ha chiesto di poter ricevere dai propri familiari libri e riviste a stampa tramite corrispondenza o pacco postale, ovvero mediante consegna in occasione dei colloqui nell’istituto penitenziario, previa disapplicazione della circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 3701/2014 dell’11 febbraio 2014, che ripristina le disposizioni preclusive già contenute nella precedente circolare n. 8845/2011 del 16 novembre 2011.
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SENTENZA N. 122
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, nel procedimento di sorveglianza a carico di E. C., con ordinanza del 29 aprile 2016, iscritta al n. 108 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 febbraio 2017 il Giudice relatore Franco Modugno.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata il 29 aprile 2016, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) (d’ora in avanti: ord. pen.), nella parte in cui – secondo il “diritto vivente” – «consente all’amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa».
1.1.– Il giudice a quo premette di essere investito del reclamo con il quale una persona detenuta presso la casa circondariale di Terni, sottoposta a regime differenziato ai sensi dell’art. 41-bis ord. pen., ha chiesto di poter ricevere dai propri familiari libri e riviste a stampa tramite corrispondenza o pacco postale, ovvero mediante consegna in occasione dei colloqui nell’istituto penitenziario, previa disapplicazione della circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 3701/2014 dell’11 febbraio 2014, che ripristina le disposizioni preclusive già contenute nella precedente circolare n. 8845/2011 del 16 novembre 2011.
Il rimettente rileva che detta circolare ministeriale del 2011 ha previsto una serie di limitazioni in ordine alla fruizione della stampa da parte dei detenuti in regime differenziato, giustificate con le esigenze di prevenzione che sono alla base di tale regime. La circolare stabilisce, in particolare, che siano rimossi dalle biblioteche degli istituti penitenziari i libri «contenenti tecniche di comunicazione criptate»; che l’acquisto di qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) possa essere effettuato dai detenuti esclusivamente nell’ambito dell’istituto penitenziario, anche per quanto riguarda gli abbonamenti, i quali debbono essere sottoscritti dalla direzione o dall’impresa di mantenimento onde evitare che terze persone vengano a conoscenza dell’istituto di assegnazione del detenuto; che sia vietata la ricezione di libri e riviste provenienti dai familiari, anche tramite pacco consegnato in sede di colloquio o spedito per posta, come pure la trasmissione del predetto materiale all’esterno da parte del detenuto; che sia impedito, altresì, l’accumulo di un numero eccessivo di libri nelle camere di detenzione, anche al fine di agevolare le operazioni di perquisizione ordinaria; che sia evitato, infine, lo scambio di libri e riviste tra detenuti appartenenti a diversi «gruppi di socialità».
Il giudice a quo riferisce, altresì, di aver accolto, con ordinanza del 18 dicembre 2012, un precedente reclamo dell’odierno ricorrente avverso i divieti in questione, disapplicando la circolare ministeriale in quanto contrastante con l’art. 15 Cost. e ritenendo, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 41-bis e 18-ter ord. pen., che spettasse alla sola autorità giudiziaria disporre limitazioni e l’eventuale visto di controllo sui libri e sulle riviste spedite al detenuto o da questi trasmesse ai familiari.
Successivamente, peraltro, la Corte di cassazione si era espressa nell’opposto senso della legittimità delle descritte restrizioni: ragione per la quale l’11 febbraio 2014 il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva emanato una nuova circolare, che ribadiva le disposizioni della circolare già disapplicata dal rimettente.
Adeguandosi alle indicazioni ministeriali, la direzione della casa circondariale di Terni aveva quindi ripristinato le limitazioni anche nei confronti del detenuto istante, che a propria volta le ha fatte oggetto di nuovo reclamo ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), ord. pen., ritenendole foriere di un grave pregiudizio all’esercizio dei propri diritti di corrispondere e di informarsi, entrambi costituzionalmente tutelati e ampiamente riconosciuti dall’ordinamento penitenziario.
1.2.– Ciò premesso, il giudice a quo osserva come, in ordine alla questione sulla quale è chiamato a pronunciarsi, la giurisprudenza di legittimità abbia adottato una soluzione ermeneutica che, in ragione della sua uniformità, sarebbe ormai assorta a “diritto vivente”.
La Corte di cassazione ha, infatti, annullato in plurime occasioni i provvedimenti dei magistrati di sorveglianza che avevano disapplicato la circolare ministeriale del 2011, ritenendo che le relative disposizioni rappresentino coerente esplicazione di un potere conferito all’amministrazione penitenziaria dall’art. 41-bis ord. pen. Dette disposizioni – secondo il giudice di legittimità – non comprimerebbero eccessivamente il diritto allo studio e all’informazione del detenuto, il quale può sempre ottenere le pubblicazioni mediante l’istituto penitenziario, soffrendo soltanto una maggiore difficoltà nella loro acquisizione; maggiore difficoltà ampiamente giustificata, tuttavia, dal dato di esperienza per cui libri, giornali e stampa in genere sono molto spesso usati dai detenuti in regime differenziato per comunicare illecitamente con l’esterno.
Si è pervenuti, quindi, al più recente arresto espresso dalla sentenza 29 settembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1774. In essa, la prima sezione penale della Corte di cassazione ha rilevato come in questo campo occorra confrontarsi con due distinte disposizioni: da un lato, quella dell’art. 18-ter ord. pen., in forza della quale le limitazioni e i controlli della corrispondenza e della stampa in arrivo ai detenuti e in partenza da essi debbono essere disposti dall’autorità giudiziaria; dall’altro, quella dell’art. 41-bis ord. pen., che consente al Ministro della giustizia di sospendere l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza nei confronti dei detenuti e degli internati per taluni delitti, in relazione ai quali vi siano elementi tali far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva.
Secondo la citata pronuncia, la limitazione e la sottoposizione a controllo della corrispondenza debbono essere disposte, anche in caso di applicazione del regime differenziato, nelle forme dell’art. 18-ter ord. pen., con la conseguenza che la decisione sul trattenimento o meno dell’epistola spetta esclusivamente all’autorità giudiziaria, e non a quella amministrativa. La ricezione della stampa non sarebbe, tuttavia, qualificabile come «“corrispondenza” in senso stretto», concetto riferibile alle sole comunicazioni interpersonali tra mittente e destinatario, particolarmente tutelate in quanto strumento per il mantenimento di un nucleo di relazioni e di vita affettiva da considerare intangibile anche a fronte delle forme più intense di restrizione della libertà personale. Nella specie, si discuterebbe invece della trasmissione di pubblicazioni che contengono espressioni di pensiero di terze persone destinate alla generalità dei lettori, rispetto alle quali verrebbe in rilievo una diversa facoltà del detenuto, quella di informarsi e di istruirsi.
È ben vero – ha aggiunto la Cassazione – che l’art. 18-ter ord. pen. concerne anche le limitazioni alla ricezione della stampa, ma ciò non escluderebbe la legittimità di ulteriori forme di limitazione che derivino dalla sottoposizione del detenuto al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., il quale assumerebbe, in tale ambito, un «carattere di specialità derogante». Il comma 2-quater di detto articolo consente, infatti, tra l’altro, di adottare misure idonee a prevenire contatti del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza (lettera a) e di limitare gli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno (lettera c): termine – quello di «oggetti» – atto a ricomprendere anche libri, riviste e giornali. Le regole introdotte dalla circolare ministeriale, d’altra parte, non sopprimerebbero affatto il diritto del detenuto ad informarsi e a studiare, ma si limiterebbero a sottoporre a più rigoroso controllo la provenienza dei libri e delle stampe, così da impedire al detenuto «di effettuare scambi sospetti con familiari […] che potrebbero contenere messaggi criptici, non facilmente individuabili dal personale addetto al controllo».
Il giudice a quo segnala, ancora, come il «richiamato autorevole insegnamento» della giurisprudenza di legittimità sia stato recepito dai giudici di merito, e in particolare dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, che, sulla sua base, ha annullato ulteriori provvedimenti di disapplicazione delle disposizioni ministeriali, emessi dal giudice rimettente dopo l’adozione della circolare del 2014 a seguito dei reclami di altri detenuti che, come l’odierno ricorrente, si erano viste ripristinate le limitazioni in parola.
Sulla materia si sarebbe, in conclusione, formato un «definito orientamento giurisprudenziale», non superabile tramite una interpretazione difforme, benché costituzionalmente orientata.
1.3.– Su tale premessa, il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), ord. pen., nella parte in cui – alla stregua del “diritto vivente” – consente all’amministrazione penitenziaria di vietare al detenuto in regime differenziato di ricevere dall’esterno, e in particolare dai propri familiari, o di inviare loro, libri e riviste mediante l’ordinaria corrispondenza o con pacchi postali separati.
Ad avviso del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto, anzitutto, con l’art. 15 Cost., che prevede una riserva, non solo di legge, ma anche di giurisdizione per la limitazione della libertà e della segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione.
Alla luce dell’espressa motivazione della circolare ministeriale e della stessa interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità, il divieto di ricevere e di inviare libri e riviste è stabilito, non per il contenuto delle pubblicazioni destinato ad un pubblico indifferenziato, ma in ragione della possibilità che esse costituiscano veicolo di comunicazioni illecite: essenzialmente, di quelle stesse comunicazioni – costituite da ordini e informazioni sull’attività del sodalizio criminoso di appartenenza o di attuale riferimento del detenuto – che si intendono impedire ai detenuti in regime differenziato tramite le limitazioni e il visto di censura sulla corrispondenza previsti dall’art. 18-ter ord. pen.
Non sarebbe inibito, dunque, il possesso del libro o della rivista come tali – tanto è vero che il detenuto è ammesso ad acquistare le medesime pubblicazioni tramite l’istituto penitenziario – quanto piuttosto un «flusso comunicativo» tra il detenuto e terze persone, in particolare i familiari. Mediante un libro si può, infatti, far conoscere uno stato d’animo, trasmettere un messaggio di vicinanza, sollevare il detenuto dalle spese di acquisto del volume manifestandogli il sostegno familiare, così come è possibile interpolare nel testo a stampa frasi affettuose o di riflessione, ovvero anche messaggi criptici o addirittura apertamente diretti a trasmettere ordini e informazioni.
Si sarebbe, pertanto, di fronte ad una limitazione della libertà di corrispondenza che, in forza dell’art. 15 Cost., necessita del vaglio dell’autorità giudiziaria, già chiamata, in forza dell’art. 18-ter ord. pen., a distinguere i messaggi che non determinino alcun pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico, e che pertanto costituiscono soltanto esplicazione del diritto a corrispondere liberamente, e messaggi che implichino invece detto pericolo e che devono essere perciò trattenuti, affinché non giungano al destinatario. L’intervento dell’autorità giudiziaria permetterebbe, tra l’altro, di scegliere caso per caso tra un ampio ventaglio di soluzioni – dal divieto di ricezione alla mera sottoposizione al visto di censura – consentendo, così, un più congruo contemperamento delle esigenze di sicurezza con l’esercizio dei diritti costituzionalmente tutelati.
1.4.– La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 21 Cost., che, nel riconoscere in tutta la sua ampiezza il diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutela anche – secondo la giurisprudenza costituzionale – il diritto di informare e di essere informati.
L’accesso ai libri, alle riviste e ai quotidiani costituirebbe, in effetti, «profonda espressione» del diritto ad essere informati, posto che nelle pubblicazioni a stampa i temi verrebbero selezionati ed elaborati con una ampiezza e un approfondimento incomparabilmente maggiori di quelli tipici dei mezzi di informazione radiotelevisivi. Proprio per questo motivo, l’ordinamento penitenziario riconosce al detenuto il diritto di accedere alla biblioteca dell’istituto e la libertà di scegliere e di detenere le letture preferite (artt. 18, sesto comma, e 19, quinto comma, ord. pen.), stabilendo che persino nei confronti dei detenuti che si siano resi responsabili di condotte negative legittimanti il regime di sorveglianza particolare, non possano in ogni caso disporsi limitazioni al possesso, alla ricezione e all’acquisto di oggetti permessi dal regolamento interno (tra i quali certamente i libri e le riviste), nonché – espressamente – alla lettura di libri e periodici (art. 14-quater ord. pen.).
Il diritto dei detenuti ad essere tenuti al corrente dei più importanti avvenimenti del mondo esterno, tramite la lettura di quotidiani, riviste e altre pubblicazioni, è riconosciuto anche da fonti sovranazionali, quali la risoluzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 30 agosto 1955, recante «Regole minime per il trattamento dei detenuti», e la raccomandazione R(2006)2 sulle «Regole penitenziarie europee», adottata l’11 gennaio 2006 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
Lo strumento per un corretto bilanciamento tra il diritto dei detenuti di essere informati e le esigenze investigative e di prevenzione dei reati, ovvero di ordine e sicurezza dell’istituto penitenziario, sarebbe novamente offerto dall’art. 18-ter ord. pen., che consente all’autorità giudiziaria – e non, dunque, all’amministrazione penitenziaria – di disporre nei confronti di singoli detenuti o internati, per periodi determinati ed eventualmente prorogabili, limitazioni di vario tipo, modulabili in rapporto alle caratteristiche delle situazioni concrete.
I divieti in materia di ricezione della stampa che, secondo il “diritto vivente”, l’amministrazione penitenziaria potrebbe imporre sulla base dell’art. 41-bis ord. pen. determinerebbero, per converso, una compressione del diritto del detenuto ad essere informato alla quale non corrisponde – in contrasto con quanto richiesto dalla giurisprudenza costituzionale ai fini della legittimità delle limitazioni ai diritti fondamentali (sono citate le sentenze n. 143 e n. 135 del 2013) – alcun apprezzabile incremento della tutela di interessi contrapposti di pari rango, legati, nella specie, ad esigenze di contrasto della criminalità organizzata.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, non si potrebbe, infatti, ritenere che la circolare ministeriale si limiti a regolare le modalità di accesso alla stampa, senza incidere sul diritto del detenuto ad informarsi, potendo quest’ultimo sempre acquistare libri, riviste e quotidiani tramite la direzione dell’istituto penitenziario. Una simile affermazione non terrebbe conto della realtà della vita carceraria, dalla quale emergerebbe un quadro di ostacoli tale da pregiudicare il concreto esercizio del diritto in questione.
Quotidiani, riviste e libri potrebbero essere trasmessi, infatti, al detenuto, specie dai familiari, in tempi assai più adeguati alle esigenze di informazione rispetto a quelli richiesti per l’acquisizione a mezzo della direzione dell’istituto, la quale acquisizione comporterebbe inevitabilmente consistenti attese per i necessari «passaggi autorizzativi» e per il reperimento dei testi. Il detenuto verrebbe privato, altresì, della possibilità di acquistare libri usati, con conseguente maggior dispendio, il quale potrebbe risultare di notevole entità, ad esempio, in rapporto ai testi giuridici, «particolarmente necessari a detenuti dalle impegnative posizioni giuridiche». Occorrerebbe tener conto, poi, dei limiti di spesa mensile ai quali sono sottoposti i detenuti in regime speciale, onde evitare che i più abbienti possano manifestare la loro «rilevanza criminale» tramite acquisti lussuosi: con la conseguenza che il detenuto potrebbe trovarsi, di fatto, nell’alternativa tra la spesa per i libri e quella per il sopravvitto alimentare o per i prodotti per l’igiene personale non forniti gratuitamente dall’amministrazione penitenziaria.
Alle evidenziate limitazioni non farebbe, d’altra parte, riscontro un significativo incremento della tutela delle esigenze di sicurezza. Il divieto generalizzato di ingresso della stampa proveniente dall’esterno non offrirebbe, infatti, garanzie di raggiungimento dell’obiettivo maggiori di quelle correlate al visto di controllo disposto ai sensi dell’art. 18-ter ord. pen., con eventuale trattenimento degli stampati che si rivelino essere, in concreto, veicolo di comunicazioni illecite tra i sodali liberi e il detenuto. L’argomento basato sul possibile errore nella verifica della stampa da parte degli addetti alla censura risulterebbe, in effetti, troppo debole nella cornice di un bilanciamento tra valori costituzionali: l’errore, d’altronde, è sempre possibile in sede di esame della corrispondenza, anche perché le lettere non hanno limiti dimensionali e la loro analisi impone spesso di confrontarsi con la scarsa intelligibilità della grafia dello scrivente.
1.5.– La norma censurata si porrebbe in contrasto, ancora, con gli artt. 33 e 34 Cost., che assicurano il diritto allo studio e disegnano una scuola aperta a tutti e in grado di consentire a coloro che sono privi di mezzi di raggiungere i gradi più alti degli studi, trovando in ciò puntuale riscontro nello stesso ordinamento penitenziario, che eleva l’istruzione ad elemento essenziale del trattamento (artt. 15 e 19 ord. pen.).
I tempi lunghi richiesti per l’acquisto dei testi mediante l’amministrazione penitenziaria, l’ingente esborso a tal fine necessario – stante l’impossibilità di fruire di libri usati o fuori stampa o di dispense fotocopiate – e gli evidenziati limiti di spesa connessi al regime differenziato finirebbero, infatti, per pregiudicare non soltanto la possibilità di seguire corsi scolastici o universitari, ma anche lo studio finalizzato al semplice approfondimento di determinate tematiche, quali quelle giuridiche (come nel caso del reclamante).
Anche in questo caso, si sarebbe di fronte ad una limitazione incongrua e non proporzionata, perché priva di riscontro in un incremento di tutela dell’interesse di pari rango alla recisione dei legami del detenuto con l’organizzazione criminale esterna.
1.6.– L’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), ord. pen. violerebbe, da ultimo, anche l’art. 117, primo comma, Cost., ponendosi in contrasto con gli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: CEDU).
Come posto in evidenza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la detenzione, anche se correlata a reati di particolare gravità, non sopprime il diritto del detenuto al mantenimento di relazioni esterne e della vita affettiva, non potendo consistere, ai sensi dell’art. 3 della CEDU, in trattamenti inumani e degradanti: l’isolamento sociale correlato allo stato detentivo può essere, quindi, soltanto relativo, e non di tipo assoluto.
Con particolare riguardo al regime differenziato previsto dall’art. 41-bis ord. pen., la Corte di Strasburgo – pur ritenendo giustificato il regime stesso dalle speciali esigenze di sicurezza che sono alla sua base – ha però stigmatizzato il contrasto tra singole disposizioni e il diritto al mantenimento delle relazioni affettive: il che è avvenuto più volte proprio in rapporto alla disciplina della corrispondenza (sono citate le sentenze 26 luglio 2001, Di Giovine contro Italia; 9 gennaio 2001, Natoli contro Italia; 21 dicembre 2000, Rinzivillo contro Italia; 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia; 21 ottobre 1996, Calogero Diana contro Italia).
In tali occasioni, la Corte europea ha ricordato che l’art. 8 della CEDU assicura ad ogni persona il «diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza», consentendo ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto solo se previste dalla legge e costituenti misure necessarie, in una società democratica, «alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».
La Corte di Strasburgo ha rilevato, altresì, come le restrizioni imposte ai detenuti in regime speciale, se pure previste dalla legge, debbono comunque sia fondarsi su un impellente bisogno sociale e risultare proporzionate all’obiettivo perseguito (è citata la sentenza 28 settembre 2000, Messina contro Italia). In questa prospettiva, si è ritenuta non conforme all’art. 8 della CEDU la precedente disciplina del controllo sulla corrispondenza dei detenuti, che prevedeva bensì l’intervento dell’autorità giudiziaria, ma con provvedimento motivato genericamente sulle esigenze di sicurezza e privo di limiti temporali. Proprio a fronte di tali pronunce, il legislatore nazionale ha quindi introdotto l’art. 18-ter ord. pen., che prevede un obbligo specifico di motivazione e un limite temporale stringente, salva la possibilità di proroghe, in ogni caso autonomamente motivate.
Ad avviso del giudice a quo, un contrasto analogo si profilerebbe con riguardo al divieto di ricevere pubblicazioni dall’esterno. Anche qualora non si accedesse alla tesi per cui la trasmissione di libri e di stampati integri una forma di comunicazione presidiata dall’art. 15 Cost., essa ricadrebbe egualmente nel campo applicativo dell’art. 8 della CEDU, quale «residua epifania della […] vita privata e familiare» del detenuto sottoposto al gravoso regime previsto dall’art. 41-bis ord. pen.
Occorrerebbe, infatti, considerare che il detenuto in regime differenziato subisce una drastica limitazione dei colloqui personali con i familiari (uno solo al mese, della durata di un’ora e con vetro divisorio a tutta altezza, che impedisce ogni contatto fisico tra i congiunti) e delle telefonate con essi (una al mese della durata di dieci minuti, soltanto per i detenuti che non effettuano colloqui). I rari contatti visivi e telefonici sono, d’altro canto, sempre presidiati dall’ascolto e dalla registrazione audiovisiva. La stessa corrispondenza epistolare è soggetta a visto di controllo e può essere trattenuta in presenza dei presupposti di cui all’art. 18-ter ord. pen.
In questo contesto, la possibilità di ricevere libri e stampa da persone che si interessino del detenuto all’esterno, e segnatamente dai propri familiari, rappresenterebbe «un lacerto di socialità peculiarmente prezioso». Se, per chicchessia, il rapporto fisico con un libro che sia stato letto o anche solo acquistato da un congiunto rappresenta un valore, per un detenuto già tanto deprivato di ogni rapporto fisico con i propri familiari, sia pure per giuste ragioni di prevenzione del pericolo di passaggio di ordini o informazioni relativi a gruppi criminali, ciò acquisterebbe un significato del tutto particolare. Né meno «drammatico» risulterebbe il divieto di inviare ai propri familiari quei libri e quelle riviste che l’interessato abbia tenuto presso di sé e che, in assenza di ogni possibilità di raggiungere i congiunti all’esterno, «lo vicariano in modo certamente incompleto ma ancora fisicamente tangibile».
Il divieto generale imposto nei confronti di tutti i detenuti in regime differenziato sulla base della norma denunciata – peraltro senza limiti temporali e senza specifica motivazione, nonché senza la possibilità di impugnazioni – comprimerebbe, dunque, il diritto alla vita privata e familiare in modo sproporzionato rispetto all’obiettivo del regime stesso: obiettivo che sarebbe invece raggiungibile, in modo adeguato e flessibile, tramite l’ordinario provvedimento adottato ai sensi dell’art. 18-ter ord. pen. nei confronti del singolo detenuto.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.
Ad avviso della difesa dell’interveniente, le questioni sarebbero inammissibili, in quanto sollevate dal giudice a quo con l’evidente intento di aggirare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità contrario alla disapplicazione della circolare ministeriale.
Nel merito, le questioni risulterebbero, comunque sia, infondate.
Lo scopo principale del regime speciale di detenzione previsto dall’art. 41-bis ord. pen. consiste, in effetti, nell’impedire i collegamenti del detenuto che vi è sottoposto con il sodalizio criminoso di appartenenza. Le restrizioni rivolte a tale scopo sono previste dall’ordinamento penitenziario e sono specificate, in base alle esigenze del caso, nel provvedimento del Ministro della giustizia che dispone il regime stesso nei confronti del singolo detenuto. Residuerebbe, peraltro, in capo all’amministrazione penitenziaria un potere regolamentare riguardo alla concreta applicazione delle restrizioni, il quale non dovrebbe comportare, in ogni caso, una inutile compressione dei diritti costituzionalmente garantiti del detenuto.
Nella specie, la circolare ministeriale che ha originato le censure del rimettente avrebbe puntualmente indicato le ragioni per le quali le limitazioni di cui si discute sono state introdotte: si era, infatti, rilevato che, utilizzando tecniche di linguaggio criptico, i detenuti in regime speciale si erano avvalsi dei libri per ricevere dall’esterno e far pervenire all’esterno messaggi, non facilmente individuabili dal personale addetto al controllo anche in ragione del numero di pagine da controllare e dell’ignoranza del codice di decrittazione.
Le regole in discorso non pregiudicherebbero, peraltro, in alcun modo il diritto del detenuto di informarsi o di studiare, ma si limiterebbero a disciplinare le modalità di acquisizione dei libri e degli stampati, sottoponendo a rigoroso controllo la loro provenienza. Esse risulterebbero, pertanto, applicative della norma di legge istitutiva del regime speciale ed in linea con le finalità di tale regime.
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FINE PRIMA PARTE
Limitazioni per i detenuti
Re: Limitazioni per i detenuti
INIZIO SECONDA PARTE.
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Considerato in diritto
1.– Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) (d’ora in avanti: ord. pen.), nella parte in cui – secondo il “diritto vivente” – «consente all’amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa».
Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 15 della Costituzione, che prevede una riserva di legge e di giurisdizione ai fini della limitazione della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. Il divieto in questione si giustifica, infatti, non per il contenuto dei testi a stampa destinato ad un pubblico indifferenziato, ma alla luce della possibilità che libri e riviste costituiscano veicolo di comunicazioni illecite tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza. Di conseguenza, la restrizione considerata non potrebbe prescindere dal vaglio dell’autorità giudiziaria, secondo quanto previsto dall’art. 18-ter ord. pen. ai fini della limitazione e del controllo della corrispondenza.
La norma censurata violerebbe, altresì, gli artt. 21, 33 e 34 Cost., giacché il divieto di ricevere pubblicazioni dall’esterno, creando maggiori difficoltà nella loro acquisizione, comprimerebbe i diritti del detenuto all’informazione e allo studio, senza che a tale compressione faccia riscontro un apprezzabile incremento della tutela delle contrapposte esigenze di ordine e sicurezza, le quali risulterebbero già adeguatamente salvaguardate dal più flessibile meccanismo delineato dal citato art. 18-ter ord. pen.
Sarebbe violato, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: CEDU), che rispettivamente vietano i trattamenti inumani o degradanti e garantiscono ad ogni persona il diritto al rispetto alla propria vita privata e familiare e alla corrispondenza. La possibilità di ricevere libri e riviste dall’esterno, e segnatamente dai propri familiari, e di trasmetterli ad essi, rappresenterebbe, infatti, per il detenuto sottoposto al gravoso regime restrittivo previsto dall’art. 41-bis ord. pen., uno strumento di mantenimento delle relazioni sociali e della vita affettiva particolarmente prezioso, la cui negazione risulterebbe, per le ragioni dianzi indicate, sproporzionata rispetto all’obiettivo del regime stesso.
2.– Le questioni sottoposte all’esame di questa Corte attengono alle modalità con le quali possono essere stabilite limitazioni in tema di acquisizione e circolazione di libri, riviste e stampa in genere nei confronti dei detenuti soggetti allo speciale regime di sospensione delle regole del trattamento, disposto dal Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, ord. pen.
2.1.– Detto regime mira a far fronte ad esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza esterne al carcere e connesse alla lotta alla criminalità organizzata, terroristica ed eversiva, impedendo, in particolare, i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno, che lo stesso ordinamento penitenziario pure favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenza n. 376 del 1997; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998). Si intende evitare, soprattutto, che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il normale regime penitenziario, «possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dal carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa» (sentenza n. 143 del 2013).
In questa prospettiva, il comma 2-quater dell’art. 41-bis ord. pen. – nel testo novellato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – dopo aver previsto, in termini generali, che il regime speciale comporta «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna», finalizzate principalmente a «prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» del detenuto o dell’internato, oltre che «contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate» (lettera a), elenca una serie di misure specifiche costituenti il contenuto tipico e necessario del regime stesso. Figurano nell’elenco, in particolare, la drastica limitazione dei colloqui personali (uno al mese, con i soli familiari e conviventi, salvo casi eccezionali, in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti) e dei colloqui telefonici (uno al mese con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti, per i soli detenuti che non effettuino colloqui visivi), con previsione, in entrambi i casi, del controllo auditivo e della videoregistrazione (lettera b); la «limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno» (lettera c); la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza (lettera e); l’adozione di misure che assicurino «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» (lettera f).
2.2.– Si innesta in questa cornice la vicenda che ha dato origine all’odierno incidente di costituzionalità.
Al dichiarato fine di «tutelare le esigenze di prevenzione poste a base del regime» differenziato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia emanava, il 6 novembre 2011, una circolare (identificata dal n. 8845/2011), recante un complesso di disposizioni in ordine all’ingresso, alla circolazione e alla detenzione della stampa nell’ambito delle sezioni degli istituti penitenziari destinate ad accogliere i detenuti in regime speciale. Secondo quanto si legge nelle premesse della circolare, l’iniziativa prendeva le mosse dall’avvenuto accertamento di come un detenuto fosse riuscito ad eludere il visto di censura sulla corrispondenza scambiando con i familiari libri, riviste e voluminosi atti giudiziari contenenti messaggi criptati, difficilmente individuabili dal personale addetto al controllo anche per la mole degli scritti da verificare. Per evitare il ripetersi di simili episodi, l’amministrazione centrale invitava quindi le direzioni degli istituti penitenziari ad attenersi ad un insieme di regole, tra cui quella sulla quale si focalizzano le doglianze del giudice rimettente: stabiliva, cioè, che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) potesse essere acquistato dai detenuti in regime speciale solo nell’ambito dell’istituto, tramite l’impresa di mantenimento o personale delegato dalla direzione. Correlativamente, veniva vietata la ricezione di libri e riviste provenienti dall’esterno, e in particolare dai familiari, sia a mezzo posta sia tramite consegna in occasione dei colloqui, così come la trasmissione all’esterno di tale materiale da parte del detenuto.
2.3.– Alcuni magistrati di sorveglianza, aditi con reclamo, disapplicavano le disposizioni della circolare ministeriale ora ricordate.
Secondo parte delle pronunce, dette disposizioni avrebbero leso i diritti di informazione e di studio dei detenuti, introducendo penalizzanti ostacoli all’acquisizione dei testi necessari per l’esercizio di tali diritti.
In base ad altro indirizzo – del quale si faceva portavoce anche l’odierno rimettente – la circolare avrebbe inciso sulla libertà di corrispondenza, sancita dall’art. 15 Cost., invadendo così un campo presidiato dalla garanzia della riserva di giurisdizione. In quest’ottica, le limitazioni considerate non avrebbero potuto essere disposte in via generale dall’amministrazione penitenziaria, ma solo dall’autorità giudiziaria e per singoli casi, in conformità alle previsioni dell’art. 18-ter ord. pen., che alla predetta garanzia costituzionale danno attuazione nello specifico ambito penitenziario. La citata disposizione, introdotta dall’art. 1 della legge 8 aprile 2004, n. 95 (Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti), prevede, in specie, sotto la rubrica «Limitazioni e controlli della corrispondenza», che «[p]er esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto», l’autorità giudiziaria indicata dal comma 3 dello stesso art. 18-ter ord. pen. possa disporre, nei confronti dei singoli detenuti, per periodi di tempo determinati (eventualmente prorogabili), tre tipi di misure: ossia limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa (lettera a); la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo (lettera b); infine, il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima (lettera c). Sempre all’autorità giudiziaria compete, inoltre, disporre l’eventuale trattenimento della corrispondenza e della stampa che, all’esito del visto di controllo, si ritenga non debba essere consegnata o inoltrata al destinatario (art. 18-ter, comma 5, ord. pen.).
2.4.– I provvedimenti di disapplicazione della circolare ministeriale venivano, tuttavia, sistematicamente annullati dalla Corte di cassazione.
Il giudice di legittimità rilevava che le particolari restrizioni alle quali devono essere sottoposti i detenuti in regime speciale sono previste dall’ordinamento penitenziario e specificate dal decreto ministeriale – soggetto a controllo giurisdizionale, ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-xxxxxxxxxxxx, ord. pen. – che dispone detto regime. Residuerebbe, pur tuttavia, in capo all’amministrazione penitenziaria un «potere regolamentare» per la concreta applicazione delle restrizioni: potere che deve essere esercitato nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, senza rendere inutilmente più gravoso lo speciale trattamento e senza un’inutile compressione dei diritti costituzionalmente garantiti anche al detenuto (per tutte, Corte di cassazione, sezione prima penale, 22 settembre-7 ottobre 2014, n. 41760; Corte di cassazione, sezione prima penale, 23 settembre-22 novembre 2013, n. 46783).
La circolare ministeriale si sarebbe mantenuta in tale alveo, in quanto meramente attuativa delle restrizioni previste dalla legge e dal provvedimento ministeriale (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre-1° dicembre 2014, n. 50158) e coerente con le finalità del regime speciale (Corte di cassazione, sezione prima penale, 17 dicembre 2014-8 gennaio 2015, n. 314).
Le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria si giustificherebbero, infatti, alla luce di un dato emerso dalla «pluriennale esperienza delle concrete vicende [dello] specifico settore»: vale a dire che «libri, giornali e stampa in genere [sono] molto spesso usati dai ristretti quali veicoli per comunicare illecitamente con l’esterno, […] ricevendo o inviando messaggi in codice […] che da un lato non interrompono (ma possono anche alimentare) le comunicazioni di tipo criminale, dall’altro costituiscono concreti pericoli per l’ordine interno degli istituti». Fenomeno, questo, atto a vanificare la funzione di base del regime carcerario speciale (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889; Corte di cassazione, sezione prima penale, 27 settembre-18 ottobre 2013, n. 42902).
Non sarebbe stato, inoltre, obliterato l’equo bilanciamento tra valori di rango costituzionale. Le prescrizioni ministeriali non pregiudicherebbero in modo significativo il diritto del detenuto ad informarsi e a studiare attraverso la lettura di testi: esse non prevederebbero, infatti, alcuna limitazione alla loro ricezione, ma ne regolerebbero soltanto le modalità. Ferma restando la libertà di scelta dei libri e delle riviste da parte dei detenuti, si richiederebbe che essi vengano acquisiti tramite “canali sicuri” (l’impresa di mantenimento o il personale delegato dalla direzione penitenziaria), onde impedire una loro utilizzazione in funzione elusiva delle restrizioni connesse al regime speciale: in particolare, per effettuare scambi di messaggi criptici non facilmente individuabili dal personale addetto al visto di censura (Corte di cassazione, sezione prima penale, 7 aprile-23 luglio 2015, n. 32469; Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre-1° dicembre 2014, n. 50156), anche in ragione della mole del materiale da verificare e della varietà delle tecniche utilizzabili allo scopo (non solo l’aggiunta di glosse, ma anche la sottolineatura di parole chiave, l’inserimento di pagine modificate stampate da tipografie compiacenti e via dicendo).
Non risulterebbe compressa – secondo la Corte di cassazione – neppure la libertà di corrispondenza del detenuto. Anche nei confronti dei detenuti soggetti al regime speciale le limitazioni in materia di corrispondenza – compresa la sottoposizione al visto di censura, prefigurata dall’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), ord. pen. – andrebbero disposte nelle forme indicate dall’art. 18-ter ord. pen. e, dunque, esclusivamente dall’autorità giudiziaria (tra le altre, Corte di cassazione, sezione prima penale, 20 giugno-17 ottobre 2014, n. 43522). La ricezione e lo scambio della stampa non potrebbero essere, tuttavia, ricondotti al concetto di «corrispondenza» (in senso stretto). Gli artt. 18 e 18-ter ord. pen. distinguerebbero, infatti, chiaramente il diritto dei detenuti ad avere corrispondenza epistolare e telegrafica da quello a ricevere e a tenere presso di sé la stampa (Corte di cassazione, sezione prima penale, 3 marzo-8 maggio 2015, n. 19204; Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889). La nozione comune di «corrispondenza», recepita dal legislatore, evocherebbe, d’altra parte, una forma di comunicazione del proprio pensiero a persone determinate tramite scritti, sostitutiva della comunicazione verbale e strumentale al mantenimento delle relazioni interpersonali e affettive definito «intangibile», in sede sovranazionale, anche di fronte alle forme di restrizione più intense della libertà personale. Detta nozione non includerebbe, pertanto, la ricezione dall’esterno, tramite servizio postale, di pubblicazioni – quali libri e riviste – che riportano il pensiero di terzi, la quale esulerebbe dall’ambito della garanzia prefigurata dall’art. 15 Cost., costituendo espressione di una diversa facoltà del detenuto, quella di informarsi e di istruirsi (Corte di cassazione, sezione prima penale, 29 settembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1774).
Né varrebbe obiettare che anche per le limitazioni nella ricezione della stampa l’art. 18-ter, comma 1, lettera a), ord. pen. esige l’intervento dell’autorità giudiziaria. Ciò non escluderebbe forme ulteriori di limitazione che discendano dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., il quale assumerebbe, in questo ambito, la valenza di norma speciale derogatoria. Il più elevato livello di pericolosità del detenuto, sancito dal provvedimento ministeriale di adozione di detto regime (suscettibile di controllo giurisdizionale), legittima, infatti, le misure previste dal comma 2-quater dello stesso art. 41-bis, tra cui quelle idonee a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza (lettera a) e quelle in tema di limitazione degli «oggetti» che possono essere ricevuti dall’esterno (lettera c): nozione – quella di «oggetti» – che si presterebbe senz’altro a ricomprendere anche libri, riviste e quotidiani (Corte di cassazione, sezione prima penale, 29 settembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1774).
La Corte di cassazione ha posto anche in evidenza come la mancata consegna al detenuto in regime speciale di pacchi postali che contengano libri o riviste provenienti dall’esterno non equivalga neppure al «trattenimento» della stampa, che l’art. 18-ter, comma 5, ord. pen. demanda, comunque sia, all’autorità giudiziaria. Diversamente dal trattenimento, la mancata consegna non sottrae, infatti, gli stampati alla disponibilità tanto del mittente quanto del destinatario, ma ha il solo effetto di non consentire l’ingresso dei libri e delle riviste nell’istituto, ferma restando la facoltà del mittente di pretenderne in qualunque momento la restituzione. Si tratta, dunque, di un semplice “respingimento” (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre-1° dicembre 2014, n. 50158; Corte di cassazione, sezione prima penale, 3 ottobre 2013-27 febbraio 2014, n. 9674), analogo a quello che l’amministrazione penitenziaria può disporre nella generalità dei casi in cui un pacco postale o gli oggetti in esso contenuti non siano conformi alla normativa di ordinamento penitenziario o alle prescrizioni del regolamento interno di istituto.
In conclusione, dunque, la circolare ministeriale si sarebbe mossa nell’ambito dei poteri normativamente conferiti all’amministrazione penitenziaria, esercitandoli secondo «una logica di sistema e di opportunità» che non potrebbe essere sindacata dal giudice ordinario «se non invadendo – […] inammissibilmente – la sfera di […] discrezionalità della Pubblica Amministrazione» (Corte di cassazione, sezione prima penale, 27 settembre-18 ottobre 2013, n. 42902).
A fronte dell’emersione dell’indirizzo giurisprudenziale ora ricordato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato, l’11 febbraio 2014, una nuova circolare, con la quale ha ripristinato le disposizioni della circolare oggetto dei provvedimenti di disapplicazione, originando con ciò il reclamo di cui il giudice rimettente è attualmente investito.
3.– Alla luce di quanto precede, l’eccezione di inammissibilità delle questioni – formulata dall’Avvocatura generale dello Stato sull’assunto che esse mirerebbero ad «aggirare» l’orientamento della giurisprudenza di legittimità contrario alla disapplicazione della circolare – si palesa non fondata.
Il rimettente prende atto, in realtà, del consolidamento di detto orientamento e, proprio in ragione di ciò, solleva questioni di legittimità costituzionale della norma in base alla quale la circolare stessa è stata adottata.
Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo – se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una diversa esegesi del dato normativo, essendo la “vivenza” di una norma una vicenda per definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali – ha alternativamente la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (tra le altre, sentenza n. 242 del 2014 e ordinanza n. 191 del 2013; analogamente, sentenze n. 200 del 2016 e n. 126 del 2015).
Nel caso in esame, tenuto conto del numero e dell’uniformità delle decisioni della Corte di cassazione in materia, non è in effetti contestabile che – conformemente a quanto sostenuto dal rimettente – debba registrarsi l’avvenuta formazione di un “diritto vivente”, secondo il quale l’art. 41-bis ord. pen., e in particolare il suo comma 2-quater, lettere a) e c), legittima l’amministrazione penitenziaria a vietare ai detenuti in regime speciale di ricevere dall’esterno e di inviare all’esterno libri e periodici. Si deve, di conseguenza, escludere che possa rimproverarsi al giudice a quo di non aver optato per una diversa interpretazione, più aderente ai parametri costituzionali evocati – interpretazione che lo stesso giudice ha, peraltro, già sperimentato in precedenza, senza successo – sussistendo detto onere solo in assenza di un contrario “diritto vivente” (sentenza n. 113 del 2015).
4.– Quanto al merito delle questioni, emerge in modo evidente, dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, che il giudice a quo non dubita della possibilità di introdurre, per esigenze di ordine e sicurezza, limitazioni in materia di acquisizione e di scambio di libri e riviste da parte dei detenuti in regime speciale.
Le sue censure investono – in relazione a tutti i parametri evocati, e non solo all’art. 15 Cost. – il quomodo di tali restrizioni. Ad avviso del rimettente, esse non potrebbero venir disposte dall’amministrazione penitenziaria, ma solo dal giudice con intervento modulato sui singoli casi, secondo le cadenze delineate dall’art. 18-ter ord. pen.
Ciò premesso, le questioni risultano, peraltro, non fondate.
5.– La non fondatezza della prospettazione del giudice a quo si apprezza con immediatezza quanto alle denunciate violazioni della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati (ex plurimis, sentenze n. 112 del 1993, n. 826 del 1988 e n. 148 del 1981), e del diritto allo studio (artt. 33 e 34 Cost.): questioni che, per comodità di analisi, conviene affrontare per prime.
La garanzia costituzionale prefigurata dall’art. 21 Cost. trova specifica attuazione, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario – quanto alla stampa – nella previsione dell’art. 18, sesto comma, ord. pen., che autorizza i detenuti «a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno», e nel correlato disposto dell’art. 18-ter, comma 1, lettera a), ord. pen., in forza del quale limitazioni «nella ricezione della stampa» possono essere disposte solo dall’autorità giudiziaria, per i motivi e nelle forme ivi indicati. In questo modo, si è precluso all’autorità amministrativa di esercitare una censura sulla stampa, impedendo ai detenuti di accedere a determinate pubblicazioni in ragione del loro contenuto: operazione che comprimerebbe il diritto dei ristretti – non inciso dallo stato di detenzione – a conoscere liberamente le manifestazioni di pensiero che circolano nella società esterna. La tutela – tanto costituzionale quanto legislativa – è, dunque, riferita alla facoltà del detenuto di scegliere con piena libertà i testi con i quali informarsi, mentre restano indifferenti i mezzi mediante i quali gli viene garantito il diritto di entrare in possesso delle pubblicazioni desiderate.
Un discorso analogo, mutatis mutandis, vale evidentemente per il diritto allo studio, che pure trova specifico riconoscimento in ambito penitenziario, quale componente primaria del percorso rieducativo (art. 19 ord. pen., artt. 41 e seguenti del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, intitolato «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà», d’ora in avanti: reg. esec.).
Conformemente a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la misura che, secondo il “diritto vivente”, può essere adottata dall’amministrazione penitenziaria in base alla norma denunciata non limita il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta, ma incide solo sulle modalità attraverso le quali dette pubblicazioni possono essere acquisite. Al detenuto non è impedito l’accesso alle letture preferite e al loro contenuto, ma gli è imposto di servirsi, per la relativa acquisizione, dell’istituto penitenziario, nell’ottica di evitare che – secondo quanto è emerso dall’esperienza – il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno, di problematica rilevazione da parte del personale addetto al controllo.
La configurabilità di una compromissione costituzionalmente apprezzabile dei diritti in questione non può farsi neppure discendere – come assume il rimettente – da effetti indiretti (e marginali) legati alla “burocratizzazione” dei canali di rifornimento delle pubblicazioni, quali l’ostacolo alla fruizione di libri fuori commercio o di dispense fotocopiate, ovvero da considerazioni legate all’impossibilità di realizzare risparmi di spesa tramite l’acquisto di libri usati (dei quali il personale delegato non potrebbe andare alla ricerca). Inconvenienti, questi, che – ove pure sussistenti – sarebbero in ogni caso suscettibili di trovare una ragionevole giustificazione alla luce delle esigenze poste a base del regime speciale.
Resta fermo, peraltro, che la misura in discussione, nella sua concreta operatività, non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto. Nel momento stesso in cui impone al detenuto di avvalersi esclusivamente dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, l’amministrazione si impegna a fornire un servizio efficiente, evitando lungaggini e “barriere di fatto” che penalizzino, nella sostanza, le legittime aspettative del detenuto. La Corte di cassazione si è, del resto, già espressa chiaramente in tal senso: i libri e le riviste – tutti i libri e tutte le riviste – dovranno pervenire ai detenuti richiedenti in un tempo ragionevole; aspetto sul quale il magistrato di sorveglianza potrà esercitare la sua funzione di controllo (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889). L’eventuale vulnus dei diritti del detenuto deriverebbe, comunque sia, non dalla norma, ma dal non corretto comportamento dell’amministrazione penitenziaria chiamata ad applicarla, esulando perciò dalla prospettiva del sindacato di legittimità costituzionale.
6.– Parimente non fondata è la censura di violazione della libertà di corrispondenza (art. 15 Cost.).
La censura fa perno sull’assunto per cui, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di cassazione, la trasmissione di libri e riviste rientrerebbe nella nozione – costituzionalmente rilevante – di «corrispondenza».
Il rimettente non contesta che i libri e le riviste, pur concretandosi nell’espressione di idee o nella narrazione scritta di notizie, non costituiscano, in quanto tali, «corrispondenza» o, amplius, forme di «comunicazione» agli effetti dell’art. 15 Cost. È, infatti, indiscusso che le comunicazioni tutelate dalla citata norma costituzionale – di cui la «corrispondenza» rappresenta una species, come attesta l’uso dell’aggettivo indefinito «altra» («La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili») – consistano nella trasmissione di idee, sentimenti e notizie da una persona a una o più altre persone determinate: se i destinatari sono indeterminati – come nel caso dei libri e delle riviste, rivolti ad una collettività indifferenziata di potenziali lettori – si ricade in una diversa sfera di tutela costituzionale, quella della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).
Obietta, tuttavia, il giudice a quo che la spedizione (o la consegna brevi manu) di una pubblicazione può servire, non (soltanto) come strumento di diffusione del pensiero del suo autore (che è un terzo rispetto ai diretti interessati), ma (anche) quale veicolo di comunicazione di un pensiero proprio del mittente, indirizzato in modo specifico ed esclusivo al destinatario. Mediante l’invio di un libro o di una rivista si potrebbero, infatti, esprimere sentimenti di vicinanza, di affetto o di sostegno nei confronti del detenuto; nel testo a stampa potrebbero essere interpolati messaggi, palesi od occulti, di vario genere, leciti e illeciti.
Il divieto stabilito dalla circolare ministeriale trova, del resto, la sua ragione giustificativa proprio nella possibilità che libri e riviste fungano da strumenti di comunicazione del detenuto con l’esterno. Di qui l’asserita esigenza che, in ossequio alla riserva, non solo di legge, ma anche di giurisdizione stabilita dall’art. 15 Cost. in rapporto alle limitazioni della libertà di corrispondenza, l’esclusione di tale «flusso comunicativo» venga disposta dall’autorità giudiziaria nelle forme e sui presupposti previsti dall’art. 18-ter ord. pen.
Per avvedersi dell’impossibilità di aderire ad una simile tesi è peraltro sufficiente osservare che, se essa fosse fondata, si dovrebbe riconoscere alla persona detenuta, in nome della libertà di corrispondenza, il diritto di scambiare con l’esterno, senza alcuna restrizione quali-quantitativa – fin tanto che non intervenga uno specifico provvedimento limitativo dell’autorità giudiziaria – non soltanto libri e riviste, ma qualsiasi tipo di oggetto. La postulata idoneità a fungere da veicolo di comunicazione di idee, sentimenti e notizie tra mittente e destinatario non è affatto una caratteristica propria ed esclusiva delle pubblicazioni a stampa: qualsiasi oggetto si presta astrattamente ad assumere – per effetto di una precedente convenzione, per la sua valenza simbolica intrinseca o semplicemente per i rapporti interpersonali tra le parti – un determinato significato comunicativo, quando non pure a fungere da sostituto “anomalo” dell’ordinario supporto cartaceo per la redazione di messaggi, o da contenitore per celarli al suo interno. E poiché l’eventualità di un simile impiego della res non potrebbe essere – così come per la stampa – esclusa a priori, ne dovrebbe derivare una indiscriminata libertà di circolazione dei beni tra il carcere e l’esterno.
Anche riconoscendo, peraltro, che, a fronte dell’ampia formula dell’art. 15 Cost., le comunicazioni si collochino sotto il cono di protezione della norma costituzionale a prescindere dal mezzo materiale impiegato per la trasmissione del pensiero – e, dunque, anche se effettuate “in forma reale”, ossia tramite scambio di oggetti “significanti” – non si può fare a meno di considerare la particolare condizione in cui versa qualsiasi persona detenuta.
