AVVISO.
Leggete questa parte di sentenza che ho trovato questa sera. Chi la vuole intera si colleghi al sito del Tar.
N. 02282/2010 REG.SEN.
N. 01491/2007 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sul ricorso numero di registro generale 1491 del 2007, proposto da:
S… De M…., rappresentato e difeso dall'avv. ….., con domicilio eletto presso il suo studio in Torino, c.so Vittorio Emanuele II, 88;
contro
Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliata per legge in Torino, corso Stati Uniti, 45;
per l'annullamento
della determinazione 4.7.2007, notificata il 1.7.2007, del Comandante in seconda della Guardia di Finanza con cui è stata irrogata ad esso sig. S…. De M…. la sanzione disciplinare della perdita del grado di Maresciallo Aiutante in congedo assoluto della Guardia di Finanza per rimozione, ponendolo a disposizione del Distretto Militare come semplice soldato,
(omissis)……………………..
Inoltre, si deve osservare che, a fini disciplinari, le sentenze di cd. patteggiamento sono del tutto equiparate a sentenze di condanna, ex l. 27 marzo 2001, n. 97 (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 19 giugno 2009, n. 4094).
Pertanto, solo per tutti i giudicati intervenuti prima della novella recata dalla l. 27 marzo 2001, n. 97 all'art. 653 c.p.p., è assente ogni automatica equiparazione giuridica tra la sentenza patteggiata ed una sentenza di condanna in esito ad un dibattimento, giacché per i patteggiamenti risalenti occorre salvaguardare l'affidamento di coloro che si siano avvalsi dell'agevolazione ex art. 444, prima che la l. n. 97 del 2001 equiparasse tale forma di applicazione della pena ad una sentenza di condanna, sicché, in tali casi, la P.A. è tenuta a fornire un'approfondita valutazione dell'effettiva pericolosità sociale dell'interessato (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 5 gennaio 2010, n. 55).
Tale normativa si applica anche in relazione al personale in congedo, come quello in oggetto, atteso che l’art. 1 della L. 27 marzo 2001, n. 97 (in Gazz. Uff., 5 aprile, n. 80), recante norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, ha apportato modificazioni all'articolo 653 del codice di procedura penale relativamente all’efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare, senza distinguere tra personale in servizio e personale in congedo, ma avuto riguardo esclusivamente al procedimento per l’irrogazione di una sanzione disciplinare, nella specie in base a quanto stabilito dagli artt. 56 e 46 della Legge 599-54.
Peraltro, è principio notorio che la potestà sanzionatoria prevista dalle leggi di stato, a differenza di quanto avviene per gli impiegati civili, viene esercitata anche nei confronti del personale in congedo, in virtù della conservazione della qualità di militare e del grado da parte dei dipendenti militari.
Le sentenze di cd. patteggiamento sono del tutto equiparate
Re: Le sentenze di cd. patteggiamento sono del tutto equipar
Parere del .../10/2013
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1) - il giudice per le udienze preliminari presso il Tribunale ordinario di -OMISSIS- ha applicato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 444 e ss. c.p.p., nei confronti del maresciallo di 1^ classe dell’Arma Aeronautica -OMISSIS- la pena di mesi 6 di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria di € 6.840,00.- integralmente condonata in applicazione dell’indulto di cui all’art. 1 della L. 31 luglio 2006, n. 241, per i seguenti reati:
- Vedi i reati di cui ai punti 1 e 2 nel Parere;
Il Consiglio di Stato precisa:
2) - la Sezione reputa che il ricorso straordinario in epigrafe debba essere respinto.
3) - La sentenza di applicazione della pena su richiesta di parte, pronunciata ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., non prescinde dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, in quanto il giudice penale, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di c.d. “patteggiamento” se ritiene ricorrano le condizioni per il proscioglimento perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso ovvero perché il fatto non costituisce reato; e, pertanto, se è vero che ai fini del giudizio disciplinare il patteggiamento non è da solo sufficiente per affermare la responsabilità dell’incolpato, è anche vero che si può fare legittimo riferimento alla condanna patteggiata per ritenere accertati, in sede disciplinare, i fatti emersi nel corso del procedimento penale, i quali appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente in base ad un ragionevole apprezzamento delle altre risultanze del procedimento (Cons. Stato, Sez. III, 17 maggio 2012, n. 2878).
4) - la sentenza emessa à sensi dell’art. 444 c.p.p., è espressamente equiparata a tal fine a quella irrevocabile di condanna e assume ora efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.
5) - In tale contesto - pertanto - il ricorrente, proprio in quanto ha scelto il rito di cui all’art. 444 c.p.p., accedendo ad una sentenza equiparata agli effetti extrapenali ad una sentenza di condanna, non può per certo rimettere in discussione la qualificazione penale dei fatti a lui ascritti richiamandosi (come egli ha, per l’appunto, fatto) a sentenze rese in sede penale e recanti l’assoluzione degli imputati per fattispecie pur similari a quella di cui egli si è reso responsabile.
6) - il ricorrente ha evidenziato che l’ufficiale inquirente aveva concluso nella specie nel senso della sufficienza dell’irrogazione nei suoi confronti di una sanzione di Corpo, non solo in considerazione che non constavano a suo carico nella carriera ultraventennale percorsa precedenti penali o disciplinari di stato, ma anche – ed espressamente – perché l’incolpato “potrebbe essere stato indotto in errore da terzi nella corretta compilazione del foglio di viaggio”, ovvero “potrebbe essere stato mal consigliato dal proprio avvocato” nella scelta di “patteggiare” la pena.
7) - Ad avviso della Sezione, rileva innanzitutto che, ragionevolmente, l’attuale ricorrente non può certo in sede penale attribuirsi la responsabilità di un fatto e poi in sede disciplinare ritenere che il fatto medesimo non sia punibile solo perché si è sbagliato nella scelta della strategia processuale o per inganno di terzi nella compilazione del foglio di viaggio.
Il resto potete leggerlo qui sotto giusto x completezza della vicenda.
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REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 10 luglio 2013
NUMERO AFFARE OMISSIS
OGGETTO:
Ministero della difesa - -OMISSIS-irezione generale per il personale militare (PERSOMIL).
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto ai sensi dell’art. 8 e ss. del -OMISSIS-.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199 da –OMISSIS- avverso il provvedimento del -OMISSIS- Direttore Generale per il personale militare n. ……/2009 dd. 2 dicembre 2009, recante a carico del ricorrente l’irrogazione della sanzione disciplinare di stato della sospensione dall’impiego per la durata di mesi 2;
LA SEZIONE
OMISSIS;
Premesso e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
1.1. Con sentenza n. …./2008 dd. 3 aprile 2008, il giudice per le udienze preliminari presso il Tribunale ordinario di -OMISSIS- ha applicato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 444 e ss. c.p.p., nei confronti del maresciallo di 1^ classe dell’Arma Aeronautica -OMISSIS- la pena di mesi 6 di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria di € 6.840,00.- integralmente condonata in applicazione dell’indulto di cui all’art. 1 della L. 31 luglio 2006, n. 241, per i seguenti reati:
1) artt. 234, primo e secondo comma, e 47, n. 2, c.p.m.p.. (truffa militare pluriaggravata) in quanto il medesimo -OMISSIS- , in servizio presso ….. con sede in -OMISSIS-, “essendo stato inviato in missione a -OMISSIS-, con artifici e raggiri consistiti nell’avere attestato falsamente in sede di redazione del relativo foglio di viaggio di essere partito alle ore 13.44 del ……. 2005 e di essere rientrato in sede alle ore 14.10 del …….. 2005 – e, quindi, di avere effettuato una missione della durata pari o superiore alle 24 ore – e nell’avere presentato suddetto foglio di viaggio al servizio amministrativo, induceva in errore il proprio reparto di appartenenza circa la durata effettiva della missione, che nella realtà si era svolta con la partenza ed il ritorno nella sola giornata del ……. 2005, procurando a sé un ingiusto profitto consistito nella indebita percezione del rimborso forfettario pari ad € 100,00.- (oltre spese di viaggio) con pari danno per l’Amministrazione militare. Con l’aggravante del grado rivestito e nell’aver commesso il fatto in danno dell’Amministrazione militare. In -OMISSIS- il …… 2005”;
2) artt. 48 e 479 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici con riferimento all’errore determinato dall’altrui inganno), “perché, redigendo in -OMISSIS- il …….. 2005 una dichiarazione in cui attestava di essersi recato in missione a -OMISSIS- il giorno ……. 2005 e di essere rientrato a -OMISSIS- il ……. 2005 – dichiarazione mendace atteso che la missione si era svolto il provvedimento del -OMISSIS- Direttore Generale per il personale militare n. ……./2009 dd. 2 dicembre 2009, recante a carico del ricorrente l’irrogazione della sanzione disciplinare di stato della sospensione dall’impiego per la durata di mesi 2a esclusivamente il giorno ……. 2005 – e così inducendo in errore il servizio amministrativo della ……. Aerea di -OMISSIS-, faceva sì che il servizio amministrativo emettesse ordine di pagamento attestante il diritto del militare a fruire del rimborso forfettario di € 100,00.-, in realtà spettante per le sole missioni di durata pari o superiore a 24 ore. In -OMISSIS- il ……. 2005”.
In dipendenza di ciò, in data …… 2009, il Comandante di Squadra Aerea ha disposto nei riguardi del -OMISSIS- un’inchiesta formale al termine della quale, non condividendo le conclusioni avanzate nella relazione finale dall’ufficiale inquirente (che aveva proposto l’irrogazione di una sanzione di Corpo), ha proposto l’irrogazione a carico dell’incolpato della sanzione di stato consistente nella sospensione dall’impiego per mesi 2.
Tale proposta è stata reputata congrua con il provvedimento del -OMISSIS- Direttore Generale per il personale militare n. …../2009 dd. 2 dicembre 2009, recante - per l’appunto - a carico del -OMISSIS- l’irrogazione di tale sanzione di stato.
1.3. Con il ricorso in epigrafe il -OMISSIS- chiede l’annullamento di tale provvedimento, deducendo al riguardo i tre seguenti ordini di censure:
a) violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della L. 7 agosto 1990, n. 241, nonché degli artt. 97, terzo comma prima parte, 111, ultimo comma e 120, primo comma, del T.U. approvato con -OMISSIS-.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, per mancata osservanza dei termini entro il quale doveva essere instaurato nei suoi confronti il procedimento disciplinare;
b) violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost., nonché eccesso di potere per difetto di motivazione, difetto di istruttoria, ingiustizia manifesta, contraddittorietà e disparità di trattamento;
c) ulteriore eccesso di potere per difetto di motivazione, nonché per contrasto con le risultanze dell’istruttoria, irrazionalità, incongruità e contraddittorietà.
2.1. Tutto ciò premesso, la Sezione reputa che il ricorso straordinario in epigrafe debba essere respinto.
2.2. Innanzitutto, per quanto attiene al primo ordine di censure, il ricorrente deduce l’avvenuta violazione del termine perentorio per l’avvio del procedimento disciplinare a suo carico, da lui individuato in 180 giorni in applicazione dell’art. 97, terzo comma, del T.U. approvato con -OMISSIS-.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, resa necessaria per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 104 dd. 27 febbraio 1991, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 20, 64. 65, 72 e 74 della L. 31 luglio 1999, n. 599, all’epoca in vigore, e recante la disciplina di status dei sottufficiali delle Forze Armate, laddove non recavano appositi termini per l’inizio e la definizione dei giudizi disciplinari per l’applicazione delle sanzioni di stato a tale personale.
