Per opportuna notizia.
Menomale che esiste questa Associazione che ha chiesto una cosa giusta.
AI.BI. - Associazione Amici dei Bambini Onlus
1) - Il ricorso riguarda l’accertamento, ai sensi degli artt. 1 e 3 del D.Lgs. n. 198 del 2009, dell'inadempimento del Ministero della Giustizia in relazione alla mancata emanazione, nei termini ex lege previsti, degli atti amministrativi necessari ad istituire la banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all'adozione prevista dall’art. 40, comma 1, della legge n. 149 del 2001 e dai decreti ministeriali n. 91 e n. 15025 del 2004 - class action.
Buona lettura a tutti, sperando di aver fatto cosa gradita.
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01/10/2012 201208231 Sentenza 1
N. 08231/2012 REG.PROV.COLL.
N. 00370/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 370 del 2012, proposto da:
AI.BI. - Associazione Amici dei Bambini Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Enrica Dato, dall’Avv. Daniela Frascella e dall’Avv. Cesare Milani, con domicilio eletto presso lo Studio dell’Avv. Ernesto Grandinetti sito in Roma, Via della Croce, 44;
contro
- il MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per ottenere
- l’accertamento, ai sensi degli artt. 1 e 3 del D.Lgs. n. 198 del 2009, dell'inadempimento del Ministero della Giustizia in relazione alla mancata emanazione, nei termini ex lege previsti, degli atti amministrativi necessari ad istituire la banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all'adozione prevista dall’art. 40, comma 1, della legge n. 149 del 2001 e dai decreti ministeriali n. 91 e n. 15025 del 2004 - class action;
- la condanna del Ministero della Giustizia a porre rimedio al proprio inadempimento entro un termine fissato, adottando gli atti idonei e necessari all’istituzione ed all’attivazione della banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all'adozione;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 luglio 2012 il Consigliere Elena Stanizzi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
FATTO
Espone in fatto l’associazione odierna ricorrente - premessi cenni in ordine alla propria natura, obiettivi statutari ed attività – di aver trasmesso al Ministero della Giustizia, in data 24 febbraio 2011, atto di diffida stragiudiziale ai sensi dell’art. 3 della legge n. 198 del 2009 al fine di ottenere l’adozione di tutti gli atti necessari per la creazione della banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all'adozione prevista dall’art. 40, comma 1, della legge n. 149 del 2001 e dai decreti ministeriali n. 91 e n. 15025 del 2004.
A tale diffida il Ministero della Giustizia ha dato riscontro con nota del 27 maggio 2011, rappresentando di aver posto in essere adempimenti prodromici alla creazione di detta banca dati di cui alcuni tuttora in fase di svolgimento.
Nel rappresentare parte ricorrente la mancata adozione del decreto dirigenziale che accerti l’installazione e l’idoneità dello strumento elettronico e del sistema di autorizzazione previsto dall’art. 38, comma 2, del decreto ministeriale n. 15025 del 2004, e quindi la perdurante violazione degli obblighi inerenti la creazione della banca dati dei minori adottabili, deduce a sostegno della proposta azione i seguenti motivi di diritto:
1- Sussistenza delle condizioni che rendono proponibile il ricorso.
Nel richiamare parte ricorrente le previsioni di cui alla legge n. 198 del 2009 in materia di azione per l’efficienza della Pubblica Amministrazione, afferma l’ammissibilità dell’azione a fronte della mancata adozione, da parte del Ministero della Giustizia, degli atti amministrativi obbligatori necessari a consentire l’istituzione e l’attivazione della banca dati di cui all’art. 40, comma 1, della legge n. 149 del 2001 nonostante il decorso di 90 giorni dalla diffida a provvedere allo stesso indirizzata.
Con riguardo alla legittimazione ad agire, parte ricorrente la riconduce alla propria natura di ente rappresentativo degli interessi dei minori adottabili e di quelli delle coppie disponibili all’adozione, evidenziando la lesione all’interesse alla formazione di una famiglia attraverso l’adozione derivante dalla mancata attivazione della banca dati in questione in ragione delle finalità cui la stessa risponde.
2 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 198 del 2009, dell’art. 40, comma 1, del D.Lgs. n. 149 del 2001 e dell’art. 38, comma 2, del decreto del Ministro della Giustizia n. 15025 del 2004, per non avere il Ministero della Giustizia provveduto all’emanazione degli atti amministrativi necessari ad istituire ed attivare la banca dati di cui all’art. 40 della legge n. 149 del 2001. Violazione dell’art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 198 del 2009 per mancata o quantomeno parziale eliminazione da parte del Ministero della Giustizia della situazione di inadempimento nonostante la diffida notificata dalla ricorrente. Arresto procedimentale, violazione dell’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo con riferimento all’art. 10 della Costituzione.
Illustra parte ricorrente le fonti normative che prevedono l’obbligo del Ministero della Giustizia di emanare gli atti necessari per la realizzazione della banca dati in questione, prevista dall’art. 40 della legge n. 149 del 2001, da istituire entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge medesima, precisando come con decreto ministeriale n. 91 del 2004 è stato adottato il regolamento recante le modalità attuative della banca dati, mentre con decreto ministeriale n. 15025 del 2004 sono state adottate le regole procedurali per l’attivazione della banca dati, prevedendo che la stessa sia preceduta da un decreto dirigenziale che ne accerti l’installazione e l’idoneità dello strumento e del sistema di autorizzazione unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione.
Nell’evidenziare come con il decreto ministeriale n. 91 del 2004 è stata prevista l’informatizzazione della gestione della banca dati in questione e come la relativa procedura debba essere completata con l’attivazione della fase di collaudo, evidenzia parte ricorrente come le finalità cui la banca dati deve rispondere avrebbero potuto essere realizzate, medio tempore, anche con altri mezzi e con canali già operanti.
Chiede, quindi, parte ricorrente l’accertamento, ai sensi degli artt. 1 e 3 del D.Lgs. n. 198 del 2009, dell'inadempimento del Ministero della Giustizia in relazione alla mancata emanazione, nei termini ex lege previsti, degli atti amministrativi necessari ad istituire la banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all'adozione prevista dall’art. 40, comma 1, della legge n. 149 del 2001 e dai decreti ministeriali n. 91 e n. 15025 del 2004, nonchè la condanna del Ministero della Giustizia a porre rimedio al proprio inadempimento entro un termine fissato, adottando gli atti idonei e necessari all’istituzione ed all’attivazione della banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all'adozione.
Si è costituita in resistenza l’intimata Amministrazione puntualmente rappresentando gli adempimenti posti in essere per la realizzazione della banca dati in questione e lo stato di avanzamento della relativa procedura, avanzando dubbi in ordine alla sussistenza della legittimazione ad agire in capo all’associazione ricorrente ed eccependo la mancanza di interesse ad agire della stessa, deducendo altresì l’infondatezza del ricorso con richiesta di corrispondente pronuncia.
Con memoria successivamente depositata parte ricorrente ha controdedotto a quanto ex adverso sostenuto ulteriormente argomentando.
Alla pubblica udienza del 4 luglio 2012 la causa è stata chiamata e trattenuta per la decisione, come da verbale.
DIRITTO
Con il ricorso in esame è azionato il rimedio introdotto dall’art. 1, comma 1, del D. Lgs. 20 dicembre 2009 n. 198, recante attuazione dell'articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ricorso per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici – c.d. ‘class action’.
In particolare, l’associazione odierna ricorrente, nella dichiarata qualità di ente rappresentativo degli interessi dei minori adottabili e di quelli delle coppie disponibili all’adozione, chiede l’accertamento, ai sensi degli artt. 1 e 3 del D.Lgs. n. 198 del 2009, dell'inadempimento del Ministero della Giustizia in relazione alla mancata emanazione, nei termini ex lege previsti, degli atti amministrativi necessari ad istituire la banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all'adozione prevista dall’art. 40, comma 1, della legge n. 149 del 2001 e dai decreti ministeriali n. 91 e n. 15025 del 2004, nonché la condanna di detto Dicastero a porre rimedio al proprio inadempimento entro un termine fissato, adottando gli atti idonei e necessari all’istituzione ed all’attivazione della banca dati in questione.
