE DI APPELLO
Composta dai seguenti magistrati: Agostino Chiappiniello Presidente
Antonio Ciaramella Consigliere relatore
Pina Maria Adriana La Cava Consigliere
Enrico Torri Consigliere
Rossella Cassaneti Consigliere
Ha pronunziato la seguente
SENTENZA
Nel giudizio di appello in materia di pensioni civili, iscritto al n. 53978 del Registro di Segreteria, proposto da G.P. B., rappresentata e difesa dall’avv. Raffaele Pendibene, elettivamente domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma via Nomentana, 671;
avverso la sentenza n. XXX/XXXX, depositata il XX XXXXXXX XXXX, del Giudice unico in materia pensionistica della Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio;
e nei confronti del Ministero dell’economia e finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato nel giudizio di primo grado dalla dott.ssa Anna Maria Alimandi, domiciliato in Roma, via Casilina n. 3;
della Presidenza del Consiglio dei Ministri - commissione per le provvidenze ai perseguitati politici, antifascisti e razziali - , in persona del rappresentante legale pro tempore, domiciliato in Roma, via Casilina n. 3;
Visti gli atti e i documenti di causa;
Uditi, nell’udienza del 27 giugno 2019, il Consigliere relatore Antonio Ciaramella, l’avv. Raffaele Pendibene per l’appellante e per il ministero dell’economia e finanze…..
Premesso in fatto.
Con la sentenza oggetto dell’appello in esame il giudice unico per le pensioni presso la sezione giurisdizionale per il Lazio ha respinto la domanda della sig.ra G. P. B. diretta ad ottenere l’assegno di benemerenza di cui all’art. 3 della legge n. 932 del 1980, quale perseguitata razziale nel periodo 1938-1945. Ciò in quanto gli atti escludevano che la ricorrente avesse nel periodo in questione subìto atti qualificabili come violenza morale.
Avverso la sentenza ha proposto appello la sig.ra P. B. per i seguenti motivi:
violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della legge n. 261 del 1967e dell’art. 6 di tale legge. Omessa o apparente motivazione. In particolare, la violenza morale subìta dall’appellante si sarebbe estrinsecata sotto l’aspetto della violazione del diritto costituzionalmente rilevante al nome, in quanto al momento della nascita fu denunciata all’anagrafe con il nome falso, di G. M., era nata in una clinica di fortuna gestita da suore, era stata costretta a cambiare abitazione in una porzione di due stanze in cinque persone di un appartamento preso in sublocazione in un altro quartiere di Roma;
violazione del giudicato amministrativo che aveva riconosciuto all’appellante sulla base degli stessi fatti evidenziati ai fini in discorso la qualifica di perseguitata razziale ai sensi delle leggi n. 541 del 1971 e 140 del 1985.
Si è costituito il ministero dell’economia e finanze deducendo quanto segue:
inammissibilità del gravame per omesso deposito della procura speciale all’avv. Pendibene;
inammissibilità del gravame per mancata indicazione dei motivi di diritto ed in quanto verterebbe solo su questioni di fatto già valutate dal primo giudice;
nel merito, mancherebbero comunque i presupposti per la concessione all’appellante dell’assegno in discorso, in assenza di atti persecutori specifici subiti dall’appellante, come richiesto dalla giurisprudenza contabile in materia.
Considerato in diritto.
In primo luogo, l’appello è ammissibile in quanto risulta depositata la procura speciale all’avv. Pendibene.
L’appello è fondato.
Il Collegio non disconosce quanto affermato in materia dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti con la sentenza n. 8 del 25 marzo 2003, nella quale hanno ribadito quanto già affermato con la sentenza n. 9/98/Q.M. sul punto che gli atti di violenza considerati dalla legge ai fini del riconoscimento del beneficio in questione, vanno identificati “in tutti gli atti che abbiano concretamente determinato la lesione del diritto della persona in uno dei suoi valori costituzionalmente protetti” e comprendono anche le ipotesi di violenza morale, per “l’esigenza di non isolare, nell’ambito dei diritti della persona, un unico valore (quello dell’integrità fisica) trascurando tutti gli altri che completano il diritto della personalità”.