Il ricorrente, tuttavia, muove da due presupposti del tutto errati.
Il primo attiene l’individuazione del giorno di decorrenza del termine per l’avvio del procedimento, che egli individua dalla data in cui ha comunicato la sentenza di applicazione della pena all’Amministrazione di appartenenza, ossia il giorno ……. 2008.
A tale data, peraltro, era noto soltanto il dispositivo della sentenza medesima, non essendo stata la stessa ancora pubblicata (lo sarà, per quanto detto innanzi al § 1.1 del presente parere, il 3 aprile 2008); e, comunque, la sentenza stessa non era ancora passata in giudicato.
In dipendenza di ciò, pertanto, il dies a quo del termine di attivazione del procedimento disciplinare, a seguito di sentenza penale di condanna del dipendente, coincide con la piena conoscenza del testo della sentenza, dovendo l’Amministrazione avere piena ed esatta cognizione dei fatti accertati in sede penale al fine di essere messa in grado di valutare in maniera adeguata tutti gli elementi utili per determinarsi nella successiva azione amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 10 giugno 2013, n. 3189), dovendosi inoltre intendere che la sentenza stessa deve essere certificata come irrevocabile (Cons. Stato, Sez. VI, 15 dicembre 2010, n. 8918).
Quanto sopra risulta nella specie avvenuto soltanto con la comunicazione ricevuta dall’Amministrazione medesima in data 12 marzo 2009.
Il secondo e parimenti erroneo presupposto attiene all’identificazione della fonte normativa all’epoca contemplante i termini per l’avvio e la conclusione del procedimento disciplinare.
Premesso che ad oggi trova applicazione la disciplina contenuta nell’art. 1392 del -OMISSIS-.L.vo 15 marzo 2010, n. 66, che ha di fatto recepito l’indirizzo giurisprudenziale che sarà qui appresso enunciato, all’epoca dei fatti per cui è causa trovava applicazione l’art. 9, comma 2, della L. 7 febbraio 1990, n. 19, in forza del quale il “procedimento disciplinare … deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni”.
Posto ciò, per la fattispecie in esame va senz’altro esclusa l’applicazione dell’indirizzo giurisprudenziale formatosi in epoca antecedente all’anzidetta equiparazione della sentenza resa ex art. 444 e ss. c.p.p. alla sentenza definitiva di condanna disposta agli effetti dei giudizi disciplinari introdotta dall’art.1 della L. 27 marzo 2001, n. 97: indirizzo che - per l’appunto - reputava non applicabile l’anzidetto termine di 90 giorni nelle ipotesi di sentenza c.d. “patteggiata” (cfr. al riguardo, per tutte, Cons. Stato, A.P., 26 giugno 2000, n. 15).
L’art. 19, comma 2, della L. 19 del 1990 si applica pertanto pienamente al caso di specie: ma la corretta sua esegesi induce a ritenere che il termine di 90 giorni “dalla notizia della sentenza irrevocabile” inizia a decorrere non già dalla data dell’effettivo avvio del procedimento stesso, ma dalla scadenza dei 180 giorni, sempre previsti dall’art. 9 comma 2 cit., che costituiscono il periodo temporale massimo entro il quale - avuta conoscenza della sentenza penale di condanna - deve avere inizio (o proseguire) il procedimento: dimodoché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di 270 giorni e - quindi - i termini di 180 e 90 giorni sono cumulabili indipendentemente dal momento in cui l’Amministrazione abbia avviato l’azione disciplinare (Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 2009, n. 140 e Cons. Stato, Sez. IV, 9 gennaio 2013, n. 80).
Posto dunque che nella specie risulta l’avvenuta conoscenza in data 12 marzo 2009 da parte dell’Amministrazione della sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta della parte, che la contestazione degli addebiti è stata formulata in data 6 luglio 2009 e che il provvedimento conclusivo del procedimento, recante l’irrogazione della sanzione, è stato adottato in data 2 dicembre 2009, ne discende che il complessivo termine di 270 imposto dal legislatore è stato nella specie pienamente rispettato.
2.3. Per quanto riguarda il secondo ordine di censure, il ricorrente reputa – in buona sostanza – che l’Amministrazione gli abbia di fatto precluso la possibilità di idoneamente difendersi nel corso del procedimento disciplinare, in quanto nel provvedimento recante l’irrogazione della sanzione si legge – tra l’altro – che “le giustificazioni addotte dal militare” vanno “ritenute prive di pregio e non idonee a scagionarlo dagli addebiti mossigli, atteso il rito speciale scelto in sede processuale che alla luce del novellato art. 445 c.p.p. comporta una rinunzia alla difesa anche nel successivo procedimento disciplinare (Corte Cost., 25 luglio 2002 n. 394)”.
Secondo il -OMISSIS-, pertanto, mediante tale assunto motivazionale l’Amministrazione ha apoditticamente rinunciato, in linea di principio, a valutare qualsivoglia elemento difensivo da lui portato nel giudizio disciplinare, in quanto asseritamente precluso dalla sentenza di applicazione della pena su sua richiesta.
Anche tale ordine di censure risulta infondato.
La sentenza di applicazione della pena su richiesta di parte, pronunciata ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., non prescinde dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, in quanto il giudice penale, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di c.d. “patteggiamento” se ritiene ricorrano le condizioni per il proscioglimento perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso ovvero perché il fatto non costituisce reato; e, pertanto, se è vero che ai fini del giudizio disciplinare il patteggiamento non è da solo sufficiente per affermare la responsabilità dell’incolpato, è anche vero che si può fare legittimo riferimento alla condanna patteggiata per ritenere accertati, in sede disciplinare, i fatti emersi nel corso del procedimento penale, i quali appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente in base ad un ragionevole apprezzamento delle altre risultanze del procedimento (Cons. Stato, Sez. III, 17 maggio 2012, n. 2878).
Pertanto, i fatti posti a base della “sentenza patteggiata” ex art. 444 c.p.p. ben possono formare il fondamento di un provvedimento sanzionatorio adottato in sede disciplinare, atteso che la sussistenza di una sentenza di “patteggiamento” non può essere invocata per considerare come inesistenti tutte le circostanze emerse in sede penale, ma restando sempre a carico dell’Amministrazione medesima l’obbligo di valutarle autonomamente (Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2188) e risultando quindi assodato che in sede di procedimento disciplinare a carico di un pubblico dipendente l’Amministrazione può legittimamente utilizzare il risultato delle indagini penali poste in essere nel giudizio penale definito con sentenza di “patteggiamento” per quanto riguarda, fra l’altro, i fatti non controversi (Cons. Stato, Sez. III, 31 marzo 2012, n. 1917).
-OMISSIS-el resto, come rilevato dalla stessa Amministrazione, nell’assunto motivazionale contenuto nel provvedimento impugnato e dianzi riportato, ai sensi del combinato disposto dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. e dell’art. 653, comma 1-bis, come rispettivamente introdotti dall’art. 1, lett. a) e c) della L. 17 marzo 2001, n. 97 e anche in dipendenza della sostituzione poi operata dall’art. 2 della L. 12 giugno 2003 n. 134, la sentenza emessa à sensi dell’art. 444 c.p.p., è espressamente equiparata a tal fine a quella irrevocabile di condanna e assume ora efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.
In dipendenza di quanto sopra, la Corte costituzionale nell’anzidetta sentenza n. 394 del 2002 ha inteso soltanto dire che la scelta dell’applicazione della pena su richiesta della parte offre a quest’ultima nella susseguente sede di giudizio disciplinare un diritto di difesa sostanzialmente limitato alla rilevanza e alla configurazione dei fatti ai fini della corretta e ponderata applicazione della sanzione disciplinare: e ciò similmente agli altri casi di sentenza penale di condanna.
Né tale stato di cose può dare ingresso ad una questione di illegittimità costituzionale della disciplina contenuta negli anzidetti artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, c.p.p. per violazione degli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., posto che – come ha puntualmente rilevato Corte Cost., 18 dicembre 2009, n. 336, “la scelta del patteggiamento …., infatti, rappresenta un diritto per l’imputato – espressivo, esso stesso del più generale diritto di difesa …. –, al quale si accompagna la naturale accettazione di tutti gli effetti – evidentemente, sia favorevoli che sfavorevoli – che il legislatore ha tassativamente tracciato come elementi coessenziali all’accordo intervenuto tra l’imputato ed il pubblico ministero ed assentito dalla positiva valutazione del giudice. Effetti tra i quali – per quel che si è detto, non irragionevolmente – il legislatore ha ritenuto di annoverare anche il valore di giudicato sul fatto, sulla relativa illiceità e sulla responsabilità, ai fini del giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità. La circostanza, invero, che l’imputato, nello stipulare l’accordo sul rito e sul merito della regiudicanda, “accetti” una determinata condanna penale, chiedendone o consentendone l’applicazione, sta infatti univocamente a significare che l’imputato medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare “il fatto” e la propria “responsabilità”: con l’ovvia conseguenza di rendere per ciò stesso coerente, rispetto ai parametri di cui si assume la violazione, la possibilità che, intervenuto il giudicato su quel “fatto” e sulla relativa attribuibilità allo stesso imputato, simili componenti del giudizio si cristallizzino anche agli effetti del giudizio disciplinare”.
In tale contesto - pertanto - il ricorrente, proprio in quanto ha scelto il rito di cui all’art. 444 c.p.p., accedendo ad una sentenza equiparata agli effetti extrapenali ad una sentenza di condanna, non può per certo rimettere in discussione la qualificazione penale dei fatti a lui ascritti richiamandosi (come egli ha, per l’appunto, fatto) a sentenze rese in sede penale e recanti l’assoluzione degli imputati per fattispecie pur similari a quella di cui egli si è reso responsabile.
2.4. Per quanto da ultimo attiene al terzo ordine di censure, il ricorrente ha evidenziato che l’ufficiale inquirente aveva concluso nella specie nel senso della sufficienza dell’irrogazione nei suoi confronti di una sanzione di Corpo, non solo in considerazione che non constavano a suo carico nella carriera ultraventennale percorsa precedenti penali o disciplinari di stato, ma anche – ed espressamente – perché l’incolpato “potrebbe essere stato indotto in errore da terzi nella corretta compilazione del foglio di viaggio”, ovvero “potrebbe essere stato mal consigliato dal proprio avvocato” nella scelta di “patteggiare” la pena.
Il -OMISSIS- rileva che, a fronte della motivata proposta dell’ufficiale istruttore, il Comandante di Squadra Aera non avrebbe motivato il proprio diverso apprezzamento, sostanziatosi con l’individuazione della sanzione di stato della sospensione dall’impiego per mesi due poi in concreto applicata, non sottacendo a tale riguardo che in altri e del tutto similari casi sarebbe stata – per l’appunto – irrogata agli incolpati una sanzione di Corpo.
Generica e del tutto incongrua risulterebbe – poi – la motivazione che sorregge il provvedimento impugnato.