La delibazione in ordine alla domanda proposta transita, ai fini della verifica della sua ammissibilità ed eventuale fondatezza, attraverso la previa breve ricognizione della fisionomia dell’istituto e dei relativi presupposti.
In tale direzione, va ricordato che l’art. 1 del D.Lgs. n. 198 del 2009, nell’introdurre e disciplinare il ricorso per l'efficienza delle amministrazioni e dei concessionari di servizi pubblici, prevede che “Al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi, dalla violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento, dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse in conformità alle disposizioni in materia di performance contenute nel decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 del medesimo decreto e secondo le scadenze temporali definite dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150”.
La proponibilità dell’azione è, quindi, subordinata alla ricorrenza di tre distinti e tassativi comportamenti tipizzati, ovvero la violazione di termini o la mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento; la violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi; la violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti per i concessionari di servizi pubblici, dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e per le pubbliche amministrazioni coerentemente con le linee guida definite dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle amministrazioni pubbliche di cui all'articolo 13 del medesimo decreto e secondo le scadenze temporali definite dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150.
Trattasi di violazioni, suscettibili di ledere la situazione giuridica presa in considerazione dalla norma, riferibili a disfunzioni strutturali dell’apparato amministrativo, non limitate a singoli casi, alla cui eliminazione il rimedio è finalizzato.
La domanda all’esame del Collegio, in quanto volta a lamentare la lesione discendente dalla mancata emanazione degli atti necessari per l’attivazione della banca dati di cui all’art. 40, comma 1, della legge n. 149 del 2001 - il quale ne prevede l’istituzione entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge – va ricondotta alla prima delle indicate tipologie di violazioni cui è subordinata l’esperibilità del rimedio.
Avuto riguardo alla vigenza ed applicabilità delle disposizioni recate dall’art. 1 del D.Lgs. n. 198 del 2009 alla luce della previsione contenuta nella disposizione transitoria di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 198 del 2009 – la quale subordina la concreta attuazione del testo normativo alla definizione degli obblighi contenuti nella carte di servizi e gli standard qualitativi ed economici ad opera di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri - rileva il Collegio, in adesione all’orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto (TAR Lazio – Roma - Sez. III, 20 gennaio 2011, n. 552; Sez. II, 30 luglio 2012 n. 7028; T.A.R. Sicilia - Palermo - Sez. I - 4 aprile 2012, n. 707), da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi, che l’azione per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni non risulta in alcun modo subordinata all’adozione di atti attuativi, nella forma di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, nelle ipotesi in cui il legislatore abbia già delineato il comportamento esigibile da parte dell’Amministrazione, come avviene nei casi in cui venga lamentata – come nella fattispecie in esame - l’omissione o la tardiva emanazione di atti amministrativi generali obbligatori non aventi contenuto normativo, dovendosi la disposizione transitoria di cui all’art. 7 del D.Lgs. in esame intendersi riferita esclusivamente alle diverse ipotesi relative alla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ed alla violazione di standard qualitativi ed economici, per le quali la condotta lesiva necessita di una ulteriore disciplina normativa ai fini della concreta applicazione della tutela prevista.
Il rinvio della concreta attuazione delle previsioni recate dal D.Lgs. n. 198 del 2009 alla definizione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi e degli standard qualitativi ed economici ad opera di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, di cui alla norma transitoria contenuta nell'art. 7 del citato testo legislativo, non può dunque estendersi a quelle norme, da quest’ultimo introdotte, che individuano fattispecie completamente definite in ogni loro aspetto, ivi compresa l'esatta perimetrazione del comportamento lesivo, quale l'obbligo di "emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento".
In tale fattispecie è invero compiutamente predeterminata la posizione giuridica tutelata, che è correlata all'emanazione di un atto le cui caratteristiche sono declinate direttamente dal legislatore, è regolamentata l'azione in relazione a tutti i profili rilevanti, è disciplinato il conseguente processo.
Avuto riguardo alla legittimazione ad agire, che il citato comma 1 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 198 del 2009 attribuisce ai titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori – e quindi a soggetti singoli appartenenti a tale collettività - la stessa è altresì riconosciuta dal comma 4 del citato art. 1, ricorrendo i presupposti indicati da detto comma 1, anche alle associazioni o comitati per la tutela degli interessi dei propri associati, appartenenti a tale pluralità.
La class action per l’efficienza della pubblica amministrazione è, quindi, normativamente delineata quale strumento di tutela di interessi diffusi collettivi – dovendo le situazioni giuridiche rilevanti essere ‘plurali ed omogenee per una pluralità di utenti e consumatori’ ed essendo conseguentemente la situazioni giuridica protetta quella pluralistica – azionabile sia da parte del singolo soggetto, titolare dell’interesse indifferenziato relativo ad un bene della vita omogeneo per tutti gli appartenenti alla pluralità, che abbia subito una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi – così elevando gli interessi diffusi ad interessi individualmente azionabili - nonchè da parte di associazioni o enti rappresentativi di tali interessi.
Poste tali brevi premesse di ordine ricostruttivo, occorre procedere allo scrutinio di ammissibilità della proposta azione.
Con riferimento alla legittimazione ad agire – della cui sussistenza in capo all’associazione ricorrente la resistente Amministrazione dubita – osserva il Collegio che oggetto della tutela, nel caso di specie, sono gli interessi, facenti capo ad una peculiare categoria di soggetti, ovvero i minori adottabili e le coppie disponibili all’adozione, il cui interesse si assume leso dalla mancata realizzazione della banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all'adozione prevista dall’art. 40, comma 1, della legge n. 149 del 2001 e dai decreti ministeriali n. 91 e n. 15025 del 2004, per effetto della mancata adozione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre il termine di 180 giorni fissato dal citato articolo.
In applicazione del richiamato art. 1, commi 1 e 4, del D.Lgs. n. 198 del 2009 va affermata la legittimazione dell’associazione ricorrente alla proposizione del ricorso in esame, avendo la stessa dimostrato di perseguire statutariamente lo scopo di promuovere e garantire il diritto del minore ad avere una famiglia, svolgendo la propria attività nel campo delle adozioni nazionali ed internazionali
Dovendo la legittimazione delle associazioni alla proposizione dell’azione per l’efficienza delle pubbliche amministrazioni essere vagliata alla luce delle finalità statutarie dell’ente e verificata in concreto in relazione alla natura e alla tipologia dell’interesse leso, al fine di accertare se l’ente ricorrente sia statutariamente deputato alla tutela di quello specifico interesse “omogeneo per una pluralità di utenti e di consumatori”, può affermarsi che le associazioni possono proporre l’azione contemplata dal D.Lgs n. 198 del 2009 in quanto le stesse dimostrino di possedere sufficienti indici di rappresentatività degli interessi diffusi di una particolare categoria di utenti, trasformandosi gli interessi diffusi in interessi collettivi una volta “soggettivizzati” in capo all’ ente esponenziale che agisce a tutela di interessi omogenei del gruppo.
Alla luce delle illustrate coordinate, deve ritenersi sussistente la legittimazione ad agire in capo all’associazione ricorrente in quanto rappresentativa proprio dello specifico interesse asseritamente leso dal Ministero della Giustizia con la mancata attuazione della banca dati dei minori adottabili e dei coniugi disponibili all’adozione alla luce degli scopi e delle attività statutariamente stabiliti.
Positivamente delibata l’ammissibilità dell’azione e la legittimazione ad agire in capo all’associazione ricorrente, occorre scrutinare la sussistenza dell’ulteriore condizione dell’azione costituita dall’interesse al ricorso.
A mente dell'art. 1 comma 1 del D.Lgs. n. 198 del 2009 - riproduttivo delle regola processuale generale - la proposizione dell’azione è condizionata alla sussistenza di una “lesione diretta, concreta ed attuale”, derivante dalle ipotesi tipizzate di violazioni od omissioni dell’amministrazione.
Con tale previsione il legislatore - richiedendo che sia dimostrata la sussistenza di un interesse che, al di là della sua natura, abbia una sua concretezza e sia stato o sia suscettibile di essere leso dai comportamenti tassativamente enucleati - intende evidentemente stemperare la portata dell’ampliamento della legittimazione ad agire, al fine di evitare che l’azione in discorso trasmodi in un’azione popolare sino a diventare uno strumento di controllo oggettivo e generalizzato dell’operato della P.A. e quindi un modello alternativo alla funzione di controllo politico-amministrativo.