Al riguardo, non può che essere ribadito il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la legittima restrizione della libertà personale, cui è sottoposta la persona detenuta, non annulla affatto la tutela costituzionale dei diritti fondamentali. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua libertà individuale (sentenze n. 20 del 2017 e n. 349 del 1993), e il cui esercizio, proprio per questo, non può essere rimesso alla discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta all’esecuzione della pena detentiva (sentenze n. 26 del 1999 e n. 212 del 1997).
La tutela dei diritti costituzionali del detenuto opera, pur tuttavia, «con le limitazioni che, come è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta» (sentenza n. 349 del 1993). La legittima restrizione della libertà personale cui il detenuto è soggetto, e che trova alla sua base un provvedimento giurisdizionale, si riverbera inevitabilmente, in modo più o meno significativo, sulle modalità di esercizio delle altre libertà costituzionalmente alla prima collegate. Ciò avviene anche per la libertà di comunicazione, la quale, nel corrente apprezzamento, rappresenta – al pari della libertà di domicilio (art. 14 Cost.) – una integrazione e una precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona, sancito dall’art. 13 Cost., in quanto espressione della “socialità” dell’essere umano, ossia della sua naturale aspirazione a collegarsi spiritualmente con i propri simili.
È evidente, così, che lo stato di detenzione incide in senso limitativo sulla facoltà del detenuto di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario: colloqui che, quali comunicazioni tra presenti, ricadono certamente nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost. Di necessità, i colloqui personali dei detenuti «sono soggetti a contingentamenti e regolazioni da parte dell’ordinamento penitenziario» (artt. 18 ord. pen. e 37 reg. esec.) (sentenza n. 20 del 2017) ed è l’autorità penitenziaria che, in concreto, stabilisce (in particolare, tramite il regolamento interno dell’istituto: art. 36, comma 2, lettera f, reg. esec.) i luoghi, i giorni e gli orari del loro svolgimento, senza che in ciò possa scorgersi alcuna violazione della norma costituzionale evocata.
È indubbio che proprio le evidenziate restrizioni ai colloqui diretti – che per i detenuti sottoposti al regime speciale divengono estremamente marcate – esaltino la rilevanza delle forme di comunicazione a distanza, o “tra assenti”, quale strumento di mantenimento delle relazioni interpersonali ed affettive del detenuto, così da evitare che la restrizione carceraria si traduca in un isolamento assoluto rispetto al mondo esterno e, con ciò stesso, in un trattamento contrario al senso di umanità (art. 27, terzo comma, Cost.). Nondimeno, anche le modalità di esercizio della libertà di comunicare con l’esterno – libertà non annullata dalla condizione carceraria, e che deve essere, anzi, necessariamente e adeguatamente garantita – risentono di quella condizione.
Per quanto qui più direttamente interessa, esigenze organizzative e logistiche, prima ancora che di ordine e sicurezza, fanno sì che all’inserimento in una struttura carceraria consegua necessariamente l’esclusione di una illimitata libertà del detenuto di ricevere e scambiare oggetti. La legge di ordinamento penitenziario e il regolamento di esecuzione dettano, in effetti – in nome delle predette esigenze, oltre che di quella di assicurare la parità delle condizioni di vita dei detenuti (art. 3 ord. pen.) – rigorosi limiti quantitativi e qualitativi in ordine agli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, acquistati e tenuti con sé dalle persone ristrette (oggetti la cui dettagliata individuazione è poi affidata al regolamento interno dei singoli istituti), nonché al numero, alla periodicità e al contenuto dei pacchi trasmessi per posta o consegnati a dette persone in occasione dei colloqui (artt. 7 e 8 ord. pen., artt. 8, 9, 10, 14 e 40 reg. esec.).
Correlativamente, è naturale che la libertà di corrispondenza sia riconosciuta ai detenuti in quanto esplicata attraverso gli ordinari strumenti di comunicazione, e non anche nella forma anomala dello scambio diretto o per posta di oggetti aventi un significato convenzionale, o estemporaneamente vicari dell’usuale supporto cartaceo.
L’ordinamento penitenziario ammette, in particolare e tra l’altro, i detenuti alla corrispondenza epistolare, salvi i limiti connessi alla necessità di affidarsi all’amministrazione penitenziaria per lo smistamento della posta (sentenza n. 20 del 2017): e ciò anche quando si tratti di detenuti in regime speciale, salvo quanto stabilito in ordine al visto di controllo. In accordo con l’obbligo positivo che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, scaturisce dall’art. 8 della CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 febbraio 2009, Gagiu contro Romania; Corte europea dei diritti dell’uomo, 3 giugno 2003, Cotlet contro Romania), viene altresì imposto all’amministrazione penitenziaria di fornire gli strumenti necessari – in particolare, il materiale di cancelleria e l’affrancatura – a coloro che ne sono sprovvisti (art. 18, primo e quarto comma, ord. pen., art. 38 reg. esec.).
A tale prospettiva resta palesemente estraneo il concorrente riconoscimento, ad opera degli artt. 18 e 18-ter ord. pen., del diritto dei detenuti di ricevere (anche a mezzo posta) e di tenere con sé la stampa in libera vendita all’esterno. Come già rilevato in precedenza, tale riconoscimento non è dovuto al fatto che la stampa costituisca (rectius, possa costituire) una forma di corrispondenza nei sensi ipotizzati dal rimettente, ma alla considerazione che libri, riviste e quotidiani rappresentano lo strumento per l’esercizio di distinti diritti dei detenuti, quelli di informazione e di studio: diritti che, per quanto si è visto, non possono ritenersi compromessi in modo costituzionalmente significativo – quanto ai detenuti in regime speciale – dalla introduzione di regole limitative in ordine ai canali di acquisizione del materiale.
Deve quindi concludersi, in assonanza con la giurisprudenza di legittimità, che le regole di cui si discute non incidono sul diritto alla corrispondenza del detenuto, quale riconosciuto – in termini coerenti, sotto il profilo considerato, con la condizione di restrizione della libertà personale in cui egli versa e perciò non collidenti con la previsione dell’art. 15 Cost. – dalla legge di ordinamento penitenziario.
7.– È già insita in quanto precede la non fondatezza dell’ultima censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 della CEDU.
Il richiamo all’art. 3 della CEDU risulta chiaramente incongruo rispetto alla prospettiva del rimettente (il quale, come si è visto, non contesta l’ammissibilità delle limitazioni in questione, ma si duole solo del quomodo). Il divieto dei trattamenti inumani o degradanti, sancito dalla citata norma convenzionale, ha infatti carattere assoluto, sicché – se si versasse in tale ipotesi – neppure l’auspicato intervento del giudice varrebbe a rendere convenzionalmente legittime le misure. È, peraltro, palese che – in presenza di una immutata libertà di corrispondenza epistolare e di scelta dei testi con cui informarsi ed istruirsi – il mero fatto che il detenuto debba servirsi dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, e non possa trasmetterla all’esterno, non determina livelli di sofferenza e di svilimento della sua persona tali da attingere al paradigma avuto di mira dalla citata norma convenzionale.
Quanto, poi, alla seconda delle norme interposte evocate, l’art. 8 della CEDU, al paragrafo 1, riconosce ad ogni persona il «diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza». Il diritto non è, in questo caso, assoluto: il paragrafo 2 dello stesso art. 8 consente, infatti, ingerenze della «pubblica autorità» (non necessariamente quella giudiziaria) nel suo esercizio, in presenza di tre condizioni. In primo luogo, l’ingerenza deve essere «prevista dalla legge»: formula che – secondo la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – deve essere intesa, sul piano delle fonti, come comprensiva non del solo diritto scritto, ma anche dell’applicazione e dell’interpretazione delle disposizioni normative da parte della giurisprudenza, e, sul piano della “qualità” della legge, come espressiva dell’esigenza dell’adeguata accessibilità e della sufficiente precisione della norma che prevede l’interferenza, così da fornire un’adeguata protezione contro l’arbitrio. In secondo luogo, poi, l’ingerenza deve perseguire uno degli scopi legittimi indicati dallo stesso paragrafo 2 («la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui»). Da ultimo, l’ingerenza deve essere «necessaria», «in una società democratica», per il raggiungimento dei predetti scopi: requisito che – sempre secondo le indicazioni della Corte di Strasburgo – postula la proporzionalità del sacrificio del diritto rispetto alla finalità legittima perseguita (per tutte, Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 marzo 1988, Olsson contro Svezia).
Ciò ricordato, deve escludersi che il divieto di scambiare libri e riviste con l’esterno, e con i familiari in specie, tramite il servizio postale possa essere assimilato – come ipotizza il rimettente – alla sottoposizione della corrispondenza del detenuto a visto di controllo, la cui disciplina nazionale – nell’assetto anteriore alla legge n. 95 del 2004 – è stata ripetutamente censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, 9 gennaio 2001, Natoli contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia; nonché, più di recente, Corte europea dei diritti dell’uomo, 1° settembre 2015, Paolello contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Enea contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 luglio 2009, Annunziata contro Italia).
La limitazione dei canali di ricezione della stampa e il divieto di trasmetterla all’esterno non solo non incidono affatto – come è ovvio – sulla segretezza della corrispondenza del detenuto (diversamente dal visto di controllo), ma neppure comprimono, alla luce delle considerazioni in precedenza svolte, la libertà di corrispondere a mezzo posta già riconosciutagli dalla legge nazionale in coerenza con la condizione di legittima restrizione della libertà personale in cui il soggetto versa: libertà – quella di corrispondere a mezzo posta – che continua a potersi esplicare, in tutta la sua ampiezza, tramite l’ordinaria corrispondenza epistolare. È a mezzo di questa che il detenuto può continuare ad intrattenere le sue relazioni affettive con i familiari.
Peraltro, ove pure si volesse ritenere che, nella prospettiva della Convenzione, le limitazioni in discorso si traducano, comunque sia, in ingerenze, se non sul diritto alla corrispondenza, quantomeno sul diritto al rispetto della vita familiare del detenuto – così come sostiene il rimettente – la conclusione non muterebbe.
Al riguardo, vale ricordare che le richiamate decisioni della Corte di Strasburgo si fondavano sul rilievo che, sino all’entrata in vigore della legge n. 95 del 2004, l’unica base legale della sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza del detenuto, anche in regime speciale, doveva essere identificata – alla luce dell’interpretazione offerta da questa Corte con la sentenza n. 349 del 1993 – nella previsione dell’allora vigente art. 18 ord. pen.: norma che, pur demandando all’autorità giudiziaria l’adozione della misura, non disciplinava né la sua durata, né i motivi che potevano giustificarla e non indicava con sufficiente chiarezza l’ampiezza e le modalità di esercizio del potere discrezionale delle autorità competenti nel campo considerato. Di qui la conclusione della Corte europea che la misura non potesse ritenersi «prevista dalla legge», nei sensi richiesti dall’art. 8, paragrafo 2, della CEDU ai fini della possibile interferenza di una autorità pubblica nell’esercizio del diritto alla corrispondenza, e il conseguente intervento del legislatore nazionale, che ha regolato ex novo la materia con l’introduzione dell’art. 18-ter ord. pen.
Nel caso oggi in esame, per converso, alla luce di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il potere dell’amministrazione penitenziaria di disporre le misure in questione trova la sua base legale nel combinato disposto delle lettere a) e c) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. pen. Le ragioni per le quali detto potere può essere esercitato sono indicate dalla citata lettera a) in termini maggiormente specifici di quanto non faccia lo stesso art. 18-ter ord. pen. (introdotto al fine di adeguare l’ordinamento nazionale alla giurisprudenza europea sul visto di controllo). Come già si è avuto modo di ricordare, infatti, tale ultima disposizione richiama le «esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati» e le «ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto»: formule di certo più ampie rispetto al puntuale riferimento, operato dalla prima disposizione, alla necessità di prevenire contatti di detenuti di particolare pericolosità con le organizzazioni criminali di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazioni con altri detenuti appartenenti alla stessa organizzazione o ad organizzazioni a questa alleate.
Né, d’altra parte, con riguardo alla previsione della lettera c) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. pen., potrebbe rimproverarsi al legislatore nazionale di non aver adottato una norma più dettagliata in ordine ai «beni» e agli «oggetti» di cui, nella predetta ottica, può essere vietata la ricezione dall’esterno ai detenuti in regime speciale, apparendo tutt’altro che irragionevole la rinuncia del legislatore a procedere ad una elencazione minuta e casistica, che sconterebbe, comunque sia, il rischio della lacuna. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo non ha mancato, del resto, di porre in evidenza – proprio in relazione alla materia in esame – che «se una legge attributiva di potere discrezionale deve, in linea di principio, delimitarne la portata, è impossibile giungere ad una certezza assoluta nella sua formulazione, poiché il probabile risultato di un tale desiderio di certezza sarebbe un’eccessiva rigidità» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia).
La durata della misura limitativa si modella, poi – come per le altre – su quella propria del regime speciale cui accede (stabilita dall’art. 41-bis, comma 2-bis, ord. pen.).
Per il resto, non è dubbio che le finalità della misura rientrino nel novero degli scopi legittimi previsti dall’art. 8, paragrafo 2, della CEDU, né che sussista – contrariamente a quanto assume il rimettente – il requisito della proporzionalità rispetto allo scopo. Al riguardo, basta osservare come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia ritenuto opportune e proporzionate rispetto allo scopo legittimo di mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza, recidendo i legami tra la persona interessata e il suo ambiente criminale di origine – e, perciò, conformi alla previsione del citato art. 8, paragrafo 2, della CEDU – restrizioni legate al regime detentivo speciale assai più incisive di quella di cui oggi si discute, a cominciare dalle severe limitazioni quantitative e modali inerenti ai colloqui personali con i familiari (per tutte, Corte europea dei diritti dell’uomo, 19 gennaio 2010, Montani contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 17 settembre 2009, Enea contro Italia).
8.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni vanno dichiarate quindi non fondate.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 febbraio 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2017.
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Considerato in diritto
1.– Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) (d’ora in avanti: ord. pen.), nella parte in cui – secondo il “diritto vivente” – «consente all’amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa».
Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 15 della Costituzione, che prevede una riserva di legge e di giurisdizione ai fini della limitazione della libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. Il divieto in questione si giustifica, infatti, non per il contenuto dei testi a stampa destinato ad un pubblico indifferenziato, ma alla luce della possibilità che libri e riviste costituiscano veicolo di comunicazioni illecite tra il detenuto e l’organizzazione criminale di appartenenza. Di conseguenza, la restrizione considerata non potrebbe prescindere dal vaglio dell’autorità giudiziaria, secondo quanto previsto dall’art. 18-ter ord. pen. ai fini della limitazione e del controllo della corrispondenza.
La norma censurata violerebbe, altresì, gli artt. 21, 33 e 34 Cost., giacché il divieto di ricevere pubblicazioni dall’esterno, creando maggiori difficoltà nella loro acquisizione, comprimerebbe i diritti del detenuto all’informazione e allo studio, senza che a tale compressione faccia riscontro un apprezzabile incremento della tutela delle contrapposte esigenze di ordine e sicurezza, le quali risulterebbero già adeguatamente salvaguardate dal più flessibile meccanismo delineato dal citato art. 18-ter ord. pen.
Sarebbe violato, infine, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: CEDU), che rispettivamente vietano i trattamenti inumani o degradanti e garantiscono ad ogni persona il diritto al rispetto alla propria vita privata e familiare e alla corrispondenza. La possibilità di ricevere libri e riviste dall’esterno, e segnatamente dai propri familiari, e di trasmetterli ad essi, rappresenterebbe, infatti, per il detenuto sottoposto al gravoso regime restrittivo previsto dall’art. 41-bis ord. pen., uno strumento di mantenimento delle relazioni sociali e della vita affettiva particolarmente prezioso, la cui negazione risulterebbe, per le ragioni dianzi indicate, sproporzionata rispetto all’obiettivo del regime stesso.
2.– Le questioni sottoposte all’esame di questa Corte attengono alle modalità con le quali possono essere stabilite limitazioni in tema di acquisizione e circolazione di libri, riviste e stampa in genere nei confronti dei detenuti soggetti allo speciale regime di sospensione delle regole del trattamento, disposto dal Ministro della giustizia ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, ord. pen.
2.1.– Detto regime mira a far fronte ad esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza esterne al carcere e connesse alla lotta alla criminalità organizzata, terroristica ed eversiva, impedendo, in particolare, i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno, che lo stesso ordinamento penitenziario pure favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenza n. 376 del 1997; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998). Si intende evitare, soprattutto, che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il normale regime penitenziario, «possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dal carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa» (sentenza n. 143 del 2013).
In questa prospettiva, il comma 2-quater dell’art. 41-bis ord. pen. – nel testo novellato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica) – dopo aver previsto, in termini generali, che il regime speciale comporta «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna», finalizzate principalmente a «prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» del detenuto o dell’internato, oltre che «contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate» (lettera a), elenca una serie di misure specifiche costituenti il contenuto tipico e necessario del regime stesso. Figurano nell’elenco, in particolare, la drastica limitazione dei colloqui personali (uno al mese, con i soli familiari e conviventi, salvo casi eccezionali, in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti) e dei colloqui telefonici (uno al mese con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti, per i soli detenuti che non effettuino colloqui visivi), con previsione, in entrambi i casi, del controllo auditivo e della videoregistrazione (lettera b); la «limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno» (lettera c); la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza (lettera e); l’adozione di misure che assicurino «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» (lettera f).
2.2.– Si innesta in questa cornice la vicenda che ha dato origine all’odierno incidente di costituzionalità.
Al dichiarato fine di «tutelare le esigenze di prevenzione poste a base del regime» differenziato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia emanava, il 6 novembre 2011, una circolare (identificata dal n. 8845/2011), recante un complesso di disposizioni in ordine all’ingresso, alla circolazione e alla detenzione della stampa nell’ambito delle sezioni degli istituti penitenziari destinate ad accogliere i detenuti in regime speciale. Secondo quanto si legge nelle premesse della circolare, l’iniziativa prendeva le mosse dall’avvenuto accertamento di come un detenuto fosse riuscito ad eludere il visto di censura sulla corrispondenza scambiando con i familiari libri, riviste e voluminosi atti giudiziari contenenti messaggi criptati, difficilmente individuabili dal personale addetto al controllo anche per la mole degli scritti da verificare. Per evitare il ripetersi di simili episodi, l’amministrazione centrale invitava quindi le direzioni degli istituti penitenziari ad attenersi ad un insieme di regole, tra cui quella sulla quale si focalizzano le doglianze del giudice rimettente: stabiliva, cioè, che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) potesse essere acquistato dai detenuti in regime speciale solo nell’ambito dell’istituto, tramite l’impresa di mantenimento o personale delegato dalla direzione. Correlativamente, veniva vietata la ricezione di libri e riviste provenienti dall’esterno, e in particolare dai familiari, sia a mezzo posta sia tramite consegna in occasione dei colloqui, così come la trasmissione all’esterno di tale materiale da parte del detenuto.
2.3.– Alcuni magistrati di sorveglianza, aditi con reclamo, disapplicavano le disposizioni della circolare ministeriale ora ricordate.
Secondo parte delle pronunce, dette disposizioni avrebbero leso i diritti di informazione e di studio dei detenuti, introducendo penalizzanti ostacoli all’acquisizione dei testi necessari per l’esercizio di tali diritti.
In base ad altro indirizzo – del quale si faceva portavoce anche l’odierno rimettente – la circolare avrebbe inciso sulla libertà di corrispondenza, sancita dall’art. 15 Cost., invadendo così un campo presidiato dalla garanzia della riserva di giurisdizione. In quest’ottica, le limitazioni considerate non avrebbero potuto essere disposte in via generale dall’amministrazione penitenziaria, ma solo dall’autorità giudiziaria e per singoli casi, in conformità alle previsioni dell’art. 18-ter ord. pen., che alla predetta garanzia costituzionale danno attuazione nello specifico ambito penitenziario. La citata disposizione, introdotta dall’art. 1 della legge 8 aprile 2004, n. 95 (Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti), prevede, in specie, sotto la rubrica «Limitazioni e controlli della corrispondenza», che «[p]er esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto», l’autorità giudiziaria indicata dal comma 3 dello stesso art. 18-ter ord. pen. possa disporre, nei confronti dei singoli detenuti, per periodi di tempo determinati (eventualmente prorogabili), tre tipi di misure: ossia limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa (lettera a); la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo (lettera b); infine, il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima (lettera c). Sempre all’autorità giudiziaria compete, inoltre, disporre l’eventuale trattenimento della corrispondenza e della stampa che, all’esito del visto di controllo, si ritenga non debba essere consegnata o inoltrata al destinatario (art. 18-ter, comma 5, ord. pen.).
2.4.– I provvedimenti di disapplicazione della circolare ministeriale venivano, tuttavia, sistematicamente annullati dalla Corte di cassazione.
Il giudice di legittimità rilevava che le particolari restrizioni alle quali devono essere sottoposti i detenuti in regime speciale sono previste dall’ordinamento penitenziario e specificate dal decreto ministeriale – soggetto a controllo giurisdizionale, ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2-xxxxxxxxxxxx, ord. pen. – che dispone detto regime. Residuerebbe, pur tuttavia, in capo all’amministrazione penitenziaria un «potere regolamentare» per la concreta applicazione delle restrizioni: potere che deve essere esercitato nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, senza rendere inutilmente più gravoso lo speciale trattamento e senza un’inutile compressione dei diritti costituzionalmente garantiti anche al detenuto (per tutte, Corte di cassazione, sezione prima penale, 22 settembre-7 ottobre 2014, n. 41760; Corte di cassazione, sezione prima penale, 23 settembre-22 novembre 2013, n. 46783).
La circolare ministeriale si sarebbe mantenuta in tale alveo, in quanto meramente attuativa delle restrizioni previste dalla legge e dal provvedimento ministeriale (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre-1° dicembre 2014, n. 50158) e coerente con le finalità del regime speciale (Corte di cassazione, sezione prima penale, 17 dicembre 2014-8 gennaio 2015, n. 314).
Le misure adottate dall’amministrazione penitenziaria si giustificherebbero, infatti, alla luce di un dato emerso dalla «pluriennale esperienza delle concrete vicende [dello] specifico settore»: vale a dire che «libri, giornali e stampa in genere [sono] molto spesso usati dai ristretti quali veicoli per comunicare illecitamente con l’esterno, […] ricevendo o inviando messaggi in codice […] che da un lato non interrompono (ma possono anche alimentare) le comunicazioni di tipo criminale, dall’altro costituiscono concreti pericoli per l’ordine interno degli istituti». Fenomeno, questo, atto a vanificare la funzione di base del regime carcerario speciale (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889; Corte di cassazione, sezione prima penale, 27 settembre-18 ottobre 2013, n. 42902).
Non sarebbe stato, inoltre, obliterato l’equo bilanciamento tra valori di rango costituzionale. Le prescrizioni ministeriali non pregiudicherebbero in modo significativo il diritto del detenuto ad informarsi e a studiare attraverso la lettura di testi: esse non prevederebbero, infatti, alcuna limitazione alla loro ricezione, ma ne regolerebbero soltanto le modalità. Ferma restando la libertà di scelta dei libri e delle riviste da parte dei detenuti, si richiederebbe che essi vengano acquisiti tramite “canali sicuri” (l’impresa di mantenimento o il personale delegato dalla direzione penitenziaria), onde impedire una loro utilizzazione in funzione elusiva delle restrizioni connesse al regime speciale: in particolare, per effettuare scambi di messaggi criptici non facilmente individuabili dal personale addetto al visto di censura (Corte di cassazione, sezione prima penale, 7 aprile-23 luglio 2015, n. 32469; Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre-1° dicembre 2014, n. 50156), anche in ragione della mole del materiale da verificare e della varietà delle tecniche utilizzabili allo scopo (non solo l’aggiunta di glosse, ma anche la sottolineatura di parole chiave, l’inserimento di pagine modificate stampate da tipografie compiacenti e via dicendo).