Ad avviso della Sezione, rileva innanzitutto che, ragionevolmente, l’attuale ricorrente non può certo in sede penale attribuirsi la responsabilità di un fatto e poi in sede disciplinare ritenere che il fatto medesimo non sia punibile solo perché si è sbagliato nella scelta della strategia processuale o per inganno di terzi nella compilazione del foglio di viaggio.
Né va sottaciuto che nello stesso “sistema” della disciplina all’epoca vigente, ossia l’art. 64 e ss. della L. 31 luglio 1954, n. 599 la relazione dell'ufficiale inquirente rappresentava l’atto terminale dell'inchiesta, attraverso il quale soltanto poteva accertarsi un illecito disciplinare dalla cui sussistenza poteva discendere a carico del sottufficiale l’applicazione delle sanzioni contemplate dall’art. 63 della stessa legge, ma non era l’atto sulla base del quale l’autorità militare disponeva il deferimento del sottufficiale dinanzi alla Commissione di disciplina ovvero, come nel caso di specie proponeva, l'adozione di una sanzione non destitutiva in “ordinaria linea ministeriale”; esso costituiva infatti solo una mera proposta non vincolante, innanzitutto per l’alto Comando che aveva disposto l’apertura dell’inchiesta.
In tal senso, va pertanto rimarcata l’assenza di ogni carattere vincolante nel documento redatto dall’ufficiale inquirente, posto che rientra nella competenza esclusiva dell’Autorità preposta ex lege all’adozione del provvedimento finale determinarsi nel senso se rinviare, o meno, a giudizio disciplinare di stato, ovvero di Corpo, il militare: il che, dunque, rende palese come l’atto ispettivo in questione abbia null’altro che funzione istruttoria e, pertanto, assolutamente non vincolante per l’apprezzamento da parte del soggetto titolare dell’azione disciplinare e delle conseguenti funzioni decisorie (Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2009 n. 1912).
Né può dirsi che il provvedimento risulti non congruamente motivato.
Il fulcro della motivazione dello stesso ben si coglie nella parte in cui si enuncia il fatto e dallo stesso si traggono le conseguenti valutazioni disciplinari:
“Sottufficiale dell’Aeronautica militare, comandato in missione per servizio isolata dal Comando ……. in -OMISSIS- a -OMISSIS-, al rientro in sede attestava mendacemente sul foglio di viaggio data e ora di partenza non veritiera al fine di superare le 24 ore di servizio ed aver diritto al trattamento di rimborso forfettario di missione: in tal modo induceva in errore il competente servizio amministrativo, il quale provvedeva ad erogare il trattamento di missione forfettario di Euro 100.00, in luogo della somma spettante per il servizio realmente svolto, determinando quindi un danno per l’erario pubblico. Tale condotta, peraltro sanzionata penalmente, è censurabile anche sotto l’aspetto disciplinare, in quanto contraria ai doveri attinenti al giuramento prestato ed al grado rivestito, nonché al senso di responsabilità ed alle norme di contegno cui deve conformarsi ciascun militare”.
E’ ben noto che il principio di autonomia che contraddistingue l’accertamento e la valutazione, in sede disciplinare, dei fatti contestati in sede penale non preclude all’Amministrazione di utilizzare le risultanze acquisite dal giudice penale quali elementi fattuali della fattispecie comportamentale, idonei a supportare un giudizio di responsabilità dell'inquisito a fini disciplinari, senza doversi necessariamente attivare per acquisire nuovi ed autonomi mezzi istruttori in sede disciplinare (Cons. Stato, Sez. IV, 22 maggio 2006, n. 2987).
Nello svolgimento di tale attività istruttoria e – soprattutto - nella valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati al pubblico dipendente in relazione alla sanzione disciplinare da applicare, la discrezionalità dell’Amministrazione non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento (Cons. Stato, Sez. IV, 8 gennaio 2013 n. 28), nella specie in alcun modo rilevanti.
Inoltre, se è vero che in sede di giudizio disciplinare instaurato a carico del pubblico dipendente non è sufficiente, per affermarne la responsabilità, la circostanza che nei confronti dello stesso sia stata pronunciata una sentenza penale di condanna (dovendo infatti l’organo disciplinare procedere ad un’autonoma valutazione della rilevanza dei fatti), è tuttavia consentito all’Autorità fare riferimento a tale pronuncia penale per ritenere accertati quei fatti emersi nel corso del relativo procedimento che o non siano contestati o che, in base a un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali, appaiano fondatamente ascrivibili all’interessato (Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2005 n. 51).
Nella specie, inoltre – e come ben risulta dalla stessa lettura del dianzi riferito punto della motivazione del provvedimento impugnato – correttamente, e del tutto esaustivamente sotto il profilo motivazionale, l’Amministrazione ha autonomamente tratto dalla non contestata fattispecie penale la sua autonoma valutazione (Cons. Stato, Sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5669) in ordine alla difformità della fattispecie rispetto “ai doveri attinenti al giuramento prestato ed al grado rivestito, nonché al senso di responsabilità ed alle norme di contegno cui deve conformarsi ciascun militare”.
P.Q.M.
La Sezione è del parere che il ricorso straordinario in epigrafe debba essere respinto.
OMISSIS
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Fulvio Rocco Pietro Falcone
IL SEGRETARIO
Maria Grazia Nusca
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1) - il giudice per le udienze preliminari presso il Tribunale ordinario di -OMISSIS- ha applicato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 444 e ss. c.p.p., nei confronti del maresciallo di 1^ classe dell’Arma Aeronautica -OMISSIS- la pena di mesi 6 di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria di € 6.840,00.- integralmente condonata in applicazione dell’indulto di cui all’art. 1 della L. 31 luglio 2006, n. 241, per i seguenti reati:
- Vedi i reati di cui ai punti 1 e 2 nel Parere;
Il Consiglio di Stato precisa:
2) - la Sezione reputa che il ricorso straordinario in epigrafe debba essere respinto.
3) - La sentenza di applicazione della pena su richiesta di parte, pronunciata ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., non prescinde dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, in quanto il giudice penale, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di c.d. “patteggiamento” se ritiene ricorrano le condizioni per il proscioglimento perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso ovvero perché il fatto non costituisce reato; e, pertanto, se è vero che ai fini del giudizio disciplinare il patteggiamento non è da solo sufficiente per affermare la responsabilità dell’incolpato, è anche vero che si può fare legittimo riferimento alla condanna patteggiata per ritenere accertati, in sede disciplinare, i fatti emersi nel corso del procedimento penale, i quali appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente in base ad un ragionevole apprezzamento delle altre risultanze del procedimento (Cons. Stato, Sez. III, 17 maggio 2012, n. 2878).
4) - la sentenza emessa à sensi dell’art. 444 c.p.p., è espressamente equiparata a tal fine a quella irrevocabile di condanna e assume ora efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.
5) - In tale contesto - pertanto - il ricorrente, proprio in quanto ha scelto il rito di cui all’art. 444 c.p.p., accedendo ad una sentenza equiparata agli effetti extrapenali ad una sentenza di condanna, non può per certo rimettere in discussione la qualificazione penale dei fatti a lui ascritti richiamandosi (come egli ha, per l’appunto, fatto) a sentenze rese in sede penale e recanti l’assoluzione degli imputati per fattispecie pur similari a quella di cui egli si è reso responsabile.
6) - il ricorrente ha evidenziato che l’ufficiale inquirente aveva concluso nella specie nel senso della sufficienza dell’irrogazione nei suoi confronti di una sanzione di Corpo, non solo in considerazione che non constavano a suo carico nella carriera ultraventennale percorsa precedenti penali o disciplinari di stato, ma anche – ed espressamente – perché l’incolpato “potrebbe essere stato indotto in errore da terzi nella corretta compilazione del foglio di viaggio”, ovvero “potrebbe essere stato mal consigliato dal proprio avvocato” nella scelta di “patteggiare” la pena.
7) - Ad avviso della Sezione, rileva innanzitutto che, ragionevolmente, l’attuale ricorrente non può certo in sede penale attribuirsi la responsabilità di un fatto e poi in sede disciplinare ritenere che il fatto medesimo non sia punibile solo perché si è sbagliato nella scelta della strategia processuale o per inganno di terzi nella compilazione del foglio di viaggio.
Il resto potete leggerlo qui sotto giusto x completezza della vicenda.
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REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 10 luglio 2013
NUMERO AFFARE OMISSIS
OGGETTO:
Ministero della difesa - -OMISSIS-irezione generale per il personale militare (PERSOMIL).
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto ai sensi dell’art. 8 e ss. del -OMISSIS-.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199 da –OMISSIS- avverso il provvedimento del -OMISSIS- Direttore Generale per il personale militare n. ……/2009 dd. 2 dicembre 2009, recante a carico del ricorrente l’irrogazione della sanzione disciplinare di stato della sospensione dall’impiego per la durata di mesi 2;
LA SEZIONE
OMISSIS;
Premesso e considerato in fatto e in diritto quanto segue.
1.1. Con sentenza n. …./2008 dd. 3 aprile 2008, il giudice per le udienze preliminari presso il Tribunale ordinario di -OMISSIS- ha applicato, ai sensi e per gli effetti dell’art. 444 e ss. c.p.p., nei confronti del maresciallo di 1^ classe dell’Arma Aeronautica -OMISSIS- la pena di mesi 6 di reclusione, sostituita con la pena pecuniaria di € 6.840,00.- integralmente condonata in applicazione dell’indulto di cui all’art. 1 della L. 31 luglio 2006, n. 241, per i seguenti reati:
1) artt. 234, primo e secondo comma, e 47, n. 2, c.p.m.p.. (truffa militare pluriaggravata) in quanto il medesimo -OMISSIS- , in servizio presso ….. con sede in -OMISSIS-, “essendo stato inviato in missione a -OMISSIS-, con artifici e raggiri consistiti nell’avere attestato falsamente in sede di redazione del relativo foglio di viaggio di essere partito alle ore 13.44 del ……. 2005 e di essere rientrato in sede alle ore 14.10 del …….. 2005 – e, quindi, di avere effettuato una missione della durata pari o superiore alle 24 ore – e nell’avere presentato suddetto foglio di viaggio al servizio amministrativo, induceva in errore il proprio reparto di appartenenza circa la durata effettiva della missione, che nella realtà si era svolta con la partenza ed il ritorno nella sola giornata del ……. 2005, procurando a sé un ingiusto profitto consistito nella indebita percezione del rimborso forfettario pari ad € 100,00.- (oltre spese di viaggio) con pari danno per l’Amministrazione militare. Con l’aggravante del grado rivestito e nell’aver commesso il fatto in danno dell’Amministrazione militare. In -OMISSIS- il …… 2005”;
2) artt. 48 e 479 c.p. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici con riferimento all’errore determinato dall’altrui inganno), “perché, redigendo in -OMISSIS- il …….. 2005 una dichiarazione in cui attestava di essersi recato in missione a -OMISSIS- il giorno ……. 2005 e di essere rientrato a -OMISSIS- il ……. 2005 – dichiarazione mendace atteso che la missione si era svolto il provvedimento del -OMISSIS- Direttore Generale per il personale militare n. ……./2009 dd. 2 dicembre 2009, recante a carico del ricorrente l’irrogazione della sanzione disciplinare di stato della sospensione dall’impiego per la durata di mesi 2a esclusivamente il giorno ……. 2005 – e così inducendo in errore il servizio amministrativo della ……. Aerea di -OMISSIS-, faceva sì che il servizio amministrativo emettesse ordine di pagamento attestante il diritto del militare a fruire del rimborso forfettario di € 100,00.-, in realtà spettante per le sole missioni di durata pari o superiore a 24 ore. In -OMISSIS- il ……. 2005”.