Se, dunque, non è sufficiente che il ricorrente si limiti a dedurre l’inefficienza in cui la pubblica amministrazione sia eventualmente incorsa, dovendo egli anche dedurre la lesione personale che abbia subito o che possa subire al proprio interesse, omogeneo a quello di una determinata classe di utenti o consumatori, deve ritenersi, con riferimento all’associazione ricorrente, la sussistenza di tale interesse in quanto connesso ai requisiti di adeguata rappresentatività che ne fondano la legittimazione ad agire.
Ritiene, infatti, il Collegio che qualora l’azione per l’efficienza di cui all’art. 1 del D.Lgs n. 198 del 2009 sia presentata da un ente a tutela di un interesse collettivo l’accertamento della lesività non possa che essere compiuto in astratto in relazione all’effettiva capacità di tutela degli interessi della categoria che si assume lesa dall’inefficienza amministrativa ed al nesso della violazione denunciata con le finalità statutarie perseguite dall’ente.
Se infatti in caso di azione per l’efficienza proposta da un singolo, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 198 del 2009, deve apprezzarsi quale sia l’interesse concreto al ricorso, essenzialmente al fine di verificare l’omogeneità dell’interesse del ricorrente rispetto a quello della classe che egli pretende di rappresentare, nel caso, invece, di una analoga azione proposta da un ente esponenziale è la stessa rappresentatività dell’ente associativo rispetto ad un particolare categoria di utenti o consumatori a consentire di verificare l’omogeneità dell’interesse dell’ente ricorrente rispetto a quello della classe che questo assume di rappresentare. Ed una tale verifica non può che passare attraverso la valutazione del grado di rappresentatività dell’ente e del suo fine statutario, che deve contemplare proprio la garanzia di quei particolari interessi che si intendono tutelare con il ricorso.
Ciò posto, non può che ulteriormente evidenziarsi il nesso tra la finalità perseguita dalla normativa recante l’istituzione della banca dati delle adozioni – ispirata al riconosciuto diritto del minore ad una famiglia e volta a favorire il miglior esito del procedimento di adozione attraverso una rete di informazione e di collegamento tra tutti i tribunali – e gli scopi statutari perseguiti dall’associazione ricorrente, volti a promuovere e garantire il diritto del minore ad avere una famiglia attraverso l’accoglienza familiare e l’istituto dell’adozione, cosicchè il raccordo tra le finalità della normativa di cui si assume la lesione attraverso la proposizione della class action e gli scopi statutari dell’associazione ricorrente integrano il presupposto dell’interesse ad agire come veicolato dalla lesione della situazione giuridica soggettiva pluralistica cui tale interesse inerisce e di cui viene chiesta la tutela.
Delibata l’ammissibilità dell’azione come proposta e riferita all’associazione ricorrente, occorre ulteriormente rilevare, in rito, che risultano osservati gli adempimenti preliminari previsti dal D.Lgs. n. 198 del 2009 ai fini della proponibilità del ricorso, avendo parte ricorrente preventivamente notificato, in ossequio a quanto previsto dall’art. 3 comma 1, del testo normativo in esame, al soggetto poi evocato in giudizio, una diffida ad adottare, entro il termine di novanta giorni, gli atti previsti dall’art. 40 della legge n. 149 del 2001 e dai decreti ministeriali n. 91 del 2004 e n. 15025 del 2004.
Parte ricorrente ha altresì illustrato le ragioni per le quali il riscontro fornito dall'Amministrazione non possa considerarsi sufficiente a rimuovere la situazione denunciata, deducendo la persistenza della allegata omessa adozione degli atti necessari alla realizzazione della banca dati in questione (cfr. art. 3, comma 2) ed ha proposto il ricorso entro il termine perentorio di un anno dalla scadenza del termine indicato nella diffida (art. 3, comma 2).
Avuto riguardo al merito del ricorso, il Collegio ne ritiene la fondatezza.
L’azione, come anticipato, va ricondotta all’ipotesi, tipizzata dall’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 198 del 2009, di omessa adozione di atti amministrativi generali obbligatori, di contenuto non normativo, da emanarsi entro il termine di 180 giorni dall’entrata in vigore della legge n. 149 del 2001, come previsto dall’art. 40 della stessa, che disciplina l’istituzione della banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all’adozione.
Prevede tale norma che “Per le finalità perseguite dalla presente legge è istituita, entro e non oltre centottanta giorni dalla data della sua entrata in vigore, anche con l'apporto dei dati forniti dalle singole regioni, presso il Ministero della giustizia, una banca dati relativa ai minori dichiarati adottabili, nonché ai coniugi aspiranti all'adozione nazionale e internazionale, con indicazione di ogni informazione atta a garantire il miglior esito del procedimento. I dati riguardano anche le persone singole disponibili all'adozione in relazione ai casi di cui all'articolo 44 della legge 4 maggio 1983, n. 184, come sostituito dall'articolo 25 della presente legge.”
Il quadro normativo di riferimento cui parametrare la violazione denunciata con la proposta azione si completa con la prevista adozione di una disciplina regolamentare – stabilendo il comma 3 dell’art. 40 in esame che “Con regolamento del Ministro della giustizia sono disciplinate le modalità di attuazione e di organizzazione della banca dati, anche per quanto attiene all'adozione dei dispositivi necessari per la sicurezza e la riservatezza dei dati” – che è stata dettata con D.M. 24 febbraio 2004, n. 91, recante modalità di attuazione e organizzazione della banca di dati relativa ai minori dichiarati adottabili – il quale stabilisce, all’art. 2, che la banca di dati è costituita presso il Dipartimento per la giustizia minorile e consente qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati – nonché con D.M. n. 15025 del 14 luglio 2004, con cui vengono stabilite le regole procedurali di carattere tecnico-operativo per la definizione di dettaglio della gestione della banca dati delle adozioni, prevedendosi in particolare, all’art. 38, che l'attivazione della banca dati “è preceduta da un decreto dirigenziale, emesso d'intesa dal Capo del Dipartimento per la giustizia minorile e dal Direttore generale per i sistemi informativi automatizzati, che accerta la installazione e la idoneità dello strumento elettronico e del sistema di autorizzazione, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione”.
L’illustrata normativa individua pertanto un preciso obbligo a carico dell’Amministrazione della Giustizia, ovvero la costituzione della banca dati dei minori dichiarati adottabili e delle coppie aspiranti all’adozione nazionale ed internazionale, ed un termine entro il quale la realizzazione di tale banca dati deve avvenire, ovvero 180 giorni dall’entrata in vigore della legge n. 149 del 28 marzo 2001.
Quanto alla natura degli atti di cui viene denunciata la mancata adozione, deve osservarsi che una volta adottati gli atti regolamentari previsti dall’art. 40 della citata legge, la procedura di realizzazione della banca dati, per come disciplinata a livello regolamentare, deve completarsi con l’adozione di un decreto dirigenziale che accerti la installazione e la idoneità dello strumento elettronico e del sistema di autorizzazione, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione.
Non vi è dubbio, quindi, che venga in rilievo un atto generale obbligatorio di natura non normativa, la cui mancata adozione consente di accedere alla tutela prevista dal D.Lgs. n. 198 del 2009, derivando la lesione della pluralità degli utenti, di cui si duole l'associazione, dalla "mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento" (art. 1, cit.).
Se il decreto dirigenziale previsto dal D.M. n. 15025 del 2004 va qualificato quale atto generale obbligatorio, la fattispecie astratta prevista dall’art. 1 del D.Lgs. n. 198 del 2009 si realizza per effetto della previsione del termine di 180 giorni stabilito dall’art. 40 della legge n. 149 del 2001, non potendo incidere sull’obbligo normativo di creazione della banca dati entro un termine fissato dalla legge, vanificandolo, la mancata previsione, da parte degli atti regolamentari, di un ulteriore termine entro il quale completare la procedura di creazione di una banca dati informatizzata con l’adozione del previsto decreto dirigenziale.