Non risulterebbe compressa – secondo la Corte di cassazione – neppure la libertà di corrispondenza del detenuto. Anche nei confronti dei detenuti soggetti al regime speciale le limitazioni in materia di corrispondenza – compresa la sottoposizione al visto di censura, prefigurata dall’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), ord. pen. – andrebbero disposte nelle forme indicate dall’art. 18-ter ord. pen. e, dunque, esclusivamente dall’autorità giudiziaria (tra le altre, Corte di cassazione, sezione prima penale, 20 giugno-17 ottobre 2014, n. 43522). La ricezione e lo scambio della stampa non potrebbero essere, tuttavia, ricondotti al concetto di «corrispondenza» (in senso stretto). Gli artt. 18 e 18-ter ord. pen. distinguerebbero, infatti, chiaramente il diritto dei detenuti ad avere corrispondenza epistolare e telegrafica da quello a ricevere e a tenere presso di sé la stampa (Corte di cassazione, sezione prima penale, 3 marzo-8 maggio 2015, n. 19204; Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889). La nozione comune di «corrispondenza», recepita dal legislatore, evocherebbe, d’altra parte, una forma di comunicazione del proprio pensiero a persone determinate tramite scritti, sostitutiva della comunicazione verbale e strumentale al mantenimento delle relazioni interpersonali e affettive definito «intangibile», in sede sovranazionale, anche di fronte alle forme di restrizione più intense della libertà personale. Detta nozione non includerebbe, pertanto, la ricezione dall’esterno, tramite servizio postale, di pubblicazioni – quali libri e riviste – che riportano il pensiero di terzi, la quale esulerebbe dall’ambito della garanzia prefigurata dall’art. 15 Cost., costituendo espressione di una diversa facoltà del detenuto, quella di informarsi e di istruirsi (Corte di cassazione, sezione prima penale, 29 settembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1774).
Né varrebbe obiettare che anche per le limitazioni nella ricezione della stampa l’art. 18-ter, comma 1, lettera a), ord. pen. esige l’intervento dell’autorità giudiziaria. Ciò non escluderebbe forme ulteriori di limitazione che discendano dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., il quale assumerebbe, in questo ambito, la valenza di norma speciale derogatoria. Il più elevato livello di pericolosità del detenuto, sancito dal provvedimento ministeriale di adozione di detto regime (suscettibile di controllo giurisdizionale), legittima, infatti, le misure previste dal comma 2-quater dello stesso art. 41-bis, tra cui quelle idonee a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza (lettera a) e quelle in tema di limitazione degli «oggetti» che possono essere ricevuti dall’esterno (lettera c): nozione – quella di «oggetti» – che si presterebbe senz’altro a ricomprendere anche libri, riviste e quotidiani (Corte di cassazione, sezione prima penale, 29 settembre 2014-15 gennaio 2015, n. 1774).
La Corte di cassazione ha posto anche in evidenza come la mancata consegna al detenuto in regime speciale di pacchi postali che contengano libri o riviste provenienti dall’esterno non equivalga neppure al «trattenimento» della stampa, che l’art. 18-ter, comma 5, ord. pen. demanda, comunque sia, all’autorità giudiziaria. Diversamente dal trattenimento, la mancata consegna non sottrae, infatti, gli stampati alla disponibilità tanto del mittente quanto del destinatario, ma ha il solo effetto di non consentire l’ingresso dei libri e delle riviste nell’istituto, ferma restando la facoltà del mittente di pretenderne in qualunque momento la restituzione. Si tratta, dunque, di un semplice “respingimento” (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre-1° dicembre 2014, n. 50158; Corte di cassazione, sezione prima penale, 3 ottobre 2013-27 febbraio 2014, n. 9674), analogo a quello che l’amministrazione penitenziaria può disporre nella generalità dei casi in cui un pacco postale o gli oggetti in esso contenuti non siano conformi alla normativa di ordinamento penitenziario o alle prescrizioni del regolamento interno di istituto.
In conclusione, dunque, la circolare ministeriale si sarebbe mossa nell’ambito dei poteri normativamente conferiti all’amministrazione penitenziaria, esercitandoli secondo «una logica di sistema e di opportunità» che non potrebbe essere sindacata dal giudice ordinario «se non invadendo – […] inammissibilmente – la sfera di […] discrezionalità della Pubblica Amministrazione» (Corte di cassazione, sezione prima penale, 27 settembre-18 ottobre 2013, n. 42902).
A fronte dell’emersione dell’indirizzo giurisprudenziale ora ricordato, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha emanato, l’11 febbraio 2014, una nuova circolare, con la quale ha ripristinato le disposizioni della circolare oggetto dei provvedimenti di disapplicazione, originando con ciò il reclamo di cui il giudice rimettente è attualmente investito.
3.– Alla luce di quanto precede, l’eccezione di inammissibilità delle questioni – formulata dall’Avvocatura generale dello Stato sull’assunto che esse mirerebbero ad «aggirare» l’orientamento della giurisprudenza di legittimità contrario alla disapplicazione della circolare – si palesa non fondata.
Il rimettente prende atto, in realtà, del consolidamento di detto orientamento e, proprio in ragione di ciò, solleva questioni di legittimità costituzionale della norma in base alla quale la circolare stessa è stata adottata.
Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice a quo – se pure è libero di non uniformarvisi e di proporre una diversa esegesi del dato normativo, essendo la “vivenza” di una norma una vicenda per definizione aperta, ancor più quando si tratti di adeguarne il significato a precetti costituzionali – ha alternativamente la facoltà di assumere l’interpretazione censurata in termini di “diritto vivente” e di richiederne, su tale presupposto, il controllo di compatibilità con i parametri costituzionali (tra le altre, sentenza n. 242 del 2014 e ordinanza n. 191 del 2013; analogamente, sentenze n. 200 del 2016 e n. 126 del 2015).
Nel caso in esame, tenuto conto del numero e dell’uniformità delle decisioni della Corte di cassazione in materia, non è in effetti contestabile che – conformemente a quanto sostenuto dal rimettente – debba registrarsi l’avvenuta formazione di un “diritto vivente”, secondo il quale l’art. 41-bis ord. pen., e in particolare il suo comma 2-quater, lettere a) e c), legittima l’amministrazione penitenziaria a vietare ai detenuti in regime speciale di ricevere dall’esterno e di inviare all’esterno libri e periodici. Si deve, di conseguenza, escludere che possa rimproverarsi al giudice a quo di non aver optato per una diversa interpretazione, più aderente ai parametri costituzionali evocati – interpretazione che lo stesso giudice ha, peraltro, già sperimentato in precedenza, senza successo – sussistendo detto onere solo in assenza di un contrario “diritto vivente” (sentenza n. 113 del 2015).
4.– Quanto al merito delle questioni, emerge in modo evidente, dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, che il giudice a quo non dubita della possibilità di introdurre, per esigenze di ordine e sicurezza, limitazioni in materia di acquisizione e di scambio di libri e riviste da parte dei detenuti in regime speciale.
Le sue censure investono – in relazione a tutti i parametri evocati, e non solo all’art. 15 Cost. – il quomodo di tali restrizioni. Ad avviso del rimettente, esse non potrebbero venir disposte dall’amministrazione penitenziaria, ma solo dal giudice con intervento modulato sui singoli casi, secondo le cadenze delineate dall’art. 18-ter ord. pen.
Ciò premesso, le questioni risultano, peraltro, non fondate.
5.– La non fondatezza della prospettazione del giudice a quo si apprezza con immediatezza quanto alle denunciate violazioni della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati (ex plurimis, sentenze n. 112 del 1993, n. 826 del 1988 e n. 148 del 1981), e del diritto allo studio (artt. 33 e 34 Cost.): questioni che, per comodità di analisi, conviene affrontare per prime.
La garanzia costituzionale prefigurata dall’art. 21 Cost. trova specifica attuazione, nell’ambito dell’ordinamento penitenziario – quanto alla stampa – nella previsione dell’art. 18, sesto comma, ord. pen., che autorizza i detenuti «a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno», e nel correlato disposto dell’art. 18-ter, comma 1, lettera a), ord. pen., in forza del quale limitazioni «nella ricezione della stampa» possono essere disposte solo dall’autorità giudiziaria, per i motivi e nelle forme ivi indicati. In questo modo, si è precluso all’autorità amministrativa di esercitare una censura sulla stampa, impedendo ai detenuti di accedere a determinate pubblicazioni in ragione del loro contenuto: operazione che comprimerebbe il diritto dei ristretti – non inciso dallo stato di detenzione – a conoscere liberamente le manifestazioni di pensiero che circolano nella società esterna. La tutela – tanto costituzionale quanto legislativa – è, dunque, riferita alla facoltà del detenuto di scegliere con piena libertà i testi con i quali informarsi, mentre restano indifferenti i mezzi mediante i quali gli viene garantito il diritto di entrare in possesso delle pubblicazioni desiderate.
Un discorso analogo, mutatis mutandis, vale evidentemente per il diritto allo studio, che pure trova specifico riconoscimento in ambito penitenziario, quale componente primaria del percorso rieducativo (art. 19 ord. pen., artt. 41 e seguenti del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, intitolato «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà», d’ora in avanti: reg. esec.).
Conformemente a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, la misura che, secondo il “diritto vivente”, può essere adottata dall’amministrazione penitenziaria in base alla norma denunciata non limita il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta, ma incide solo sulle modalità attraverso le quali dette pubblicazioni possono essere acquisite. Al detenuto non è impedito l’accesso alle letture preferite e al loro contenuto, ma gli è imposto di servirsi, per la relativa acquisizione, dell’istituto penitenziario, nell’ottica di evitare che – secondo quanto è emerso dall’esperienza – il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno, di problematica rilevazione da parte del personale addetto al controllo.
La configurabilità di una compromissione costituzionalmente apprezzabile dei diritti in questione non può farsi neppure discendere – come assume il rimettente – da effetti indiretti (e marginali) legati alla “burocratizzazione” dei canali di rifornimento delle pubblicazioni, quali l’ostacolo alla fruizione di libri fuori commercio o di dispense fotocopiate, ovvero da considerazioni legate all’impossibilità di realizzare risparmi di spesa tramite l’acquisto di libri usati (dei quali il personale delegato non potrebbe andare alla ricerca). Inconvenienti, questi, che – ove pure sussistenti – sarebbero in ogni caso suscettibili di trovare una ragionevole giustificazione alla luce delle esigenze poste a base del regime speciale.
Resta fermo, peraltro, che la misura in discussione, nella sua concreta operatività, non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto. Nel momento stesso in cui impone al detenuto di avvalersi esclusivamente dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, l’amministrazione si impegna a fornire un servizio efficiente, evitando lungaggini e “barriere di fatto” che penalizzino, nella sostanza, le legittime aspettative del detenuto. La Corte di cassazione si è, del resto, già espressa chiaramente in tal senso: i libri e le riviste – tutti i libri e tutte le riviste – dovranno pervenire ai detenuti richiedenti in un tempo ragionevole; aspetto sul quale il magistrato di sorveglianza potrà esercitare la sua funzione di controllo (Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2014-17 febbraio 2015, n. 6889). L’eventuale vulnus dei diritti del detenuto deriverebbe, comunque sia, non dalla norma, ma dal non corretto comportamento dell’amministrazione penitenziaria chiamata ad applicarla, esulando perciò dalla prospettiva del sindacato di legittimità costituzionale.
6.– Parimente non fondata è la censura di violazione della libertà di corrispondenza (art. 15 Cost.).
La censura fa perno sull’assunto per cui, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di cassazione, la trasmissione di libri e riviste rientrerebbe nella nozione – costituzionalmente rilevante – di «corrispondenza».
Il rimettente non contesta che i libri e le riviste, pur concretandosi nell’espressione di idee o nella narrazione scritta di notizie, non costituiscano, in quanto tali, «corrispondenza» o, amplius, forme di «comunicazione» agli effetti dell’art. 15 Cost. È, infatti, indiscusso che le comunicazioni tutelate dalla citata norma costituzionale – di cui la «corrispondenza» rappresenta una species, come attesta l’uso dell’aggettivo indefinito «altra» («La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili») – consistano nella trasmissione di idee, sentimenti e notizie da una persona a una o più altre persone determinate: se i destinatari sono indeterminati – come nel caso dei libri e delle riviste, rivolti ad una collettività indifferenziata di potenziali lettori – si ricade in una diversa sfera di tutela costituzionale, quella della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.).
Obietta, tuttavia, il giudice a quo che la spedizione (o la consegna brevi manu) di una pubblicazione può servire, non (soltanto) come strumento di diffusione del pensiero del suo autore (che è un terzo rispetto ai diretti interessati), ma (anche) quale veicolo di comunicazione di un pensiero proprio del mittente, indirizzato in modo specifico ed esclusivo al destinatario. Mediante l’invio di un libro o di una rivista si potrebbero, infatti, esprimere sentimenti di vicinanza, di affetto o di sostegno nei confronti del detenuto; nel testo a stampa potrebbero essere interpolati messaggi, palesi od occulti, di vario genere, leciti e illeciti.
Il divieto stabilito dalla circolare ministeriale trova, del resto, la sua ragione giustificativa proprio nella possibilità che libri e riviste fungano da strumenti di comunicazione del detenuto con l’esterno. Di qui l’asserita esigenza che, in ossequio alla riserva, non solo di legge, ma anche di giurisdizione stabilita dall’art. 15 Cost. in rapporto alle limitazioni della libertà di corrispondenza, l’esclusione di tale «flusso comunicativo» venga disposta dall’autorità giudiziaria nelle forme e sui presupposti previsti dall’art. 18-ter ord. pen.
Per avvedersi dell’impossibilità di aderire ad una simile tesi è peraltro sufficiente osservare che, se essa fosse fondata, si dovrebbe riconoscere alla persona detenuta, in nome della libertà di corrispondenza, il diritto di scambiare con l’esterno, senza alcuna restrizione quali-quantitativa – fin tanto che non intervenga uno specifico provvedimento limitativo dell’autorità giudiziaria – non soltanto libri e riviste, ma qualsiasi tipo di oggetto. La postulata idoneità a fungere da veicolo di comunicazione di idee, sentimenti e notizie tra mittente e destinatario non è affatto una caratteristica propria ed esclusiva delle pubblicazioni a stampa: qualsiasi oggetto si presta astrattamente ad assumere – per effetto di una precedente convenzione, per la sua valenza simbolica intrinseca o semplicemente per i rapporti interpersonali tra le parti – un determinato significato comunicativo, quando non pure a fungere da sostituto “anomalo” dell’ordinario supporto cartaceo per la redazione di messaggi, o da contenitore per celarli al suo interno. E poiché l’eventualità di un simile impiego della res non potrebbe essere – così come per la stampa – esclusa a priori, ne dovrebbe derivare una indiscriminata libertà di circolazione dei beni tra il carcere e l’esterno.
Anche riconoscendo, peraltro, che, a fronte dell’ampia formula dell’art. 15 Cost., le comunicazioni si collochino sotto il cono di protezione della norma costituzionale a prescindere dal mezzo materiale impiegato per la trasmissione del pensiero – e, dunque, anche se effettuate “in forma reale”, ossia tramite scambio di oggetti “significanti” – non si può fare a meno di considerare la particolare condizione in cui versa qualsiasi persona detenuta.
Al riguardo, non può che essere ribadito il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la legittima restrizione della libertà personale, cui è sottoposta la persona detenuta, non annulla affatto la tutela costituzionale dei diritti fondamentali. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua libertà individuale (sentenze n. 20 del 2017 e n. 349 del 1993), e il cui esercizio, proprio per questo, non può essere rimesso alla discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta all’esecuzione della pena detentiva (sentenze n. 26 del 1999 e n. 212 del 1997).
La tutela dei diritti costituzionali del detenuto opera, pur tuttavia, «con le limitazioni che, come è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta» (sentenza n. 349 del 1993). La legittima restrizione della libertà personale cui il detenuto è soggetto, e che trova alla sua base un provvedimento giurisdizionale, si riverbera inevitabilmente, in modo più o meno significativo, sulle modalità di esercizio delle altre libertà costituzionalmente alla prima collegate. Ciò avviene anche per la libertà di comunicazione, la quale, nel corrente apprezzamento, rappresenta – al pari della libertà di domicilio (art. 14 Cost.) – una integrazione e una precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona, sancito dall’art. 13 Cost., in quanto espressione della “socialità” dell’essere umano, ossia della sua naturale aspirazione a collegarsi spiritualmente con i propri simili.
È evidente, così, che lo stato di detenzione incide in senso limitativo sulla facoltà del detenuto di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario: colloqui che, quali comunicazioni tra presenti, ricadono certamente nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost. Di necessità, i colloqui personali dei detenuti «sono soggetti a contingentamenti e regolazioni da parte dell’ordinamento penitenziario» (artt. 18 ord. pen. e 37 reg. esec.) (sentenza n. 20 del 2017) ed è l’autorità penitenziaria che, in concreto, stabilisce (in particolare, tramite il regolamento interno dell’istituto: art. 36, comma 2, lettera f, reg. esec.) i luoghi, i giorni e gli orari del loro svolgimento, senza che in ciò possa scorgersi alcuna violazione della norma costituzionale evocata.
È indubbio che proprio le evidenziate restrizioni ai colloqui diretti – che per i detenuti sottoposti al regime speciale divengono estremamente marcate – esaltino la rilevanza delle forme di comunicazione a distanza, o “tra assenti”, quale strumento di mantenimento delle relazioni interpersonali ed affettive del detenuto, così da evitare che la restrizione carceraria si traduca in un isolamento assoluto rispetto al mondo esterno e, con ciò stesso, in un trattamento contrario al senso di umanità (art. 27, terzo comma, Cost.). Nondimeno, anche le modalità di esercizio della libertà di comunicare con l’esterno – libertà non annullata dalla condizione carceraria, e che deve essere, anzi, necessariamente e adeguatamente garantita – risentono di quella condizione.
Per quanto qui più direttamente interessa, esigenze organizzative e logistiche, prima ancora che di ordine e sicurezza, fanno sì che all’inserimento in una struttura carceraria consegua necessariamente l’esclusione di una illimitata libertà del detenuto di ricevere e scambiare oggetti. La legge di ordinamento penitenziario e il regolamento di esecuzione dettano, in effetti – in nome delle predette esigenze, oltre che di quella di assicurare la parità delle condizioni di vita dei detenuti (art. 3 ord. pen.) – rigorosi limiti quantitativi e qualitativi in ordine agli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno, acquistati e tenuti con sé dalle persone ristrette (oggetti la cui dettagliata individuazione è poi affidata al regolamento interno dei singoli istituti), nonché al numero, alla periodicità e al contenuto dei pacchi trasmessi per posta o consegnati a dette persone in occasione dei colloqui (artt. 7 e 8 ord. pen., artt. 8, 9, 10, 14 e 40 reg. esec.).
Correlativamente, è naturale che la libertà di corrispondenza sia riconosciuta ai detenuti in quanto esplicata attraverso gli ordinari strumenti di comunicazione, e non anche nella forma anomala dello scambio diretto o per posta di oggetti aventi un significato convenzionale, o estemporaneamente vicari dell’usuale supporto cartaceo.
L’ordinamento penitenziario ammette, in particolare e tra l’altro, i detenuti alla corrispondenza epistolare, salvi i limiti connessi alla necessità di affidarsi all’amministrazione penitenziaria per lo smistamento della posta (sentenza n. 20 del 2017): e ciò anche quando si tratti di detenuti in regime speciale, salvo quanto stabilito in ordine al visto di controllo. In accordo con l’obbligo positivo che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, scaturisce dall’art. 8 della CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 febbraio 2009, Gagiu contro Romania; Corte europea dei diritti dell’uomo, 3 giugno 2003, Cotlet contro Romania), viene altresì imposto all’amministrazione penitenziaria di fornire gli strumenti necessari – in particolare, il materiale di cancelleria e l’affrancatura – a coloro che ne sono sprovvisti (art. 18, primo e quarto comma, ord. pen., art. 38 reg. esec.).
A tale prospettiva resta palesemente estraneo il concorrente riconoscimento, ad opera degli artt. 18 e 18-ter ord. pen., del diritto dei detenuti di ricevere (anche a mezzo posta) e di tenere con sé la stampa in libera vendita all’esterno. Come già rilevato in precedenza, tale riconoscimento non è dovuto al fatto che la stampa costituisca (rectius, possa costituire) una forma di corrispondenza nei sensi ipotizzati dal rimettente, ma alla considerazione che libri, riviste e quotidiani rappresentano lo strumento per l’esercizio di distinti diritti dei detenuti, quelli di informazione e di studio: diritti che, per quanto si è visto, non possono ritenersi compromessi in modo costituzionalmente significativo – quanto ai detenuti in regime speciale – dalla introduzione di regole limitative in ordine ai canali di acquisizione del materiale.
Deve quindi concludersi, in assonanza con la giurisprudenza di legittimità, che le regole di cui si discute non incidono sul diritto alla corrispondenza del detenuto, quale riconosciuto – in termini coerenti, sotto il profilo considerato, con la condizione di restrizione della libertà personale in cui egli versa e perciò non collidenti con la previsione dell’art. 15 Cost. – dalla legge di ordinamento penitenziario.
7.– È già insita in quanto precede la non fondatezza dell’ultima censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 8 della CEDU.
Il richiamo all’art. 3 della CEDU risulta chiaramente incongruo rispetto alla prospettiva del rimettente (il quale, come si è visto, non contesta l’ammissibilità delle limitazioni in questione, ma si duole solo del quomodo). Il divieto dei trattamenti inumani o degradanti, sancito dalla citata norma convenzionale, ha infatti carattere assoluto, sicché – se si versasse in tale ipotesi – neppure l’auspicato intervento del giudice varrebbe a rendere convenzionalmente legittime le misure. È, peraltro, palese che – in presenza di una immutata libertà di corrispondenza epistolare e di scelta dei testi con cui informarsi ed istruirsi – il mero fatto che il detenuto debba servirsi dell’istituto penitenziario per l’acquisizione della stampa, e non possa trasmetterla all’esterno, non determina livelli di sofferenza e di svilimento della sua persona tali da attingere al paradigma avuto di mira dalla citata norma convenzionale.
Quanto, poi, alla seconda delle norme interposte evocate, l’art. 8 della CEDU, al paragrafo 1, riconosce ad ogni persona il «diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza». Il diritto non è, in questo caso, assoluto: il paragrafo 2 dello stesso art. 8 consente, infatti, ingerenze della «pubblica autorità» (non necessariamente quella giudiziaria) nel suo esercizio, in presenza di tre condizioni. In primo luogo, l’ingerenza deve essere «prevista dalla legge»: formula che – secondo la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – deve essere intesa, sul piano delle fonti, come comprensiva non del solo diritto scritto, ma anche dell’applicazione e dell’interpretazione delle disposizioni normative da parte della giurisprudenza, e, sul piano della “qualità” della legge, come espressiva dell’esigenza dell’adeguata accessibilità e della sufficiente precisione della norma che prevede l’interferenza, così da fornire un’adeguata protezione contro l’arbitrio. In secondo luogo, poi, l’ingerenza deve perseguire uno degli scopi legittimi indicati dallo stesso paragrafo 2 («la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui»). Da ultimo, l’ingerenza deve essere «necessaria», «in una società democratica», per il raggiungimento dei predetti scopi: requisito che – sempre secondo le indicazioni della Corte di Strasburgo – postula la proporzionalità del sacrificio del diritto rispetto alla finalità legittima perseguita (per tutte, Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 marzo 1988, Olsson contro Svezia).
Ciò ricordato, deve escludersi che il divieto di scambiare libri e riviste con l’esterno, e con i familiari in specie, tramite il servizio postale possa essere assimilato – come ipotizza il rimettente – alla sottoposizione della corrispondenza del detenuto a visto di controllo, la cui disciplina nazionale – nell’assetto anteriore alla legge n. 95 del 2004 – è stata ripetutamente censurata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, 9 gennaio 2001, Natoli contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia; nonché, più di recente, Corte europea dei diritti dell’uomo, 1° settembre 2015, Paolello contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, 17 settembre 2009, Enea contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 luglio 2009, Annunziata contro Italia).
La limitazione dei canali di ricezione della stampa e il divieto di trasmetterla all’esterno non solo non incidono affatto – come è ovvio – sulla segretezza della corrispondenza del detenuto (diversamente dal visto di controllo), ma neppure comprimono, alla luce delle considerazioni in precedenza svolte, la libertà di corrispondere a mezzo posta già riconosciutagli dalla legge nazionale in coerenza con la condizione di legittima restrizione della libertà personale in cui il soggetto versa: libertà – quella di corrispondere a mezzo posta – che continua a potersi esplicare, in tutta la sua ampiezza, tramite l’ordinaria corrispondenza epistolare. È a mezzo di questa che il detenuto può continuare ad intrattenere le sue relazioni affettive con i familiari.
Peraltro, ove pure si volesse ritenere che, nella prospettiva della Convenzione, le limitazioni in discorso si traducano, comunque sia, in ingerenze, se non sul diritto alla corrispondenza, quantomeno sul diritto al rispetto della vita familiare del detenuto – così come sostiene il rimettente – la conclusione non muterebbe.
