Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
questa Ordinanza Collegiale del CdS rimessa al giudizio della Corte Costituzione, richiama la sentenza del Tar Lazio da me postata in data 30/07/2014.-
Aspettiamo ora il suo pronunciamento e che sia secondo l'Ordinamento Europeo e non politico Italiano come già successo negli anni passati.
1) - autorizzazione per la costituzione di associazioni o circoli fra militari a carattere sindacale.
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ORDINANZA COLLEGIALE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201702043
- Public 2017-05-04 -
Pubblicato il 04/05/2017
N. 02043/2017 REG.PROV.COLL.
N. 10495/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 10495 del 2014, proposto da Associazione Solidarietà Diritto e Progresso (As.So.Di.Pro.), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Saccucci e Guerino Massimo Oscar Fares, con domicilio eletto presso lo studio Andrea Saccucci in Roma, viale Parioli n. 2;
contro
Ministero dell’economia e delle finanze; Guardia di Finanza - Comando Generale; Guardia di Finanza – Comando Regionale Friuli Venezia Giulia, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. Lazio – Sede di Roma, Sez. II n. 8052 del 23 luglio 2014, resa tra le parti, concernente autorizzazione per la costituzione di associazioni o circoli fra militari a carattere sindacale;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle resistenti Amministrazioni;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 marzo 2017 il Cons. Luca Lamberti e uditi per le parti l’avvocato Saccucci e gli avvocati dello Stato Fedeli e Greco;
1. Con ricorso proposto innanzi al T.a.r. Lazio il sig. Francesco Solinas, Brigadiere della Guardia di Finanza, e l’associazione di egli espone di essere socio, denominata “Solidarietà, diritto e progresso”, hanno impugnato la nota prot. n. 231973/12 del 31 luglio 2012, con cui il Comando Generale della Guardia di Finanza ha rigettato l’istanza avanzata in data 11 giugno 2012 dal medesimo sig. Solinas e volta ad ottenere “l’autorizzazione a costituire un’associazione a carattere sindacale fra il personale dipendente del Ministero della difesa e/o del Ministero dell’economia e delle finanze o, in ogni caso, ad aderire ad altre associazioni sindacali già esistenti”.
1.1. Nella nota il Comando ha rappresentato che “la costituzione di associazioni fra militari a carattere sindacale e l’adesione ad associazione della specie già esistenti sono espressamente vietate dal comma 2 dell’art. 1475 del d.lgs. 66/2010”, a tenore del quale, come noto, “i militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali”.
1.2. I ricorrenti hanno lamentato, in proposito, l’assunta contrarietà di tale disposizione con l’art. 117, comma 1, della Costituzione in relazione agli articoli 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“CEDU”).
2. Il T.a.r., con la sentenza n. 8052 del 23 luglio 2014 indicata in epigrafe, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale (e, conseguentemente, ha rigettato il ricorso), sulla scorta delle argomentazioni svolte nella pronuncia della Corte Costituzionale 17 dicembre 1999, n. 449, relativa all’art. 8 della legge 11 luglio 1978, n. 382 (poi abrogata dal d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66), ai sensi della quale “I militari non possono esercitare il diritto di sciopero, costituire associazioni professionali a carattere sindacale, aderire ad altre associazioni sindacali”.
2.1. Il Tribunale, in particolare, premesso che “la stessa CEDU … prefigura una disciplina più restrittiva, quanto all’esercizio del diritto alla libertà di associazione, per il personale delle forze armate”, ha ritenuto che le limitazioni alla libertà sindacale previste dalla normativa nazionale soddisfino le tre condizioni indicate dalla stessa giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ossia la legalità, la finalizzazione a scopi legittimi e la proporzionalità.
2.2. Il Tribunale, inoltre, ha valorizzato “il dato giuridico per cui la posizione del militare è connotata in modo del tutto peculiare rispetto a tutti gli altri cittadini ed è tale da dover subire una limitazione dei propri diritti”; del resto, ha proseguito il Giudice di prime cure, “la specialità della fattispecie e della relativa disciplina è, in maniera complementare, comprovata dal fatto che lo stesso legislatore ha provveduto alla istituzione degli «organi di rappresentanza militare» di cui agli artt. 1476 e seguenti del Codice dell’ordinamento militare, composti da militari di tutte le categorie e di tutti i gradi, eletti su base democratica, e con la espressa competenza di rappresentare e difendere, nelle sedi istituzionali, le aspirazioni, le esigenze, le proposte comunque connesse con gli interessi collettivi delle singole categorie”.
3. Con ricorso in appello i ricorrenti hanno chiesto la riforma di tale sentenza, anche sulla scorta di due sopravvenute pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo emesse in data 2 ottobre 2014 dalla quinta sezione nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09), che fornirebbero ulteriori argomenti a sostegno dell’assunto dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010.
3.1. In tali pronunce la Corte di Strasburgo ha affermato che “le restrizioni che possono essere imposte ai tre gruppi di soggetti menzionati nell’art. 11 CEDU [membri delle Forze Armate, della Polizia e dell’Amministrazione dello Stato] richiedono un’interpretazione restrittiva e devono, conseguentemente, limitarsi all’esercizio dei diritti in questione. Esse non possono, tuttavia, mettere in discussione l’essenza stessa del diritto alla libertà sindacale. Pertanto la Corte non accetta le restrizioni che incidono sugli elementi essenziali della libertà sindacale senza i quali il contenuto di tale libertà sarebbe vuotato della sua sostanza. Il diritto di formare un sindacato e di aderirvi è un elemento essenziale della libertà sindacale” (“Matelly c. Francia” §§ 57-58, “Adefdromil c. Francia” §§ 43-44).
3.1.1. Se, dunque, è legittimo per gli Stati prevedere, per i militari, restrizioni dell’esercizio dei diritti sindacali, purtuttavia secondo la Corte “tali restrizioni non devono privare i militari ed i loro sindacati del diritto generale alla libertà di associazione per la difesa dei loro interessi professionali e morali”, anche in considerazione del fatto che l’istituzione, da parte della legislazione francese, di “organismi e procedure speciali” di rappresentanza militare “non sarebbe idonea a sostituirsi al riconoscimento ai militari della libertà di associazione, che comprende il diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi” (“Matelly c. Francia” §§ 69-70, “Adefdromil c. Francia” § 54).
3.1.2. Il principio sotteso a tali pronunce, sostengono i ricorrenti, lumeggerebbe l’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, d.lgs. 66/2010, che, lungi dal restringere l’esercizio dei diritti sindacali dei militari, li conculcherebbe del tutto.
3.1.3. Né potrebbe sostenersi l’equipollenza degli organismi di rappresentanza militare istituiti dalla legge, ritenuti “organi di natura pubblicistica” connotati da “natura profondamente gerarchizzata”, privi “dei caratteri dell’autonomia e dell’indipendenza” e destinati allo svolgimento di “funzioni prevalentemente consultive e propositive”.
3.1.4. Per di più, si osserva ad abundantiam, la disposizione di cui all’art. 1475, comma 2, d.lgs. 66/2010 contrasterebbe pure con il testo della Carta sociale europea riveduta, il cui art. 5 assegna agli Stati firmatari, fra l’altro, il dovere di determinare la misura in cui la libertà di associazione sindacale, sancita in via generale dalla Carta stessa, trovi applicazione nei confronti degli appartenenti alle Forze Armate.
3.1.5. Anche tale normativa, si argomenta, consentirebbe solo limitazioni della libertà sindacale, non una sua radicale obliterazione.
3.2. Le resistenti Amministrazioni, ritualmente costituitesi, hanno sostenuto che “la Corte Costituzionale a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007 (richiamate nella sentenza 28 novembre 2012, n. 264) ha costantemente ritenuto che il confronto tra la tutela dei diritti fondamentali prevista dalla Convenzione e quella costituzionale deve essere effettuato attraverso il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali che, a loro volta, garantiscano i diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela … E’ in applicazione di tali principi che deve essere risolta la questione all’odierno esame, atteso che la limitazione del diritto del militare di costituire o aderire ad associazioni sindacali è posto al fine di garantire la coesione interna delle Forze Armate, presupposto a sua volta necessario per garantire la difesa dei valori e delle istituzioni democratiche al cui servizio sono poste”.
3.2.1. Nella prospettazione coltivata dalla difesa erariale, dunque, l’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 sarebbe necessario per la tutela di un valore fondamentale dell’ordinamento e, pertanto, non presenterebbe lo stigma della contrarietà alla Carta fondamentale, al perseguimento di uno dei valori primari della quale sarebbe, di contro, funzionale.
3.3. I ricorrenti, in replica, hanno ribadito le proprie traiettorie argomentative e aggiunto che la Repubblica di Francia avrebbe, con legge 917/2015 entrata in vigore in data 30 luglio 2015, espunto dal proprio ordinamento, in ossequio alle citate sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il divieto assoluto di associazione sindacale per i membri delle Forze Armate.