L’opzione di cui alla disciplina regolamentare – segnatamente, il D.M. n. 15025 del 2004 - per la realizzazione di una banca dati delle adozioni attraverso un sistema informativo ed i conseguenti appesantimenti procedurali, puntualmente evidenziati dall’Amministrazione resistente, non consentono invero di optare per l’inesistenza dell’inadempimento all’obbligo imposto da una norma di legge entro un preciso termine.
Al riguardo, aderendo alla prospettazione di parte ricorrente, che trova avallo nella disciplina di fonte primaria, deve osservarsi che la creazione di una banca dati delle adozioni non necessariamente avrebbe dovuto avvenire tramite sistema informatizzato, peraltro progettato come sottosistema autonomo del più ampio progetto di informatizzazione della giustizia minorile, potendo la creazione di un archivio generale strutturato su base nazionale trovare attuazione con sistemi diversi e alternativi di più rapida realizzazione, non potendosi sul punto convenire con quanto rappresentato dalla difesa erariale circa la non praticabilità di diverse modalità di scambio di informazioni tra i tribunali, ben potendo le evidenziate esigenze di riservatezza connesse ai dati sensibili coinvolti essere tutelate attraverso adeguate misure organizzative e di rappresentazione delle informazioni.
In ragione delle illustrate considerazioni, non conduce a conclusioni favorevoli alla tesi prospettata dalla difesa erariale la rappresentata considerazione che essendo il decreto dirigenziale l’unico residuale adempimento prodromico all’attivazione della banca dati, la cui emanazione implica il completamento dell’attività tecnica di realizzazione del sistema informativo, ormai prossimo alla definitiva realizzazione, dalla sua adozione non potrebbe derivare la concreta attivazione della banca dati laddove l’installazione dello strumento informatico non sia stata completata e non ne sia stata verificata l’idoneità e la funzionalità, dovendo al riguardo osservarsi che l’opzione dell’Amministrazione per la gestione informatica della banca dati facente parte del più ampio progetto di informatizzazione della giustizia minorile non può vanificare l’obbligo legislativamente imposto di realizzare la banca dati in questione entro un termine stabilito, ormai da lungo tempo decorso, dovendosi optare per una lettura sostanzialistica ed utile della norma che ne ha imposto la realizzazione della banca dati delle adozioni.
Il quadro normativo delinea, infatti, chiaramente il comportamento esigibile dall’Amministrazione, consistente nella realizzazione di una banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all’adozione entro un termine prefissato, incombendo conseguentemente sull’Amministrazione l’obbligo di adottare gli atti di carattere tecnico ed organizzativo finalizzati alla realizzazione della stessa.
Né all’adempimento di tale obbligo sono opponibili gli invocati limiti derivanti dalle risorse tecniche e finanziarie, dovendosi al riguardo rilevare come l’art. 40 della legge n. 149 del 2001 abbia espressamente stabilito che dalla creazione della banca dati in questione non dovessero derivare nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato, il che rende conseguentemente esigibile il comportamento entro il termine assegnato tenuto conto delle risorse assegnate, dovendo pertanto ritenersi positivamente accertata l’oggettiva inadempienza dell’Amministrazione per effetto della disfunzione attinente alla tempestività dell’azione rispetto ad un termine normativamente assegnato.
Il limite, di cui all’art. 1, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 198 del 2009 – ai sensi del quale “Nel giudizio di sussistenza della lesione di cui al comma 1 il giudice tiene conto delle risorse strumentali, finanziarie e umane concretamente a disposizione delle parti intimate” – il quale subordina l’accertamento di uno dei presupposti dell’azione, costituito dalla lesione diretta, concreta ed attuale di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, alla esigibilità del comportamento dovuto, che deve essere vagliato alla luce delle risorse strumentali, finanziarie, e umane concretamente a disposizione, introducendo una sorta di clausola rebus sic stantibus, riveste una connotazione particolare ed affievolita in relazione all'ipotesi specifica dell'omissione di atti obbligatori per legge, dal momento che la valutazione dell’esigibilità del comportamento risulta essere stata rimessa ed esercitata dal legislatore al momento dell’imposizione dell’obbligo previsto dalla legge, non potendo quindi il limite delle risorse avere specifico rilievo in caso di inerzia e di omissione di atti generali obbligatori da adottarsi entro un termine legislativamente stabilito.
La disposizione di cui al comma 1-bis dell’art. 1 del D.Lgs. n. 198 del 2009 non offre quindi alcun utile argomento per sostenere l’insussistenza dell’inerzia, la quale risulta integrata per effetto della mancata adozione degli atti necessari per la realizzazione della banca dati delle adozioni nel termine previsto dall’art. 40 della legge n. 149 del 2001.
Alla stregua delle considerazioni svolte, in accoglimento del ricorso, a fronte dell’accertato inadempimento all’obbligo di cui alla descritta normativa, che delinea in modo chiaro il comportamento esigibile dall’intimata Amministrazione ed il termine entro cui deve essere posto in essere, va dichiarato l’obbligo ricadente sulla stessa di adottare gli atti generali di carattere tecnico ed organizzativo finalizzati alla realizzazione della banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all’adozione, entro il termine che si ritiene congruo fissare in 90 (novanta) giorni dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza, all’uopo utilizzando le risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Le spese di giudizio, stante la peculiarità della vicenda processuale, possono equamente compensarsi tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
- Roma - Sezione Prima
definitivamente pronunciando sul ricorso N. 370/2012 R.G., come in epigrafe proposto, lo accoglie e, accertata la mancata realizzazione della banca dati dei minori adottabili e delle coppie disponibili all’adozione di cui all’art. 40 della legge n. 149 del 2001 nel termine ivi previsto e la mancata adozione degli atti necessari a tale fine, ordina al Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante pro tempore, di porre in essere gli adempimenti necessari alla realizzazione di tale banca dati, attraverso l'emanazione dei necessari atti, entro giorni 90 dalla comunicazione o notificazione della presente sentenza, all'uopo utilizzando le risorse strumentali, finanziarie ed umane già assegnate in via ordinaria e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 luglio 2012 con l'intervento dei magistrati:
Calogero Piscitello, Presidente
Roberto Politi, Consigliere
Elena Stanizzi, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 01/10/2012
Banca dati minori adottabili e coppie disponibili
Re: Banca dati minori adottabili e coppie disponibili
DECRETO LEGISLATIVO 26 marzo 2001, n. 151
Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternita' e della paternita', a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53.
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Capo XII
(Liberi professionisti)
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Art. 72
Adozioni e affidamenti
(legge 11 dicembre 1990, n. 379, art. 3)
(1. In caso di adozione o di affidamento, l'indennità di maternità di cui all'articolo 70 spetta, sulla base di idonea documentazione, per i periodi e secondo quanto previsto all'articolo 26.)
(2. La domanda deve essere presentata dalla madre al competente ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza in favore dei liberi professionisti entro il termine perentorio di centottanta giorni dall'ingresso del minore e deve essere corredata da idonee dichiarazioni, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestanti l'inesistenza del diritto a indennità di maternità per qualsiasi altro titolo e la data di effettivo ingresso del minore nella famiglia.)
3. Alla domanda di cui al comma 2 va allegata copia autentica del provvedimento di adozione o di affidamento.
(7) - (9)
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AGGIORNAMENTO (7)
La Corte Costituzionale con sentenza 17 - 23 dicembre 2003, n. 371 (in G.U. 1a s.s. 31/12/2003, n. 52) ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede che nel caso di adozione internazionale l'indennità di maternità spetta nei tre mesi successivi all'ingresso del minore adottato o affidato, anche se abbia superato i sei anni di età'".
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AGGIORNAMENTO (9)
La Corte costituzionale con sentenza 11 - 14 ottobre 2005, n. 385 (in G.U. 1a s.s. 19/10/2005, n. 42) ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l'indennità di maternità, attribuita solo a quest'ultima".
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adozione nazionale e indennità di maternità alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.