Al riguardo, vale ricordare che le richiamate decisioni della Corte di Strasburgo si fondavano sul rilievo che, sino all’entrata in vigore della legge n. 95 del 2004, l’unica base legale della sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza del detenuto, anche in regime speciale, doveva essere identificata – alla luce dell’interpretazione offerta da questa Corte con la sentenza n. 349 del 1993 – nella previsione dell’allora vigente art. 18 ord. pen.: norma che, pur demandando all’autorità giudiziaria l’adozione della misura, non disciplinava né la sua durata, né i motivi che potevano giustificarla e non indicava con sufficiente chiarezza l’ampiezza e le modalità di esercizio del potere discrezionale delle autorità competenti nel campo considerato. Di qui la conclusione della Corte europea che la misura non potesse ritenersi «prevista dalla legge», nei sensi richiesti dall’art. 8, paragrafo 2, della CEDU ai fini della possibile interferenza di una autorità pubblica nell’esercizio del diritto alla corrispondenza, e il conseguente intervento del legislatore nazionale, che ha regolato ex novo la materia con l’introduzione dell’art. 18-ter ord. pen.
Nel caso oggi in esame, per converso, alla luce di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il potere dell’amministrazione penitenziaria di disporre le misure in questione trova la sua base legale nel combinato disposto delle lettere a) e c) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. pen. Le ragioni per le quali detto potere può essere esercitato sono indicate dalla citata lettera a) in termini maggiormente specifici di quanto non faccia lo stesso art. 18-ter ord. pen. (introdotto al fine di adeguare l’ordinamento nazionale alla giurisprudenza europea sul visto di controllo). Come già si è avuto modo di ricordare, infatti, tale ultima disposizione richiama le «esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati» e le «ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto»: formule di certo più ampie rispetto al puntuale riferimento, operato dalla prima disposizione, alla necessità di prevenire contatti di detenuti di particolare pericolosità con le organizzazioni criminali di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazioni con altri detenuti appartenenti alla stessa organizzazione o ad organizzazioni a questa alleate.
Né, d’altra parte, con riguardo alla previsione della lettera c) dell’art. 41-bis, comma 2-quater, ord. pen., potrebbe rimproverarsi al legislatore nazionale di non aver adottato una norma più dettagliata in ordine ai «beni» e agli «oggetti» di cui, nella predetta ottica, può essere vietata la ricezione dall’esterno ai detenuti in regime speciale, apparendo tutt’altro che irragionevole la rinuncia del legislatore a procedere ad una elencazione minuta e casistica, che sconterebbe, comunque sia, il rischio della lacuna. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo non ha mancato, del resto, di porre in evidenza – proprio in relazione alla materia in esame – che «se una legge attributiva di potere discrezionale deve, in linea di principio, delimitarne la portata, è impossibile giungere ad una certezza assoluta nella sua formulazione, poiché il probabile risultato di un tale desiderio di certezza sarebbe un’eccessiva rigidità» (Corte europea dei diritti dell’uomo, 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia).
La durata della misura limitativa si modella, poi – come per le altre – su quella propria del regime speciale cui accede (stabilita dall’art. 41-bis, comma 2-bis, ord. pen.).
Per il resto, non è dubbio che le finalità della misura rientrino nel novero degli scopi legittimi previsti dall’art. 8, paragrafo 2, della CEDU, né che sussista – contrariamente a quanto assume il rimettente – il requisito della proporzionalità rispetto allo scopo. Al riguardo, basta osservare come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia ritenuto opportune e proporzionate rispetto allo scopo legittimo di mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza, recidendo i legami tra la persona interessata e il suo ambiente criminale di origine – e, perciò, conformi alla previsione del citato art. 8, paragrafo 2, della CEDU – restrizioni legate al regime detentivo speciale assai più incisive di quella di cui oggi si discute, a cominciare dalle severe limitazioni quantitative e modali inerenti ai colloqui personali con i familiari (per tutte, Corte europea dei diritti dell’uomo, 19 gennaio 2010, Montani contro Italia; Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande camera, 17 settembre 2009, Enea contro Italia).
8.– Alla luce delle considerazioni che precedono, le questioni vanno dichiarate quindi non fondate.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettere a) e c), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 febbraio 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2017.
Re: Limitazioni per i detenuti
- madre di tre figli (due gemelli di cinque anni e un figlio di tre anni), ha chiesto all’amministrazione penitenziaria di essere ammessa all’assistenza all’esterno dei figli minori ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, ma che tale istanza è stata rigettata, in quanto M. D.D. non ha ancora espiato un terzo della pena.
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SENTENZA N. 174
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi, nel procedimento su reclamo di M. D.D., con ordinanza del 22 maggio 2017, iscritta al n. 142 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 maggio 2017, iscritta al n. 142 del registro ordinanze 2017, il Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui tale disposizione, facendo rinvio all’art. 21 della medesima legge n. 354 del 1975, esclude dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci il detenuto condannato «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena.
1.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate dal giudice chiamato a decidere il reclamo presentato, ex art. 35-bis della legge n. 354 del 1975, da M. D.D., condannata alla pena di quattro anni e dieci mesi di reclusione per i delitti di cui agli artt. 73 e 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), con fine pena al 30 maggio 2021.
Il giudice a quo ricorda che la condannata, in quanto madre di tre figli (due gemelli di cinque anni e un figlio di tre anni), ha chiesto all’amministrazione penitenziaria di essere ammessa all’assistenza all’esterno dei figli minori ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, ma che tale istanza è stata rigettata, in quanto M. D.D. non ha ancora espiato un terzo della pena. Tale requisito è previsto dall’art. 21, comma 1, cui rinvia la disposizione da ultimo citata, per i detenuti condannati per uno dei reati elencati all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975. Il difensore di M. D.D., nell’insistere per l’accoglimento del reclamo, ha dedotto l’illegittimità costituzionale del ricordato art. 21-bis.
Il giudice rimettente osserva che le questioni di legittimità costituzionale eccepite dalla parte sarebbero rilevanti, atteso che, con il reclamo presentato ex art. 35-bis, è stato lamentato – ai sensi dell’art. 68, comma 2, lettera b) [recte: art. 69, comma 6, lettera b)], della legge n. 354 del 1975 – l’attuale e grave pregiudizio determinato dall’adozione di un atto di rigetto dell’ammissione al beneficio da parte dell’amministrazione penitenziaria, la quale ha assunto la propria decisione sulla base dell’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975.
Evidenzia, inoltre, il giudice a quo che, sebbene a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017 la detenuta possa avanzare istanza per l’accesso alla detenzione domiciliare speciale ex art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, ella «in concreto» non risulterebbe «ancora nelle condizioni di merito per accedere alla misura alternativa, attesa l’esiguità della pena espiata e la valutazione di prematurità per l’avvio di una progettualità in esternato, espressa anche dall’Equipe di Osservazione».
Ad avviso del rimettente, la misura alternativa alla detenzione prevista dal citato art. 47-quinquies costituirebbe uno strumento trattamentale non sovrapponibile, bensì complementare e progressivo, rispetto a quello dell’assistenza all’esterno dei figli minori, che conserva carattere inframurario.
Ne consegue – secondo il rimettente – che la detenuta ha interesse alla fruizione del beneficio penitenziario previsto dall’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 pur successivamente alla decisione della Corte costituzionale n. 76 del 2017.
1.2.– Nel merito, il rimettente ricorda che la disposizione censurata fu introdotta dalla legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), ossia da una legge preordinata a tutelare il diritto del minore a mantenere, nella prima infanzia, un sano e corretto rapporto con la madre detenuta in un contesto diverso da quello carcerario, del tutto inadatto a tale scopo.
La disposizione censurata, contenendo quel che il rimettente definisce un «automatismo di preclusione assoluta» all’accesso al beneficio, si porrebbe, invece, in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost. e, in particolare, con il diritto del minore a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere (diritto, peraltro, già riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007). In particolare, l’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 sarebbe in contrasto con il principio secondo cui il «superiore e preminente» interesse del minore può essere «limitato», in occasione di decisioni assunte «da autorità pubbliche o istituzioni private», solo a seguito di un bilanciamento con interessi contrapposti (come quelli di difesa sociale sottesi all’esecuzione della pena).
Affermando di non ignorare che tale bilanciamento è rimesso a scelte discrezionali di politica legislativa, il giudice a quo lamenta, tuttavia, che la disposizione censurata si limiterebbe «a fissare una preclusione rigida» e che essa impedirebbe la concessione del beneficio prima che sia stato espiato un congruo periodo di pena, senza che possa essere verificata in concreto la sussistenza di una prevalente ragione che alla concessione di tale beneficio si opponga.
La disposizione censurata si inserirebbe, inoltre, disarmonicamente in un sistema che consente alle madri condannate per delitti ostativi di essere da subito ammesse, a prescindere dall’entità della pena da espiare, alla misura alternativa della detenzione domiciliare ordinaria, nelle ipotesi in cui è possibile disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale (art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975) e, in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017, alla misura della detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975). In tale contesto, il censurato art. 21-bis si porrebbe «come ultimo tassello normativo costituzionalmente illegittimo», in quanto esclude dal beneficio, sia pur temporaneamente, le condannate per reato ostativo, con una presunzione di assoluta immeritevolezza.
Precisa, infine, il giudice a quo che la circostanza che la detenuta possa chiedere di essere ammessa alla misura della detenzione domiciliare speciale non inciderebbe sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale così formulate. Infatti, l’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, comportando la formale scarcerazione, prevede un regime differente e meno contenitivo rispetto alla concessione del beneficio di cui all’art. 21-bis, che, invece, comporta solo una differente modalità di trattamento inframurario. Nella prospettiva del rimettente, la «previsione di una progressività di trattamento», la cui valutazione è demandata alla magistratura di sorveglianza, dovrebbe logicamente comportare che ai due menzionati istituti la detenuta sia ammessa sulla base di identici presupposti, opportunamente valutabili in relazione al caso concreto e sulla base della pericolosità sociale di una condannata, che, come accade nel caso di specie, abbia da poco iniziato ad espiare la pena per uno dei reati elencati all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975.
Considerato in diritto
1.– Il Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi dubita della legittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui tale disposizione, facendo rinvio a quanto disposto al precedente art. 21 della medesima legge n. 354 del 1975, esclude dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci il detenuto condannato «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena.
La disposizione censurata, al comma 1, prevede che le condannate e le internate possono essere ammesse a tale beneficio alle condizioni previste dal precedente art. 21. Quest’ultimo, in tema di accesso dei detenuti al lavoro all’esterno, al comma 1, dispone che, in caso di condanna alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, il beneficio può essere concesso dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena in carcere e, comunque, di non oltre cinque anni. Nei confronti dei condannati all’ergastolo l’assegnazione al lavoro all’esterno può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni.
Secondo il rimettente, l’esclusione dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli minori per la detenuta condannata «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno una parte di pena – esclusione derivante dal sistema normativo appena descritto – si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione. La disposizione censurata finirebbe infatti per contenere un «automatismo di preclusione assoluta» all’accesso al beneficio e impedirebbe al giudice, laddove non sia ancora stata espiata una parte di pena, di bilanciare le esigenze di difesa sociale con l’interesse del minore, pregiudicando il diritto di quest’ultimo a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere (diritto, peraltro, già riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007).
Secondo il giudice a quo, inoltre, la disposizione censurata si inserirebbe disarmonicamente in un sistema che già consente alle madri condannate per delitti ostativi di essere da subito ammesse, a prescindere dall’entità della pena da espiare, sia alla misura alternativa della detenzione domiciliare ordinaria, nelle ipotesi in cui è possibile disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale (art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975), sia, in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017, alla misura della detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975).
2.– La questione è fondata.
2.1.– L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 è stato introdotto dall’art. 5 della legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), al fine di ampliare le possibilità, per la madre detenuta che non abbia ottenuto la detenzione domiciliare ordinaria o la detenzione domiciliare speciale, di provvedere alla cura dei figli, in un ambiente non carcerario, per un periodo di tempo predeterminato nel corso della giornata.
Come emerge dai lavori preparatori della legge n. 40 del 2001 (ed in particolare dalla Relazione illustrativa al disegno di legge C-4426 presentato alla Camera dei deputati il 24 dicembre 1997) il legislatore, da un lato, ha inteso ampliare le modalità che assicurano la continuità della funzione genitoriale, dall’altro, ha ritenuto che i compiti di cura dei figli minori abbiano «lo stesso valore sociale e la stessa potenzialità risocializzante dell’attività lavorativa». Per tale ragione, le condizioni alle quali è possibile ottenere il beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli di età non superiore agli anni dieci coincidono con quelle previste per l’accesso al lavoro all’esterno. L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, quindi, rinvia al precedente art. 21, che prevede, per i condannati alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, che l’accesso al lavoro all’esterno sia subordinato alla previa espiazione di almeno un terzo della pena detentiva, e comunque di non oltre cinque anni, oppure almeno di dieci anni in caso di condannati alla pena dell’ergastolo.
Alla luce di questa ricostruzione, le sollevate questioni sulla disposizione in tema di accesso all’assistenza all’esterno ai figli in tenera età pongono il seguente quesito: se sia costituzionalmente corretto che i requisiti previsti per ottenere un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire, al di fuori della restrizione carceraria, il rapporto tra madre e figli in tenera età siano identici a quelli prescritti per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, il quale è esclusivamente preordinato al reinserimento sociale del condannato, senza immediate ricadute su soggetti diversi da quest’ultimo.
2.2.– Per inquadrare correttamente le questioni sottoposte all’esame della Corte, occorre premettere che l’art. 21, nella parte in cui regola l’accesso al beneficio per i condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, deve essere interpretato in base a quanto disposto dagli artt. 4-bis e 58-ter della medesima legge.
Tali due ultime disposizioni consentono un accesso ai benefici penitenziari differenziato a seconda del titolo di reato per i quali i condannati scontano la pena, nonché a seconda della condizione in cui essi si trovano in punto di collaborazione con la giustizia.
In base al citato art. 4-bis i condannati per i delitti elencati nel comma 1 del medesimo articolo (tra i quali è da annoverare la madre detenuta di cui si tratta nel giudizio a quo) possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter della stessa legge.
Per parte sua, l’art. 58-ter prevede, tra l’altro, con riferimento alle persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis, che l’aver scontato almeno la parte di pena detentiva prevista al comma 1 dell’art. 21 non costituisce presupposto necessario per l’accesso al lavoro all’esterno (e dunque, per quel che qui interessa, all’assistenza all’esterno ai figli minori) se, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.
L’operare congiunto delle tre disposizioni ricordate (dell’art. 21, nonché degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975) comporta, in definitiva, che l’accesso al lavoro all’esterno – e, di conseguenza, all’assistenza all’esterno dei figli minori – sia soggetto a requisiti differenziati, a seconda che il detenuto sia stato condannato per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, comma 1 (delitti cosiddetti di prima fascia), comma 1-ter (cosiddetti di seconda fascia) o comma 1-quater (cosiddetti di terza fascia), nonché a seconda della condizione in cui il detenuto si trovi in punto di collaborazione con la giustizia.
In particolare, i condannati per uno dei delitti elencati ai commi 1-ter (di “seconda fascia”) e 1-quater (di “terza fascia”) dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, per accedere al beneficio, dovranno, alternativamente, scontare la parte di pena prevista dall’art. 21, oppure potranno ottenerlo immediatamente se collaborano attivamente con la giustizia ex art. 58-ter.
Invece, stante il perentorio contenuto letterale della disposizione, i condannati per i delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (di “prima fascia”), se non collaborano con la giustizia non potranno accedere al beneficio neppure dopo aver scontato un terzo di pena (o dieci anni in caso di condanna all’ergastolo); se, invece, essi tale collaborazione assicurino seguendo le modalità previste dall’art. 58-ter, comma 1, della legge n. 354 del 1975, potranno accedervi senza dover previamente scontare una frazione di pena, secondo una soluzione interpretativa già individuata da questa Corte (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 3 febbraio 2016, n. 37578, e sentenza 12 luglio 2006, n. 30434).
In base ad una interpretazione letterale delle ricordate disposizioni, debbono invece scontare una frazione di pena prima di accedere al beneficio i condannati per uno dei delitti di “prima fascia” che si trovino nelle condizioni previste dal comma 1-bis dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. In altre parole, la previsione secondo cui è necessario scontare un terzo di pena, o dieci anni in caso di ergastolo, prima di poter accedere al beneficio del lavoro all’esterno (e, per ciò che qui interessa, all’assistenza all’esterno dei figli minori) si applica a quei condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, comma 1, per i quali un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile a causa della limitata partecipazione al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero risulti impossibile, per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché nei casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante» (sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6, 114 o 116 cod. pen.), e comunque «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».
2.3.– Qualunque sia la scelta della madre detenuta in punto di collaborazione con la giustizia, la disposizione censurata esibisce un contenuto normativo in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost.
2.4.– In primo luogo, infatti, per le detenute per uno dei reati elencati all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori è subordinato, quale requisito imprescindibile, a tale collaborazione, svolta secondo le indicazioni contenute nell’art. 58-ter ordin. penit. Infatti, quand’anche la condannata abbia scontato una parte della pena, in assenza di collaborazione non potrà accedere al beneficio.
In tal caso, la situazione della detenuta, madre di figli di età non superiore agli anni dieci, ricade nelle valutazioni compiute da questa Corte nella sentenza n. 239 del 2014. In quest’ultima, si è affermato che l’incentivazione alla collaborazione con la giustizia, quale strategia di contrasto con la criminalità organizzata, può perseguirsi impedendo la fruizione di benefici penitenziari costruiti in funzione di un progresso individuale del condannato verso l’obbiettivo della risocializzazione. Si è altresì chiarito che la conclusione deve essere ben diversa quando una simile strategia non si limiti a produrre effetti sulla condizione individuale del detenuto, ma, impedendo a quest’ultimo l’accesso a un beneficio, finisca per incidere anche su terzi, e in particolare su soggetti, come i minori in tenera età, ai quali la Costituzione esige siano garantite le condizioni per il migliore e più equilibrato sviluppo psico-fisico.
Nella sentenza n. 239 del 2014 si è anche precisato che l’interesse del minore a beneficiare in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena. Ma si è aggiunto che, affinché l’interesse del minore non resti irragionevolmente recessivo rispetto alle esigenze di protezione della società dal crimine, «occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata […] in concreto […] e non già collegata ad indici presuntivi […] che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni».
Se queste considerazioni vengono riferite al caso dell’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori di cui all’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, la conclusione è obbligata. Subordinare la concessione di tale beneficio alla collaborazione con la giustizia significa condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto tra madre e figlio in tenera età ad un indice legale del “ravvedimento” della condannata. E se pur sia possibile condizionare alla collaborazione con la giustizia l’accesso ad un beneficio, laddove quest’ultimo abbia di mira in via esclusiva la risocializzazione dell’autore della condotta illecita, una tale possibilità non vi è quando al centro della tutela si trovi un interesse “esterno”, e in particolare il peculiare interesse del figlio minore, garantito dall’art. 31, secondo comma, Cost., ad un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o, in via subordinata, con il padre).
Per identiche ragioni, tra l’altro, la disposizione censurata si pone in contrasto con il parametro costituzionale da ultimo ricordato anche nella parte in cui condiziona alla collaborazione con la giustizia l’immediato accesso al beneficio per i condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, commi 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975 (cosiddetti di seconda o di terza fascia).
Ciascuna delle ipotesi considerate, infatti, finisce per subordinare l’accesso all’assistenza all’esterno al figlio minore ad una scelta in tema di collaborazione con la giustizia, in palese contrasto con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 239 del 2014.
2.5.– L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 si pone, infine, in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost. anche per le conseguenze che determina in capo alle madri detenute per uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante.
Tali detenute – come ricordato – debbono sempre scontare una parte di pena prima di accedere al beneficio. L’amministrazione penitenziaria prima, e il giudice poi, si trovano, così, al cospetto di una presunzione assoluta e insuperabile, non essendo loro concesso di bilanciare in concreto, a prescindere da indici legali presuntivi, le esigenze di difesa sociale rispetto al migliore interesse del minore.
Ciò è in contrasto con i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 76 del 2017, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui imponeva alle condannate per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis della medesima legge di scontare una frazione di pena in carcere prima di poter accedere alla detenzione domiciliare speciale, cioè ad altra misura finalizzata a garantire il rapporto tra la madre detenuta e il figlio in tenera età.
In tale sentenza si è affermato che se il legislatore, tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre a modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare la concreta sussistenza, nelle singole situazioni, di esigenze di difesa sociale, bilanciandole con il migliore interesse del minore in tenera età, si è al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, il quale comporta il totale sacrificio di quell’interesse.
Tale conclusione non può che essere ora ribadita con riferimento all’accesso al beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli di età non superiore agli anni dieci per le detenute per uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante.
2.6.– In definitiva, i requisiti legislativi previsti per l’accesso a un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire, al di fuori della restrizione carceraria, il rapporto tra madre e figli in tenera età, non possono coincidere con quelli per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, il quale è esclusivamente preordinato al reinserimento sociale del condannato, senza immediate ricadute su soggetti diversi da quest’ultimo.
L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, operando invece un rinvio al precedente art. 21, e parificando i requisiti in discorso, si pone in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost., poiché, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena.
Restano assorbite le questioni sollevate in riferimento agli altri parametri evocati dal rimettente.
2.7.– Osserva, infine, questa Corte che la presente pronuncia di accoglimento non pregiudica le esigenze di difesa sociale sottese alla previsione di limiti all’accesso al beneficio di cui all’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 per i condannati per taluno dei reati elencati all’art. 4-bis della medesima legge (siano essi la madre detenuta o, in via subordinata, il padre ex art 21-bis, comma 3). La concessione del beneficio resta pur sempre affidata al prudente apprezzamento del magistrato di sorveglianza, chiamato ad approvare il provvedimento disposto dall’amministrazione penitenziaria (ai sensi degli artt. 21, comma 4, e 69, comma 5, della legge n. 354 del 1975). In tale sede, infatti, l’autorità giudiziaria deve «tenere conto del tipo di reato, della durata, effettiva o prevista, della misura privativa della libertà e della residua parte di essa, nonché dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro all’esterno [nel nostro caso: all’assistenza all’esterno ai figli] commetta altri reati» (art. 48, comma 4, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, intitolato «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà»).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 4 luglio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2018.
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SENTENZA N. 174
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi, nel procedimento su reclamo di M. D.D., con ordinanza del 22 maggio 2017, iscritta al n. 142 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Udito nella camera di consiglio del 4 luglio 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 22 maggio 2017, iscritta al n. 142 del registro ordinanze 2017, il Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui tale disposizione, facendo rinvio all’art. 21 della medesima legge n. 354 del 1975, esclude dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci il detenuto condannato «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena.
1.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate dal giudice chiamato a decidere il reclamo presentato, ex art. 35-bis della legge n. 354 del 1975, da M. D.D., condannata alla pena di quattro anni e dieci mesi di reclusione per i delitti di cui agli artt. 73 e 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), con fine pena al 30 maggio 2021.
Il giudice a quo ricorda che la condannata, in quanto madre di tre figli (due gemelli di cinque anni e un figlio di tre anni), ha chiesto all’amministrazione penitenziaria di essere ammessa all’assistenza all’esterno dei figli minori ai sensi dell’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, ma che tale istanza è stata rigettata, in quanto M. D.D. non ha ancora espiato un terzo della pena. Tale requisito è previsto dall’art. 21, comma 1, cui rinvia la disposizione da ultimo citata, per i detenuti condannati per uno dei reati elencati all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975. Il difensore di M. D.D., nell’insistere per l’accoglimento del reclamo, ha dedotto l’illegittimità costituzionale del ricordato art. 21-bis.
Il giudice rimettente osserva che le questioni di legittimità costituzionale eccepite dalla parte sarebbero rilevanti, atteso che, con il reclamo presentato ex art. 35-bis, è stato lamentato – ai sensi dell’art. 68, comma 2, lettera b) [recte: art. 69, comma 6, lettera b)], della legge n. 354 del 1975 – l’attuale e grave pregiudizio determinato dall’adozione di un atto di rigetto dell’ammissione al beneficio da parte dell’amministrazione penitenziaria, la quale ha assunto la propria decisione sulla base dell’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975.