3.3.1. Per di più, il Comitato europeo dei diritti sociali, con decisione pubblicata in data 4 luglio 2016 su un reclamo collettivo proposto da un sindacato francese di appartenenti alla “Gendarmerie nationale”, forza di polizia ad ordinamento militare (ricorso n. 101/2013, caso “CESP c. Francia”), avrebbe ritenuto incompatibile con l’art. 5 della Carta sociale europea riveduta il divieto assoluto e generale di costituire o aderire ad associazioni sindacali per i membri delle Forze Armate e delle forze di polizia ad ordinamento militare, previsto – con dizione in tesi assai simile a quella adoperata dall’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 – dalla previgente legislazione transalpina.
3.3.2. Inoltre, il Comitato avrebbe ritenuto sì compatibili con l’art. 5 della Carta sociale europea riveduta “le restrizioni alla libertà sindacale introdotte [in Francia] con la riforma del 2015 ed attualmente in vigore, ma solo nel caso in cui il corpo operi funzionalmente come Forza Armata. Qualora, invece, il corpo militare operi funzionalmente come Forza di polizia, tali restrizioni sono state giudicate illegittime”.
4. Il ricorso è stato discusso all’udienza pubblica del 30 marzo 2017 e, quindi, introitato per la decisione.
5. Il Collegio ritiene che l’esposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 sia rilevante e non manifestamente infondata.
5.1. La rilevanza è in re ipsa e non abbisogna di specifica dimostrazione: la disposizione in parola, infatti, è il perno giuridico su cui ruota l’intera controversia.
5.2. La questione, inoltre, risulta anche non manifestamente infondata.
5.2.1. L’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 vieta in radice ai militari di “costituire associazioni professionali a carattere sindacale”, nonché di “aderire ad altre associazioni sindacali”.
5.2.2. Il principio di diritto chiaramente affermato dalle due pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo citate dai ricorrenti è, invece, di segno radicalmente opposto: la restrizione dell’esercizio del diritto di associazione sindacale dei militari non può spingersi sino alla negazione della titolarità stessa di tale diritto, pena la violazione dei menzionati articoli 11 e 14 della Convenzione.
5.2.3. L’art. 11 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848), come noto, stabilisce che “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa dei propri interessi. 2. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato”.
5.2.4. Il successivo art. 14 della Convenzione statuisce che “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
5.2.5. L’interpretazione della Convenzione, costituente formalmente un trattato internazionale elaborato nell’ambito del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale con carattere di stabilità a sua volta costituita con trattato interstatuale, è rimessa, ai sensi dell’art. 32 della medesima, alla sola Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: per gli Stati firmatari, pertanto, il diritto convenzionale vivente non è quello rappresentato dal testo della Convenzione (ossia dalle relative disposizioni), bensì quello risultante dall’esegesi dei Giudici di Strasburgo, unico plesso giurisdizionale attributario della competenza a risolvere “tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione” (così il citato art. 32) e, dunque, a ricavare da tali disposizioni le vere e proprie norme giuridiche, le regulae juris.
5.2.6. Il Collegio osserva che la Corte Costituzionale si è più volte espressa in ordine ai rapporti della legislazione nazionale con il diritto internazionale di origine consuetudinaria e convenzionale.
5.2.7. In particolare, già con la sentenza n. 73/2001 la Corte ha sostenuto che “l’orientamento di apertura dell’ordinamento italiano nei confronti sia delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, sia delle norme internazionali convenzionali incontra i limiti necessari a garantirne l’identità e, quindi, innanzitutto i limiti derivanti dalla Costituzione. Pertanto, i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituirebbero limite tanto all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma in virtù dell’art. 10, primo comma, Cost., quanto delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni”).
5.2.8. Con riferimento al diritto internazionale convenzionale e, in particolare, proprio alla CEDU, è poi intervenuta la sentenza n. 348/2007, ove la Corte, premesso che “tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”, ha affermato che “quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali. L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta. Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano.
Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione”.
5.2.9. Sul punto si è espressa anche la coeva pronuncia n. 349/2007, ove si legge che, “con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per la continuità dell'orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l'esclusione delle norme meramente convenzionali dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994) … Con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione … Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo. L'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno dell'insieme dei Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa”.
5.2.10. Un cenno merita pure la successiva sentenza n. 311/2009, in cui è scritto che “questa Corte ha anche affermato, e qui intende ribadirlo, che ad essa è precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte costituzionale compete, questo sì, di verificare se la norma della CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione. Il verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimità, comporta – allo stato – l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007)”.
5.2.11. Infine, in due recenti pronunce (nn. 264/2012 e 235/2014) la Corte Costituzionale ha affermato che la difesa dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata: a differenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, la Corte Costituzionale “opera una valutazione sistemica e non isolata dei valori coinvolti dalle norme di volta in volta scrutinate ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante”, poiché, se “il giudice delle leggi non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella data in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla Corte di Strasburgo, con ciò superando i confini delle proprie competenze in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione, esso però è tenuto a valutare come ed in quale misura l’applicazione della Convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sent. n. 317 del 2009). Operazioni volte non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele”. Per vero, “nella giurisprudenza costituzionale si è, inoltre, reiteratamente affermato che, con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Del resto, l’art. 53 della stessa Convenzione stabilisce che l’interpretazione delle disposizioni CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali”, anche con riferimento a diritti fondamentali diversi da quelli presi atomisticamente in esame dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
5.2.12. In sostanza, dunque, la Corte Costituzionale ha progressivamente tratteggiato i contorni concettuali della categoria dei “controlimiti” rispetto alla generale apertura dell’ordinamento a valori giuridici alieni: l’eventuale contrasto con norme o principi fondamentali della Costituzione osta in radice tanto all’ingresso nel nostro ordinamento, ai sensi dell’art. 10 della Costituzione, della norma internazionale consuetudinaria, quanto all’idoneità della norma internazionale di fonte convenzionale a fungere da parametro interposto di legittimità costituzionale, a tenore dell’art. 117, comma 1, della Costituzione.
5.2.13. In particolare, l’eventuale contrasto della norma internazionale interposta di fonte convenzionale con fondamentali principi costituzionali determina, sul piano sostanziale, l’inidoneità della stessa a fungere da norma interposta e, sul piano processuale, l’espunzione dall’ordinamento giuridico nazionale della legge di autorizzazione alla ratifica del corrispondente trattato nella parte in cui consente l’ingresso nell’ordinamento di tale norma, mediante questione di costituzionalità sollevata ex officio dalla Corte Costituzionale stessa.
5.2.14. Il Collegio osserva, incidentalmente, che lo spazio valutativo della Corte è assai minore con riferimento all’ordinamento UE, la cui più stringente cogenza discende direttamente dall’art. 11 della Carta: la sentenza n. 284/2007, premesso che “nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell'art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l'applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all'esistenza del conflitto”, specifica che l’applicazione del diritto UE, di regola diretta ed automatica, “deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona (da ultimo, ordinanza n. 454 del 2006)”.
5.2.15. Questo Consiglio, pertanto, ravvisata la palese ed insanabile contrarietà dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 con la norma di diritto internazionale convenzionale come ricavata dall’esegesi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non può che rimettere gli atti alla Corte Costituzionale, che, nell’ambito dello svolgimento del conseguente giudizio di costituzionalità, valuterà se la norma interposta non sia a sua volta contraria alla Costituzione e, come tale, non presenti “idoneità a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.”.
5.2.16. Il Consiglio, in proposito, rileva che l’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 è dettato al fine di assicurare la coesione interna, la neutralità e la prontezza delle Forze Armate, presupposti strumentali necessari ed imprescindibili per assicurare l’efficacia della relativa azione, posta a tutela di un valore dell’ordinamento di carattere supremo e per così dire primario, quale è la difesa militare dello Stato.
5.2.17. Non ha, sul punto, rilievo la prevalente destinazione della Guardia di Finanza a compiti di polizia economico-finanziaria, circostanza valorizzata dai ricorrenti al duplice fine di propugnare l’assunta incongruità del riferimento operato in prime cure alle esigenze di “organizzazione, coesione interna e massima operatività” delle Forze Armate e di stigmatizzare la disparità di trattamento rispetto al personale della Polizia di Stato, cui di contro è riconosciuta ampia libertà in materia sindacale: ai sensi della legge 23 aprile 1959, n. 189, infatti, “il Corpo della guardia di finanza … fa parte integrante delle Forze armate dello Stato” (art. 1), è deputato a “concorrere alla difesa politico-militare delle frontiere e, in caso di guerra, alle operazioni militari” (art. 1) e “ai militari del Corpo della guardia di finanza si applicano il regolamento di disciplina militare per l'Esercito e la legge penale militare” (art. 10).
5.2.18. Sull’opposto crinale, la predisposizione legislativa (art. 1476 e seguenti del d.lgs. 66/2010) di un articolato sistema istituzionale della rappresentanza militare non può comunque soddisfare le esigenze indicate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, giacché la libertà sindacale presuppone ontologicamente la facoltà di dar vita a forme autonome di rappresentanza anche al di fuori di eventuali strutture create ex lege.