In dipendenza di ciò, in data …… 2009, il Comandante di Squadra Aerea ha disposto nei riguardi del -OMISSIS- un’inchiesta formale al termine della quale, non condividendo le conclusioni avanzate nella relazione finale dall’ufficiale inquirente (che aveva proposto l’irrogazione di una sanzione di Corpo), ha proposto l’irrogazione a carico dell’incolpato della sanzione di stato consistente nella sospensione dall’impiego per mesi 2.
Tale proposta è stata reputata congrua con il provvedimento del -OMISSIS- Direttore Generale per il personale militare n. …../2009 dd. 2 dicembre 2009, recante - per l’appunto - a carico del -OMISSIS- l’irrogazione di tale sanzione di stato.
1.3. Con il ricorso in epigrafe il -OMISSIS- chiede l’annullamento di tale provvedimento, deducendo al riguardo i tre seguenti ordini di censure:
a) violazione e falsa applicazione dell’art. 2 della L. 7 agosto 1990, n. 241, nonché degli artt. 97, terzo comma prima parte, 111, ultimo comma e 120, primo comma, del T.U. approvato con -OMISSIS-.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, per mancata osservanza dei termini entro il quale doveva essere instaurato nei suoi confronti il procedimento disciplinare;
b) violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost., nonché eccesso di potere per difetto di motivazione, difetto di istruttoria, ingiustizia manifesta, contraddittorietà e disparità di trattamento;
c) ulteriore eccesso di potere per difetto di motivazione, nonché per contrasto con le risultanze dell’istruttoria, irrazionalità, incongruità e contraddittorietà.
2.1. Tutto ciò premesso, la Sezione reputa che il ricorso straordinario in epigrafe debba essere respinto.
2.2. Innanzitutto, per quanto attiene al primo ordine di censure, il ricorrente deduce l’avvenuta violazione del termine perentorio per l’avvio del procedimento disciplinare a suo carico, da lui individuato in 180 giorni in applicazione dell’art. 97, terzo comma, del T.U. approvato con -OMISSIS-.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, resa necessaria per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 104 dd. 27 febbraio 1991, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 20, 64. 65, 72 e 74 della L. 31 luglio 1999, n. 599, all’epoca in vigore, e recante la disciplina di status dei sottufficiali delle Forze Armate, laddove non recavano appositi termini per l’inizio e la definizione dei giudizi disciplinari per l’applicazione delle sanzioni di stato a tale personale.
Il ricorrente, tuttavia, muove da due presupposti del tutto errati.
Il primo attiene l’individuazione del giorno di decorrenza del termine per l’avvio del procedimento, che egli individua dalla data in cui ha comunicato la sentenza di applicazione della pena all’Amministrazione di appartenenza, ossia il giorno ……. 2008.
A tale data, peraltro, era noto soltanto il dispositivo della sentenza medesima, non essendo stata la stessa ancora pubblicata (lo sarà, per quanto detto innanzi al § 1.1 del presente parere, il 3 aprile 2008); e, comunque, la sentenza stessa non era ancora passata in giudicato.
In dipendenza di ciò, pertanto, il dies a quo del termine di attivazione del procedimento disciplinare, a seguito di sentenza penale di condanna del dipendente, coincide con la piena conoscenza del testo della sentenza, dovendo l’Amministrazione avere piena ed esatta cognizione dei fatti accertati in sede penale al fine di essere messa in grado di valutare in maniera adeguata tutti gli elementi utili per determinarsi nella successiva azione amministrativa (Cons. Stato, Sez. IV, 10 giugno 2013, n. 3189), dovendosi inoltre intendere che la sentenza stessa deve essere certificata come irrevocabile (Cons. Stato, Sez. VI, 15 dicembre 2010, n. 8918).
Quanto sopra risulta nella specie avvenuto soltanto con la comunicazione ricevuta dall’Amministrazione medesima in data 12 marzo 2009.
Il secondo e parimenti erroneo presupposto attiene all’identificazione della fonte normativa all’epoca contemplante i termini per l’avvio e la conclusione del procedimento disciplinare.
Premesso che ad oggi trova applicazione la disciplina contenuta nell’art. 1392 del -OMISSIS-.L.vo 15 marzo 2010, n. 66, che ha di fatto recepito l’indirizzo giurisprudenziale che sarà qui appresso enunciato, all’epoca dei fatti per cui è causa trovava applicazione l’art. 9, comma 2, della L. 7 febbraio 1990, n. 19, in forza del quale il “procedimento disciplinare … deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni”.
Posto ciò, per la fattispecie in esame va senz’altro esclusa l’applicazione dell’indirizzo giurisprudenziale formatosi in epoca antecedente all’anzidetta equiparazione della sentenza resa ex art. 444 e ss. c.p.p. alla sentenza definitiva di condanna disposta agli effetti dei giudizi disciplinari introdotta dall’art.1 della L. 27 marzo 2001, n. 97: indirizzo che - per l’appunto - reputava non applicabile l’anzidetto termine di 90 giorni nelle ipotesi di sentenza c.d. “patteggiata” (cfr. al riguardo, per tutte, Cons. Stato, A.P., 26 giugno 2000, n. 15).
L’art. 19, comma 2, della L. 19 del 1990 si applica pertanto pienamente al caso di specie: ma la corretta sua esegesi induce a ritenere che il termine di 90 giorni “dalla notizia della sentenza irrevocabile” inizia a decorrere non già dalla data dell’effettivo avvio del procedimento stesso, ma dalla scadenza dei 180 giorni, sempre previsti dall’art. 9 comma 2 cit., che costituiscono il periodo temporale massimo entro il quale - avuta conoscenza della sentenza penale di condanna - deve avere inizio (o proseguire) il procedimento: dimodoché il tempo che non può essere superato, a pena di violazione della perentorietà del termine, è quello totale di 270 giorni e - quindi - i termini di 180 e 90 giorni sono cumulabili indipendentemente dal momento in cui l’Amministrazione abbia avviato l’azione disciplinare (Cons. Stato, Sez. VI, 14 gennaio 2009, n. 140 e Cons. Stato, Sez. IV, 9 gennaio 2013, n. 80).
Posto dunque che nella specie risulta l’avvenuta conoscenza in data 12 marzo 2009 da parte dell’Amministrazione della sentenza irrevocabile di applicazione della pena su richiesta della parte, che la contestazione degli addebiti è stata formulata in data 6 luglio 2009 e che il provvedimento conclusivo del procedimento, recante l’irrogazione della sanzione, è stato adottato in data 2 dicembre 2009, ne discende che il complessivo termine di 270 imposto dal legislatore è stato nella specie pienamente rispettato.
2.3. Per quanto riguarda il secondo ordine di censure, il ricorrente reputa – in buona sostanza – che l’Amministrazione gli abbia di fatto precluso la possibilità di idoneamente difendersi nel corso del procedimento disciplinare, in quanto nel provvedimento recante l’irrogazione della sanzione si legge – tra l’altro – che “le giustificazioni addotte dal militare” vanno “ritenute prive di pregio e non idonee a scagionarlo dagli addebiti mossigli, atteso il rito speciale scelto in sede processuale che alla luce del novellato art. 445 c.p.p. comporta una rinunzia alla difesa anche nel successivo procedimento disciplinare (Corte Cost., 25 luglio 2002 n. 394)”.
Secondo il -OMISSIS-, pertanto, mediante tale assunto motivazionale l’Amministrazione ha apoditticamente rinunciato, in linea di principio, a valutare qualsivoglia elemento difensivo da lui portato nel giudizio disciplinare, in quanto asseritamente precluso dalla sentenza di applicazione della pena su sua richiesta.
Anche tale ordine di censure risulta infondato.
La sentenza di applicazione della pena su richiesta di parte, pronunciata ai sensi dell’art. 444 e ss. c.p.p., non prescinde dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, in quanto il giudice penale, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di c.d. “patteggiamento” se ritiene ricorrano le condizioni per il proscioglimento perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non lo ha commesso ovvero perché il fatto non costituisce reato; e, pertanto, se è vero che ai fini del giudizio disciplinare il patteggiamento non è da solo sufficiente per affermare la responsabilità dell’incolpato, è anche vero che si può fare legittimo riferimento alla condanna patteggiata per ritenere accertati, in sede disciplinare, i fatti emersi nel corso del procedimento penale, i quali appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente in base ad un ragionevole apprezzamento delle altre risultanze del procedimento (Cons. Stato, Sez. III, 17 maggio 2012, n. 2878).
Pertanto, i fatti posti a base della “sentenza patteggiata” ex art. 444 c.p.p. ben possono formare il fondamento di un provvedimento sanzionatorio adottato in sede disciplinare, atteso che la sussistenza di una sentenza di “patteggiamento” non può essere invocata per considerare come inesistenti tutte le circostanze emerse in sede penale, ma restando sempre a carico dell’Amministrazione medesima l’obbligo di valutarle autonomamente (Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2011, n. 2188) e risultando quindi assodato che in sede di procedimento disciplinare a carico di un pubblico dipendente l’Amministrazione può legittimamente utilizzare il risultato delle indagini penali poste in essere nel giudizio penale definito con sentenza di “patteggiamento” per quanto riguarda, fra l’altro, i fatti non controversi (Cons. Stato, Sez. III, 31 marzo 2012, n. 1917).
-OMISSIS-el resto, come rilevato dalla stessa Amministrazione, nell’assunto motivazionale contenuto nel provvedimento impugnato e dianzi riportato, ai sensi del combinato disposto dell’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. e dell’art. 653, comma 1-bis, come rispettivamente introdotti dall’art. 1, lett. a) e c) della L. 17 marzo 2001, n. 97 e anche in dipendenza della sostituzione poi operata dall’art. 2 della L. 12 giugno 2003 n. 134, la sentenza emessa à sensi dell’art. 444 c.p.p., è espressamente equiparata a tal fine a quella irrevocabile di condanna e assume ora efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.
In dipendenza di quanto sopra, la Corte costituzionale nell’anzidetta sentenza n. 394 del 2002 ha inteso soltanto dire che la scelta dell’applicazione della pena su richiesta della parte offre a quest’ultima nella susseguente sede di giudizio disciplinare un diritto di difesa sostanzialmente limitato alla rilevanza e alla configurazione dei fatti ai fini della corretta e ponderata applicazione della sanzione disciplinare: e ciò similmente agli altri casi di sentenza penale di condanna.