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SENTENZA N. 205
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI “
- Giorgio LATTANZI “
- Aldo CAROSI “
- Marta CARTABIA “
- Mario Rosario MORELLI “
- Giancarlo CORAGGIO “
- Giuliano AMATO “
- Silvana SCIARRA “
- Daria de PRETIS “
- Nicolò ZANON “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso dal Tribunale ordinario di Verbania nel procedimento vertente tra P.S.C. e la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza ragionieri e periti commerciali, con ordinanza del 30 giugno 2014, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di costituzione di P.S.C.;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
udito l’avvocato Lorenzo Bertaggia per P.S.C.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 30 giugno 2014, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2014, il Tribunale ordinario di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, solleva, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31, secondo comma, e 37, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, concede l’indennità di maternità alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Il giudice rimettente espone di dover valutare la legittimità del diniego che la giunta esecutiva della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, con provvedimento del 12 settembre 2013, confermato il 29 novembre 2013 dal consiglio di amministrazione della stessa Cassa di previdenza, ha opposto alla richiesta di P.S.C. di beneficiare dell’indennità di maternità.
Il giudice a quo, in particolare, è investito del ricorso proposto il 25 febbraio 2014 dalla professionista, che ha dedotto di essere iscritta dal 3 febbraio 2006 alla Cassa nazionale di previdenza e di avere presentato a quest’ultima, il 24 luglio 2013, una domanda volta a conseguire l’indennità di maternità.
A fondamento dell’istanza, la ricorrente ha prodotto il decreto del 15-18 maggio 2013, con cui il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta ha disposto in favore suo e del coniuge, a decorrere dal 28 febbraio 2013, l’affidamento preadottivo del minore D., nato il 14 luglio 2005.
La ricorrente denuncia l’illegittimità e il carattere discriminatorio del provvedimento di rigetto, incentrato sul rilievo che il minore avesse già compiuto il sesto anno di età «all’atto di ingresso nel nucleo familiare».
La Cassa nazionale di previdenza si è costituita nel giudizio principale, per eccepire preliminarmente la tardività della domanda amministrativa, presentata il 24 luglio 2013, allorché sarebbe già inutilmente trascorso il termine perentorio di centottanta giorni, che decorre dall’ingresso del minore nel nucleo familiare affidatario.
La parte resistente, inoltre, ha contestato la fondatezza della domanda, in quanto, dell’indennità in questione, la madre può beneficiare solo se il minore non abbia superato i sei anni di età.
A fronte di tali eccezioni preliminari, la ricorrente ha replicato che solo il decreto di affidamento preadottivo legittima a richiedere l’indennità di maternità e che, nella specie, tale decreto, pronunciato il 15 maggio 2013, sancisce la decorrenza dell’affidamento preadottivo dal 28 febbraio 2013.
Alla stregua di tali considerazioni, dunque, la domanda sarebbe tempestiva.
Il giudice rimettente assume che la normativa sull’indennità di maternità, nel prevedere il limite dei sei anni di età del bambino soltanto per la madre libera professionista che ricorra all’adozione nazionale, contravvenga al fondamentale canone di eguaglianza e al principio di tutela della maternità e dell’infanzia.
Quanto al primo profilo, il giudice a quo evidenzia che, soltanto per la madre libera professionista che scelga la via dell’adozione nazionale, permane quel limite dei sei anni di età del bambino, che il legislatore ha superato per i lavoratori dipendenti (legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ¬ legge finanziaria 2008») e la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo per la madre libera professionista, che opti per l’adozione internazionale (sentenza n. 371 del 2003).
Tale disparità di trattamento sarebbe priva di ogni ragion d’essere, anche alla luce della «notevole durata», che contraddistingue la procedura di adozione nazionale e implica di frequente, allorché interviene il decreto di affidamento preadottivo, il superamento del limite dei sei anni di età del bambino.
La normativa impugnata, inoltre, sarebbe disarmonica rispetto ai precetti costituzionali, che impongono di «supportare in modo effettivo le famiglie e soprattutto le donne, le quali si trovano a sostenere l’arduo compito di far coesistere il loro ruolo di lavoratrici con quello di madri e di conseguire l’interesse dei minori, i quali hanno diritto ad una crescita serena».
L’interesse dei minori – soggiunge il giudice rimettente – non è meno meritevole di tutela nella procedura di adozione nazionale, che registra, al pari della procedura di adozione internazionale, difficoltà e «problematiche sociali e psicologiche» anche quando il minore abbia superato i sei anni di età.
In punto di rilevanza, il giudice a quo argomenta che è proprio la disposizione censurata, dal tenore letterale insuperabile in via di interpretazione costituzionalmente compatibile, a precludere l’accoglimento della domanda.
2.– Nel giudizio è intervenuta P.S.C., chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Verbania.
La norma, ad avviso della parte intervenuta, riserverebbe un trattamento deteriore alle madri libere professioniste che scelgono le procedure dell’adozione nazionale, rispetto alle madri lavoratrici dipendenti e autonome, per un verso, e, per altro verso, rispetto alle madri libere professioniste che ricorrono all’adozione internazionale.
La norma, inoltre, violerebbe il diritto del minore a godere della presenza effettiva della madre, nel momento delicato dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare, e vanificherebbe quella finalità di tutela del minore, che il legislatore persegue con l’istituire tali provvidenze.
La parte intervenuta, quanto all’eccezione di tardività della domanda, ha ribadito che il termine di centottanta giorni decorre dallo stabile ingresso del minore nel nucleo familiare, avvenuto il 28 febbraio 2013, come attesta lo stesso decreto di affidamento preadottivo.
3.– In prossimità dell’udienza, la parte intervenuta ha depositato una memoria illustrativa, ripercorrendo le tappe salienti della legislazione, fino alle novità introdotte dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), inapplicabile ratione temporis alla vicenda controversa.
All’esito di tale analisi, la parte intervenuta ha posto nuovamente in risalto la mancanza di ogni apprezzabile ragione giustificatrice del diverso trattamento riservato alla madre libera professionista in caso di adozione nazionale, rispetto all’ipotesi di adozione internazionale, e delle differenze che ancora intercorrono, per l’ipotesi di adozione nazionale, tra il trattamento della madre libera professionista e quello della madre lavoratrice dipendente o della madre lavoratrice autonoma iscritta alla gestione separata presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, sospetta di illegittimità costituzionale l’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53).
La norma censurata, per l’ipotesi di adozione nazionale, accorda l’indennità di maternità alla libera professionista, a condizione che il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Con riguardo a tale limite di età, il giudice rimettente prospetta, in primo luogo, la violazione del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) e lamenta l’irragionevole disparità di trattamento della madre libera professionista, che proceda all’adozione nazionale, rispetto alla madre libera professionista, che scelga la via dell’adozione internazionale, e alla madre lavoratrice dipendente, che abbia dato impulso alla procedura di adozione nazionale.
Solo la madre libera professionista, che decida di adottare un bambino di nazionalità italiana e rivendichi l’indennità di maternità, è assoggettata al limite dei sei anni di età del bambino.
Una tale singolarità sarebbe priva di ogni ragione giustificatrice, anche in considerazione della «notevole durata» della procedura di adozione nazionale, non meno laboriosa e problematica dell’adozione internazionale.
Non è infrequente, difatti, che il decreto di affidamento preadottivo, indispensabile per accedere al beneficio, sopraggiunga quando il bambino ha già compiuto i sei anni di età.
La disciplina impugnata, per altro verso, confliggerebbe con i princípi di tutela della maternità e dell’infanzia (art. 31, secondo comma, Cost.) e di speciale adeguata protezione, assicurata dalla Carta fondamentale alla donna lavoratrice e al bambino (art. 37, primo comma, Cost.).
La limitazione normativa sarebbe lesiva dei diritti della donna lavoratrice, chiamata a conciliare il ruolo di madre con il ruolo di lavoratrice, e del diritto del minore a una «crescita serena», che non è meno bisognoso di protezione nell’ipotesi di adozione nazionale e di superamento del sesto anno di età.
2.– La questione è fondata.
3.– Sul presente giudizio non incidono le novità introdotte dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Come si evince dalla relazione illustrativa che accompagna il decreto, la normativa si prefigge di armonizzare la disciplina dell’indennità di maternità e di recepire le indicazioni della giurisprudenza di questa Corte, anche con riferimento al limite di età del bambino adottato.
In tale quadro si inscrive l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015, che, con previsione di carattere generale, svincola l’erogazione dell’indennità dal requisito del mancato superamento dei sei anni di età del bambino.