5.3. Il Consiglio, inoltre, rimette alla Corte pure la distinta ma connessa questione della contrarietà dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 con l’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, predisposta nell’ambito del Consiglio d’Europa, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30.
5.3.1. Per vero, la Carta sociale europea riveduta, adottata con un trattato internazionale, prevede un organo di individui, allo stato denominato Comitato Europeo dei Diritti Sociali, nominato dagli Stati contraenti e composto da “esperti della massima integrità e di riconosciuta competenza in questioni sociali nazionali ed internazionali”, cui è rimessa, tra l’altro, la decisione dei “reclami collettivi circa un’attuazione insoddisfacente della Carta” che possono essere proposti da associazioni, nazionali od internazionali, di lavoratori e datori di lavoro.
5.3.2. La decisione su tali reclami, tuttavia, non solo è priva di efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri, ma, prima ancora, non è neppure idonea a costituire obblighi di carattere internazionale a carico dello Stato interessato: ove, infatti, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali ravvisi, all’esito di una procedura di “reclamo collettivo”, una “insoddisfacente attuazione” della Carta, compete al Comitato dei Ministri, organo di Stati, l’adozione “a maggioranza dei due terzi dei votanti” di “una raccomandazione destinata alla Parte contraente chiamata in causa”.
5.3.3. Per quanto qui di interesse, inoltre, la Carta Sociale Europea non assegna al Comitato Europeo dei Diritti Sociali la competenza esclusiva ad interpretare la Carta stessa: la relativa esegesi, dunque, è rimessa al singolo Giudice nazionale, che vi procederà secondo i criteri propri dell’interpretazione dei trattati (art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, conclusa in Vienna il 23 maggio 1969 e resa esecutiva in Italia con legge 12 febbraio 1974, n. 112, che, peraltro, assegna rilievo interpretativo, oltre che a “testo, preambolo ed allegati” dell’accordo, anche ad “ogni strumento posto in essere da una o più parti in occasione della conclusione del trattato e accettato dalle parti come strumento in connessione col trattato”, quale ben può essere la pronuncia di un organo, come il citato Comitato Europeo dei Diritti Sociali, specificamente previsto dal trattato al precipuo fine di verificarne l’effettivo rispetto da parte dei Paesi membri, sia pure con carattere non vincolante).
5.3.4. Questo Consiglio ritiene, in proposito, che la disposizione dell’art. 5, terzo periodo, della Carta, laddove rimette alla legislazione nazionale di determinare il “principio dell’applicazione delle garanzie” sindacali ai militari nonché la “misura” di tale applicazione, intenda evocare un nucleo essenziale – certo ristretto, limitato e circoscritto - di libertà sindacali che non può non essere riconosciuto anche a favore di tali categorie di lavoratori: ne consegue che una norma nazionale che, come l’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010, privi in radice i militari del diritto di “costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali” si pone in contrasto con tale disposizione di diritto internazionale convenzionale.
5.3.5. Del resto, l’articolo G della Carta consente sì “le restrizioni ai diritti ed ai principi enunciati nella Parte I” (fra cui quello afferente alle libertà sindacali) nelle ipotesi “stabilite dalla legge e necessarie, in una società democratica, per garantire il rispetto dei diritti e delle libertà altrui o per proteggere l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la salute pubblica o il buon costume”, ma, menzionando il termine “restrizioni”, pare implicitamente escludere la liceità di radicali “esclusioni”, invece previste dal menzionato art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010.
5.3.6. Esaurite tali preliminari operazioni esegetiche, tuttavia, questo Organo Giudiziario non può che arrestarsi e rimettersi alla Corte Costituzionale: compete, infatti, al Giudice delle leggi stabilire se effettivamente sussista tale contrasto, previo accertamento che la norma di diritto internazionale convenzionale tratta dall’art. 5 della Carta sociale europea riveduta sia idonea ad integrare parametro di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., in considerazione dell’impatto che tale regula juris avrebbe sul distinto, confliggente e fondamentale interesse dell’ordinamento a disporre di Forze Armate concretamente in grado di apprestare una pronta, efficace ed affidabile difesa militare dello Stato.
6. In conclusione, alla luce delle considerazioni che precedono appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), per i seguenti profili:
a) per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli articoli 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze emesse in data 2 ottobre 2014 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09);
b) per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’articolo 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30.
6.1. Ai sensi dell’art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, il presente giudizio davanti al Consiglio di Stato è sospeso fino alla definizione dell’incidente di costituzionalità.
6.2. Ai sensi dell’art. 23, quarto e quinto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la presente ordinanza sarà comunicata alle parti costituite e notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), per i seguenti profili:
a) per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli articoli 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze in data 2 ottobre 2014 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09);
b) per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’articolo 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30.
Dispone la sospensione del presente giudizio davanti al Consiglio di Stato e ordina alla segreteria l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia comunicata alle parti costituite e notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 marzo 2017 con l'intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Oberdan Forlenza, Consigliere
Leonardo Spagnoletti, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere, Estensore
Nicola D'Angelo, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Luca Lamberti Filippo Patroni Griffi
IL SEGRETARIO
Aspettiamo ora il suo pronunciamento e che sia secondo l'Ordinamento Europeo e non politico Italiano come già successo negli anni passati.
1) - autorizzazione per la costituzione di associazioni o circoli fra militari a carattere sindacale.
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ORDINANZA COLLEGIALE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201702043
- Public 2017-05-04 -
Pubblicato il 04/05/2017
N. 02043/2017 REG.PROV.COLL.
N. 10495/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
ORDINANZA
sul ricorso numero di registro generale 10495 del 2014, proposto da Associazione Solidarietà Diritto e Progresso (As.So.Di.Pro.), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Andrea Saccucci e Guerino Massimo Oscar Fares, con domicilio eletto presso lo studio Andrea Saccucci in Roma, viale Parioli n. 2;
contro
Ministero dell’economia e delle finanze; Guardia di Finanza - Comando Generale; Guardia di Finanza – Comando Regionale Friuli Venezia Giulia, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. Lazio – Sede di Roma, Sez. II n. 8052 del 23 luglio 2014, resa tra le parti, concernente autorizzazione per la costituzione di associazioni o circoli fra militari a carattere sindacale;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle resistenti Amministrazioni;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 marzo 2017 il Cons. Luca Lamberti e uditi per le parti l’avvocato Saccucci e gli avvocati dello Stato Fedeli e Greco;
1. Con ricorso proposto innanzi al T.a.r. Lazio il sig. Francesco Solinas, Brigadiere della Guardia di Finanza, e l’associazione di egli espone di essere socio, denominata “Solidarietà, diritto e progresso”, hanno impugnato la nota prot. n. 231973/12 del 31 luglio 2012, con cui il Comando Generale della Guardia di Finanza ha rigettato l’istanza avanzata in data 11 giugno 2012 dal medesimo sig. Solinas e volta ad ottenere “l’autorizzazione a costituire un’associazione a carattere sindacale fra il personale dipendente del Ministero della difesa e/o del Ministero dell’economia e delle finanze o, in ogni caso, ad aderire ad altre associazioni sindacali già esistenti”.
1.1. Nella nota il Comando ha rappresentato che “la costituzione di associazioni fra militari a carattere sindacale e l’adesione ad associazione della specie già esistenti sono espressamente vietate dal comma 2 dell’art. 1475 del d.lgs. 66/2010”, a tenore del quale, come noto, “i militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali”.
1.2. I ricorrenti hanno lamentato, in proposito, l’assunta contrarietà di tale disposizione con l’art. 117, comma 1, della Costituzione in relazione agli articoli 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“CEDU”).
2. Il T.a.r., con la sentenza n. 8052 del 23 luglio 2014 indicata in epigrafe, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale (e, conseguentemente, ha rigettato il ricorso), sulla scorta delle argomentazioni svolte nella pronuncia della Corte Costituzionale 17 dicembre 1999, n. 449, relativa all’art. 8 della legge 11 luglio 1978, n. 382 (poi abrogata dal d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66), ai sensi della quale “I militari non possono esercitare il diritto di sciopero, costituire associazioni professionali a carattere sindacale, aderire ad altre associazioni sindacali”.
2.1. Il Tribunale, in particolare, premesso che “la stessa CEDU … prefigura una disciplina più restrittiva, quanto all’esercizio del diritto alla libertà di associazione, per il personale delle forze armate”, ha ritenuto che le limitazioni alla libertà sindacale previste dalla normativa nazionale soddisfino le tre condizioni indicate dalla stessa giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ossia la legalità, la finalizzazione a scopi legittimi e la proporzionalità.