Né tale stato di cose può dare ingresso ad una questione di illegittimità costituzionale della disciplina contenuta negli anzidetti artt. 445, comma 1-bis, e 653, comma 1-bis, c.p.p. per violazione degli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., posto che – come ha puntualmente rilevato Corte Cost., 18 dicembre 2009, n. 336, “la scelta del patteggiamento …., infatti, rappresenta un diritto per l’imputato – espressivo, esso stesso del più generale diritto di difesa …. –, al quale si accompagna la naturale accettazione di tutti gli effetti – evidentemente, sia favorevoli che sfavorevoli – che il legislatore ha tassativamente tracciato come elementi coessenziali all’accordo intervenuto tra l’imputato ed il pubblico ministero ed assentito dalla positiva valutazione del giudice. Effetti tra i quali – per quel che si è detto, non irragionevolmente – il legislatore ha ritenuto di annoverare anche il valore di giudicato sul fatto, sulla relativa illiceità e sulla responsabilità, ai fini del giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità. La circostanza, invero, che l’imputato, nello stipulare l’accordo sul rito e sul merito della regiudicanda, “accetti” una determinata condanna penale, chiedendone o consentendone l’applicazione, sta infatti univocamente a significare che l’imputato medesimo ha ritenuto, a quei fini, di non contestare “il fatto” e la propria “responsabilità”: con l’ovvia conseguenza di rendere per ciò stesso coerente, rispetto ai parametri di cui si assume la violazione, la possibilità che, intervenuto il giudicato su quel “fatto” e sulla relativa attribuibilità allo stesso imputato, simili componenti del giudizio si cristallizzino anche agli effetti del giudizio disciplinare”.
In tale contesto - pertanto - il ricorrente, proprio in quanto ha scelto il rito di cui all’art. 444 c.p.p., accedendo ad una sentenza equiparata agli effetti extrapenali ad una sentenza di condanna, non può per certo rimettere in discussione la qualificazione penale dei fatti a lui ascritti richiamandosi (come egli ha, per l’appunto, fatto) a sentenze rese in sede penale e recanti l’assoluzione degli imputati per fattispecie pur similari a quella di cui egli si è reso responsabile.
2.4. Per quanto da ultimo attiene al terzo ordine di censure, il ricorrente ha evidenziato che l’ufficiale inquirente aveva concluso nella specie nel senso della sufficienza dell’irrogazione nei suoi confronti di una sanzione di Corpo, non solo in considerazione che non constavano a suo carico nella carriera ultraventennale percorsa precedenti penali o disciplinari di stato, ma anche – ed espressamente – perché l’incolpato “potrebbe essere stato indotto in errore da terzi nella corretta compilazione del foglio di viaggio”, ovvero “potrebbe essere stato mal consigliato dal proprio avvocato” nella scelta di “patteggiare” la pena.
Il -OMISSIS- rileva che, a fronte della motivata proposta dell’ufficiale istruttore, il Comandante di Squadra Aera non avrebbe motivato il proprio diverso apprezzamento, sostanziatosi con l’individuazione della sanzione di stato della sospensione dall’impiego per mesi due poi in concreto applicata, non sottacendo a tale riguardo che in altri e del tutto similari casi sarebbe stata – per l’appunto – irrogata agli incolpati una sanzione di Corpo.
Generica e del tutto incongrua risulterebbe – poi – la motivazione che sorregge il provvedimento impugnato.
Ad avviso della Sezione, rileva innanzitutto che, ragionevolmente, l’attuale ricorrente non può certo in sede penale attribuirsi la responsabilità di un fatto e poi in sede disciplinare ritenere che il fatto medesimo non sia punibile solo perché si è sbagliato nella scelta della strategia processuale o per inganno di terzi nella compilazione del foglio di viaggio.
Né va sottaciuto che nello stesso “sistema” della disciplina all’epoca vigente, ossia l’art. 64 e ss. della L. 31 luglio 1954, n. 599 la relazione dell'ufficiale inquirente rappresentava l’atto terminale dell'inchiesta, attraverso il quale soltanto poteva accertarsi un illecito disciplinare dalla cui sussistenza poteva discendere a carico del sottufficiale l’applicazione delle sanzioni contemplate dall’art. 63 della stessa legge, ma non era l’atto sulla base del quale l’autorità militare disponeva il deferimento del sottufficiale dinanzi alla Commissione di disciplina ovvero, come nel caso di specie proponeva, l'adozione di una sanzione non destitutiva in “ordinaria linea ministeriale”; esso costituiva infatti solo una mera proposta non vincolante, innanzitutto per l’alto Comando che aveva disposto l’apertura dell’inchiesta.
In tal senso, va pertanto rimarcata l’assenza di ogni carattere vincolante nel documento redatto dall’ufficiale inquirente, posto che rientra nella competenza esclusiva dell’Autorità preposta ex lege all’adozione del provvedimento finale determinarsi nel senso se rinviare, o meno, a giudizio disciplinare di stato, ovvero di Corpo, il militare: il che, dunque, rende palese come l’atto ispettivo in questione abbia null’altro che funzione istruttoria e, pertanto, assolutamente non vincolante per l’apprezzamento da parte del soggetto titolare dell’azione disciplinare e delle conseguenti funzioni decisorie (Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2009 n. 1912).
Né può dirsi che il provvedimento risulti non congruamente motivato.
Il fulcro della motivazione dello stesso ben si coglie nella parte in cui si enuncia il fatto e dallo stesso si traggono le conseguenti valutazioni disciplinari:
“Sottufficiale dell’Aeronautica militare, comandato in missione per servizio isolata dal Comando ……. in -OMISSIS- a -OMISSIS-, al rientro in sede attestava mendacemente sul foglio di viaggio data e ora di partenza non veritiera al fine di superare le 24 ore di servizio ed aver diritto al trattamento di rimborso forfettario di missione: in tal modo induceva in errore il competente servizio amministrativo, il quale provvedeva ad erogare il trattamento di missione forfettario di Euro 100.00, in luogo della somma spettante per il servizio realmente svolto, determinando quindi un danno per l’erario pubblico. Tale condotta, peraltro sanzionata penalmente, è censurabile anche sotto l’aspetto disciplinare, in quanto contraria ai doveri attinenti al giuramento prestato ed al grado rivestito, nonché al senso di responsabilità ed alle norme di contegno cui deve conformarsi ciascun militare”.
E’ ben noto che il principio di autonomia che contraddistingue l’accertamento e la valutazione, in sede disciplinare, dei fatti contestati in sede penale non preclude all’Amministrazione di utilizzare le risultanze acquisite dal giudice penale quali elementi fattuali della fattispecie comportamentale, idonei a supportare un giudizio di responsabilità dell'inquisito a fini disciplinari, senza doversi necessariamente attivare per acquisire nuovi ed autonomi mezzi istruttori in sede disciplinare (Cons. Stato, Sez. IV, 22 maggio 2006, n. 2987).
Nello svolgimento di tale attività istruttoria e – soprattutto - nella valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati al pubblico dipendente in relazione alla sanzione disciplinare da applicare, la discrezionalità dell’Amministrazione non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento (Cons. Stato, Sez. IV, 8 gennaio 2013 n. 28), nella specie in alcun modo rilevanti.
Inoltre, se è vero che in sede di giudizio disciplinare instaurato a carico del pubblico dipendente non è sufficiente, per affermarne la responsabilità, la circostanza che nei confronti dello stesso sia stata pronunciata una sentenza penale di condanna (dovendo infatti l’organo disciplinare procedere ad un’autonoma valutazione della rilevanza dei fatti), è tuttavia consentito all’Autorità fare riferimento a tale pronuncia penale per ritenere accertati quei fatti emersi nel corso del relativo procedimento che o non siano contestati o che, in base a un ragionevole apprezzamento delle risultanze processuali, appaiano fondatamente ascrivibili all’interessato (Cons. Stato, Sez. IV, 31 gennaio 2005 n. 51).
Nella specie, inoltre – e come ben risulta dalla stessa lettura del dianzi riferito punto della motivazione del provvedimento impugnato – correttamente, e del tutto esaustivamente sotto il profilo motivazionale, l’Amministrazione ha autonomamente tratto dalla non contestata fattispecie penale la sua autonoma valutazione (Cons. Stato, Sez. IV, 7 novembre 2012, n. 5669) in ordine alla difformità della fattispecie rispetto “ai doveri attinenti al giuramento prestato ed al grado rivestito, nonché al senso di responsabilità ed alle norme di contegno cui deve conformarsi ciascun militare”.
P.Q.M.
La Sezione è del parere che il ricorso straordinario in epigrafe debba essere respinto.
OMISSIS
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Fulvio Rocco Pietro Falcone
IL SEGRETARIO
Maria Grazia Nusca
Re: Le sentenze di cd. patteggiamento sono del tutto equipar
Il seguente testo è stato preso da una sentenza del Tar di Latina che riguarda un nostro collega CC. con la quale è stata disposta la perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari.
"Aggiungasi poi che ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 445 e 653 c.p.p., introdotti dalla L. 17 marzo 2001 n. 97, la sentenza emessa in base all’articolo 444 c.p.p. espressamente equiparata, a tal fine, a quella irrevocabile di condanna assume ora efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso".
"Aggiungasi poi che ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 445 e 653 c.p.p., introdotti dalla L. 17 marzo 2001 n. 97, la sentenza emessa in base all’articolo 444 c.p.p. espressamente equiparata, a tal fine, a quella irrevocabile di condanna assume ora efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso".
Re: Le sentenze di cd. patteggiamento sono del tutto equipar
dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
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N. 184
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Sabino CASSESE Giudice
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, nel procedimento penale a carico di V.L., con ordinanza del 21 febbraio 2013, iscritta al n. 4 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2014 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza del 21 febbraio 2013 (r.o. n. 4 del 2014), il Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale a seguito della contestazione in dibattimento da parte del pubblico ministero di una circostanza aggravante non risultante dall’imputazione quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti d’indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale».
Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dall’art. 186, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel corso del quale – aperto il dibattimento ed ammesse le prove richieste dalle parti – il pubblico ministero, dopo l’esame dei suoi testimoni, aveva contestato le circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2-xxxxxxxxxxxx del citato art. 186.
Alla scadenza del termine richiesto dall’imputato ai sensi dell’art. 519 cod. proc. pen. – prosegue il Tribunale rimettente – le parti avevano presentato una richiesta congiunta di applicazione della pena per la fattispecie aggravata risultante dalla nuova contestazione.
La richiesta sarebbe inammissibile, perché è stata presentata dopo la scadenza del termine previsto dagli artt. 556, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen.; essa però – osserva il giudice a quo – è stata «originata dalla contestazione da parte del pubblico ministero ai sensi dell’art. 517 c.p.p. delle circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2-xxxxxxxxxxxx dell’art. 186 Cod. d. Strada […] suscettibili di un significativo mutamento sanzionatorio in danno dell’imputato». L’una comporta, infatti, il raddoppio della pena e rende inapplicabile la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità; l’altra determina «lo speciale e più severo giudizio di bilanciamento delle circostanze, derogatorio rispetto alla regola generale dell’art. 69 c.p.». La possibile richiesta di applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, peraltro, era stata rappresentata dall’imputato fin dagli atti introduttivi del dibattimento, «attraverso la produzione della dichiarazione di disponibilità» del presidente di una onlus a far lavorare l’imputato nel caso di sostituzione della pena.