Per effetto della norma transitoria dell’art. 28, tale disciplina si applica soltanto a partire dal 25 giugno 2015, giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
Le novità normative, che non dispiegano alcuna influenza sul giudizio in corso, non alterano, pertanto, i termini della questione e non richiedono che il giudice rimettente rinnovi la valutazione di rilevanza che ha compiuto, con motivazione articolata e convincente, anche con riguardo alle questioni preliminari sulla tempestività della domanda.
4.– La soluzione del dubbio di costituzionalità non può prescindere dall’inquadramento delle finalità dell’istituto, crocevia di molteplici valori costituzionalmente rilevanti (artt. 31, secondo comma, e 37, primo comma, Cost.).
Nell’indennità di maternità, all’originaria funzione di tutela della donna, scolpita nella stessa denominazione del beneficio, si affianca una finalità di tutela dell’interesse del minore, che l’opera del legislatore e dell’interprete ha enucleato in maniera sempre più nitida.
È proprio tale finalità che ispira, sul versante legislativo, la progressiva estensione del trattamento di maternità anche alle ipotesi di affidamento e adozione.
Tale estensione, dapprima circoscritta alle madri lavoratrici dipendenti (art. 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, in tema di «Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro»), ha coinvolto successivamente le madri lavoratrici autonome (art. 2, comma 2, della legge 29 dicembre 1987, n. 546, che racchiude la disciplina della «Indennità di maternità per le lavoratrici autonome») e le madri libere professioniste (art. 3, comma 1, della legge 11 dicembre 1990, n. 379, avente ad oggetto la «Indennità di maternità per le libere professioniste»).
La tutela del preminente interesse del minore traspare anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha contribuito a definirne i multiformi contenuti (da ultimo, sentenza n. 257 del 2012, in merito alla modulazione temporale del trattamento di maternità delle lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, recante «Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare», che abbiano adottato o avuto in affidamento preadottivo un minore).
In questa prospettiva, l’interesse del minore, che trascende le implicazioni meramente biologiche del rapporto con la madre, reclama una tutela efficace di tutte le esigenze connesse a un compiuto e armonico sviluppo della personalità.
Nel caso di affidamento e di adozione, tali esigenze si atteggiano come necessità di assistenza nella delicata fase dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare.
Proprio per questa nuova pienezza di significato, che trae ispirazione e coerenza dai precetti costituzionali, l’interesse del minore non può patire discriminazioni arbitrarie, legate al dato accidentale ed estrinseco della tipologia del rapporto di lavoro facente capo alla madre o delle particolarità del rapporto di filiazione che si instaura.
Inquadrato in tali coordinate, il beneficio dell’indennità di maternità costituisce attuazione del dettato costituzionale, che esige per la madre e per il bambino «una speciale adeguata protezione» (art. 37, primo comma, Cost.).
È questa stessa formulazione letterale, non priva di enfasi, che illumina di significati il principio enunciato dalla Costituzione.
La specialità e l’adeguatezza della protezione non sono aspetti irrelati ed eterogenei, che possano essere disgiunti l’uno dall’altro.
L’assenza di congiunzioni tra i due aggettivi “speciale” e “adeguata” dimostra che si tratta di profili inscindibili, che si compenetrano e si rafforzano a vicenda.
L’adeguatezza della tutela non può che essere valutata al banco di prova della specificità della posizione di chi dovrà beneficiarne.
Inoltre, nell’affermare l’esigenza di una tutela incisiva, la Carta fondamentale associa la madre e il bambino e sceglie di collocarli in un orizzonte comune.
Anche il punto di vista della tutela, pertanto, non può che rispecchiare e rispettare l’unicità della relazione esistenziale che lega la madre al bambino.
L’indennità di maternità è emblematica dell’indissolubile intreccio d’interessi della madre e del minore, che presuppongono, anche secondo il dettato costituzionale, una considerazione unitaria.
5.– La normativa censurata si discosta dai princípi costituzionali richiamati.
Nel negare l’indennità di maternità soltanto alle madri libere professioniste che adottino un minore di nazionalità italiana, quando il minore abbia già compiuto i sei anni di età, la disciplina si pone in insanabile contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di tutela della maternità e dell’infanzia, declinato anche come tutela della donna lavoratrice e del bambino.
Quanto al primo profilo, la normativa impugnata è foriera di una discriminazione arbitraria a danno della libera professionista che adotti un minore di nazionalità italiana.
Soltanto per tale fattispecie la disciplina in esame continua a subordinare il godimento dell’indennità a un limite (i sei anni di età del minore), che è stato già superato dal legislatore per le madri lavoratrici dipendenti (art. 2, comma 452, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato — legge finanziaria 2008» in tema di congedo di maternità) e da questa Corte, con la sentenza n. 371 del 2003, per le madri libere professioniste che privilegino l’adozione internazionale.
La singolarità del trattamento riservato alla libera professionista che opti per l’adozione nazionale è carente di ogni giustificazione razionale, idonea a dar conto del permanere, soltanto per questa fattispecie, di un limite rimosso per tutte le altre ipotesi.
Nel corso di questo giudizio, che non ha visto intervenire il Presidente del Consiglio dei ministri, non sono state addotte giustificazioni a sostegno di tale trattamento difforme e non è senza significato che, all’incongruenza segnalata, il legislatore abbia successivamente posto rimedio, con l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015.
Non vi è ragione di condizionare al limite dei sei anni di età del figlio l’erogazione del beneficio soltanto alle madri che adottino un minore di nazionalità italiana. Ciò rende il contrasto con il principio di eguaglianza ancora più stridente, poiché, determinando diversificazioni sprovviste di una precisa ragion d’essere, si pregiudica a un tempo l’interesse della madre e del minore e la funzione stessa dell’indennità di maternità, da riconoscersi senza distinzioni tra categorie di madri lavoratrici e tra figli.
Vi è inoltre da considerare che la posizione della madre e del minore di nazionalità italiana non risulta meno meritevole di tutela per il solo fatto che il minore abbia superato i sei anni di età, nel momento in cui il decreto di affidamento preadottivo interviene a formalizzarne l’ingresso nel nucleo familiare.
L’inserimento del minore nella nuova famiglia non è meno arduo e bisognoso di «una speciale adeguata protezione» se il minore è di nazionalità italiana e per il dato contingente, e legato a fattori imponderabili, che il minore abbia superato i sei anni di età.
Nel limitare la concessione di un beneficio, che tutela il preminente interesse del minore, la norma censurata si traduce, in ultima analisi, in una discriminazione pregiudizievole non solo per la madre libera professionista che imbocchi la strada dell’adozione nazionale, ma anche e soprattutto per il minore di nazionalità italiana, coinvolto in una procedura di adozione.
Da tali considerazioni discende l’illegittimità costituzionale della norma, per violazione di tutti i parametri evocati dal giudice rimettente.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella versione antecedente alle novità introdotte dall’art. 20 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, prevede che l’indennità di maternità spetti alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2015.
Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternita' e della paternita', a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53.
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Capo XII
(Liberi professionisti)
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Art. 72
Adozioni e affidamenti
(legge 11 dicembre 1990, n. 379, art. 3)
(1. In caso di adozione o di affidamento, l'indennità di maternità di cui all'articolo 70 spetta, sulla base di idonea documentazione, per i periodi e secondo quanto previsto all'articolo 26.)
(2. La domanda deve essere presentata dalla madre al competente ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza in favore dei liberi professionisti entro il termine perentorio di centottanta giorni dall'ingresso del minore e deve essere corredata da idonee dichiarazioni, ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, attestanti l'inesistenza del diritto a indennità di maternità per qualsiasi altro titolo e la data di effettivo ingresso del minore nella famiglia.)
3. Alla domanda di cui al comma 2 va allegata copia autentica del provvedimento di adozione o di affidamento.
(7) - (9)
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AGGIORNAMENTO (7)
La Corte Costituzionale con sentenza 17 - 23 dicembre 2003, n. 371 (in G.U. 1a s.s. 31/12/2003, n. 52) ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevede che nel caso di adozione internazionale l'indennità di maternità spetta nei tre mesi successivi all'ingresso del minore adottato o affidato, anche se abbia superato i sei anni di età'".