2.2. Il Tribunale, inoltre, ha valorizzato “il dato giuridico per cui la posizione del militare è connotata in modo del tutto peculiare rispetto a tutti gli altri cittadini ed è tale da dover subire una limitazione dei propri diritti”; del resto, ha proseguito il Giudice di prime cure, “la specialità della fattispecie e della relativa disciplina è, in maniera complementare, comprovata dal fatto che lo stesso legislatore ha provveduto alla istituzione degli «organi di rappresentanza militare» di cui agli artt. 1476 e seguenti del Codice dell’ordinamento militare, composti da militari di tutte le categorie e di tutti i gradi, eletti su base democratica, e con la espressa competenza di rappresentare e difendere, nelle sedi istituzionali, le aspirazioni, le esigenze, le proposte comunque connesse con gli interessi collettivi delle singole categorie”.
3. Con ricorso in appello i ricorrenti hanno chiesto la riforma di tale sentenza, anche sulla scorta di due sopravvenute pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo emesse in data 2 ottobre 2014 dalla quinta sezione nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09), che fornirebbero ulteriori argomenti a sostegno dell’assunto dell’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010.
3.1. In tali pronunce la Corte di Strasburgo ha affermato che “le restrizioni che possono essere imposte ai tre gruppi di soggetti menzionati nell’art. 11 CEDU [membri delle Forze Armate, della Polizia e dell’Amministrazione dello Stato] richiedono un’interpretazione restrittiva e devono, conseguentemente, limitarsi all’esercizio dei diritti in questione. Esse non possono, tuttavia, mettere in discussione l’essenza stessa del diritto alla libertà sindacale. Pertanto la Corte non accetta le restrizioni che incidono sugli elementi essenziali della libertà sindacale senza i quali il contenuto di tale libertà sarebbe vuotato della sua sostanza. Il diritto di formare un sindacato e di aderirvi è un elemento essenziale della libertà sindacale” (“Matelly c. Francia” §§ 57-58, “Adefdromil c. Francia” §§ 43-44).
3.1.1. Se, dunque, è legittimo per gli Stati prevedere, per i militari, restrizioni dell’esercizio dei diritti sindacali, purtuttavia secondo la Corte “tali restrizioni non devono privare i militari ed i loro sindacati del diritto generale alla libertà di associazione per la difesa dei loro interessi professionali e morali”, anche in considerazione del fatto che l’istituzione, da parte della legislazione francese, di “organismi e procedure speciali” di rappresentanza militare “non sarebbe idonea a sostituirsi al riconoscimento ai militari della libertà di associazione, che comprende il diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi” (“Matelly c. Francia” §§ 69-70, “Adefdromil c. Francia” § 54).
3.1.2. Il principio sotteso a tali pronunce, sostengono i ricorrenti, lumeggerebbe l’illegittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, d.lgs. 66/2010, che, lungi dal restringere l’esercizio dei diritti sindacali dei militari, li conculcherebbe del tutto.
3.1.3. Né potrebbe sostenersi l’equipollenza degli organismi di rappresentanza militare istituiti dalla legge, ritenuti “organi di natura pubblicistica” connotati da “natura profondamente gerarchizzata”, privi “dei caratteri dell’autonomia e dell’indipendenza” e destinati allo svolgimento di “funzioni prevalentemente consultive e propositive”.
3.1.4. Per di più, si osserva ad abundantiam, la disposizione di cui all’art. 1475, comma 2, d.lgs. 66/2010 contrasterebbe pure con il testo della Carta sociale europea riveduta, il cui art. 5 assegna agli Stati firmatari, fra l’altro, il dovere di determinare la misura in cui la libertà di associazione sindacale, sancita in via generale dalla Carta stessa, trovi applicazione nei confronti degli appartenenti alle Forze Armate.
3.1.5. Anche tale normativa, si argomenta, consentirebbe solo limitazioni della libertà sindacale, non una sua radicale obliterazione.
3.2. Le resistenti Amministrazioni, ritualmente costituitesi, hanno sostenuto che “la Corte Costituzionale a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007 (richiamate nella sentenza 28 novembre 2012, n. 264) ha costantemente ritenuto che il confronto tra la tutela dei diritti fondamentali prevista dalla Convenzione e quella costituzionale deve essere effettuato attraverso il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali che, a loro volta, garantiscano i diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela … E’ in applicazione di tali principi che deve essere risolta la questione all’odierno esame, atteso che la limitazione del diritto del militare di costituire o aderire ad associazioni sindacali è posto al fine di garantire la coesione interna delle Forze Armate, presupposto a sua volta necessario per garantire la difesa dei valori e delle istituzioni democratiche al cui servizio sono poste”.
3.2.1. Nella prospettazione coltivata dalla difesa erariale, dunque, l’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 sarebbe necessario per la tutela di un valore fondamentale dell’ordinamento e, pertanto, non presenterebbe lo stigma della contrarietà alla Carta fondamentale, al perseguimento di uno dei valori primari della quale sarebbe, di contro, funzionale.
3.3. I ricorrenti, in replica, hanno ribadito le proprie traiettorie argomentative e aggiunto che la Repubblica di Francia avrebbe, con legge 917/2015 entrata in vigore in data 30 luglio 2015, espunto dal proprio ordinamento, in ossequio alle citate sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il divieto assoluto di associazione sindacale per i membri delle Forze Armate.
3.3.1. Per di più, il Comitato europeo dei diritti sociali, con decisione pubblicata in data 4 luglio 2016 su un reclamo collettivo proposto da un sindacato francese di appartenenti alla “Gendarmerie nationale”, forza di polizia ad ordinamento militare (ricorso n. 101/2013, caso “CESP c. Francia”), avrebbe ritenuto incompatibile con l’art. 5 della Carta sociale europea riveduta il divieto assoluto e generale di costituire o aderire ad associazioni sindacali per i membri delle Forze Armate e delle forze di polizia ad ordinamento militare, previsto – con dizione in tesi assai simile a quella adoperata dall’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 – dalla previgente legislazione transalpina.
3.3.2. Inoltre, il Comitato avrebbe ritenuto sì compatibili con l’art. 5 della Carta sociale europea riveduta “le restrizioni alla libertà sindacale introdotte [in Francia] con la riforma del 2015 ed attualmente in vigore, ma solo nel caso in cui il corpo operi funzionalmente come Forza Armata. Qualora, invece, il corpo militare operi funzionalmente come Forza di polizia, tali restrizioni sono state giudicate illegittime”.
4. Il ricorso è stato discusso all’udienza pubblica del 30 marzo 2017 e, quindi, introitato per la decisione.
5. Il Collegio ritiene che l’esposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 sia rilevante e non manifestamente infondata.
5.1. La rilevanza è in re ipsa e non abbisogna di specifica dimostrazione: la disposizione in parola, infatti, è il perno giuridico su cui ruota l’intera controversia.
5.2. La questione, inoltre, risulta anche non manifestamente infondata.
5.2.1. L’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 vieta in radice ai militari di “costituire associazioni professionali a carattere sindacale”, nonché di “aderire ad altre associazioni sindacali”.
5.2.2. Il principio di diritto chiaramente affermato dalle due pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo citate dai ricorrenti è, invece, di segno radicalmente opposto: la restrizione dell’esercizio del diritto di associazione sindacale dei militari non può spingersi sino alla negazione della titolarità stessa di tale diritto, pena la violazione dei menzionati articoli 11 e 14 della Convenzione.
5.2.3. L’art. 11 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848), come noto, stabilisce che “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa dei propri interessi. 2. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato”.
5.2.4. Il successivo art. 14 della Convenzione statuisce che “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.
5.2.5. L’interpretazione della Convenzione, costituente formalmente un trattato internazionale elaborato nell’ambito del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale con carattere di stabilità a sua volta costituita con trattato interstatuale, è rimessa, ai sensi dell’art. 32 della medesima, alla sola Corte Europea dei Diritti dell’Uomo: per gli Stati firmatari, pertanto, il diritto convenzionale vivente non è quello rappresentato dal testo della Convenzione (ossia dalle relative disposizioni), bensì quello risultante dall’esegesi dei Giudici di Strasburgo, unico plesso giurisdizionale attributario della competenza a risolvere “tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione” (così il citato art. 32) e, dunque, a ricavare da tali disposizioni le vere e proprie norme giuridiche, le regulae juris.
5.2.6. Il Collegio osserva che la Corte Costituzionale si è più volte espressa in ordine ai rapporti della legislazione nazionale con il diritto internazionale di origine consuetudinaria e convenzionale.
5.2.7. In particolare, già con la sentenza n. 73/2001 la Corte ha sostenuto che “l’orientamento di apertura dell’ordinamento italiano nei confronti sia delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, sia delle norme internazionali convenzionali incontra i limiti necessari a garantirne l’identità e, quindi, innanzitutto i limiti derivanti dalla Costituzione. Pertanto, i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituirebbero limite tanto all’ingresso delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l’ordinamento giuridico italiano si conforma in virtù dell’art. 10, primo comma, Cost., quanto delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni”).