Ad avviso del Tribunale rimettente, sarebbe avvenuta una «contestazione dibattimentale “tardiva”, frutto di errore sulla compiuta individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il Pubblico Ministero, che ha determinato una patologica carenza dell’accusa, tale da convincere l’imputato ad affrontare all’origine il dibattimento e, solo all’esito del postumo recupero dell’errore originario, a chiedere l’ammissione al rito alternativo dell’applicazione della pena». La contestazione delle due circostanze aggravanti, infatti, non sarebbe stata determinata da nuovi elementi emersi in fase dibattimentale, «bensì da una miglior rilettura degli atti della parte pubblica, atteso che la notizia di reato certamente recava sin dall’origine tanto l’orario di consumazione del reato quanto le sue modalità, ovvero la connessione causale tra lo stato d’ebbrezza e la determinazione di un sinistro stradale, nulla di nuovo avendo sul punto aggiunto il verbalizzante» in sede di esame testimoniale. Questi elementi sarebbero emersi già dalla relazione di incidente stradale dell’Ufficio infortunistica della Polizia municipale presente nel fascicolo del pubblico ministero e dall’espressa indicazione dell’orario dell’incidente nel capo di imputazione.
Ciò premesso, il giudice a quo richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui «risulta lesiva del diritto di difesa oltre che del principio di uguaglianza qualsiasi preclusione processuale che impedisce all’imputato l’accesso ai riti speciali a seguito di nuove contestazioni per fatto diverso o per reato concorrente laddove la contestazione concerna un fatto già risultante dagli atti di indagine preliminare al momento dell’esercizio dell’azione penale». La valutazione dell’imputato sulla convenienza di un rito speciale dipende, infatti, «dalla concreta impostazione data all’accusa, sì che ove questa sia affetta da errore sull’individuazione del fatto o del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, la sua variazione sostanziale deve consentire all’imputato il recupero di quelle facoltà di scelta definitoria del processo di cui è stato espropriato causa il decorso dei termini di proposizione della domanda».
Il caso di specie – prosegue il Tribunale rimettente – è connotato, rispetto alla nuova imputazione o al reato concorrente, cui si riferiscono le precedenti pronunce della Corte costituzionale (sentenze n. 333 del 2009, n. 530 del 1995 e n. 265 del 1994), «dall’inscindibilità ed unitarietà del fatto», quale risultato dell’originaria accusa e della nuova contestazione, che rende obbligata la contestazione tardiva da parte del pubblico ministero, «non essendo concepibile un separato ed autonomo giudizio futuro sulle sole circostanze aggravanti».
In tal modo, però, l’imputato è «privato del diritto di scegliere secondo convenienza il rito speciale dell’applicazione della pena che, secondo costante interpretazione, rappresenta una modalità di esercizio del suo diritto di difesa».
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., pertanto, sarebbe non manifestamente infondata con riferimento all’art. 24, secondo comma, Cost., perché contrasterebbe con il diritto di difesa «un sistema che osta alla restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena a fronte della contestazione tardiva, in qualche modo necessitata per il pubblico ministero, di circostanze aggravanti».
La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe una discriminazione dell’imputato «nell’accesso al rito speciale in ragione della maggiore o minore completezza ed esaustività dell’imputazione a fronte della diversa valutazione dei risultati delle indagini preliminari effettuata nel momento di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero».
La questione, infine, sarebbe rilevante nel giudizio a quo, perché, se si rimuovesse il limite temporale attualmente posto dagli artt. 556, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen., non vi sarebbero altri ostacoli all’accoglimento della richiesta di applicazione della pena formulata dall’imputato, con il consenso del pubblico ministero, «immediatamente dopo la scadenza del termine per adeguare la propria difesa alle nuove contestazioni elevate dal pubblico ministero in corso di dibattimento».
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 21 febbraio 2013 (r.o. n. 4 del 2014), il Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale a seguito della contestazione in dibattimento da parte del pubblico ministero di una circostanza aggravante non risultante dall’imputazione quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti d’indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale».
Secondo il giudice rimettente, la norma in questione violerebbe l’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto contrasterebbe con il diritto di difesa «un sistema che osta alla restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena a fronte della contestazione tardiva», da parte del pubblico ministero, di circostanze aggravanti note già dalle indagini preliminari, la cui compiuta e doverosa enunciazione sin dalla formulazione dell’imputazione «avrebbe convinto l’imputato a rinunciare al dibattimento, cui è in seguito costretto, essendogli a tal punto impedita quella scelta del rito che è regola fondante del sistema processuale».
La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., perché nell’accesso al rito speciale l’imputato sarebbe discriminato «in ragione della maggiore o minore completezza ed esaustività dell’imputazione a fronte della diversa valutazione dei risultati delle indagini preliminari effettuata nel momento di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero».
2.– La questione è fondata.
2.1.– Il dubbio di legittimità costituzionale concerne la cosiddetta contestazione suppletiva «tardiva» di una circostanza aggravante.
Come questa Corte ha già rilevato (sentenze n. 237 del 2012 e n. 333 del 2009), la disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali – tanto del fatto diverso (art. 516 cod. proc. pen.), che del reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. o delle circostanze aggravanti (art. 517 cod. proc. pen.: non rileva, ai presenti fini, la contestazione del fatto nuovo, prevista dall’art. 518 cod. proc. pen., che presuppone il consenso dell’imputato) – si presenta coerente, in linea di principio, con l’impostazione accusatoria del vigente codice di rito. In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento, la disciplina delle nuove contestazioni mira, infatti, a conferire un ragionevole grado di flessibilità all’imputazione, consentendone l’adattamento agli esiti dell’istruzione dibattimentale, quando alcuni profili di fatto risultino diversi o nuovi rispetto a quelli emersi dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini e valutati dal pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale.
Secondo la formulazione degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., la diversità del fatto, il reato concorrente e le circostanze aggravanti debbono emergere «nel corso dell’istruzione dibattimentale», in connessione con la ricordata finalità dell’istituto. Risultano così evocati i soli mutamenti dell’imputazione imposti dall’evoluzione istruttoria, sì che l’istituto si caratterizza come speciale e derogatorio rispetto alle ordinarie cadenze processuali relative all’esercizio dell’azione penale e al suo controllo giudiziale.
Nonostante il dato letterale, la giurisprudenza di legittimità, con l’avallo delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 4 del 28 ottobre 1998), ritiene che le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. possano essere basate anche sui soli elementi già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.
Per effetto di questa lettura estensiva, l’istituto delle nuove contestazioni si connota «non più soltanto come uno strumento – come detto, speciale e derogatorio – di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica”: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione» (sentenza n. 333 del 2009).
A fronte di tale ragione giustificatrice, occorre, però, tenere conto delle contrapposte esigenze di salvaguardia del diritto di difesa.
In proposito, come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, il codice di rito aveva specificamente previsto che, «di fronte alla nuova contestazione dibattimentale, l’imputato – salvo si trattasse della contestazione suppletiva della recidiva – avesse diritto ad un termine a difesa non inferiore al termine a comparire indicato dall’art. 429 cod. proc. pen. e potesse, in ogni caso, chiedere l’ammissione di nuove prove (art. 519 cod. proc. pen.). Tale ultima facoltà risultava, peraltro, soggetta ad una condizione – quella dell’“assoluta necessità”, insita nell’originario richiamo all’art. 507 cod. proc. pen. – che venne ritenuta da questa Corte irragionevole e lesiva del diritto di difesa, nella misura in cui, ponendo “limiti diversi e più penetranti di quelli vigenti in via generale per i nova”, non consentiva un recupero integrale dell’ordinario “diritto alla prova” (sentenza n. 241 del 1992)» (sentenza n. 237 del 2012).
Nella prospettiva del codice di procedura penale rimanevano, però, preclusi i riti alternativi a contenuto premiale (giudizio abbreviato e patteggiamento), riti che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, costituiscono anch’essi «modalità, tra le più qualificanti (sentenza 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)» (sentenza n. 237 del 2012), tali da incidere, in senso limitativo, sull’entità della pena inflitta.
L’imputato, infatti, in seguito alle nuove contestazioni effettuate dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, poteva trovarsi a fronteggiare un’accusa rispetto alla quale sarebbe stato suo interesse chiedere i riti alternativi, ma tale opportunità gli era preclusa essendo ormai decorsi i termini per le relative richieste.
2.2.– Rispetto alle nuove contestazioni “fisiologiche”, a quelle cioè effettivamente determinate dalle acquisizioni dibattimentali, questa Corte, con una serie di pronunce emesse negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice, aveva escluso che la preclusione in discorso violasse gli artt. 3 e 24 Cost.: era stato, infatti, dato rilievo prevalente al principio di indissolubilità del binomio premialità-deflazione.
Esaminando la questione con riferimento ora al giudizio abbreviato, ora al patteggiamento, si era ritenuto che l’interesse dell’imputato a beneficiare dei vantaggi che discendono dai riti speciali ricevesse tutela «solo in quanto la sua condotta consenta l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il dibattimento», permetta di raggiungere «quell’obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l’introduzione del giudizio abbreviato e più in generale dei riti speciali» (sentenze n. 593 del 1990; n. 129 del 1993 e n. 316 del 1992; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).
Inoltre la Corte aveva osservato che la modificazione dell’imputazione e la contestazione suppletiva costituiscono eventualità non infrequenti, in un sistema imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, e non imprevedibili, sicché se ne doveva dedurre che il rischio della nuova contestazione dibattimentale rientrasse naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tali riti, «onde egli non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta» (sentenze n. 129 del 1993 e n. 316 del 1992; in prospettiva analoga, sentenza n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).
3.– Con la successiva sentenza n. 265 del 1994, la Corte, però, nel caso di contestazioni dibattimentali “tardive”, è pervenuta, proprio rispetto al patteggiamento, a una diversa conclusione, perché in questo caso non può parlarsi «di una libera assunzione del rischio del dibattimento da parte dell’imputato», le cui determinazioni in ordine ai riti speciali sono state sviate «da aspetti di “anomalia” caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero». Le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono infatti a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: sicché, «quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali». Anche il principio di eguaglianza viene violato perché l’imputato è irragionevolmente discriminato rispetto alla possibilità di accesso ai riti alternativi, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero e delle correlative contestazioni.
Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha dichiarato, quindi, costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentivano all’imputato di richiedere il “patteggiamento” relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
La sentenza n. 265 del 1994 ha dichiarato, invece, inammissibile l’analoga questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato, reputando che, rispetto a tale rito, la scelta tra le varie alternative ipotizzabili per porre rimedio al vulnus costituzionale – pure riscontrabile – spettasse in via esclusiva al legislatore.
Successivamente la struttura del giudizio abbreviato è radicalmente cambiata per effetto della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), e la Corte, con la sentenza n. 333 del 2009, venuti meno i precedenti ostacoli, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. anche nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso o al reato concorrente «contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale».
Questa ulteriore pronuncia additiva era risultata necessaria, oltre che per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., già rilevati dalla sentenza n. 265 del 1994, «anche per eliminare la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva “tardiva”, a seconda che si discuta di “patteggiamento” o di giudizio abbreviato» (sentenza n. 333 del 2009), differenza che, nel mutato panorama normativo, «si rivela[va] essa stessa fonte d’una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost.» (sentenza n. 237 del 2012).
4.– Prendendo spunto dalle affermazioni delle sentenze da ultimo citate, il Tribunale ordinario di Roma, come si è ricordato, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non consente il patteggiamento nel caso in cui il pubblico ministero abbia proceduto alla contestazione suppletiva “patologica” di una circostanza aggravante.