Evidenzia, inoltre, il giudice a quo che, sebbene a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017 la detenuta possa avanzare istanza per l’accesso alla detenzione domiciliare speciale ex art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, ella «in concreto» non risulterebbe «ancora nelle condizioni di merito per accedere alla misura alternativa, attesa l’esiguità della pena espiata e la valutazione di prematurità per l’avvio di una progettualità in esternato, espressa anche dall’Equipe di Osservazione».
Ad avviso del rimettente, la misura alternativa alla detenzione prevista dal citato art. 47-quinquies costituirebbe uno strumento trattamentale non sovrapponibile, bensì complementare e progressivo, rispetto a quello dell’assistenza all’esterno dei figli minori, che conserva carattere inframurario.
Ne consegue – secondo il rimettente – che la detenuta ha interesse alla fruizione del beneficio penitenziario previsto dall’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 pur successivamente alla decisione della Corte costituzionale n. 76 del 2017.
1.2.– Nel merito, il rimettente ricorda che la disposizione censurata fu introdotta dalla legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), ossia da una legge preordinata a tutelare il diritto del minore a mantenere, nella prima infanzia, un sano e corretto rapporto con la madre detenuta in un contesto diverso da quello carcerario, del tutto inadatto a tale scopo.
La disposizione censurata, contenendo quel che il rimettente definisce un «automatismo di preclusione assoluta» all’accesso al beneficio, si porrebbe, invece, in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost. e, in particolare, con il diritto del minore a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere (diritto, peraltro, già riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007). In particolare, l’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 sarebbe in contrasto con il principio secondo cui il «superiore e preminente» interesse del minore può essere «limitato», in occasione di decisioni assunte «da autorità pubbliche o istituzioni private», solo a seguito di un bilanciamento con interessi contrapposti (come quelli di difesa sociale sottesi all’esecuzione della pena).
Affermando di non ignorare che tale bilanciamento è rimesso a scelte discrezionali di politica legislativa, il giudice a quo lamenta, tuttavia, che la disposizione censurata si limiterebbe «a fissare una preclusione rigida» e che essa impedirebbe la concessione del beneficio prima che sia stato espiato un congruo periodo di pena, senza che possa essere verificata in concreto la sussistenza di una prevalente ragione che alla concessione di tale beneficio si opponga.
La disposizione censurata si inserirebbe, inoltre, disarmonicamente in un sistema che consente alle madri condannate per delitti ostativi di essere da subito ammesse, a prescindere dall’entità della pena da espiare, alla misura alternativa della detenzione domiciliare ordinaria, nelle ipotesi in cui è possibile disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale (art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975) e, in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017, alla misura della detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975). In tale contesto, il censurato art. 21-bis si porrebbe «come ultimo tassello normativo costituzionalmente illegittimo», in quanto esclude dal beneficio, sia pur temporaneamente, le condannate per reato ostativo, con una presunzione di assoluta immeritevolezza.
Precisa, infine, il giudice a quo che la circostanza che la detenuta possa chiedere di essere ammessa alla misura della detenzione domiciliare speciale non inciderebbe sulla rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale così formulate. Infatti, l’art. 47-quinquies della legge n. 354 del 1975, comportando la formale scarcerazione, prevede un regime differente e meno contenitivo rispetto alla concessione del beneficio di cui all’art. 21-bis, che, invece, comporta solo una differente modalità di trattamento inframurario. Nella prospettiva del rimettente, la «previsione di una progressività di trattamento», la cui valutazione è demandata alla magistratura di sorveglianza, dovrebbe logicamente comportare che ai due menzionati istituti la detenuta sia ammessa sulla base di identici presupposti, opportunamente valutabili in relazione al caso concreto e sulla base della pericolosità sociale di una condannata, che, come accade nel caso di specie, abbia da poco iniziato ad espiare la pena per uno dei reati elencati all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975.
Considerato in diritto
1.– Il Magistrato di sorveglianza di Lecce e Brindisi dubita della legittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui tale disposizione, facendo rinvio a quanto disposto al precedente art. 21 della medesima legge n. 354 del 1975, esclude dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci il detenuto condannato «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno un terzo della pena.
La disposizione censurata, al comma 1, prevede che le condannate e le internate possono essere ammesse a tale beneficio alle condizioni previste dal precedente art. 21. Quest’ultimo, in tema di accesso dei detenuti al lavoro all’esterno, al comma 1, dispone che, in caso di condanna alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, il beneficio può essere concesso dopo l’espiazione di almeno un terzo della pena in carcere e, comunque, di non oltre cinque anni. Nei confronti dei condannati all’ergastolo l’assegnazione al lavoro all’esterno può avvenire dopo l’espiazione di almeno dieci anni.
Secondo il rimettente, l’esclusione dal beneficio dell’assistenza all’esterno dei figli minori per la detenuta condannata «per reato ostativo» che non abbia ancora espiato almeno una parte di pena – esclusione derivante dal sistema normativo appena descritto – si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 della Costituzione. La disposizione censurata finirebbe infatti per contenere un «automatismo di preclusione assoluta» all’accesso al beneficio e impedirebbe al giudice, laddove non sia ancora stata espiata una parte di pena, di bilanciare le esigenze di difesa sociale con l’interesse del minore, pregiudicando il diritto di quest’ultimo a mantenere un rapporto con la madre all’esterno del carcere (diritto, peraltro, già riconosciuto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007).
Secondo il giudice a quo, inoltre, la disposizione censurata si inserirebbe disarmonicamente in un sistema che già consente alle madri condannate per delitti ostativi di essere da subito ammesse, a prescindere dall’entità della pena da espiare, sia alla misura alternativa della detenzione domiciliare ordinaria, nelle ipotesi in cui è possibile disporre il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi degli artt. 146 e 147 del codice penale (art. 47-ter, comma 1-ter, della legge n. 354 del 1975), sia, in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 76 del 2017, alla misura della detenzione domiciliare speciale (art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975).
2.– La questione è fondata.
2.1.– L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 è stato introdotto dall’art. 5 della legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), al fine di ampliare le possibilità, per la madre detenuta che non abbia ottenuto la detenzione domiciliare ordinaria o la detenzione domiciliare speciale, di provvedere alla cura dei figli, in un ambiente non carcerario, per un periodo di tempo predeterminato nel corso della giornata.
Come emerge dai lavori preparatori della legge n. 40 del 2001 (ed in particolare dalla Relazione illustrativa al disegno di legge C-4426 presentato alla Camera dei deputati il 24 dicembre 1997) il legislatore, da un lato, ha inteso ampliare le modalità che assicurano la continuità della funzione genitoriale, dall’altro, ha ritenuto che i compiti di cura dei figli minori abbiano «lo stesso valore sociale e la stessa potenzialità risocializzante dell’attività lavorativa». Per tale ragione, le condizioni alle quali è possibile ottenere il beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli di età non superiore agli anni dieci coincidono con quelle previste per l’accesso al lavoro all’esterno. L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, quindi, rinvia al precedente art. 21, che prevede, per i condannati alla pena della reclusione per uno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, che l’accesso al lavoro all’esterno sia subordinato alla previa espiazione di almeno un terzo della pena detentiva, e comunque di non oltre cinque anni, oppure almeno di dieci anni in caso di condannati alla pena dell’ergastolo.
Alla luce di questa ricostruzione, le sollevate questioni sulla disposizione in tema di accesso all’assistenza all’esterno ai figli in tenera età pongono il seguente quesito: se sia costituzionalmente corretto che i requisiti previsti per ottenere un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire, al di fuori della restrizione carceraria, il rapporto tra madre e figli in tenera età siano identici a quelli prescritti per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, il quale è esclusivamente preordinato al reinserimento sociale del condannato, senza immediate ricadute su soggetti diversi da quest’ultimo.
2.2.– Per inquadrare correttamente le questioni sottoposte all’esame della Corte, occorre premettere che l’art. 21, nella parte in cui regola l’accesso al beneficio per i condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, deve essere interpretato in base a quanto disposto dagli artt. 4-bis e 58-ter della medesima legge.
Tali due ultime disposizioni consentono un accesso ai benefici penitenziari differenziato a seconda del titolo di reato per i quali i condannati scontano la pena, nonché a seconda della condizione in cui essi si trovano in punto di collaborazione con la giustizia.
In base al citato art. 4-bis i condannati per i delitti elencati nel comma 1 del medesimo articolo (tra i quali è da annoverare la madre detenuta di cui si tratta nel giudizio a quo) possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter della stessa legge.
Per parte sua, l’art. 58-ter prevede, tra l’altro, con riferimento alle persone condannate per taluno dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1-quater, dell’art. 4-bis, che l’aver scontato almeno la parte di pena detentiva prevista al comma 1 dell’art. 21 non costituisce presupposto necessario per l’accesso al lavoro all’esterno (e dunque, per quel che qui interessa, all’assistenza all’esterno ai figli minori) se, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati.
L’operare congiunto delle tre disposizioni ricordate (dell’art. 21, nonché degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge n. 354 del 1975) comporta, in definitiva, che l’accesso al lavoro all’esterno – e, di conseguenza, all’assistenza all’esterno dei figli minori – sia soggetto a requisiti differenziati, a seconda che il detenuto sia stato condannato per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, comma 1 (delitti cosiddetti di prima fascia), comma 1-ter (cosiddetti di seconda fascia) o comma 1-quater (cosiddetti di terza fascia), nonché a seconda della condizione in cui il detenuto si trovi in punto di collaborazione con la giustizia.
In particolare, i condannati per uno dei delitti elencati ai commi 1-ter (di “seconda fascia”) e 1-quater (di “terza fascia”) dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, per accedere al beneficio, dovranno, alternativamente, scontare la parte di pena prevista dall’art. 21, oppure potranno ottenerlo immediatamente se collaborano attivamente con la giustizia ex art. 58-ter.
Invece, stante il perentorio contenuto letterale della disposizione, i condannati per i delitti di cui al comma 1 dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (di “prima fascia”), se non collaborano con la giustizia non potranno accedere al beneficio neppure dopo aver scontato un terzo di pena (o dieci anni in caso di condanna all’ergastolo); se, invece, essi tale collaborazione assicurino seguendo le modalità previste dall’art. 58-ter, comma 1, della legge n. 354 del 1975, potranno accedervi senza dover previamente scontare una frazione di pena, secondo una soluzione interpretativa già individuata da questa Corte (sentenza n. 504 del 1995; nello stesso senso, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 3 febbraio 2016, n. 37578, e sentenza 12 luglio 2006, n. 30434).
In base ad una interpretazione letterale delle ricordate disposizioni, debbono invece scontare una frazione di pena prima di accedere al beneficio i condannati per uno dei delitti di “prima fascia” che si trovino nelle condizioni previste dal comma 1-bis dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. In altre parole, la previsione secondo cui è necessario scontare un terzo di pena, o dieci anni in caso di ergastolo, prima di poter accedere al beneficio del lavoro all’esterno (e, per ciò che qui interessa, all’assistenza all’esterno dei figli minori) si applica a quei condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, comma 1, per i quali un’utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile a causa della limitata partecipazione al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero risulti impossibile, per l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con la sentenza irrevocabile; nonché nei casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante» (sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6, 114 o 116 cod. pen.), e comunque «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».
2.3.– Qualunque sia la scelta della madre detenuta in punto di collaborazione con la giustizia, la disposizione censurata esibisce un contenuto normativo in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost.
2.4.– In primo luogo, infatti, per le detenute per uno dei reati elencati all’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori è subordinato, quale requisito imprescindibile, a tale collaborazione, svolta secondo le indicazioni contenute nell’art. 58-ter ordin. penit. Infatti, quand’anche la condannata abbia scontato una parte della pena, in assenza di collaborazione non potrà accedere al beneficio.
In tal caso, la situazione della detenuta, madre di figli di età non superiore agli anni dieci, ricade nelle valutazioni compiute da questa Corte nella sentenza n. 239 del 2014. In quest’ultima, si è affermato che l’incentivazione alla collaborazione con la giustizia, quale strategia di contrasto con la criminalità organizzata, può perseguirsi impedendo la fruizione di benefici penitenziari costruiti in funzione di un progresso individuale del condannato verso l’obbiettivo della risocializzazione. Si è altresì chiarito che la conclusione deve essere ben diversa quando una simile strategia non si limiti a produrre effetti sulla condizione individuale del detenuto, ma, impedendo a quest’ultimo l’accesso a un beneficio, finisca per incidere anche su terzi, e in particolare su soggetti, come i minori in tenera età, ai quali la Costituzione esige siano garantite le condizioni per il migliore e più equilibrato sviluppo psico-fisico.
Nella sentenza n. 239 del 2014 si è anche precisato che l’interesse del minore a beneficiare in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne non forma oggetto di una protezione assoluta, insuscettibile di bilanciamento con contrapposte esigenze, pure di rilievo costituzionale, quali quelle di difesa sociale, sottese alla necessaria esecuzione della pena. Ma si è aggiunto che, affinché l’interesse del minore non resti irragionevolmente recessivo rispetto alle esigenze di protezione della società dal crimine, «occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata […] in concreto […] e non già collegata ad indici presuntivi […] che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni».
Se queste considerazioni vengono riferite al caso dell’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori di cui all’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, la conclusione è obbligata. Subordinare la concessione di tale beneficio alla collaborazione con la giustizia significa condizionare in via assoluta e presuntiva la tutela del rapporto tra madre e figlio in tenera età ad un indice legale del “ravvedimento” della condannata. E se pur sia possibile condizionare alla collaborazione con la giustizia l’accesso ad un beneficio, laddove quest’ultimo abbia di mira in via esclusiva la risocializzazione dell’autore della condotta illecita, una tale possibilità non vi è quando al centro della tutela si trovi un interesse “esterno”, e in particolare il peculiare interesse del figlio minore, garantito dall’art. 31, secondo comma, Cost., ad un rapporto quanto più possibile normale con la madre (o, in via subordinata, con il padre).
Per identiche ragioni, tra l’altro, la disposizione censurata si pone in contrasto con il parametro costituzionale da ultimo ricordato anche nella parte in cui condiziona alla collaborazione con la giustizia l’immediato accesso al beneficio per i condannati per uno dei delitti elencati all’art. 4-bis, commi 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975 (cosiddetti di seconda o di terza fascia).
Ciascuna delle ipotesi considerate, infatti, finisce per subordinare l’accesso all’assistenza all’esterno al figlio minore ad una scelta in tema di collaborazione con la giustizia, in palese contrasto con quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 239 del 2014.
2.5.– L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 si pone, infine, in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost. anche per le conseguenze che determina in capo alle madri detenute per uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante.
Tali detenute – come ricordato – debbono sempre scontare una parte di pena prima di accedere al beneficio. L’amministrazione penitenziaria prima, e il giudice poi, si trovano, così, al cospetto di una presunzione assoluta e insuperabile, non essendo loro concesso di bilanciare in concreto, a prescindere da indici legali presuntivi, le esigenze di difesa sociale rispetto al migliore interesse del minore.
Ciò è in contrasto con i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 76 del 2017, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui imponeva alle condannate per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis della medesima legge di scontare una frazione di pena in carcere prima di poter accedere alla detenzione domiciliare speciale, cioè ad altra misura finalizzata a garantire il rapporto tra la madre detenuta e il figlio in tenera età.
In tale sentenza si è affermato che se il legislatore, tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre a modalità agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare la concreta sussistenza, nelle singole situazioni, di esigenze di difesa sociale, bilanciandole con il migliore interesse del minore in tenera età, si è al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, il quale comporta il totale sacrificio di quell’interesse.
Tale conclusione non può che essere ora ribadita con riferimento all’accesso al beneficio dell’assistenza all’esterno ai figli di età non superiore agli anni dieci per le detenute per uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la cui collaborazione con la giustizia sia impossibile, inesigibile o irrilevante.
2.6.– In definitiva, i requisiti legislativi previsti per l’accesso a un beneficio prevalentemente finalizzato a favorire, al di fuori della restrizione carceraria, il rapporto tra madre e figli in tenera età, non possono coincidere con quelli per l’accesso al diverso beneficio del lavoro all’esterno, il quale è esclusivamente preordinato al reinserimento sociale del condannato, senza immediate ricadute su soggetti diversi da quest’ultimo.
L’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975, operando invece un rinvio al precedente art. 21, e parificando i requisiti in discorso, si pone in contrasto con l’art. 31, secondo comma, Cost., poiché, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli minori oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena.
Restano assorbite le questioni sollevate in riferimento agli altri parametri evocati dal rimettente.
2.7.– Osserva, infine, questa Corte che la presente pronuncia di accoglimento non pregiudica le esigenze di difesa sociale sottese alla previsione di limiti all’accesso al beneficio di cui all’art. 21-bis della legge n. 354 del 1975 per i condannati per taluno dei reati elencati all’art. 4-bis della medesima legge (siano essi la madre detenuta o, in via subordinata, il padre ex art 21-bis, comma 3). La concessione del beneficio resta pur sempre affidata al prudente apprezzamento del magistrato di sorveglianza, chiamato ad approvare il provvedimento disposto dall’amministrazione penitenziaria (ai sensi degli artt. 21, comma 4, e 69, comma 5, della legge n. 354 del 1975). In tale sede, infatti, l’autorità giudiziaria deve «tenere conto del tipo di reato, della durata, effettiva o prevista, della misura privativa della libertà e della residua parte di essa, nonché dell’esigenza di prevenire il pericolo che l’ammesso al lavoro all’esterno [nel nostro caso: all’assistenza all’esterno ai figli] commetta altri reati» (art. 48, comma 4, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, intitolato «Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà»).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui, attraverso il rinvio al precedente art. 21, con riferimento alle detenute condannate alla pena della reclusione per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater, della legge n. 354 del 1975, non consente l’accesso all’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore agli anni dieci oppure lo subordina alla previa espiazione di una frazione di pena, salvo che sia stata accertata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 58-ter della medesima legge.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 4 luglio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2018.
Re: Limitazioni per i detenuti
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «e cuocere cibi».
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SENTENZA N. 186
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, nel procedimento su reclamo di C. V., con ordinanza del 10 maggio 2017, iscritta al n. 120 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 settembre 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 10 maggio 2017, iscritta al n. 120 del registro ordinanze 2017, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui «impone che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi».
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito del reclamo proposto da un detenuto sottoposto al regime ex art. 41-bis ordin. penit., con il quale l’interessato si duole dei divieti, impostigli dall’amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono cottura, nonché di cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto (poiché consumabili anche crudi), a pena della sottoposizione, in caso di violazione, ad una sanzione disciplinare.
Il rimettente chiarisce, in via preliminare, che il reclamo è stato proposto dall’interessato ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit., lamentando un pregiudizio grave e perdurante al proprio diritto a subire una pena non disumana ai sensi dell’art. 27 Cost., da scontare in condizioni di parità di trattamento, ai sensi dell’art. 3 Cost., rispetto alle altre persone detenute presso il medesimo istituto penitenziario (casa circondariale di Terni), seppur in sezioni diverse da quella a regime differenziato in cui si trova. Riferisce, altresì, che il reclamante ha allegato la violazione del proprio diritto alla salute, «dovendo accontentarsi del vitto somministratogli dall’amministrazione e non potendo invece acquistare cibi da cuocere o comunque cucinare quelli di cui gli è autorizzato l’acquisto»: al detenuto sarebbe perciò impedito di seguire la dieta alimentare di cui avrebbe bisogno per le proprie patologie, poi specificate nel corso dell’udienza fissata per la discussione del reclamo, mediante il deposito di certificazione medica attestante «gastrite cronica, malattia da reflusso gastroesofageo e tendenza alla ipercolesterolemia». Il reclamante avrebbe, altresì, avanzato anche la richiesta di «mangiare cibi più sani», per «ovviare così ai deficit igienici che ha riscontrato nella distribuzione del vitto», che avverrebbe «con modalità gravemente carenti, a suo modo di vedere, a causa del lungo percorso, senza le opportune cautele, che le pietanze preparate compiono dalle cucine alle stanze detentive».
1.2.– In ordine alle fonti normative dei contestati divieti, il giudice a quo espone che quello di cucinare cibo è previsto, come risulta da una nota fatta pervenire dalla direzione dell’istituto penitenziario, dal punto M) della circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 286202 del 4 agosto 2009, a sua volta emanata in diretta attuazione dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., che espressamente vieterebbe la cottura di cibi, sicché ai detenuti in regime differenziato sarebbe consentito l’uso di fornelli personali, ma per il solo riscaldamento di liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande.
Il rimettente espone che, in base alle istruzioni ministeriali vigenti, i detenuti ristretti in regime differenziato possono acquistare al cosiddetto «mod. 72» anche i generi alimentari precotti, tra cui, ad esempio, alcune tipologie di cibi surgelati o legumi cotti in confezioni di tetrapak, partitamente indicati.
Ricorda, inoltre, che i detenuti che contravvengano al divieto di cottura dei cibi, anche se rientranti tra quelli di cui è comunque consentito l’acquisto, vengono sanzionati disciplinarmente.
Il giudice a quo evidenzia che agli altri detenuti, ristretti presso le sezioni «comuni» e «alta sicurezza», è invece consentito acquistare al cosiddetto «sopravvitto» un’ampia serie di «generi vittuari» da cucinare; è altresì loro concessa la cottura di tutti i cibi consumabili anche crudi: gli unici limiti da rispettare sarebbero quelli settimanali e mensili sulle spese di acquisto, previsti in via generale, e il divieto di effettuare acquisti eccedenti, in quantità, il fabbisogno individuale, fissato in via generale dall’art. 14, comma 8, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).
Il giudice rimettente opera, poi, un confronto tra l’elenco di generi alimentari di cui è consentito l’acquisto al cosiddetto «sopravvitto» presso una sezione «media sicurezza» o «alta sicurezza» della casa circondariale di Terni e il medesimo elenco redatto per la sezione a regime speciale in cui è ristretto il reclamante, evidenziando come il secondo non contempli, a titolo esemplificativo, tutte le tipologie di carne (come pollo, agnello e maiale), le verdure e i legumi che richiedono cottura, nonché tutte le paste, il riso e i relativi condimenti.
2.– In punto di rilevanza, il rimettente espone che l’oggetto del reclamo è costituito dalla richiesta di eliminare i divieti imposti dall’amministrazione penitenziaria con ordini di servizio in materia di cottura dei cibi.
I divieti illustrati, secondo il giudice a quo, si fondano sul punto M) – «sopravvitto e uso dei fornelli personali» – della circolare n. 286202 del 2009, emanata a seguito della modifica normativa del testo dell’art. 41-bis ordin. penit., nel cui comma 2-quater, lettera f), è stato inserito il riferimento espresso all’obbligo per l’amministrazione di adottare tutte le misure di sicurezza necessarie, tra l’altro, a garantire l’assoluta impossibilità, per i detenuti in regime differenziato, di cuocere cibi.
Solo la declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma contenuta nel comma 2-quater, lettera f), dell’art. 41-bis ordin. penit., in definitiva, consentirebbe al giudice a quo di disapplicare i provvedimenti amministrativi impositivi dei divieti oggetto del reclamo sottoposto alla sua cognizione.
3.– Quanto alla valutazione di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, secondo il giudice a quo tre sarebbero i parametri costituzionali violati.
3.1.– In primo luogo, risulterebbe violato l’art. 3 Cost., poiché la disposizione sospettata d’incostituzionalità determinerebbe una disparità di trattamento tra detenuti non giustificata dalle esigenze poste a base dell’imposizione del regime differenziato.
Dopo aver ricostruito il quadro normativo, di fonte primaria e regolamentare, che disciplina, in generale, il vitto somministrato alla popolazione carceraria, il giudice a quo evidenzia che l’adozione del regime detentivo ex art. 41-bis ordin. penit. determina la sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge di ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.
Ricorda, tuttavia, il rimettente che, per espressa indicazione normativa, la sospensione comporta unicamente le limitazioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti «con l’associazione criminale di riferimento».
Ciò posto, il giudice a quo evidenzia che, dopo la novella del 2009, il comma 2-quater del medesimo art. 41-bis ordin. penit. si compone di una elencazione di limitazioni ritenute necessarie per raggiungere gli obbiettivi perseguiti dalla norma e, in particolare, prescrive alla lettera f), tra l’altro, che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi.
Proprio l’assolutezza del divieto di cuocere cibi determinerebbe una disparità di trattamento, rispetto al resto della popolazione ristretta, che intanto potrebbe ritenersi ragionevole ai sensi dell’art. 3 Cost., «in quanto giustificata da ragioni di sicurezza pretermesse ove fosse consentito al detenuto in 41bis di cucinare».