5.2.8. Con riferimento al diritto internazionale convenzionale e, in particolare, proprio alla CEDU, è poi intervenuta la sentenza n. 348/2007, ove la Corte, premesso che “tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”, ha affermato che “quanto detto sinora non significa che le norme della CEDU, quali interpretate dalla Corte di Strasburgo, acquistano la forza delle norme costituzionali e sono perciò immuni dal controllo di legittimità costituzionale di questa Corte. Proprio perché si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre ad un livello sub-costituzionale, è necessario che esse siano conformi a Costituzione. La particolare natura delle stesse norme, diverse sia da quelle comunitarie sia da quelle concordatarie, fa sì che lo scrutinio di costituzionalità non possa limitarsi alla possibile lesione dei principi e dei diritti fondamentali (ex plurimis, sentenze n. 183 del 1973, n. 170 del 1984, n. 168 del 1991, n. 73 del 2001, n. 454 del 2006) o dei principi supremi (ex plurimis, sentenze n. 30 e n. 31 del 1971, n. 12 e n. 195 del 1972, n. 175 del 1973, n. 1 del 1977, n. 16 del 1978, n. 16 e n. 18 del 1982, n. 203 del 1989), ma debba estendersi ad ogni profilo di contrasto tra le “norme interposte” e quelle costituzionali. L'esigenza che le norme che integrano il parametro di costituzionalità siano esse stesse conformi alla Costituzione è assoluta e inderogabile, per evitare il paradosso che una norma legislativa venga dichiarata incostituzionale in base ad un'altra norma sub-costituzionale, a sua volta in contrasto con la Costituzione. In occasione di ogni questione nascente da pretesi contrasti tra norme interposte e norme legislative interne, occorre verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norma censurata rispetto alla stessa norma interposta. Nell'ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale, questa Corte ha il dovere di dichiarare l'inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall'ordinamento giuridico italiano.
Poiché, come chiarito sopra, le norme della CEDU vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell'interpretazione, non la disposizione in sé e per sé considerata. Si deve peraltro escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione. In sintesi, la completa operatività delle norme interposte deve superare il vaglio della loro compatibilità con l'ordinamento costituzionale italiano, che non può essere modificato da fonti esterne, specie se queste non derivano da organizzazioni internazionali rispetto alle quali siano state accettate limitazioni di sovranità come quelle previste dall'art. 11 della Costituzione”.
5.2.9. Sul punto si è espressa anche la coeva pronuncia n. 349/2007, ove si legge che, “con riguardo alle disposizioni della CEDU, questa Corte ha più volte affermato che, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, le medesime, rese esecutive nell'ordinamento interno con legge ordinaria, ne acquistano il rango e quindi non si collocano a livello costituzionale (tra le molte, per la continuità dell'orientamento, sentenze n. 388 del 1999, n. 315 del 1990, n. 188 del 1980; ordinanza n. 464 del 2005). Ed ha altresì ribadito l'esclusione delle norme meramente convenzionali dall'ambito di operatività dell'art. 10, primo comma, Cost. (oltre alle pronunce sopra richiamate, si vedano le sentenze n. 224 del 2005, n. 288 del 1997, n. 168 del 1994) … Con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione … Questa Corte e la Corte di Strasburgo hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell'uomo. L'interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo, ciò che solo garantisce l'applicazione del livello uniforme di tutela all'interno dell'insieme dei Paesi membri. A questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all'art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU, spetta invece accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell'interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana. Non si tratta, invero, di sindacare l'interpretazione della norma CEDU operata dalla Corte di Strasburgo, come infondatamente preteso dalla difesa erariale nel caso di specie, ma di verificare la compatibilità della norma CEDU, nell'interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri, con le pertinenti norme della Costituzione. In tal modo, risulta realizzato un corretto bilanciamento tra l'esigenza di garantire il rispetto degli obblighi internazionali voluto dalla Costituzione e quella di evitare che ciò possa comportare per altro verso un vulnus alla Costituzione stessa”.
5.2.10. Un cenno merita pure la successiva sentenza n. 311/2009, in cui è scritto che “questa Corte ha anche affermato, e qui intende ribadirlo, che ad essa è precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte costituzionale compete, questo sì, di verificare se la norma della CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione. Il verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimità, comporta – allo stato – l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007)”.
5.2.11. Infine, in due recenti pronunce (nn. 264/2012 e 235/2014) la Corte Costituzionale ha affermato che la difesa dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata: a differenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, la Corte Costituzionale “opera una valutazione sistemica e non isolata dei valori coinvolti dalle norme di volta in volta scrutinate ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento, solo ad essa spettante”, poiché, se “il giudice delle leggi non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella data in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla Corte di Strasburgo, con ciò superando i confini delle proprie competenze in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione, esso però è tenuto a valutare come ed in quale misura l’applicazione della Convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, diviene oggetto di bilanciamento, secondo le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sent. n. 317 del 2009). Operazioni volte non già all’affermazione della primazia dell’ordinamento nazionale, ma alla integrazione delle tutele”. Per vero, “nella giurisprudenza costituzionale si è, inoltre, reiteratamente affermato che, con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Del resto, l’art. 53 della stessa Convenzione stabilisce che l’interpretazione delle disposizioni CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali”, anche con riferimento a diritti fondamentali diversi da quelli presi atomisticamente in esame dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
5.2.12. In sostanza, dunque, la Corte Costituzionale ha progressivamente tratteggiato i contorni concettuali della categoria dei “controlimiti” rispetto alla generale apertura dell’ordinamento a valori giuridici alieni: l’eventuale contrasto con norme o principi fondamentali della Costituzione osta in radice tanto all’ingresso nel nostro ordinamento, ai sensi dell’art. 10 della Costituzione, della norma internazionale consuetudinaria, quanto all’idoneità della norma internazionale di fonte convenzionale a fungere da parametro interposto di legittimità costituzionale, a tenore dell’art. 117, comma 1, della Costituzione.
5.2.13. In particolare, l’eventuale contrasto della norma internazionale interposta di fonte convenzionale con fondamentali principi costituzionali determina, sul piano sostanziale, l’inidoneità della stessa a fungere da norma interposta e, sul piano processuale, l’espunzione dall’ordinamento giuridico nazionale della legge di autorizzazione alla ratifica del corrispondente trattato nella parte in cui consente l’ingresso nell’ordinamento di tale norma, mediante questione di costituzionalità sollevata ex officio dalla Corte Costituzionale stessa.
5.2.14. Il Collegio osserva, incidentalmente, che lo spazio valutativo della Corte è assai minore con riferimento all’ordinamento UE, la cui più stringente cogenza discende direttamente dall’art. 11 della Carta: la sentenza n. 284/2007, premesso che “nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell'art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l'applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all'esistenza del conflitto”, specifica che l’applicazione del diritto UE, di regola diretta ed automatica, “deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona (da ultimo, ordinanza n. 454 del 2006)”.
5.2.15. Questo Consiglio, pertanto, ravvisata la palese ed insanabile contrarietà dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 con la norma di diritto internazionale convenzionale come ricavata dall’esegesi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non può che rimettere gli atti alla Corte Costituzionale, che, nell’ambito dello svolgimento del conseguente giudizio di costituzionalità, valuterà se la norma interposta non sia a sua volta contraria alla Costituzione e, come tale, non presenti “idoneità a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.”.
5.2.16. Il Consiglio, in proposito, rileva che l’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 è dettato al fine di assicurare la coesione interna, la neutralità e la prontezza delle Forze Armate, presupposti strumentali necessari ed imprescindibili per assicurare l’efficacia della relativa azione, posta a tutela di un valore dell’ordinamento di carattere supremo e per così dire primario, quale è la difesa militare dello Stato.
5.2.17. Non ha, sul punto, rilievo la prevalente destinazione della Guardia di Finanza a compiti di polizia economico-finanziaria, circostanza valorizzata dai ricorrenti al duplice fine di propugnare l’assunta incongruità del riferimento operato in prime cure alle esigenze di “organizzazione, coesione interna e massima operatività” delle Forze Armate e di stigmatizzare la disparità di trattamento rispetto al personale della Polizia di Stato, cui di contro è riconosciuta ampia libertà in materia sindacale: ai sensi della legge 23 aprile 1959, n. 189, infatti, “il Corpo della guardia di finanza … fa parte integrante delle Forze armate dello Stato” (art. 1), è deputato a “concorrere alla difesa politico-militare delle frontiere e, in caso di guerra, alle operazioni militari” (art. 1) e “ai militari del Corpo della guardia di finanza si applicano il regolamento di disciplina militare per l'Esercito e la legge penale militare” (art. 10).
5.2.18. Sull’opposto crinale, la predisposizione legislativa (art. 1476 e seguenti del d.lgs. 66/2010) di un articolato sistema istituzionale della rappresentanza militare non può comunque soddisfare le esigenze indicate dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, giacché la libertà sindacale presuppone ontologicamente la facoltà di dar vita a forme autonome di rappresentanza anche al di fuori di eventuali strutture create ex lege.
5.3. Il Consiglio, inoltre, rimette alla Corte pure la distinta ma connessa questione della contrarietà dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010 con l’art. 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, predisposta nell’ambito del Consiglio d’Europa, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30.