In detta sentenza è stato anche affermato che “il legislatore ha sostanzialmente sancito l’impossibilità di riconoscimento automatico del beneficio economico di che trattasi, in virtù della sola dimostrazione di appartenenza del richiedente all’assegno di benemerenza alla minoranza ebraica collettivamente assoggettata a norme generali ed astratte di tipo persecutorio”, dovendosi aggiuntivamente accertare l’eventuale sussistenza di specifici fatti lesivi recanti grave pregiudizio per il richiedente.
Nel caso di specie tali fatti sono stati rappresentati dalla ricorrente, ma sugli stessi il primo giudice non ha fornito una effettiva motivazione.
Infatti, ad avviso del Collegio, sussiste un’apparente motivazione della sentenza di primo grado in merito a due elementi di fatto decisivi al fine di valutare la sussistenza di una violenza morale specifica subita dall’appellante, a seguito delle note vicende persecutorie che hanno coinvolto i cittadini italiani di religione ebraica durante l’ultimo conflitto mondiale, che costituisce, com’è noto, il presupposto per il riconoscimento del beneficio in discorso.
In primo luogo, riguardo agli elementi di fatto che hanno realizzato la violazione del diritto costituzionale al nome dell’appellante, il primo giudice afferma l’insussistenza della stessa, in quanto, a seguito di procura speciale, fu posta in essere una corretta denuncia anagrafica dell’appellante.
Però, tale rettifica, avvenuta dopo alcuni giorni, non esclude comunque il dato di fatto, non smentito nemmeno dal primo giudice, che una falsa denuncia delle generalità dell’appellante all’anagrafe vi fu, né i motivi che spinsero i genitori a porla in essere, cioè quelli di evitare atti persecutori nei confronti dell’appellante. Inoltre, la successiva rettifica, non solo non elimina tale dato di fatto, ma la stessa, dettata dall’esigenza di far riconoscere diritti a quest’ultima nel caso non improbabile di scomparsa dei genitori, costituiva comunque un rischio per l’appellante. Sul rilievo di tali circostanze al fine di riconoscere eventualmente in capo a quest’ultima una lesione rilevante al fine in discorso, il giudice di primo grado non ha offerto alcuna motivazione.
Allo stesso modo, il giudice di primo grado esclude la sussistenza di una violenza morale nel fatto che la famiglia dell’appellante era stata costretta a trasferirsi in un altro quartiere di Roma, in quanto quest’ultimo sarebbe stato caratterizzato già all’epoca da una elevata qualità media delle abitazioni. Però, nemmeno tale circostanza esclude il fatto che il trasferimento non era stato affatto volontario ma dettato, evidentemente, dalle persecuzioni in atto. Inoltre, il ministero appellato non ha smentito che l’appartamento in questione fosse stato preso in sublocazione e che la famiglia P. vivesse in cinque in due stanze dello stesso. Anche su tali circostanze che avrebbero potuto portare ad una differente decisione, il primo giudice non si è pronunciato.
Il gravame, pertanto, deve essere accolto con rinvio degli atti al primo giudice per il giudizio sul merito e la pronuncia sulle spese del grado di appello.
P.Q.M.
La Corte dei conti - Sezione Prima Giurisdizionale Centrale- definitivamente pronunciando,
Accoglie l'appello avverso la sentenza indicata in epigrafe e rinvia gli atti al primo giudice per il giudizio sul merito della causa e la pronuncia sulle spese del grado di appello.
Nulla per le spese di giudizio.
Manda alla Segreteria per gli adempimenti di competenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 26 giugno 2019. L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
F.to Antonio Ciaramella F.to Agostino Chiappiniello
Depositata in Segreteria il 24 settembre 2019
IL DIRIGENTE
F.to Sebastiano Rota
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