Il giudice a quo ricostruisce la ratio del divieto di cuocere cibi nello scopo di evitare il pericolo che il detenuto, di spessore criminale tale da essere sottoposto al regime differenziato, possa acquistare presso il carcere quantità e qualità di cibi che gli consentano di mostrare o imporre il suo carisma criminale.
Una simile finalità, tuttavia, appare al rimettente «inidonea a giustificare effettivamente il divieto imposto», sia perché il divieto sarebbe del tutto incongruo rispetto alla finalità descritta, sia perché l’ordinamento penitenziario prevederebbe altri strumenti – quali le limitazioni, valevoli per la generalità della popolazione detenuta, alla quantità e alla qualità di cibi ricevibili o acquistabili dall’esterno (siano essi da consumarsi crudi o da cucinarsi) – volti ad evitare efficacemente l’affermarsi di situazioni come quelle temute.
Alla luce della giurisprudenza costituzionale ampiamente richiamata nell’ordinanza di rimessione, in definitiva, il divieto di cuocere cibi contenuto nella norma censurata acquisterebbe un carattere puramente afflittivo «non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale».
3.2.– Ancora, a giudizio del rimettente, sussisterebbe un contrasto tra la norma censurata e l’art. 27 Cost.
Il rimettente ricorda le numerose limitazioni cui è sottoposto il reclamante, in quanto recluso ai sensi dell’art. 41-bis ordin. penit., evidenziando che, tra queste, quella relativa alla cottura del cibo non sembrerebbe apportare «alcun concreto contributo alla fondamentale necessità di inibire pericolosi contatti criminali del detenuto con l’esterno né di limitarne l’esibizione di potere e carisma all’interno, a fronte dei vincoli di spesa comunque imposti a tutti i ristretti».
Tale ulteriore limitazione, dunque, finirebbe per rivestire un carattere meramente vessatorio, come tale lesivo dell’art. 27 Cost., sia perché contrario al senso d’umanità che deve caratterizzare l’esecuzione della pena, sia perché d’ostacolo alla funzione rieducativa della pena.
3.3.– Infine, per il rimettente sussisterebbe un contrasto tra la disposizione censurata e l’art. 32 Cost.
Il giudice a quo espone che al reclamante sono state riscontrate alcune patologie gastriche (gastrite cronica e tendenziale ipercolesterolemia) che, al di là delle terapie farmacologiche pure prescrittegli, potrebbero essere «tenute sotto controllo» mediante l’approntamento quotidiano di cibi particolari e cotti con modalità, anche semplici, «di cui non si evince dagli atti che la Casa Circondariale si faccia carico».
Secondo il rimettente, soltanto la libertà di prepararsi autonomamente anche i cibi che richiedono cottura consentirebbe al detenuto interessato di prescegliere e variare la dieta alimentare che ritenga più congrua per le proprie condizioni di salute psico-fisica.
4.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
In relazione al profilo dell’asserito contrasto della disposizione in esame con l’art. 3 Cost., la difesa dello Stato evidenzia come il divieto di cuocere cibi costituisca una restrizione che assume rilievo nella vita interna all’istituto, rispondendo all’esigenza di affermare la supremazia delle regole dello Stato di diritto nei confronti di chi utilizza le stesse regole del trattamento penitenziario per mantenere, anche all’interno del carcere, il proprio prestigio criminale e di conseguenza aggregare consenso traducibile in termini di potenzialità offensive criminali.
Si tratterebbe della medesima ratio che ispira l’analogo divieto, imposto da circolari ministeriali, di ricevere e detenere capi di abbigliamento ed accessori particolarmente costosi e di tipo lussuoso (divieto considerato ragionevole dal giudice di legittimità: vengono riportati ampi stralci della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2013, n. 42605).
Con riferimento alla prospettata violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., l’interveniente sostiene che la cottura dei cibi non costituisca affatto espressione di un diritto fondamentale del detenuto, atteso che l’art. 9 ordin. penit. prevede che il vitto venga somministrato «di regola» in specifici locali destinati a contenere un numero non elevato di detenuti o internati. Aggiunge, a tale proposito, che l’art. 13 del d.P.R. n. 230 del 2000 prevede che ogni istituto sia dotato di una cucina ove venga preparato il pasto per non più di duecento persone, con la necessaria presenza di un adeguato numero di cucine per gli istituti di maggiore capienza: solo per le carenze strutturali registrate negli istituti di pena per adulti, dunque, i detenuti scaldano e consumano i pasti nelle camere di pernottamento, benché l’utilizzo del fornello sia stato concepito «in via eccezionale e soltanto per esigenze marginali». La mancata realizzazione di ambienti comuni ove consumare i pasti e la conseguente possibilità attribuita ai detenuti di cuocere i cibi nelle proprie camere di pernottamento, non si tradurrebbe, tuttavia, nel riconoscimento di un diritto del detenuto a cuocere i cibi nella propria cella. Di qui la conclusione che la limitazione della cottura dei cibi non possa affatto costituire trattamento contrario al senso di umanità.
Infine, in ordine ai prospettati profili di contrarietà della norma all’art. 32 Cost., viene evidenziata l’omissione di «ogni descrizione della patologia e delle esigenze di salute del detenuto», circostanza preclusiva dello scrutinio nel merito circa la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo.
In ogni caso, secondo l’interveniente, in riferimento alle esigenze di salute del reclamante, le prescrizioni ministeriali sul divieto di cottura dei cibi nella propria camera di pernottamento non sarebbero comunque in grado di pregiudicare il diritto alla salute del detenuto, «potendo e dovendo l’Amministrazione penitenziaria assicurare il vitto compatibile con le patologie di ciascun detenuto»: viene richiamata, in proposito, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 686040 del 7 aprile 1988, che avrebbe previsto la possibilità di modificare il vitto, adeguandolo, su proposta del sanitario, alle esigenze specifiche di salute del singolo detenuto.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto solleva, in riferimento agli artt. 3, 27 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui «impone che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi».
2.– Il giudice a quo è investito del reclamo di un detenuto in regime differenziato, il quale si duole dei divieti, impostigli dall’amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono cottura nonché di cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto.
In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente espone che, a causa del tenore della disposizione di legge censurata, non gli è possibile accogliere il reclamo ai sensi degli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit. – nella versione risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 3, comma 1, lettere b) e i), numero 2), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10 – in virtù dei quali il magistrato di sorveglianza, se accerta la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione di porre rimedio entro un determinato termine. Solo la declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma sospettata d’incostituzionalità, conclude correttamente il rimettente, gli consentirebbe di disapplicare i provvedimenti amministrativi contenenti i divieti oggetto del reclamo.
Non sussistono, dunque, le ragioni d’inammissibilità rilevate con l’ordinanza n. 56 del 2011, con la quale questa Corte ha già scrutinato la stessa disposizione oggi nuovamente censurata.
3.– Riconosciuto dunque che i provvedimenti reclamati trovano fondamento ultimo nel citato art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975, il rimettente dubita, innanzitutto, della conformità di tale disposizione all’art. 3 Cost., in quanto il divieto di cuocere cibi in essa contenuto determinerebbe una disparità di trattamento tra i detenuti “comuni”, ai quali il divieto in esame non si applica, e quelli soggetti al regime carcerario differenziato: una disparità di trattamento non giustificata dalle finalità poste a base dell’imposizione del regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit., il quale tollererebbe soltanto le limitazioni necessarie a garantire le esigenze di ordine pubblico e sicurezza, e quelle finalizzate ad impedire i collegamenti del detenuto con l’associazione criminale di riferimento.
In questa prospettiva, osserva il rimettente, le esigenze di sicurezza sarebbero già sufficientemente presidiate dalla rigorosa ed imparziale applicazione delle ordinarie regole di trattamento intramurario, mentre il divieto di cuocere cibi non aggiungerebbe ad esse alcun apprezzabile giovamento.
A parere del rimettente, sussisterebbe altresì un contrasto tra la disposizione censurata e l’art. 27 Cost., e in particolare il suo comma terzo, nella parte in cui dispone che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
Considerando che il reclamante, in quanto detenuto in regime differenziato, è già sottoposto a limitazioni ulteriori rispetto a quelle previste dal trattamento carcerario ordinario, il divieto di cuocere cibi non potrebbe fondarsi, in primo luogo, sulla necessità di evitare che egli continui a mantenere contatti con il gruppo criminale di appartenenza e ad impartire direttive ed ordini all’esterno dell’istituto. A questo scopo, infatti, risulterebbero serventi le altre restrizioni tipiche del regime di cui al citato art. 41-bis ordin. penit. In secondo luogo, il divieto in esame non sarebbe funzionale alla limitazione dell’esibizione di potere e carisma all’interno del carcere, perché tale obiettivo è perseguito attraverso l’imposizione a tutti i detenuti di generali vincoli di spesa, relativi anche all’acquisto del cibo.
Proprio in un contesto di fortissime, sia pur legittime, compressioni dei diritti, il divieto di cuocere cibi, in definitiva, finirebbe per rivestire un carattere meramente vessatorio, in contrasto con il parametro costituzionale ricordato.
Infine, la disposizione censurata risulterebbe in contrasto anche con l’art. 32 Cost.
Il rimettente ricorda che il reclamante soffre di patologie che potrebbero esser tenute sotto controllo anche attraverso una particolare gestione della dieta, consistente nell’approntamento di cibi cotti con modalità di cui la casa circondariale non si farebbe carico.
Considerando che solo la libertà di prepararsi autonomamente anche i cibi che richiedono cottura permetterebbe al detenuto di variare la dieta alimentare in funzione delle proprie condizioni, il divieto in questione – costringendolo per anni a sottoporsi alla dieta impostagli dall’amministrazione penitenziaria – finirebbe, al contrario, per incidere negativamente sul suo diritto alla salute.
4.– Le questioni sono fondate, poiché la disposizione censurata viola gli artt. 3 e 27 Cost.
4.1.– La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che il regime differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenza n. 376 del 1997; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998).
Ciò che l’applicazione del regime differenziato intende soprattutto evitare è che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il regime penitenziario normale, possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa (sentenza n. 143 del 2013).
In questa prospettiva, il comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit. – nel testo da ultimo novellato dalla legge n. 94 del 2009, che ha introdotto significativi inasprimenti al regime in questione – dopo aver previsto che il regime speciale comporta «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna» finalizzate principalmente a «prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» del detenuto o dell’internato, oltre che «contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate», elenca una serie di misure specifiche, costituenti il contenuto tipico e necessario del regime stesso (sentenza n. 122 del 2017).
Tra queste misure, alla lettera f) del comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit. figura, per la parte qui rilevante, quella sulla quale si appuntano le censure del giudice rimettente: l’adozione di accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione volti a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità, per i detenuti, di cuocere cibi.
4.2.– Originariamente contenuto in alcuni dei primi provvedimenti applicativi della disciplina del “carcere duro” introdotta nel 1992, il divieto di cottura dei cibi da parte dei detenuti considerati più pericolosi trova in seguito stabile collocazione in varie circolari dell’amministrazione carceraria, approvate lungo tutto il corso degli anni ’90. Esso non viene tuttavia inserito in fonti di livello primario, e non compare neppure nella legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario), la quale pur disciplinò in modo analitico il regime di detenzione speciale ex art. 41-bis ordin. penit., tipizzando le limitazioni che in concreto il Ministro della giustizia poteva imporre allo scopo di contenere la pericolosità dei singoli destinatari della misura.
Come si è visto, solo con la legge n. 94 del 2009, indirizzata ad irrigidire significativamente il regime speciale in esame, al divieto di cottura dei cibi da parte dei detenuti in regime differenziato è assegnata veste legislativa. Ciò avviene attraverso l’inserimento del divieto all’interno di una lettera f) del comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit., che contiene misure complessivamente volte ad incidere, limitandole drasticamente, sulle potenzialità di relazione dei detenuti: il divieto qui specificamente censurato si accompagna così alla restrizione della loro permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone e per una durata superiore alle due ore al giorno, dovendo altresì essere assicurata «l’assoluta impossibilità» di comunicare con detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e di scambiare oggetti.
Al nuovo contenuto della fonte primaria si sono prontamente adeguate le fonti secondarie (in particolare, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 286202 del 4 agosto 2009) introducendo, per i detenuti in questione e per la parte che ora qui interessa, anche il divieto di ricevere dall’esterno e di acquistare al cosiddetto “sopravvitto” (lo spaccio interno al carcere) generi alimentari che per il loro utilizzo richiedano cottura, e precisando che l’utilizzo dei fornelli personali, all’interno delle camere di detenzione, è consentito esclusivamente per riscaldare liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande.
A tale specifico regime, riservato ai detenuti soggetti alla disciplina differenziata dell’art. 41-bis ordin. penit., si affianca, peraltro, il diverso e meno restrittivo regime applicato agli altri detenuti.
Questi ultimi possono acquistare al sopravvitto, nonché ricevere dall’esterno, anche generi alimentari di consumo comune ed eventualmente da consumarsi previa cottura, ai sensi dell’art. 14 del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).
Inoltre, in virtù della disciplina contenuta nel d.P.R. n. 230 del 2000, a causa della mancata predisposizione – nella quasi totalità degli istituti di detenzione – di locali attrezzati per cucinare, ai detenuti comuni è permesso utilizzare nelle camere di detenzione i fornelli personali, non solo – come è previsto per i detenuti in regime differenziato – per riscaldare liquidi e cibi già cotti oppure per preparare bevande, ma anche per la preparazione di cibi di facile e rapido approntamento (art. 13, comma 4, d.P.R. n. 230 del 2000).
Inoltre, con regola non applicabile ai detenuti soggetti al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit. proprio a causa del divieto legislativo del quale si duole il giudice a quo, il comma 7 dell’art. 13 del citato d.P.R. n. 230 del 2000 autorizza il regolamento interno di ciascun carcere a prevedere che, sia pur senza carattere di continuità, sia consentita ai detenuti comuni la cottura di generi alimentari, stabilendo i generi ammessi nonché le modalità da osservare.
Sulla base di quest’ultima disposizione – e a causa della già rilevata assenza, nella quasi totalità delle carceri, di locali attrezzati per cucinare – i detenuti comuni utilizzano abitualmente all’interno delle camere di detenzione il fornello personale per cuocere cibi, e non solo per riscaldare cibi già cotti o per preparare cibi di facile e rapido approntamento (secondo i limiti testualmente posti dall’art. 13, comma 4, del d.P.R. n. 230 del 2000).
4.3.– La giurisprudenza costituzionale ha puntualmente definito non solo gli obbiettivi cui tende il regime detentivo differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., ma anche i limiti cui è soggetta la sua applicazione.
Affermando che, in base alla citata disposizione, è possibile sospendere solo l’applicazione di regole ed istituti dell’ordinamento penitenziario che risultino in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, questa Corte ha chiarito, correlativamente, non potersi disporre misure che, a causa del loro contenuto, a quelle concrete esigenze non siano riconducibili poiché risulterebbero palesemente inidonee o incongrue rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato: «[m]ancando tale congruità, infatti, le misure in questione non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale» (sentenza n. 351 del 1996).
La stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 376 del 1997, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993) ha conseguentemente sottolineato che le misure, considerate singolarmente e nel loro complesso, non devono essere tali da vanificare del tutto la necessaria finalità rieducativa della pena (sentenza n. 149 del 2018) e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, «verifica quest’ultima tanto più delicata trattandosi di misure che derogano al trattamento carcerario ordinario» (ancora sentenza n. 351 del 1996).
4.4.– Nel silenzio dei lavori preparatori della legge n. 94 del 2009 circa la ratio dell’introduzione del divieto di cottura dei cibi per i detenuti assegnati al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit., si è comunemente ritenuto, come accenna anche il giudice rimettente, che tale ratio possa essere scorta nella necessità di contrastare l’eventuale crescita di “potere” e prestigio criminale del detenuto all’interno del carcere, misurabile anche attraverso la disponibilità di generi alimentari “di lusso”.
Sotto questo profilo, non erra l’Avvocatura generale dello Stato quando ricorda che è necessario «affermare la supremazia delle regole dello Stato di diritto» nei confronti di chi potrebbe sfruttare le stesse regole del trattamento penitenziario per mantenere, anche all’interno del carcere, il proprio prestigio criminale e di conseguenza aggregare un consenso traducibile in termini di potenzialità offensive criminali.
Ma, in primo luogo, questa Corte ebbe già ad affermare che «[s]e è vero […] che va combattuto in ogni modo il manifestarsi all’interno del carcere di forme di “potere” dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, è anche vero che ciò deve perseguirsi attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario […]. Non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti» (sentenza n. 351 del 1996).
In secondo luogo, il riferimento alla necessità di contrastare attraverso regole dal sapore dimostrativo forme di “potere reale” dei detenuti rivela ulteriormente la propria palese incongruità se concretamente riferito al particolare divieto in esame, che consiste nell’impossibilità di cuocere cibi.
Intanto, la crescita di “potere” e di prestigio all’interno del carcere potrebbe derivare anche dalla disponibilità di generi alimentari “di lusso” da consumare crudi. Ma, anche al di là di questo ovvio rilievo, è la stessa ordinaria applicazione delle regole di disciplina specificamente previste a rendere pressoché impossibile qualunque abusiva posizione di privilegio o di “potere” all’interno del carcere collegata alla cottura del cibo.
Le regole carcerarie ordinarie prevedono precisi limiti alla ricezione, all’acquisto e al possesso di oggetti e generi alimentari da parte di tutti i detenuti (art. 14 del d.P.R. n. 230 del 2000). Anche il detenuto in regime differenziato può acquistare al sopravvitto generi alimentari (con l’esclusione, attualmente, di quelli che richiedono cottura), ma può farlo nei limiti di quantità e valore comunemente previsti (come ribadito nella recente circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017). Inoltre, lo stesso regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit. rende assai improbabile il possesso, da parte del detenuto, di generi alimentari pregiati, che risultino motivo di discriminazione fra detenuti o mezzo improprio di scambio, o tali comunque da distinguere la sua posizione, pur all’interno del limitatissimo “gruppo di socialità” entro il quale al detenuto è concesso di convivere. L’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c), infatti, prevede che la sospensione delle ordinarie regole di trattamento debba necessariamente tradursi anche nella ulteriore limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che egli può ricevere dall’esterno.
Caduta questa prima ed abituale giustificazione, non potrebbe poi ritenersi che siano peculiari e differenziate esigenze di ordine e sicurezza (esterne o interne al carcere) ad imporre l’adozione del divieto in questione, con particolare riferimento, da un lato, alla necessità che il detenuto sottoposto al regime speciale non abbia contatti con le imprese esterne presso le quali acquista generi alimentari al sopravvitto e, dall’altro, alla potenziale pericolosità degli utensili (arnesi da cucina e fornello personale) necessari alla cottura dei cibi.
In primo luogo, posto che, come si è detto, anche i detenuti in regime differenziato possono svolgere (limitati) acquisti di generi alimentari al sopravvitto, non è certo il divieto di cottura dei cibi a risultare congruo e funzionale all’obbiettivo di recidere i possibili contatti con l’esterno che tali acquisti potrebbero comportare.
Inoltre, i detenuti in regime differenziato, come pure si è visto, dispongono comunque del fornello personale, anche se possono allo stato utilizzarlo, a differenza degli altri, solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti, oppure per preparare bevande. E poiché le esigenze di sicurezza personale dei detenuti trovano protezione in varie altre regole del complessivo regime carcerario, il divieto di cottura dei cibi non è ovviamente idoneo ad aggiungere nulla alla pur indispensabile opera di prevenzione degli utilizzi impropri di tale strumento, che risultino pericolosi per il detenuto stesso o per gli altri.
4.5.– Risulta da tutto quanto detto che il divieto di cottura dei cibi, in quanto previsto in via generale ed astratta in riferimento ai detenuti soggetti al regime carcerario di cui all’art. 41-bis ordin. penit., è privo di ragionevole giustificazione.
In quanto incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione, esso si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., configurandosi come un’ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario, dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva.
Riferendosi al regime carcerario differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit., più duro e restrittivo di quello ordinario, il giudice rimettente osserva che il potersi esercitare nella cottura dei cibi, secondo le ritualità cui si era abituati prima del carcere, costituirebbe una modalità, «umile e dignitosa», per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni, nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine.
Non erra, lo stesso rimettente, quando conclude che, al contrario, la negazione dell’accesso a questa abitudine finisce per configurarsi come una lesione all’art. 27, terzo comma, Cost., presentandosi come un’inutile e ulteriore limitazione, contraria al senso di umanità.
In definitiva, non si tratta di affermare, né per i detenuti comuni, né per quelli assegnati al regime differenziato, l’esistenza di un “diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella”, come del resto osserva l’Avvocatura generale dello Stato interveniente: si tratta piuttosto di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale (analogamente, sentenze n. 122 e n. 20 del 2017, n. 349 del 1993).
L’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975 va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «e cuocere cibi».
5.– È assorbita la censura sollevata in relazione all’asserita violazione dell’art. 32 Cost.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «e cuocere cibi».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2018.
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «e cuocere cibi».
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SENTENZA N. 186
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promosso dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto, nel procedimento su reclamo di C. V., con ordinanza del 10 maggio 2017, iscritta al n. 120 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 settembre 2018 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 10 maggio 2017, iscritta al n. 120 del registro ordinanze 2017, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui «impone che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi».
1.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito del reclamo proposto da un detenuto sottoposto al regime ex art. 41-bis ordin. penit., con il quale l’interessato si duole dei divieti, impostigli dall’amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono cottura, nonché di cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto (poiché consumabili anche crudi), a pena della sottoposizione, in caso di violazione, ad una sanzione disciplinare.
Il rimettente chiarisce, in via preliminare, che il reclamo è stato proposto dall’interessato ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit., lamentando un pregiudizio grave e perdurante al proprio diritto a subire una pena non disumana ai sensi dell’art. 27 Cost., da scontare in condizioni di parità di trattamento, ai sensi dell’art. 3 Cost., rispetto alle altre persone detenute presso il medesimo istituto penitenziario (casa circondariale di Terni), seppur in sezioni diverse da quella a regime differenziato in cui si trova. Riferisce, altresì, che il reclamante ha allegato la violazione del proprio diritto alla salute, «dovendo accontentarsi del vitto somministratogli dall’amministrazione e non potendo invece acquistare cibi da cuocere o comunque cucinare quelli di cui gli è autorizzato l’acquisto»: al detenuto sarebbe perciò impedito di seguire la dieta alimentare di cui avrebbe bisogno per le proprie patologie, poi specificate nel corso dell’udienza fissata per la discussione del reclamo, mediante il deposito di certificazione medica attestante «gastrite cronica, malattia da reflusso gastroesofageo e tendenza alla ipercolesterolemia». Il reclamante avrebbe, altresì, avanzato anche la richiesta di «mangiare cibi più sani», per «ovviare così ai deficit igienici che ha riscontrato nella distribuzione del vitto», che avverrebbe «con modalità gravemente carenti, a suo modo di vedere, a causa del lungo percorso, senza le opportune cautele, che le pietanze preparate compiono dalle cucine alle stanze detentive».
1.2.– In ordine alle fonti normative dei contestati divieti, il giudice a quo espone che quello di cucinare cibo è previsto, come risulta da una nota fatta pervenire dalla direzione dell’istituto penitenziario, dal punto M) della circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 286202 del 4 agosto 2009, a sua volta emanata in diretta attuazione dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., che espressamente vieterebbe la cottura di cibi, sicché ai detenuti in regime differenziato sarebbe consentito l’uso di fornelli personali, ma per il solo riscaldamento di liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande.
Il rimettente espone che, in base alle istruzioni ministeriali vigenti, i detenuti ristretti in regime differenziato possono acquistare al cosiddetto «mod. 72» anche i generi alimentari precotti, tra cui, ad esempio, alcune tipologie di cibi surgelati o legumi cotti in confezioni di tetrapak, partitamente indicati.
Ricorda, inoltre, che i detenuti che contravvengano al divieto di cottura dei cibi, anche se rientranti tra quelli di cui è comunque consentito l’acquisto, vengono sanzionati disciplinarmente.
Il giudice a quo evidenzia che agli altri detenuti, ristretti presso le sezioni «comuni» e «alta sicurezza», è invece consentito acquistare al cosiddetto «sopravvitto» un’ampia serie di «generi vittuari» da cucinare; è altresì loro concessa la cottura di tutti i cibi consumabili anche crudi: gli unici limiti da rispettare sarebbero quelli settimanali e mensili sulle spese di acquisto, previsti in via generale, e il divieto di effettuare acquisti eccedenti, in quantità, il fabbisogno individuale, fissato in via generale dall’art. 14, comma 8, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).