5.3.1. Per vero, la Carta sociale europea riveduta, adottata con un trattato internazionale, prevede un organo di individui, allo stato denominato Comitato Europeo dei Diritti Sociali, nominato dagli Stati contraenti e composto da “esperti della massima integrità e di riconosciuta competenza in questioni sociali nazionali ed internazionali”, cui è rimessa, tra l’altro, la decisione dei “reclami collettivi circa un’attuazione insoddisfacente della Carta” che possono essere proposti da associazioni, nazionali od internazionali, di lavoratori e datori di lavoro.
5.3.2. La decisione su tali reclami, tuttavia, non solo è priva di efficacia diretta negli ordinamenti degli Stati membri, ma, prima ancora, non è neppure idonea a costituire obblighi di carattere internazionale a carico dello Stato interessato: ove, infatti, il Comitato Europeo dei Diritti Sociali ravvisi, all’esito di una procedura di “reclamo collettivo”, una “insoddisfacente attuazione” della Carta, compete al Comitato dei Ministri, organo di Stati, l’adozione “a maggioranza dei due terzi dei votanti” di “una raccomandazione destinata alla Parte contraente chiamata in causa”.
5.3.3. Per quanto qui di interesse, inoltre, la Carta Sociale Europea non assegna al Comitato Europeo dei Diritti Sociali la competenza esclusiva ad interpretare la Carta stessa: la relativa esegesi, dunque, è rimessa al singolo Giudice nazionale, che vi procederà secondo i criteri propri dell’interpretazione dei trattati (art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, conclusa in Vienna il 23 maggio 1969 e resa esecutiva in Italia con legge 12 febbraio 1974, n. 112, che, peraltro, assegna rilievo interpretativo, oltre che a “testo, preambolo ed allegati” dell’accordo, anche ad “ogni strumento posto in essere da una o più parti in occasione della conclusione del trattato e accettato dalle parti come strumento in connessione col trattato”, quale ben può essere la pronuncia di un organo, come il citato Comitato Europeo dei Diritti Sociali, specificamente previsto dal trattato al precipuo fine di verificarne l’effettivo rispetto da parte dei Paesi membri, sia pure con carattere non vincolante).
5.3.4. Questo Consiglio ritiene, in proposito, che la disposizione dell’art. 5, terzo periodo, della Carta, laddove rimette alla legislazione nazionale di determinare il “principio dell’applicazione delle garanzie” sindacali ai militari nonché la “misura” di tale applicazione, intenda evocare un nucleo essenziale – certo ristretto, limitato e circoscritto - di libertà sindacali che non può non essere riconosciuto anche a favore di tali categorie di lavoratori: ne consegue che una norma nazionale che, come l’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010, privi in radice i militari del diritto di “costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali” si pone in contrasto con tale disposizione di diritto internazionale convenzionale.
5.3.5. Del resto, l’articolo G della Carta consente sì “le restrizioni ai diritti ed ai principi enunciati nella Parte I” (fra cui quello afferente alle libertà sindacali) nelle ipotesi “stabilite dalla legge e necessarie, in una società democratica, per garantire il rispetto dei diritti e delle libertà altrui o per proteggere l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la salute pubblica o il buon costume”, ma, menzionando il termine “restrizioni”, pare implicitamente escludere la liceità di radicali “esclusioni”, invece previste dal menzionato art. 1475, comma 2, del d.lgs. 66/2010.
5.3.6. Esaurite tali preliminari operazioni esegetiche, tuttavia, questo Organo Giudiziario non può che arrestarsi e rimettersi alla Corte Costituzionale: compete, infatti, al Giudice delle leggi stabilire se effettivamente sussista tale contrasto, previo accertamento che la norma di diritto internazionale convenzionale tratta dall’art. 5 della Carta sociale europea riveduta sia idonea ad integrare parametro di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., in considerazione dell’impatto che tale regula juris avrebbe sul distinto, confliggente e fondamentale interesse dell’ordinamento a disporre di Forze Armate concretamente in grado di apprestare una pronta, efficace ed affidabile difesa militare dello Stato.
6. In conclusione, alla luce delle considerazioni che precedono appare rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), per i seguenti profili:
a) per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli articoli 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze emesse in data 2 ottobre 2014 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09);
b) per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’articolo 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30.
6.1. Ai sensi dell’art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, il presente giudizio davanti al Consiglio di Stato è sospeso fino alla definizione dell’incidente di costituzionalità.
6.2. Ai sensi dell’art. 23, quarto e quinto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la presente ordinanza sarà comunicata alle parti costituite e notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), per i seguenti profili:
a) per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli articoli 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come da ultimo interpretati dalle sentenze in data 2 ottobre 2014 della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, quinta sezione, nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09);
b) per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’articolo 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta, firmata in Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30.
Dispone la sospensione del presente giudizio davanti al Consiglio di Stato e ordina alla segreteria l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Ordina che, a cura della segreteria, la presente ordinanza sia comunicata alle parti costituite e notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 marzo 2017 con l'intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Oberdan Forlenza, Consigliere
Leonardo Spagnoletti, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere, Estensore
Nicola D'Angelo, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Luca Lamberti Filippo Patroni Griffi
IL SEGRETARIO
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Messaggio da Sempreme064 »
Complimenti panorama, quanto hai scritto...
SIAMO D'ACCORDO che in Italia prima delle circolari ci devono essere i partiti? Avete seguito le elezioni in Francia? Le piazze sono in festa.. segue :
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Messaggio da Sempreme064 »
Partiti e presidenti repubblica eletti...possibilmente rappresentanze e sindacati che abbiano più potere..Siamo allo sbando e sempre peggio, qualcuno ha scritto in altro post ''incazzatevi avete la legge dalla parte della ragione...la ragione è finita da un pezzo.. segue:
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
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Io vi dico, non incazzatevi che vi chiudono la bocca se siete al lavoro, fatelo nelle ore libere..questo è il sistema attuale di sti gran f...di t...Buona botte
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Messaggio da Sempreme064 »
Chi vi parla perché conosce...ancora oggi ho visto collega con 30 anni servizio, pareva un barbone, oltre quelli che incontro nelle finanziarie per pagare debiti con interessi... 30 anni di servizio 1250 euro, di cui 26 effettivi e 4 ricongiungimento.. Siamo alla follia... ma fanno ancora circolari?
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Messaggio da Sempreme064 »
Gli ho chiesto, scusa ma la tua pensione è compresa di accessorie? Non sapeva nemmeno cosa sono, ha fatto 26 anni di radiomobile..n.o.r.m. Gli ho risposto ti farò sapere se ti spettano, io mio avvocato si sta interessando è anche un sindacato..una vergogna
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Messaggio da Sempreme064 »
In Italia non c'è nessun partito. Niente circolari per i Magna, bonus per i divorziati separati , contro lo idee e patrimoniali, monoreddito va premiato con bonus, due stipendi caput.. stipendio alto caput...
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Messaggio da Sempreme064 »
Tasse caput... autostrade 50 accuse caput..gas luce caput.. Irpef caput... sopra intendevo isee....
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
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Home caro premium ... a chi assiste non come per i profughi... cooperative.
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
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Ne ho all' infinito..Bona notte
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Messaggio da Sempreme064 »
Dott. Lino.. cancelliamo correggiamo qualche messaggio? :) mi date la possibilità di correggere gli errori senza disturbarvi? A volte vado oltre.. Non rientro nella sintesi risposte del quesito/post... quando uno è inc... scrive a ruota libera e di cose da dire ne ho tante...
Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
il CdS precisa:
1) - Né può valere, a conforto della tesi propugnata dalla difesa erariale, il disposto di cui all’art. 751 del d.p.r. n. 90 del 2010, in considerazione della natura meramente attuativa del provvedimento, che, come tale, non definisce le categorie giuridiche cui si riferisce ma, al contrario, le mutua dal sovra-ordinato atto legislativo.
2) - Allargando la visuale, poi, il Collegio osserva che, allorché il legislatore ha inteso escludere in toto il diritto di iscrizione a partiti politici, lo ha fatto con ben altra chiarezza dispositiva: si ponga mente all’art. 114 della l. n. 121 del 1981, la cui efficacia è stata più volte prorogata ma che allo stato non è più vigente, secondo il quale “Fino a che non intervenga una disciplina più generale della materia di cui al terzo comma dell'articolo 98 della Costituzione, e comunque non oltre un anno dall'entrata in vigore della presente legge, gli appartenenti alle forze di polizia di cui all'articolo 16 della presente legge non possono iscriversi ai partiti politici”.
3) - Da ultimo, si sottolinea che l’esegesi caldeggiata dalla difesa erariale si pone pure in possibile attrito con il diritto internazionale convenzionale e comunitario.
4) - In conclusione, la mera iscrizione di un appartenente alle Forze Armate ad un partito politico costituisce, allo stato attuale della legislazione, un comportamento ab imis lecito che in nessun caso può essere stigmatizzato dall’Amministrazione militare.