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AGGIORNAMENTO (9)
La Corte costituzionale con sentenza 11 - 14 ottobre 2005, n. 385 (in G.U. 1a s.s. 19/10/2005, n. 42) ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale degli artt. 70 e 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non prevedono il principio che al padre spetti di percepire in alternativa alla madre l'indennità di maternità, attribuita solo a quest'ultima".
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adozione nazionale e indennità di maternità alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.
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SENTENZA N. 205
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI “
- Giorgio LATTANZI “
- Aldo CAROSI “
- Marta CARTABIA “
- Mario Rosario MORELLI “
- Giancarlo CORAGGIO “
- Giuliano AMATO “
- Silvana SCIARRA “
- Daria de PRETIS “
- Nicolò ZANON “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso dal Tribunale ordinario di Verbania nel procedimento vertente tra P.S.C. e la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza ragionieri e periti commerciali, con ordinanza del 30 giugno 2014, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di costituzione di P.S.C.;
udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
udito l’avvocato Lorenzo Bertaggia per P.S.C.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 30 giugno 2014, iscritta al n. 183 del registro ordinanze 2014, il Tribunale ordinario di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, solleva, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31, secondo comma, e 37, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, concede l’indennità di maternità alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Il giudice rimettente espone di dover valutare la legittimità del diniego che la giunta esecutiva della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, con provvedimento del 12 settembre 2013, confermato il 29 novembre 2013 dal consiglio di amministrazione della stessa Cassa di previdenza, ha opposto alla richiesta di P.S.C. di beneficiare dell’indennità di maternità.
Il giudice a quo, in particolare, è investito del ricorso proposto il 25 febbraio 2014 dalla professionista, che ha dedotto di essere iscritta dal 3 febbraio 2006 alla Cassa nazionale di previdenza e di avere presentato a quest’ultima, il 24 luglio 2013, una domanda volta a conseguire l’indennità di maternità.
A fondamento dell’istanza, la ricorrente ha prodotto il decreto del 15-18 maggio 2013, con cui il Tribunale per i minorenni del Piemonte e della Valle d’Aosta ha disposto in favore suo e del coniuge, a decorrere dal 28 febbraio 2013, l’affidamento preadottivo del minore D., nato il 14 luglio 2005.
La ricorrente denuncia l’illegittimità e il carattere discriminatorio del provvedimento di rigetto, incentrato sul rilievo che il minore avesse già compiuto il sesto anno di età «all’atto di ingresso nel nucleo familiare».
La Cassa nazionale di previdenza si è costituita nel giudizio principale, per eccepire preliminarmente la tardività della domanda amministrativa, presentata il 24 luglio 2013, allorché sarebbe già inutilmente trascorso il termine perentorio di centottanta giorni, che decorre dall’ingresso del minore nel nucleo familiare affidatario.
La parte resistente, inoltre, ha contestato la fondatezza della domanda, in quanto, dell’indennità in questione, la madre può beneficiare solo se il minore non abbia superato i sei anni di età.
A fronte di tali eccezioni preliminari, la ricorrente ha replicato che solo il decreto di affidamento preadottivo legittima a richiedere l’indennità di maternità e che, nella specie, tale decreto, pronunciato il 15 maggio 2013, sancisce la decorrenza dell’affidamento preadottivo dal 28 febbraio 2013.
Alla stregua di tali considerazioni, dunque, la domanda sarebbe tempestiva.
Il giudice rimettente assume che la normativa sull’indennità di maternità, nel prevedere il limite dei sei anni di età del bambino soltanto per la madre libera professionista che ricorra all’adozione nazionale, contravvenga al fondamentale canone di eguaglianza e al principio di tutela della maternità e dell’infanzia.
Quanto al primo profilo, il giudice a quo evidenzia che, soltanto per la madre libera professionista che scelga la via dell’adozione nazionale, permane quel limite dei sei anni di età del bambino, che il legislatore ha superato per i lavoratori dipendenti (legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato ¬ legge finanziaria 2008») e la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo per la madre libera professionista, che opti per l’adozione internazionale (sentenza n. 371 del 2003).
Tale disparità di trattamento sarebbe priva di ogni ragion d’essere, anche alla luce della «notevole durata», che contraddistingue la procedura di adozione nazionale e implica di frequente, allorché interviene il decreto di affidamento preadottivo, il superamento del limite dei sei anni di età del bambino.
La normativa impugnata, inoltre, sarebbe disarmonica rispetto ai precetti costituzionali, che impongono di «supportare in modo effettivo le famiglie e soprattutto le donne, le quali si trovano a sostenere l’arduo compito di far coesistere il loro ruolo di lavoratrici con quello di madri e di conseguire l’interesse dei minori, i quali hanno diritto ad una crescita serena».
L’interesse dei minori – soggiunge il giudice rimettente – non è meno meritevole di tutela nella procedura di adozione nazionale, che registra, al pari della procedura di adozione internazionale, difficoltà e «problematiche sociali e psicologiche» anche quando il minore abbia superato i sei anni di età.
In punto di rilevanza, il giudice a quo argomenta che è proprio la disposizione censurata, dal tenore letterale insuperabile in via di interpretazione costituzionalmente compatibile, a precludere l’accoglimento della domanda.
2.– Nel giudizio è intervenuta P.S.C., chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Verbania.
La norma, ad avviso della parte intervenuta, riserverebbe un trattamento deteriore alle madri libere professioniste che scelgono le procedure dell’adozione nazionale, rispetto alle madri lavoratrici dipendenti e autonome, per un verso, e, per altro verso, rispetto alle madri libere professioniste che ricorrono all’adozione internazionale.
La norma, inoltre, violerebbe il diritto del minore a godere della presenza effettiva della madre, nel momento delicato dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare, e vanificherebbe quella finalità di tutela del minore, che il legislatore persegue con l’istituire tali provvidenze.
La parte intervenuta, quanto all’eccezione di tardività della domanda, ha ribadito che il termine di centottanta giorni decorre dallo stabile ingresso del minore nel nucleo familiare, avvenuto il 28 febbraio 2013, come attesta lo stesso decreto di affidamento preadottivo.
3.– In prossimità dell’udienza, la parte intervenuta ha depositato una memoria illustrativa, ripercorrendo le tappe salienti della legislazione, fino alle novità introdotte dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), inapplicabile ratione temporis alla vicenda controversa.
All’esito di tale analisi, la parte intervenuta ha posto nuovamente in risalto la mancanza di ogni apprezzabile ragione giustificatrice del diverso trattamento riservato alla madre libera professionista in caso di adozione nazionale, rispetto all’ipotesi di adozione internazionale, e delle differenze che ancora intercorrono, per l’ipotesi di adozione nazionale, tra il trattamento della madre libera professionista e quello della madre lavoratrice dipendente o della madre lavoratrice autonoma iscritta alla gestione separata presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Verbania, in funzione di giudice del lavoro, sospetta di illegittimità costituzionale l’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53).
La norma censurata, per l’ipotesi di adozione nazionale, accorda l’indennità di maternità alla libera professionista, a condizione che il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Con riguardo a tale limite di età, il giudice rimettente prospetta, in primo luogo, la violazione del principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.) e lamenta l’irragionevole disparità di trattamento della madre libera professionista, che proceda all’adozione nazionale, rispetto alla madre libera professionista, che scelga la via dell’adozione internazionale, e alla madre lavoratrice dipendente, che abbia dato impulso alla procedura di adozione nazionale.
Solo la madre libera professionista, che decida di adottare un bambino di nazionalità italiana e rivendichi l’indennità di maternità, è assoggettata al limite dei sei anni di età del bambino.
Una tale singolarità sarebbe priva di ogni ragione giustificatrice, anche in considerazione della «notevole durata» della procedura di adozione nazionale, non meno laboriosa e problematica dell’adozione internazionale.
Non è infrequente, difatti, che il decreto di affidamento preadottivo, indispensabile per accedere al beneficio, sopraggiunga quando il bambino ha già compiuto i sei anni di età.
La disciplina impugnata, per altro verso, confliggerebbe con i princípi di tutela della maternità e dell’infanzia (art. 31, secondo comma, Cost.) e di speciale adeguata protezione, assicurata dalla Carta fondamentale alla donna lavoratrice e al bambino (art. 37, primo comma, Cost.).