La questione può idealmente ricollegarsi alla sentenza n. 265 del 1994, ove però si avvertiva che la relativa dichiarazione di illegittimità costituzionale rimaneva «rigorosamente circoscritta alle specifiche situazioni dedotte dai giudici a quibus, che riguardano, come precisato, le contestazioni dibattimentali del fatto diverso e del reato concorrente (in quanto connesso ex art. 12, primo comma, lettera b, cod. proc. pen.)» e che, in particolare, era «ad essa estranea la diversa evenienza della contestazione delle circostanze aggravanti, non devoluta all’esame di questa Corte».
In realtà, però, la motivazione della sentenza può ugualmente riferirsi al caso di contestazione “tardiva” di una o più circostanze aggravanti, in quanto anche la trasformazione dell’originaria imputazione in un’ipotesi circostanziata (o pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del quadro processuale. Le circostanze in questione possono incidere sull’entità della sanzione, anche in modo rilevante, laddove il legislatore contempla la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base, o, talvolta, sullo stesso regime di procedibilità del reato o, ancora, sull’applicabilità di alcune sanzioni sostitutive (come nel caso oggetto del giudizio a quo).
Né varrebbe osservare, in senso contrario, che l’aggravamento dell’originaria situazione sarebbe soltanto potenziale, giacché l’aumento della pena potrebbe essere annullato dallo stesso giudice facendo uso del potere di bilanciamento delle opposte circostanze, attribuitogli dall’art. 69 cod. pen. Questa obiezione presuppone, infatti, il verificarsi di due condizioni del tutto eventuali, vale a dire che il giudice ritenga sussistenti le condizioni per l’applicazione di almeno una circostanza attenuante e che la giudichi prevalente (la sola equivalenza sarebbe di pregiudizio per l’imputato, perché in conseguenza della contestazione dell’aggravante si vedrebbe privato degli effetti vantaggiosi dell’attenuante). È da aggiungere che il legislatore ha ampliato il catalogo delle circostanze aggravanti “privilegiate”, per le quali il giudizio di bilanciamento può essere impedito o limitato, in modo da escluderne la soccombenza nella comparazione con le attenuanti (sentenza n. 251 del 2012), e che alcune aggravanti possono incidere sulla procedibilità, anche a prescindere dal giudizio in questione.
Va poi sottolineato che l’imputato cui sia stata contestata, nel corso del dibattimento, una circostanza aggravante sulla base di elementi già acquisiti al momento dell’esercizio dell’azione penale, non si trova in una situazione diversa da chi analogamente si è sentito modificare l’imputazione con la contestazione di un fatto diverso, evenienza che in realtà potrebbe costituire per l’imputato anche un pregiudizio minore. Sotto questo aspetto, quindi, essendo divenuta ammissibile la richiesta di patteggiamento nel caso di modificazione dell’imputazione, a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., potrebbe dar luogo a una disparità di trattamento la sua esclusione nel caso della contestazione di una nuova circostanza aggravante, a norma dell’art. 517 cod. proc. pen.
In conclusione, poiché «le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero», non vi è dubbio che, in seguito al suo errore e al conseguente ritardo nella contestazione dell’aggravante, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, sì che «risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali» (sentenza n. 265 del 1994).
Del resto va considerato che «il patteggiamento è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza che non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase del procedimento, compreso il dibattimento» (sentenza n. 265 del 1994; ordinanza n. 486 del 2002). L’adozione del rito speciale risulta comunque idonea a produrre un effetto, sia pure attenuato, di economia processuale.
Ugualmente deve ritenersi violato l’art. 3 Cost., venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero alla chiusura delle indagini stesse (sentenza n. 265 del 1994).
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2014.
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N. 184
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Sabino CASSESE Giudice
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, nel procedimento penale a carico di V.L., con ordinanza del 21 febbraio 2013, iscritta al n. 4 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2014 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza del 21 febbraio 2013 (r.o. n. 4 del 2014), il Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale a seguito della contestazione in dibattimento da parte del pubblico ministero di una circostanza aggravante non risultante dall’imputazione quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti d’indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale».
Il giudice a quo premette di essere investito del procedimento penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dall’art. 186, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nel corso del quale – aperto il dibattimento ed ammesse le prove richieste dalle parti – il pubblico ministero, dopo l’esame dei suoi testimoni, aveva contestato le circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2-xxxxxxxxxxxx del citato art. 186.
Alla scadenza del termine richiesto dall’imputato ai sensi dell’art. 519 cod. proc. pen. – prosegue il Tribunale rimettente – le parti avevano presentato una richiesta congiunta di applicazione della pena per la fattispecie aggravata risultante dalla nuova contestazione.
La richiesta sarebbe inammissibile, perché è stata presentata dopo la scadenza del termine previsto dagli artt. 556, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen.; essa però – osserva il giudice a quo – è stata «originata dalla contestazione da parte del pubblico ministero ai sensi dell’art. 517 c.p.p. delle circostanze aggravanti previste dai commi 2-bis e 2-xxxxxxxxxxxx dell’art. 186 Cod. d. Strada […] suscettibili di un significativo mutamento sanzionatorio in danno dell’imputato». L’una comporta, infatti, il raddoppio della pena e rende inapplicabile la sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità; l’altra determina «lo speciale e più severo giudizio di bilanciamento delle circostanze, derogatorio rispetto alla regola generale dell’art. 69 c.p.». La possibile richiesta di applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, peraltro, era stata rappresentata dall’imputato fin dagli atti introduttivi del dibattimento, «attraverso la produzione della dichiarazione di disponibilità» del presidente di una onlus a far lavorare l’imputato nel caso di sostituzione della pena.
Ad avviso del Tribunale rimettente, sarebbe avvenuta una «contestazione dibattimentale “tardiva”, frutto di errore sulla compiuta individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il Pubblico Ministero, che ha determinato una patologica carenza dell’accusa, tale da convincere l’imputato ad affrontare all’origine il dibattimento e, solo all’esito del postumo recupero dell’errore originario, a chiedere l’ammissione al rito alternativo dell’applicazione della pena». La contestazione delle due circostanze aggravanti, infatti, non sarebbe stata determinata da nuovi elementi emersi in fase dibattimentale, «bensì da una miglior rilettura degli atti della parte pubblica, atteso che la notizia di reato certamente recava sin dall’origine tanto l’orario di consumazione del reato quanto le sue modalità, ovvero la connessione causale tra lo stato d’ebbrezza e la determinazione di un sinistro stradale, nulla di nuovo avendo sul punto aggiunto il verbalizzante» in sede di esame testimoniale. Questi elementi sarebbero emersi già dalla relazione di incidente stradale dell’Ufficio infortunistica della Polizia municipale presente nel fascicolo del pubblico ministero e dall’espressa indicazione dell’orario dell’incidente nel capo di imputazione.
Ciò premesso, il giudice a quo richiama l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui «risulta lesiva del diritto di difesa oltre che del principio di uguaglianza qualsiasi preclusione processuale che impedisce all’imputato l’accesso ai riti speciali a seguito di nuove contestazioni per fatto diverso o per reato concorrente laddove la contestazione concerna un fatto già risultante dagli atti di indagine preliminare al momento dell’esercizio dell’azione penale». La valutazione dell’imputato sulla convenienza di un rito speciale dipende, infatti, «dalla concreta impostazione data all’accusa, sì che ove questa sia affetta da errore sull’individuazione del fatto o del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, la sua variazione sostanziale deve consentire all’imputato il recupero di quelle facoltà di scelta definitoria del processo di cui è stato espropriato causa il decorso dei termini di proposizione della domanda».
Il caso di specie – prosegue il Tribunale rimettente – è connotato, rispetto alla nuova imputazione o al reato concorrente, cui si riferiscono le precedenti pronunce della Corte costituzionale (sentenze n. 333 del 2009, n. 530 del 1995 e n. 265 del 1994), «dall’inscindibilità ed unitarietà del fatto», quale risultato dell’originaria accusa e della nuova contestazione, che rende obbligata la contestazione tardiva da parte del pubblico ministero, «non essendo concepibile un separato ed autonomo giudizio futuro sulle sole circostanze aggravanti».
In tal modo, però, l’imputato è «privato del diritto di scegliere secondo convenienza il rito speciale dell’applicazione della pena che, secondo costante interpretazione, rappresenta una modalità di esercizio del suo diritto di difesa».
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., pertanto, sarebbe non manifestamente infondata con riferimento all’art. 24, secondo comma, Cost., perché contrasterebbe con il diritto di difesa «un sistema che osta alla restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena a fronte della contestazione tardiva, in qualche modo necessitata per il pubblico ministero, di circostanze aggravanti».
La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe una discriminazione dell’imputato «nell’accesso al rito speciale in ragione della maggiore o minore completezza ed esaustività dell’imputazione a fronte della diversa valutazione dei risultati delle indagini preliminari effettuata nel momento di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero».
La questione, infine, sarebbe rilevante nel giudizio a quo, perché, se si rimuovesse il limite temporale attualmente posto dagli artt. 556, comma 2, e 555, comma 2, cod. proc. pen., non vi sarebbero altri ostacoli all’accoglimento della richiesta di applicazione della pena formulata dall’imputato, con il consenso del pubblico ministero, «immediatamente dopo la scadenza del termine per adeguare la propria difesa alle nuove contestazioni elevate dal pubblico ministero in corso di dibattimento».
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 21 febbraio 2013 (r.o. n. 4 del 2014), il Tribunale ordinario di Roma, ottava sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale a seguito della contestazione in dibattimento da parte del pubblico ministero di una circostanza aggravante non risultante dall’imputazione quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti d’indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale».
Secondo il giudice rimettente, la norma in questione violerebbe l’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto contrasterebbe con il diritto di difesa «un sistema che osta alla restituzione in termini dell’imputato per la richiesta di applicazione della pena a fronte della contestazione tardiva», da parte del pubblico ministero, di circostanze aggravanti note già dalle indagini preliminari, la cui compiuta e doverosa enunciazione sin dalla formulazione dell’imputazione «avrebbe convinto l’imputato a rinunciare al dibattimento, cui è in seguito costretto, essendogli a tal punto impedita quella scelta del rito che è regola fondante del sistema processuale».
La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 3 Cost., perché nell’accesso al rito speciale l’imputato sarebbe discriminato «in ragione della maggiore o minore completezza ed esaustività dell’imputazione a fronte della diversa valutazione dei risultati delle indagini preliminari effettuata nel momento di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero».
2.– La questione è fondata.
2.1.– Il dubbio di legittimità costituzionale concerne la cosiddetta contestazione suppletiva «tardiva» di una circostanza aggravante.
Come questa Corte ha già rilevato (sentenze n. 237 del 2012 e n. 333 del 2009), la disciplina delle nuove contestazioni dibattimentali – tanto del fatto diverso (art. 516 cod. proc. pen.), che del reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. o delle circostanze aggravanti (art. 517 cod. proc. pen.: non rileva, ai presenti fini, la contestazione del fatto nuovo, prevista dall’art. 518 cod. proc. pen., che presuppone il consenso dell’imputato) – si presenta coerente, in linea di principio, con l’impostazione accusatoria del vigente codice di rito. In un sistema nel quale la prova si forma ordinariamente in dibattimento, la disciplina delle nuove contestazioni mira, infatti, a conferire un ragionevole grado di flessibilità all’imputazione, consentendone l’adattamento agli esiti dell’istruzione dibattimentale, quando alcuni profili di fatto risultino diversi o nuovi rispetto a quelli emersi dagli elementi acquisiti nel corso delle indagini e valutati dal pubblico ministero ai fini dell’esercizio dell’azione penale.