5) - In definitiva, de jure condito il singolo militare può sì iscriversi ad un partito e, anche in tale qualità, esercitare il proprio diritto di elettorato passivo, ma non può mai assumere, nell’ambito di una formazione partitica, alcuna carica statutaria neppure di carattere onorario, a tutela indiretta ma necessaria del principio di neutralità “politica” delle Forze Armate: tale principio, infatti, sarebbe inevitabilmente leso ove un militare, lungi dal limitarsi ad aderire, mediante la propria iscrizione, alle coordinate valoriali di una formazione politica o dal rappresentare in prima persona i cittadini in assemblee elettive, contribuisse personalmente, direttamente e, per così dire, istituzionalmente, in forza di una formale qualifica statutaria, a plasmare ab interno la linea politica di formazioni di massa ed intrinsecamente di parte quali sono gli odierni partiti politici.
6) - In osservanza della presente decisione, l’Amministrazione è conseguentemente chiamata a rideterminarsi, ora per allora, sulla misura della sanzione disciplinare (in sé legittima) inflitta al maresciallo Cataldi per le due mancanze disciplinari de quibus sotto il profilo della congruità e della proporzione, in considerazione del fatto che uno degli originari addebiti è stato ex post riconosciuto come ab origine privo di rilievo disciplinare.
N.B.: per completezza leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201705845 - Public 2017-12-12 -
Pubblicato il 12/12/2017
N. 05845/2017REG.PROV.COLL.
N. 01507/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1507 del 2017, proposto da Ministero della difesa - Comando Legione Carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta”, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Carmelo Cataldi, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Carta e Giovanni Carta, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, viale Parioli, 55;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per il Piemonte, Sez. I, n. 1127 del 5 settembre 2016, resa tra le parti, concernente ammonimento a recedere da una carica all’interno di un partito politico e successiva irrogazione della sanzione disciplinare di corpo della consegna di rigore per giorni cinque per mancato recesso da tale carica e da precedente iscrizione ad altro partito.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Carmelo Cataldi;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 novembre 2017 il Cons. Luca Lamberti e uditi per la parte ricorrente gli avvocati dello Stato Natale e Greco;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il maresciallo aiutante dell’Arma dei carabinieri Carmelo Cataldi, all’epoca in servizio presso il Nucleo Operativo Radiomobile della Compagnia di Bra (Cn), ha impugnato avanti il competente T.a.r. il provvedimento prot. n. 3241/10 del 31 agosto 2010 (e i propedeutici atti procedimentali) con cui il comandante della Legione carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” lo ha formalmente ammonito a recedere dalla carica, da lui in precedenza assunta, di segretario regionale per il Piemonte del “P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”.
1.1. Con ricorso per motivi aggiunti il maresciallo Cataldi ha impugnato il successivo decreto (Comando Interregionale carabinieri “Pastrengo” prot. n. 171/3 dell’1 aprile 2011) recante il rigetto del ricorso gerarchico proposto avverso la sanzione disciplinare di corpo della consegna di rigore per giorni cinque (decreto Comando Legione carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” prot. n. 3241/65 del 9 dicembre 2010).
Le mancanze contestate consistevano nell’iscrizione, in data 28 novembre 2009, ad un partito politico (l’allora “Lega Nord - Bossi”), nella successiva assunzione, in data 23 marzo 2010, della carica di segretario regionale in altro partito politico (“P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”) e nella mancata ottemperanza a due distinti provvedimenti di formale ammonimento a recedere da tali iniziative, a lui notificati in data 4 agosto 2010 (con riferimento all’iscrizione al partito “Lega Nord - Bossi”, non impugnato) e 4 settembre 2010 (con riferimento all’assunzione di carica nell’ambito del partito “P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”, impugnato con il ricorso introduttivo).
2. Il Tribunale, all’esito di un’approfondita ricostruzione del vigente tessuto normativo relativo alla possibilità, per i militari, di svolgere attività politica, ha accolto le censure del ricorrente, annullando tutti gli atti impugnati.
3. L’Amministrazione ha interposto appello, riproponendo le coordinate esegetiche già coltivate in prime cure.
4. Il maresciallo Cataldi si è costituito ed ha eccepito in rito l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità, nel merito la correttezza del decisum di primo grado.
5. Il ricorso, trattato ed assunto in decisione alla pubblica udienza del 9 novembre 2017, merita parziale accoglimento nei limiti che seguono.
6. In primis, non si apprezza alcuna ragione di inammissibilità o improcedibilità dell’appello o del ricorso di primo grado.
6.1. Laddove, infatti, la materia del contendere inerisca solo a questioni di diritto, il requisito della specificità prescritto dall’art. 101 c.p.a. è nella sostanza soddisfatto allorché l’appello, come nella specie, delinei con sufficiente precisione un’esegesi normativa alternativa a quella adottata dalla sentenza impugnata e con essa radicalmente incompatibile.
6.2. Né l’intervenuto annullamento dell’irrogazione della consegna di rigore, disposto con provvedimento del 25 novembre 2016, determina l’improcedibilità del gravame, perché l’atto – comunque non riferito anche al propedeutico ammonimento a recedere dalla carica di segretario regionale, parimenti impugnato – è stato emanato al solo e dichiarato fine di prestare ottemperanza alla sentenza del Tribunale e non concreta, quindi, una forma di spontanea autotutela.
6.3. Non ha, infine, incidenza sulla procedibilità del presente giudizio il fatto (peraltro non documentato dall’interessato ed in ordine al quale la difesa erariale non ha svolto alcuna deduzione) che, a quanto consta, nelle more della decisione il maresciallo Cataldi sia stato collocato in “congedo illimitato per sopravvenuta permanente inidoneità al servizio militare incondizionato” (cfr. memoria del 23 marzo 2017, pag. 3).
6.3.1. In disparte il fatto che il congedo costituisce una posizione di stato giuridico del personale militare (cfr. art. 874 cod. ord. mil. di cui al d. lgs. n. 66 del 2010) e che manca una dichiarazione espressa di sopravvenuta carenza di interesse alla coltivazione del ricorso di primo grado, il maresciallo Cataldi conserva comunque interesse alla definizione di una controversia afferente alla legittimità di una sanzione inflitta per il pregresso esercizio di un suo diritto fondamentale (e caratterizzante ab interno il suo status civitatis), alla luce della norma sancita dagli artt. 880, comma 6, e 982, comma 2, cod. ord. mil., in forza della quale il militare in congedo o in congedo assoluto è comunque soggetto alle disposizioni di stato riflettenti il grado e la disciplina.
7. Nel merito, il Collegio osserva quanto segue.
7.1. L’art. 49 della Costituzione statuisce che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
7.2. Il successivo art. 98, terzo comma, aggiunge che “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero”.
7.3. Il diritto di associazione (di cui, invero, l’iscrizione a partiti politici costituisce una species) è, poi, contemplato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 11), dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 12), dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite in data 10 dicembre 1948 (art. 20) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, anch’esso elaborato in ambito O.N.U. e sottoscritto in New York in data 16 dicembre 1966 (art. 22).
7.4. Sul crinale della legislazione ordinaria, i riferimenti sono dati dall’art. 6, commi 1 e 2, della l. n. 382 del 1978, poi sostituito - peraltro con una dizione assolutamente identica - dall’art. 1483 cod. ord. mil..
7.5. Le speculari disposizioni in questione stabiliscono, in particolare, che “1. Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche.
2. Ai militari che si trovano nelle condizioni di cui al comma 2 dell'articolo 1350” (il previgente art. 6 della l. n. 382 rimandava al terzo comma dell’articolo 5, di contenuto analogo) “è fatto divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative”.
7.6. A sua volta, il comma 2 dell’art. 1350 (come il previgente terzo comma dell’art. 5 della l. n. 382) statuisce che “Le disposizioni in materia di disciplina militare si applicano nei confronti dei militari che si trovino in una delle seguenti condizioni: a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l'uniforme; d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”.
8. Ad avviso dell’Amministrazione, la dizione di cui al primo comma (“1. Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche”) non può che implicare un generalizzato divieto anche per i singoli appartenenti alle Forze Armate di partecipare alle “competizioni politiche” e, dunque, di iscriversi a partiti, che lo stesso testo costituzionale, del resto, riconosce diretti a consentire al cittadino di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
8.1. Siffatta esegesi, argomenta la difesa erariale, risponderebbe a criteri di razionalità interpretativa: in primo luogo le Forze Armate in sé, ossia come istituzione della Repubblica, non potrebbero strutturalmente partecipare alle competizioni politiche, naturaliter riservate al singolo civis, per cui, ove interpretata in tal senso, la norma sarebbe inutiliter data; inoltre la disposizione, riferendosi non alle elezioni ma, più in generale, alle competizioni politiche, plasmerebbe un generalizzato divieto di immistione in ambito lato sensu politico che non potrebbe essere concretamente ed efficacemente attinto se non mediante l’imposizione in capo ad ogni singolo militare di un rigido dovere di assoluta estraneità.