La limitazione normativa sarebbe lesiva dei diritti della donna lavoratrice, chiamata a conciliare il ruolo di madre con il ruolo di lavoratrice, e del diritto del minore a una «crescita serena», che non è meno bisognoso di protezione nell’ipotesi di adozione nazionale e di superamento del sesto anno di età.
2.– La questione è fondata.
3.– Sul presente giudizio non incidono le novità introdotte dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Come si evince dalla relazione illustrativa che accompagna il decreto, la normativa si prefigge di armonizzare la disciplina dell’indennità di maternità e di recepire le indicazioni della giurisprudenza di questa Corte, anche con riferimento al limite di età del bambino adottato.
In tale quadro si inscrive l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015, che, con previsione di carattere generale, svincola l’erogazione dell’indennità dal requisito del mancato superamento dei sei anni di età del bambino.
Per effetto della norma transitoria dell’art. 28, tale disciplina si applica soltanto a partire dal 25 giugno 2015, giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.
Le novità normative, che non dispiegano alcuna influenza sul giudizio in corso, non alterano, pertanto, i termini della questione e non richiedono che il giudice rimettente rinnovi la valutazione di rilevanza che ha compiuto, con motivazione articolata e convincente, anche con riguardo alle questioni preliminari sulla tempestività della domanda.
4.– La soluzione del dubbio di costituzionalità non può prescindere dall’inquadramento delle finalità dell’istituto, crocevia di molteplici valori costituzionalmente rilevanti (artt. 31, secondo comma, e 37, primo comma, Cost.).
Nell’indennità di maternità, all’originaria funzione di tutela della donna, scolpita nella stessa denominazione del beneficio, si affianca una finalità di tutela dell’interesse del minore, che l’opera del legislatore e dell’interprete ha enucleato in maniera sempre più nitida.
È proprio tale finalità che ispira, sul versante legislativo, la progressiva estensione del trattamento di maternità anche alle ipotesi di affidamento e adozione.
Tale estensione, dapprima circoscritta alle madri lavoratrici dipendenti (art. 6 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, in tema di «Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro»), ha coinvolto successivamente le madri lavoratrici autonome (art. 2, comma 2, della legge 29 dicembre 1987, n. 546, che racchiude la disciplina della «Indennità di maternità per le lavoratrici autonome») e le madri libere professioniste (art. 3, comma 1, della legge 11 dicembre 1990, n. 379, avente ad oggetto la «Indennità di maternità per le libere professioniste»).
La tutela del preminente interesse del minore traspare anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha contribuito a definirne i multiformi contenuti (da ultimo, sentenza n. 257 del 2012, in merito alla modulazione temporale del trattamento di maternità delle lavoratrici iscritte alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, recante «Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare», che abbiano adottato o avuto in affidamento preadottivo un minore).
In questa prospettiva, l’interesse del minore, che trascende le implicazioni meramente biologiche del rapporto con la madre, reclama una tutela efficace di tutte le esigenze connesse a un compiuto e armonico sviluppo della personalità.
Nel caso di affidamento e di adozione, tali esigenze si atteggiano come necessità di assistenza nella delicata fase dell’inserimento in un nuovo nucleo familiare.
Proprio per questa nuova pienezza di significato, che trae ispirazione e coerenza dai precetti costituzionali, l’interesse del minore non può patire discriminazioni arbitrarie, legate al dato accidentale ed estrinseco della tipologia del rapporto di lavoro facente capo alla madre o delle particolarità del rapporto di filiazione che si instaura.
Inquadrato in tali coordinate, il beneficio dell’indennità di maternità costituisce attuazione del dettato costituzionale, che esige per la madre e per il bambino «una speciale adeguata protezione» (art. 37, primo comma, Cost.).
È questa stessa formulazione letterale, non priva di enfasi, che illumina di significati il principio enunciato dalla Costituzione.
La specialità e l’adeguatezza della protezione non sono aspetti irrelati ed eterogenei, che possano essere disgiunti l’uno dall’altro.
L’assenza di congiunzioni tra i due aggettivi “speciale” e “adeguata” dimostra che si tratta di profili inscindibili, che si compenetrano e si rafforzano a vicenda.
L’adeguatezza della tutela non può che essere valutata al banco di prova della specificità della posizione di chi dovrà beneficiarne.
Inoltre, nell’affermare l’esigenza di una tutela incisiva, la Carta fondamentale associa la madre e il bambino e sceglie di collocarli in un orizzonte comune.
Anche il punto di vista della tutela, pertanto, non può che rispecchiare e rispettare l’unicità della relazione esistenziale che lega la madre al bambino.
L’indennità di maternità è emblematica dell’indissolubile intreccio d’interessi della madre e del minore, che presuppongono, anche secondo il dettato costituzionale, una considerazione unitaria.
5.– La normativa censurata si discosta dai princípi costituzionali richiamati.
Nel negare l’indennità di maternità soltanto alle madri libere professioniste che adottino un minore di nazionalità italiana, quando il minore abbia già compiuto i sei anni di età, la disciplina si pone in insanabile contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio di tutela della maternità e dell’infanzia, declinato anche come tutela della donna lavoratrice e del bambino.
Quanto al primo profilo, la normativa impugnata è foriera di una discriminazione arbitraria a danno della libera professionista che adotti un minore di nazionalità italiana.
Soltanto per tale fattispecie la disciplina in esame continua a subordinare il godimento dell’indennità a un limite (i sei anni di età del minore), che è stato già superato dal legislatore per le madri lavoratrici dipendenti (art. 2, comma 452, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato — legge finanziaria 2008» in tema di congedo di maternità) e da questa Corte, con la sentenza n. 371 del 2003, per le madri libere professioniste che privilegino l’adozione internazionale.
La singolarità del trattamento riservato alla libera professionista che opti per l’adozione nazionale è carente di ogni giustificazione razionale, idonea a dar conto del permanere, soltanto per questa fattispecie, di un limite rimosso per tutte le altre ipotesi.
Nel corso di questo giudizio, che non ha visto intervenire il Presidente del Consiglio dei ministri, non sono state addotte giustificazioni a sostegno di tale trattamento difforme e non è senza significato che, all’incongruenza segnalata, il legislatore abbia successivamente posto rimedio, con l’art. 20 del d.lgs. n. 80 del 2015.
Non vi è ragione di condizionare al limite dei sei anni di età del figlio l’erogazione del beneficio soltanto alle madri che adottino un minore di nazionalità italiana. Ciò rende il contrasto con il principio di eguaglianza ancora più stridente, poiché, determinando diversificazioni sprovviste di una precisa ragion d’essere, si pregiudica a un tempo l’interesse della madre e del minore e la funzione stessa dell’indennità di maternità, da riconoscersi senza distinzioni tra categorie di madri lavoratrici e tra figli.
Vi è inoltre da considerare che la posizione della madre e del minore di nazionalità italiana non risulta meno meritevole di tutela per il solo fatto che il minore abbia superato i sei anni di età, nel momento in cui il decreto di affidamento preadottivo interviene a formalizzarne l’ingresso nel nucleo familiare.
L’inserimento del minore nella nuova famiglia non è meno arduo e bisognoso di «una speciale adeguata protezione» se il minore è di nazionalità italiana e per il dato contingente, e legato a fattori imponderabili, che il minore abbia superato i sei anni di età.
Nel limitare la concessione di un beneficio, che tutela il preminente interesse del minore, la norma censurata si traduce, in ultima analisi, in una discriminazione pregiudizievole non solo per la madre libera professionista che imbocchi la strada dell’adozione nazionale, ma anche e soprattutto per il minore di nazionalità italiana, coinvolto in una procedura di adozione.
Da tali considerazioni discende l’illegittimità costituzionale della norma, per violazione di tutti i parametri evocati dal giudice rimettente.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella versione antecedente alle novità introdotte dall’art. 20 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 (Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183), nella parte in cui, per il caso di adozione nazionale, prevede che l’indennità di maternità spetti alla madre libera professionista solo se il bambino non abbia superato i sei anni di età.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 ottobre 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 ottobre 2015.
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