Il giudice rimettente opera, poi, un confronto tra l’elenco di generi alimentari di cui è consentito l’acquisto al cosiddetto «sopravvitto» presso una sezione «media sicurezza» o «alta sicurezza» della casa circondariale di Terni e il medesimo elenco redatto per la sezione a regime speciale in cui è ristretto il reclamante, evidenziando come il secondo non contempli, a titolo esemplificativo, tutte le tipologie di carne (come pollo, agnello e maiale), le verdure e i legumi che richiedono cottura, nonché tutte le paste, il riso e i relativi condimenti.
2.– In punto di rilevanza, il rimettente espone che l’oggetto del reclamo è costituito dalla richiesta di eliminare i divieti imposti dall’amministrazione penitenziaria con ordini di servizio in materia di cottura dei cibi.
I divieti illustrati, secondo il giudice a quo, si fondano sul punto M) – «sopravvitto e uso dei fornelli personali» – della circolare n. 286202 del 2009, emanata a seguito della modifica normativa del testo dell’art. 41-bis ordin. penit., nel cui comma 2-quater, lettera f), è stato inserito il riferimento espresso all’obbligo per l’amministrazione di adottare tutte le misure di sicurezza necessarie, tra l’altro, a garantire l’assoluta impossibilità, per i detenuti in regime differenziato, di cuocere cibi.
Solo la declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma contenuta nel comma 2-quater, lettera f), dell’art. 41-bis ordin. penit., in definitiva, consentirebbe al giudice a quo di disapplicare i provvedimenti amministrativi impositivi dei divieti oggetto del reclamo sottoposto alla sua cognizione.
3.– Quanto alla valutazione di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, secondo il giudice a quo tre sarebbero i parametri costituzionali violati.
3.1.– In primo luogo, risulterebbe violato l’art. 3 Cost., poiché la disposizione sospettata d’incostituzionalità determinerebbe una disparità di trattamento tra detenuti non giustificata dalle esigenze poste a base dell’imposizione del regime differenziato.
Dopo aver ricostruito il quadro normativo, di fonte primaria e regolamentare, che disciplina, in generale, il vitto somministrato alla popolazione carceraria, il giudice a quo evidenzia che l’adozione del regime detentivo ex art. 41-bis ordin. penit. determina la sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge di ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.
Ricorda, tuttavia, il rimettente che, per espressa indicazione normativa, la sospensione comporta unicamente le limitazioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti «con l’associazione criminale di riferimento».
Ciò posto, il giudice a quo evidenzia che, dopo la novella del 2009, il comma 2-quater del medesimo art. 41-bis ordin. penit. si compone di una elencazione di limitazioni ritenute necessarie per raggiungere gli obbiettivi perseguiti dalla norma e, in particolare, prescrive alla lettera f), tra l’altro, che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi.
Proprio l’assolutezza del divieto di cuocere cibi determinerebbe una disparità di trattamento, rispetto al resto della popolazione ristretta, che intanto potrebbe ritenersi ragionevole ai sensi dell’art. 3 Cost., «in quanto giustificata da ragioni di sicurezza pretermesse ove fosse consentito al detenuto in 41bis di cucinare».
Il giudice a quo ricostruisce la ratio del divieto di cuocere cibi nello scopo di evitare il pericolo che il detenuto, di spessore criminale tale da essere sottoposto al regime differenziato, possa acquistare presso il carcere quantità e qualità di cibi che gli consentano di mostrare o imporre il suo carisma criminale.
Una simile finalità, tuttavia, appare al rimettente «inidonea a giustificare effettivamente il divieto imposto», sia perché il divieto sarebbe del tutto incongruo rispetto alla finalità descritta, sia perché l’ordinamento penitenziario prevederebbe altri strumenti – quali le limitazioni, valevoli per la generalità della popolazione detenuta, alla quantità e alla qualità di cibi ricevibili o acquistabili dall’esterno (siano essi da consumarsi crudi o da cucinarsi) – volti ad evitare efficacemente l’affermarsi di situazioni come quelle temute.
Alla luce della giurisprudenza costituzionale ampiamente richiamata nell’ordinanza di rimessione, in definitiva, il divieto di cuocere cibi contenuto nella norma censurata acquisterebbe un carattere puramente afflittivo «non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale».
3.2.– Ancora, a giudizio del rimettente, sussisterebbe un contrasto tra la norma censurata e l’art. 27 Cost.
Il rimettente ricorda le numerose limitazioni cui è sottoposto il reclamante, in quanto recluso ai sensi dell’art. 41-bis ordin. penit., evidenziando che, tra queste, quella relativa alla cottura del cibo non sembrerebbe apportare «alcun concreto contributo alla fondamentale necessità di inibire pericolosi contatti criminali del detenuto con l’esterno né di limitarne l’esibizione di potere e carisma all’interno, a fronte dei vincoli di spesa comunque imposti a tutti i ristretti».
Tale ulteriore limitazione, dunque, finirebbe per rivestire un carattere meramente vessatorio, come tale lesivo dell’art. 27 Cost., sia perché contrario al senso d’umanità che deve caratterizzare l’esecuzione della pena, sia perché d’ostacolo alla funzione rieducativa della pena.
3.3.– Infine, per il rimettente sussisterebbe un contrasto tra la disposizione censurata e l’art. 32 Cost.
Il giudice a quo espone che al reclamante sono state riscontrate alcune patologie gastriche (gastrite cronica e tendenziale ipercolesterolemia) che, al di là delle terapie farmacologiche pure prescrittegli, potrebbero essere «tenute sotto controllo» mediante l’approntamento quotidiano di cibi particolari e cotti con modalità, anche semplici, «di cui non si evince dagli atti che la Casa Circondariale si faccia carico».
Secondo il rimettente, soltanto la libertà di prepararsi autonomamente anche i cibi che richiedono cottura consentirebbe al detenuto interessato di prescegliere e variare la dieta alimentare che ritenga più congrua per le proprie condizioni di salute psico-fisica.
4.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
In relazione al profilo dell’asserito contrasto della disposizione in esame con l’art. 3 Cost., la difesa dello Stato evidenzia come il divieto di cuocere cibi costituisca una restrizione che assume rilievo nella vita interna all’istituto, rispondendo all’esigenza di affermare la supremazia delle regole dello Stato di diritto nei confronti di chi utilizza le stesse regole del trattamento penitenziario per mantenere, anche all’interno del carcere, il proprio prestigio criminale e di conseguenza aggregare consenso traducibile in termini di potenzialità offensive criminali.
Si tratterebbe della medesima ratio che ispira l’analogo divieto, imposto da circolari ministeriali, di ricevere e detenere capi di abbigliamento ed accessori particolarmente costosi e di tipo lussuoso (divieto considerato ragionevole dal giudice di legittimità: vengono riportati ampi stralci della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2013, n. 42605).
Con riferimento alla prospettata violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., l’interveniente sostiene che la cottura dei cibi non costituisca affatto espressione di un diritto fondamentale del detenuto, atteso che l’art. 9 ordin. penit. prevede che il vitto venga somministrato «di regola» in specifici locali destinati a contenere un numero non elevato di detenuti o internati. Aggiunge, a tale proposito, che l’art. 13 del d.P.R. n. 230 del 2000 prevede che ogni istituto sia dotato di una cucina ove venga preparato il pasto per non più di duecento persone, con la necessaria presenza di un adeguato numero di cucine per gli istituti di maggiore capienza: solo per le carenze strutturali registrate negli istituti di pena per adulti, dunque, i detenuti scaldano e consumano i pasti nelle camere di pernottamento, benché l’utilizzo del fornello sia stato concepito «in via eccezionale e soltanto per esigenze marginali». La mancata realizzazione di ambienti comuni ove consumare i pasti e la conseguente possibilità attribuita ai detenuti di cuocere i cibi nelle proprie camere di pernottamento, non si tradurrebbe, tuttavia, nel riconoscimento di un diritto del detenuto a cuocere i cibi nella propria cella. Di qui la conclusione che la limitazione della cottura dei cibi non possa affatto costituire trattamento contrario al senso di umanità.
Infine, in ordine ai prospettati profili di contrarietà della norma all’art. 32 Cost., viene evidenziata l’omissione di «ogni descrizione della patologia e delle esigenze di salute del detenuto», circostanza preclusiva dello scrutinio nel merito circa la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo.
In ogni caso, secondo l’interveniente, in riferimento alle esigenze di salute del reclamante, le prescrizioni ministeriali sul divieto di cottura dei cibi nella propria camera di pernottamento non sarebbero comunque in grado di pregiudicare il diritto alla salute del detenuto, «potendo e dovendo l’Amministrazione penitenziaria assicurare il vitto compatibile con le patologie di ciascun detenuto»: viene richiamata, in proposito, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 686040 del 7 aprile 1988, che avrebbe previsto la possibilità di modificare il vitto, adeguandolo, su proposta del sanitario, alle esigenze specifiche di salute del singolo detenuto.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto solleva, in riferimento agli artt. 3, 27 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui «impone che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi».
2.– Il giudice a quo è investito del reclamo di un detenuto in regime differenziato, il quale si duole dei divieti, impostigli dall’amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono cottura nonché di cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto.
In punto di rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente espone che, a causa del tenore della disposizione di legge censurata, non gli è possibile accogliere il reclamo ai sensi degli artt. 35-bis, comma 3, e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit. – nella versione risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 3, comma 1, lettere b) e i), numero 2), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, in legge 21 febbraio 2014, n. 10 – in virtù dei quali il magistrato di sorveglianza, se accerta la sussistenza e l’attualità del pregiudizio, ordina all’amministrazione di porre rimedio entro un determinato termine. Solo la declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma sospettata d’incostituzionalità, conclude correttamente il rimettente, gli consentirebbe di disapplicare i provvedimenti amministrativi contenenti i divieti oggetto del reclamo.
Non sussistono, dunque, le ragioni d’inammissibilità rilevate con l’ordinanza n. 56 del 2011, con la quale questa Corte ha già scrutinato la stessa disposizione oggi nuovamente censurata.
3.– Riconosciuto dunque che i provvedimenti reclamati trovano fondamento ultimo nel citato art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975, il rimettente dubita, innanzitutto, della conformità di tale disposizione all’art. 3 Cost., in quanto il divieto di cuocere cibi in essa contenuto determinerebbe una disparità di trattamento tra i detenuti “comuni”, ai quali il divieto in esame non si applica, e quelli soggetti al regime carcerario differenziato: una disparità di trattamento non giustificata dalle finalità poste a base dell’imposizione del regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit., il quale tollererebbe soltanto le limitazioni necessarie a garantire le esigenze di ordine pubblico e sicurezza, e quelle finalizzate ad impedire i collegamenti del detenuto con l’associazione criminale di riferimento.
In questa prospettiva, osserva il rimettente, le esigenze di sicurezza sarebbero già sufficientemente presidiate dalla rigorosa ed imparziale applicazione delle ordinarie regole di trattamento intramurario, mentre il divieto di cuocere cibi non aggiungerebbe ad esse alcun apprezzabile giovamento.
A parere del rimettente, sussisterebbe altresì un contrasto tra la disposizione censurata e l’art. 27 Cost., e in particolare il suo comma terzo, nella parte in cui dispone che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.
Considerando che il reclamante, in quanto detenuto in regime differenziato, è già sottoposto a limitazioni ulteriori rispetto a quelle previste dal trattamento carcerario ordinario, il divieto di cuocere cibi non potrebbe fondarsi, in primo luogo, sulla necessità di evitare che egli continui a mantenere contatti con il gruppo criminale di appartenenza e ad impartire direttive ed ordini all’esterno dell’istituto. A questo scopo, infatti, risulterebbero serventi le altre restrizioni tipiche del regime di cui al citato art. 41-bis ordin. penit. In secondo luogo, il divieto in esame non sarebbe funzionale alla limitazione dell’esibizione di potere e carisma all’interno del carcere, perché tale obiettivo è perseguito attraverso l’imposizione a tutti i detenuti di generali vincoli di spesa, relativi anche all’acquisto del cibo.
Proprio in un contesto di fortissime, sia pur legittime, compressioni dei diritti, il divieto di cuocere cibi, in definitiva, finirebbe per rivestire un carattere meramente vessatorio, in contrasto con il parametro costituzionale ricordato.
Infine, la disposizione censurata risulterebbe in contrasto anche con l’art. 32 Cost.
Il rimettente ricorda che il reclamante soffre di patologie che potrebbero esser tenute sotto controllo anche attraverso una particolare gestione della dieta, consistente nell’approntamento di cibi cotti con modalità di cui la casa circondariale non si farebbe carico.
Considerando che solo la libertà di prepararsi autonomamente anche i cibi che richiedono cottura permetterebbe al detenuto di variare la dieta alimentare in funzione delle proprie condizioni, il divieto in questione – costringendolo per anni a sottoporsi alla dieta impostagli dall’amministrazione penitenziaria – finirebbe, al contrario, per incidere negativamente sul suo diritto alla salute.
4.– Le questioni sono fondate, poiché la disposizione censurata viola gli artt. 3 e 27 Cost.
4.1.– La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che il regime differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenza n. 376 del 1997; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998).
Ciò che l’applicazione del regime differenziato intende soprattutto evitare è che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il regime penitenziario normale, possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa (sentenza n. 143 del 2013).
In questa prospettiva, il comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit. – nel testo da ultimo novellato dalla legge n. 94 del 2009, che ha introdotto significativi inasprimenti al regime in questione – dopo aver previsto che il regime speciale comporta «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna» finalizzate principalmente a «prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» del detenuto o dell’internato, oltre che «contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate», elenca una serie di misure specifiche, costituenti il contenuto tipico e necessario del regime stesso (sentenza n. 122 del 2017).
Tra queste misure, alla lettera f) del comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit. figura, per la parte qui rilevante, quella sulla quale si appuntano le censure del giudice rimettente: l’adozione di accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione volti a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità, per i detenuti, di cuocere cibi.
4.2.– Originariamente contenuto in alcuni dei primi provvedimenti applicativi della disciplina del “carcere duro” introdotta nel 1992, il divieto di cottura dei cibi da parte dei detenuti considerati più pericolosi trova in seguito stabile collocazione in varie circolari dell’amministrazione carceraria, approvate lungo tutto il corso degli anni ’90. Esso non viene tuttavia inserito in fonti di livello primario, e non compare neppure nella legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario), la quale pur disciplinò in modo analitico il regime di detenzione speciale ex art. 41-bis ordin. penit., tipizzando le limitazioni che in concreto il Ministro della giustizia poteva imporre allo scopo di contenere la pericolosità dei singoli destinatari della misura.
Come si è visto, solo con la legge n. 94 del 2009, indirizzata ad irrigidire significativamente il regime speciale in esame, al divieto di cottura dei cibi da parte dei detenuti in regime differenziato è assegnata veste legislativa. Ciò avviene attraverso l’inserimento del divieto all’interno di una lettera f) del comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit., che contiene misure complessivamente volte ad incidere, limitandole drasticamente, sulle potenzialità di relazione dei detenuti: il divieto qui specificamente censurato si accompagna così alla restrizione della loro permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone e per una durata superiore alle due ore al giorno, dovendo altresì essere assicurata «l’assoluta impossibilità» di comunicare con detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e di scambiare oggetti.
Al nuovo contenuto della fonte primaria si sono prontamente adeguate le fonti secondarie (in particolare, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 286202 del 4 agosto 2009) introducendo, per i detenuti in questione e per la parte che ora qui interessa, anche il divieto di ricevere dall’esterno e di acquistare al cosiddetto “sopravvitto” (lo spaccio interno al carcere) generi alimentari che per il loro utilizzo richiedano cottura, e precisando che l’utilizzo dei fornelli personali, all’interno delle camere di detenzione, è consentito esclusivamente per riscaldare liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande.
A tale specifico regime, riservato ai detenuti soggetti alla disciplina differenziata dell’art. 41-bis ordin. penit., si affianca, peraltro, il diverso e meno restrittivo regime applicato agli altri detenuti.
Questi ultimi possono acquistare al sopravvitto, nonché ricevere dall’esterno, anche generi alimentari di consumo comune ed eventualmente da consumarsi previa cottura, ai sensi dell’art. 14 del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).
Inoltre, in virtù della disciplina contenuta nel d.P.R. n. 230 del 2000, a causa della mancata predisposizione – nella quasi totalità degli istituti di detenzione – di locali attrezzati per cucinare, ai detenuti comuni è permesso utilizzare nelle camere di detenzione i fornelli personali, non solo – come è previsto per i detenuti in regime differenziato – per riscaldare liquidi e cibi già cotti oppure per preparare bevande, ma anche per la preparazione di cibi di facile e rapido approntamento (art. 13, comma 4, d.P.R. n. 230 del 2000).
Inoltre, con regola non applicabile ai detenuti soggetti al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit. proprio a causa del divieto legislativo del quale si duole il giudice a quo, il comma 7 dell’art. 13 del citato d.P.R. n. 230 del 2000 autorizza il regolamento interno di ciascun carcere a prevedere che, sia pur senza carattere di continuità, sia consentita ai detenuti comuni la cottura di generi alimentari, stabilendo i generi ammessi nonché le modalità da osservare.
Sulla base di quest’ultima disposizione – e a causa della già rilevata assenza, nella quasi totalità delle carceri, di locali attrezzati per cucinare – i detenuti comuni utilizzano abitualmente all’interno delle camere di detenzione il fornello personale per cuocere cibi, e non solo per riscaldare cibi già cotti o per preparare cibi di facile e rapido approntamento (secondo i limiti testualmente posti dall’art. 13, comma 4, del d.P.R. n. 230 del 2000).
4.3.– La giurisprudenza costituzionale ha puntualmente definito non solo gli obbiettivi cui tende il regime detentivo differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., ma anche i limiti cui è soggetta la sua applicazione.
Affermando che, in base alla citata disposizione, è possibile sospendere solo l’applicazione di regole ed istituti dell’ordinamento penitenziario che risultino in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, questa Corte ha chiarito, correlativamente, non potersi disporre misure che, a causa del loro contenuto, a quelle concrete esigenze non siano riconducibili poiché risulterebbero palesemente inidonee o incongrue rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato: «[m]ancando tale congruità, infatti, le misure in questione non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale» (sentenza n. 351 del 1996).
La stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 376 del 1997, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993) ha conseguentemente sottolineato che le misure, considerate singolarmente e nel loro complesso, non devono essere tali da vanificare del tutto la necessaria finalità rieducativa della pena (sentenza n. 149 del 2018) e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, «verifica quest’ultima tanto più delicata trattandosi di misure che derogano al trattamento carcerario ordinario» (ancora sentenza n. 351 del 1996).
4.4.– Nel silenzio dei lavori preparatori della legge n. 94 del 2009 circa la ratio dell’introduzione del divieto di cottura dei cibi per i detenuti assegnati al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit., si è comunemente ritenuto, come accenna anche il giudice rimettente, che tale ratio possa essere scorta nella necessità di contrastare l’eventuale crescita di “potere” e prestigio criminale del detenuto all’interno del carcere, misurabile anche attraverso la disponibilità di generi alimentari “di lusso”.
Sotto questo profilo, non erra l’Avvocatura generale dello Stato quando ricorda che è necessario «affermare la supremazia delle regole dello Stato di diritto» nei confronti di chi potrebbe sfruttare le stesse regole del trattamento penitenziario per mantenere, anche all’interno del carcere, il proprio prestigio criminale e di conseguenza aggregare un consenso traducibile in termini di potenzialità offensive criminali.
Ma, in primo luogo, questa Corte ebbe già ad affermare che «[s]e è vero […] che va combattuto in ogni modo il manifestarsi all’interno del carcere di forme di “potere” dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, è anche vero che ciò deve perseguirsi attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario […]. Non potrebbe, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti» (sentenza n. 351 del 1996).
In secondo luogo, il riferimento alla necessità di contrastare attraverso regole dal sapore dimostrativo forme di “potere reale” dei detenuti rivela ulteriormente la propria palese incongruità se concretamente riferito al particolare divieto in esame, che consiste nell’impossibilità di cuocere cibi.
Intanto, la crescita di “potere” e di prestigio all’interno del carcere potrebbe derivare anche dalla disponibilità di generi alimentari “di lusso” da consumare crudi. Ma, anche al di là di questo ovvio rilievo, è la stessa ordinaria applicazione delle regole di disciplina specificamente previste a rendere pressoché impossibile qualunque abusiva posizione di privilegio o di “potere” all’interno del carcere collegata alla cottura del cibo.
Le regole carcerarie ordinarie prevedono precisi limiti alla ricezione, all’acquisto e al possesso di oggetti e generi alimentari da parte di tutti i detenuti (art. 14 del d.P.R. n. 230 del 2000). Anche il detenuto in regime differenziato può acquistare al sopravvitto generi alimentari (con l’esclusione, attualmente, di quelli che richiedono cottura), ma può farlo nei limiti di quantità e valore comunemente previsti (come ribadito nella recente circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017). Inoltre, lo stesso regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit. rende assai improbabile il possesso, da parte del detenuto, di generi alimentari pregiati, che risultino motivo di discriminazione fra detenuti o mezzo improprio di scambio, o tali comunque da distinguere la sua posizione, pur all’interno del limitatissimo “gruppo di socialità” entro il quale al detenuto è concesso di convivere. L’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c), infatti, prevede che la sospensione delle ordinarie regole di trattamento debba necessariamente tradursi anche nella ulteriore limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che egli può ricevere dall’esterno.
Caduta questa prima ed abituale giustificazione, non potrebbe poi ritenersi che siano peculiari e differenziate esigenze di ordine e sicurezza (esterne o interne al carcere) ad imporre l’adozione del divieto in questione, con particolare riferimento, da un lato, alla necessità che il detenuto sottoposto al regime speciale non abbia contatti con le imprese esterne presso le quali acquista generi alimentari al sopravvitto e, dall’altro, alla potenziale pericolosità degli utensili (arnesi da cucina e fornello personale) necessari alla cottura dei cibi.
In primo luogo, posto che, come si è detto, anche i detenuti in regime differenziato possono svolgere (limitati) acquisti di generi alimentari al sopravvitto, non è certo il divieto di cottura dei cibi a risultare congruo e funzionale all’obbiettivo di recidere i possibili contatti con l’esterno che tali acquisti potrebbero comportare.
Inoltre, i detenuti in regime differenziato, come pure si è visto, dispongono comunque del fornello personale, anche se possono allo stato utilizzarlo, a differenza degli altri, solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti, oppure per preparare bevande. E poiché le esigenze di sicurezza personale dei detenuti trovano protezione in varie altre regole del complessivo regime carcerario, il divieto di cottura dei cibi non è ovviamente idoneo ad aggiungere nulla alla pur indispensabile opera di prevenzione degli utilizzi impropri di tale strumento, che risultino pericolosi per il detenuto stesso o per gli altri.
4.5.– Risulta da tutto quanto detto che il divieto di cottura dei cibi, in quanto previsto in via generale ed astratta in riferimento ai detenuti soggetti al regime carcerario di cui all’art. 41-bis ordin. penit., è privo di ragionevole giustificazione.
In quanto incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione, esso si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., configurandosi come un’ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario, dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva.
Riferendosi al regime carcerario differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit., più duro e restrittivo di quello ordinario, il giudice rimettente osserva che il potersi esercitare nella cottura dei cibi, secondo le ritualità cui si era abituati prima del carcere, costituirebbe una modalità, «umile e dignitosa», per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno e con il ritmo dei giorni e delle stagioni, nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine.
Non erra, lo stesso rimettente, quando conclude che, al contrario, la negazione dell’accesso a questa abitudine finisce per configurarsi come una lesione all’art. 27, terzo comma, Cost., presentandosi come un’inutile e ulteriore limitazione, contraria al senso di umanità.
In definitiva, non si tratta di affermare, né per i detenuti comuni, né per quelli assegnati al regime differenziato, l’esistenza di un “diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella”, come del resto osserva l’Avvocatura generale dello Stato interveniente: si tratta piuttosto di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale (analogamente, sentenze n. 122 e n. 20 del 2017, n. 349 del 1993).
L’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975 va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «e cuocere cibi».
5.– È assorbita la censura sollevata in relazione all’asserita violazione dell’art. 32 Cost.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «e cuocere cibi».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 settembre 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 ottobre 2018.
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