Secondo la formulazione degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., la diversità del fatto, il reato concorrente e le circostanze aggravanti debbono emergere «nel corso dell’istruzione dibattimentale», in connessione con la ricordata finalità dell’istituto. Risultano così evocati i soli mutamenti dell’imputazione imposti dall’evoluzione istruttoria, sì che l’istituto si caratterizza come speciale e derogatorio rispetto alle ordinarie cadenze processuali relative all’esercizio dell’azione penale e al suo controllo giudiziale.
Nonostante il dato letterale, la giurisprudenza di legittimità, con l’avallo delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 4 del 28 ottobre 1998), ritiene che le nuove contestazioni previste dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. possano essere basate anche sui soli elementi già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari.
Per effetto di questa lettura estensiva, l’istituto delle nuove contestazioni si connota «non più soltanto come uno strumento – come detto, speciale e derogatorio – di risposta ad una evenienza pur “fisiologica” al processo accusatorio (quale l’emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), ma anche come possibile correttivo rispetto ad una evenienza “patologica”: potendo essere utilizzato pure per porre rimedio, tramite una rivisitazione degli elementi acquisiti nelle indagini preliminari, ad eventuali incompletezze od errori commessi dall’organo dell’accusa nella formulazione dell’imputazione» (sentenza n. 333 del 2009).
A fronte di tale ragione giustificatrice, occorre, però, tenere conto delle contrapposte esigenze di salvaguardia del diritto di difesa.
In proposito, come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare, il codice di rito aveva specificamente previsto che, «di fronte alla nuova contestazione dibattimentale, l’imputato – salvo si trattasse della contestazione suppletiva della recidiva – avesse diritto ad un termine a difesa non inferiore al termine a comparire indicato dall’art. 429 cod. proc. pen. e potesse, in ogni caso, chiedere l’ammissione di nuove prove (art. 519 cod. proc. pen.). Tale ultima facoltà risultava, peraltro, soggetta ad una condizione – quella dell’“assoluta necessità”, insita nell’originario richiamo all’art. 507 cod. proc. pen. – che venne ritenuta da questa Corte irragionevole e lesiva del diritto di difesa, nella misura in cui, ponendo “limiti diversi e più penetranti di quelli vigenti in via generale per i nova”, non consentiva un recupero integrale dell’ordinario “diritto alla prova” (sentenza n. 241 del 1992)» (sentenza n. 237 del 2012).
Nella prospettiva del codice di procedura penale rimanevano, però, preclusi i riti alternativi a contenuto premiale (giudizio abbreviato e patteggiamento), riti che, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, costituiscono anch’essi «modalità, tra le più qualificanti (sentenza 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)» (sentenza n. 237 del 2012), tali da incidere, in senso limitativo, sull’entità della pena inflitta.
L’imputato, infatti, in seguito alle nuove contestazioni effettuate dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, poteva trovarsi a fronteggiare un’accusa rispetto alla quale sarebbe stato suo interesse chiedere i riti alternativi, ma tale opportunità gli era preclusa essendo ormai decorsi i termini per le relative richieste.
2.2.– Rispetto alle nuove contestazioni “fisiologiche”, a quelle cioè effettivamente determinate dalle acquisizioni dibattimentali, questa Corte, con una serie di pronunce emesse negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice, aveva escluso che la preclusione in discorso violasse gli artt. 3 e 24 Cost.: era stato, infatti, dato rilievo prevalente al principio di indissolubilità del binomio premialità-deflazione.
Esaminando la questione con riferimento ora al giudizio abbreviato, ora al patteggiamento, si era ritenuto che l’interesse dell’imputato a beneficiare dei vantaggi che discendono dai riti speciali ricevesse tutela «solo in quanto la sua condotta consenta l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il dibattimento», permetta di raggiungere «quell’obiettivo di rapida definizione del processo che il legislatore ha inteso perseguire con l’introduzione del giudizio abbreviato e più in generale dei riti speciali» (sentenze n. 593 del 1990; n. 129 del 1993 e n. 316 del 1992; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).
Inoltre la Corte aveva osservato che la modificazione dell’imputazione e la contestazione suppletiva costituiscono eventualità non infrequenti, in un sistema imperniato sulla formazione della prova in dibattimento, e non imprevedibili, sicché se ne doveva dedurre che il rischio della nuova contestazione dibattimentale rientrasse naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tali riti, «onde egli non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta» (sentenze n. 129 del 1993 e n. 316 del 1992; in prospettiva analoga, sentenza n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).
3.– Con la successiva sentenza n. 265 del 1994, la Corte, però, nel caso di contestazioni dibattimentali “tardive”, è pervenuta, proprio rispetto al patteggiamento, a una diversa conclusione, perché in questo caso non può parlarsi «di una libera assunzione del rischio del dibattimento da parte dell’imputato», le cui determinazioni in ordine ai riti speciali sono state sviate «da aspetti di “anomalia” caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero». Le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono infatti a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero: sicché, «quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali». Anche il principio di eguaglianza viene violato perché l’imputato è irragionevolmente discriminato rispetto alla possibilità di accesso ai riti alternativi, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero e delle correlative contestazioni.
Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha dichiarato, quindi, costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentivano all’imputato di richiedere il “patteggiamento” relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
La sentenza n. 265 del 1994 ha dichiarato, invece, inammissibile l’analoga questione di legittimità costituzionale relativa al giudizio abbreviato, reputando che, rispetto a tale rito, la scelta tra le varie alternative ipotizzabili per porre rimedio al vulnus costituzionale – pure riscontrabile – spettasse in via esclusiva al legislatore.
Successivamente la struttura del giudizio abbreviato è radicalmente cambiata per effetto della legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), e la Corte, con la sentenza n. 333 del 2009, venuti meno i precedenti ostacoli, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. anche nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso o al reato concorrente «contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale».
Questa ulteriore pronuncia additiva era risultata necessaria, oltre che per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., già rilevati dalla sentenza n. 265 del 1994, «anche per eliminare la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi di fronte ad una contestazione suppletiva “tardiva”, a seconda che si discuta di “patteggiamento” o di giudizio abbreviato» (sentenza n. 333 del 2009), differenza che, nel mutato panorama normativo, «si rivela[va] essa stessa fonte d’una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost.» (sentenza n. 237 del 2012).
4.– Prendendo spunto dalle affermazioni delle sentenze da ultimo citate, il Tribunale ordinario di Roma, come si è ricordato, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. nella parte in cui non consente il patteggiamento nel caso in cui il pubblico ministero abbia proceduto alla contestazione suppletiva “patologica” di una circostanza aggravante.
La questione può idealmente ricollegarsi alla sentenza n. 265 del 1994, ove però si avvertiva che la relativa dichiarazione di illegittimità costituzionale rimaneva «rigorosamente circoscritta alle specifiche situazioni dedotte dai giudici a quibus, che riguardano, come precisato, le contestazioni dibattimentali del fatto diverso e del reato concorrente (in quanto connesso ex art. 12, primo comma, lettera b, cod. proc. pen.)» e che, in particolare, era «ad essa estranea la diversa evenienza della contestazione delle circostanze aggravanti, non devoluta all’esame di questa Corte».
In realtà, però, la motivazione della sentenza può ugualmente riferirsi al caso di contestazione “tardiva” di una o più circostanze aggravanti, in quanto anche la trasformazione dell’originaria imputazione in un’ipotesi circostanziata (o pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del quadro processuale. Le circostanze in questione possono incidere sull’entità della sanzione, anche in modo rilevante, laddove il legislatore contempla la previsione di pene di specie diversa o di pene della stessa specie, ma con limiti edittali indipendenti da quelli stabiliti per il reato base, o, talvolta, sullo stesso regime di procedibilità del reato o, ancora, sull’applicabilità di alcune sanzioni sostitutive (come nel caso oggetto del giudizio a quo).
Né varrebbe osservare, in senso contrario, che l’aggravamento dell’originaria situazione sarebbe soltanto potenziale, giacché l’aumento della pena potrebbe essere annullato dallo stesso giudice facendo uso del potere di bilanciamento delle opposte circostanze, attribuitogli dall’art. 69 cod. pen. Questa obiezione presuppone, infatti, il verificarsi di due condizioni del tutto eventuali, vale a dire che il giudice ritenga sussistenti le condizioni per l’applicazione di almeno una circostanza attenuante e che la giudichi prevalente (la sola equivalenza sarebbe di pregiudizio per l’imputato, perché in conseguenza della contestazione dell’aggravante si vedrebbe privato degli effetti vantaggiosi dell’attenuante). È da aggiungere che il legislatore ha ampliato il catalogo delle circostanze aggravanti “privilegiate”, per le quali il giudizio di bilanciamento può essere impedito o limitato, in modo da escluderne la soccombenza nella comparazione con le attenuanti (sentenza n. 251 del 2012), e che alcune aggravanti possono incidere sulla procedibilità, anche a prescindere dal giudizio in questione.
Va poi sottolineato che l’imputato cui sia stata contestata, nel corso del dibattimento, una circostanza aggravante sulla base di elementi già acquisiti al momento dell’esercizio dell’azione penale, non si trova in una situazione diversa da chi analogamente si è sentito modificare l’imputazione con la contestazione di un fatto diverso, evenienza che in realtà potrebbe costituire per l’imputato anche un pregiudizio minore. Sotto questo aspetto, quindi, essendo divenuta ammissibile la richiesta di patteggiamento nel caso di modificazione dell’imputazione, a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., potrebbe dar luogo a una disparità di trattamento la sua esclusione nel caso della contestazione di una nuova circostanza aggravante, a norma dell’art. 517 cod. proc. pen.
In conclusione, poiché «le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero», non vi è dubbio che, in seguito al suo errore e al conseguente ritardo nella contestazione dell’aggravante, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, sì che «risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali» (sentenza n. 265 del 1994).
Del resto va considerato che «il patteggiamento è una forma di definizione pattizia del contenuto della sentenza che non richiede particolari procedure e che pertanto, proprio per tali sue caratteristiche, si presta ad essere adottata in qualsiasi fase del procedimento, compreso il dibattimento» (sentenza n. 265 del 1994; ordinanza n. 486 del 2002). L’adozione del rito speciale risulta comunque idonea a produrre un effetto, sia pure attenuato, di economia processuale.
Ugualmente deve ritenersi violato l’art. 3 Cost., venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero alla chiusura delle indagini stesse (sentenza n. 265 del 1994).
Va pertanto dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 25 giugno 2014.
Re: Le sentenze di cd. patteggiamento sono del tutto equipar
Circolare del M.D. - DGPM - del 12 luglio 2012 ad oggetto:
- Eventi suscettibili di avere riflessi sul servizio. Comunicazione ai sensi dell'art. 748 del D.P.R. n. 90/2010 (ex art. 52 R.D.M.)
N.B.: vedi anche elenco indirizzi di diramazione.
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