8.2. In tale ottica, prosegue la difesa erariale, si restituirebbe pure linearità sistematica ed armonicità dispositiva al richiamo all’art. 1350, comma 2 operato dall’art. 1483 cod. ord. mil.: il singolo militare, in radice privo della facoltà di iscriversi a partiti politici, non potrebbe neppure, quand’anche non iscritto a partiti, “partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative” in specifiche (e tassative) condizioni, ossia allorché si trovi in servizio, in luoghi militari o comunque destinati al servizio, ovvero allorché indossi l’uniforme, ovvero ancora allorché si qualifichi come militare o si rivolga ad altri militari in divisa o che, comunque, si qualificano come tali.
8.3. Prova ulteriore della correttezza di tale tesi sarebbe, infine, costituita dal disposto dell’art. 751 del d.p.r. n. 90 del 2010, “Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare”, a tenore del quale può essere punito con la sanzione della consegna di rigore, inter alia, ogni “comportamento lesivo del principio della estraneità delle Forze armate alle competizioni politiche (articolo 1483 del codice)”.
9. Il Collegio osserva che tale opzione ermeneutica, pur astrattamente convincente in un’ottica sistematica e teleologicamente orientata, cionondimeno si infrange contro l’insuperabile chiarezza del dato testuale, primo e principale riferimento per l’operazione esegetica.
9.1. Deve in primis osservarsi che, a tenore dell’art. 49 della Costituzione, la facoltà di partecipare alla vita politica della Nazione mediante l’iscrizione a partiti politici rappresenta un diritto politico fondamentale di ogni cittadino, caratterizzante l’attuale ordinamento democratico.
9.2. Un’eventuale limitazione di tale fondamentale presidio di libertà del singolo e di garanzia della permanenza del carattere democratico della Repubblica è peraltro possibile, ai sensi del successivo articolo 98 della Carta fondamentale, per specifiche categorie di cittadini, tra cui “i militari di carriera in servizio attivo”, a mezzo di legge.
9.3. Orbene, è evidente che tale legge non possa che essere chiara, specifica ed univoca e, soprattutto, che debba essere interpretata, quale norma recante un’eccezione ad un principio costitutivo della Repubblica, in forma strettamente restrittiva, senza alcuna possibilità di esegesi estensive o, comunque, non direttamente e rigidamente conseguenti all’articolazione testuale della disposizione.
9.4. Tali caratteri, invero, ictu oculi difettano nel testo del primo comma dell’articolo 1483, privo di riferimenti diretti ed univoci alla facoltà del singolo militare di iscriversi a partiti politici.
9.5. Oltretutto, non solo il Titolo IX del Libro IV del codice dell’ordinamento militare, in cui è collocato l’art. 1483, si apre con una disposizione, l’art. 1465, che al primo comma statuisce espressamente che “Ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini”, dunque anche quello di associazione a fini politici, ma è semanticamente dubbio che la mera iscrizione ad un partito concreti, in sé, una forma di partecipazione alla competizione politica, cui solo è riferito l’articolo in commento.
9.6. Inoltre e prima ancora, il testo costituzionale delinea una mera facoltà del legislatore di introdurre “limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici”: in disparte la questione, nella presente sede irrilevante, se possa essere costituzionalmente legittima una legge che imponga una radicale elisione di tale diritto, il Collegio osserva che la regula juris costituzionale di base è nel senso dell’assoluta identità di condizione giuridica del civis in armi rispetto agli altri quanto alla facoltà di iscriversi a partiti.
9.7. Anche in tale ottica, dunque, la dizione legislativa secondo cui “Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche” non è idonea a sorreggere le conclusioni cui perviene la difesa erariale, proprio in quanto la disposizione non menziona in alcun modo il singolo militare né, tanto meno, ne perimetra in senso riduttivo la libertà, costituzionalmente presidiata, di associazione a fini politici.
9.8. Di converso, non è vero che, ove interpretata nel senso anelato dal maresciallo Cataldi, la norma sia priva di senso: essa, al contrario, conserva uno spazio normativo proprio laddove impone all’istituzione “Forze Armate” di non prendere in alcun modo parte alle competizioni politiche.
9.8.1. Si pensi, in particolare, a comportamenti materiali, a dichiarazioni pubbliche o, comunque, ad iniziative di carattere prima facie politico adottate dai rappresentati apicali di una Forza Armata in tale loro qualità: simili azioni, inevitabilmente idonee ad impegnare l’istituzione tutta ed a determinarne il sostanziale ingresso nell’agone politico, costituiscono proprio ciò che la disposizione intende impedire.
9.9. Né può valere, a conforto della tesi propugnata dalla difesa erariale, il disposto di cui all’art. 751 del d.p.r. n. 90 del 2010, in considerazione della natura meramente attuativa del provvedimento, che, come tale, non definisce le categorie giuridiche cui si riferisce ma, al contrario, le mutua dal sovra-ordinato atto legislativo.
9.10. Allargando la visuale, poi, il Collegio osserva che, allorché il legislatore ha inteso escludere in toto il diritto di iscrizione a partiti politici, lo ha fatto con ben altra chiarezza dispositiva: si ponga mente all’art. 114 della l. n. 121 del 1981, la cui efficacia è stata più volte prorogata ma che allo stato non è più vigente, secondo il quale “Fino a che non intervenga una disciplina più generale della materia di cui al terzo comma dell'articolo 98 della Costituzione, e comunque non oltre un anno dall'entrata in vigore della presente legge, gli appartenenti alle forze di polizia di cui all'articolo 16 della presente legge non possono iscriversi ai partiti politici”.
9.11. Da ultimo, si sottolinea che l’esegesi caldeggiata dalla difesa erariale si pone pure in possibile attrito con il diritto internazionale convenzionale e comunitario.
9.11.1. L’art. 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, premesso che “ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione”, ammette che “l’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate” possa essere sottoposto a “restrizioni legittime”, locuzione nella cui area semantica, per quanto ampiamente considerata, non può farsi rientrare la radicale preclusione.
9.11.2. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce, all’art. 12, che “ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico”, senza accennare neppure a possibili forme di limitazione per specifiche categorie di soggetti.
9.11.3. Analoga statuizione incondizionata si legge nell’art. 20 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, a tenore del quale “ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica”.
9.11.4. Infine, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, all’art. 22, ammette che il “diritto alla libertà di associazione”, riconosciuto ad ogni “individuo”, possa essere oggetto, per quanto attiene ai “membri delle forze armate”, di “restrizioni legali”, non già, dunque, di una radicale esclusione.
9.11.5. L’interprete, pertanto, è tenuto a formulare coordinate ermeneutiche atte ad evitare in radice il rischio di tali possibili contrasti, alla luce sia del disposto dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, sia del fatto che il relativo accertamento è, nell’ordinamento del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, sottratto alla cognizione e decisione del Giudice nazionale e rimesso ad organi giurisdizionali di origine pattizia e carattere sovranazionale.
9.12. In conclusione, la mera iscrizione di un appartenente alle Forze Armate ad un partito politico costituisce, allo stato attuale della legislazione, un comportamento ab imis lecito che in nessun caso può essere stigmatizzato dall’Amministrazione militare.
9.13. Significativamente, del resto, nell’ambito del procedimento finalizzato alla delibazione del possibile rilievo disciplinare della condotta del maresciallo Cataldi la stessa Amministrazione ha ritenuto (cfr. nota del Gabinetto del Ministro della difesa prot. n. 1/28411/2.6.32/06ML del 3 luglio 2009 e successiva nota prot. n. 81/19-136-2-1981 del 20 giugno 2010 del Comando generale dell’Arma – documenti nn. 3 e 4 prodotti in primo grado da parte ricorrente) che “l’iscrizione” a partiti politici sia vietata “non in sé” ma in quanto, in tesi, “assorbita dal divieto di esercizio di attività politica”.
10. Conclusioni frontalmente diverse, invece, debbono essere raggiunte ove il militare non si limiti alla mera e per così dire “statica” iscrizione ad un partito, ma spenda una condotta politicamente “dinamica” mediante l’assunzione di cariche all’interno di una formazione politica.
10.1. Mentre, infatti, la mera iscrizione, quale adesione ideale alle scelte politico-ideologiche di un partito, non presenta, in sé, un contenuto attivo e propositivo, al contrario l’assunzione di cariche direttive veicola la possibilità di incidere ab interno su tali scelte, contribuendo a determinarne profilo, direzione ed intensità.
10.2. Inoltre, tale condizione accentua (recte, nell’attuale società della comunicazione sostanzialmente impone) l’esposizione sociale e mediatica dell’interessato, potenzialmente suscettibile di essere chiamato a dare conto dell’indirizzo politico della formazione cui aderisce ed a parlare in nome e per conto di essa in plurimi contesti pubblici, ossia a svolgere, in varie forme, attività di “propaganda politica”, espressamente vietata dall’art. 1472, comma 3, cod. ord. mil..
10.3. Questo diverso ed assai maggiore grado di magnitudine dell’impegno politico determina, quindi, una frizione con il richiamato principio di estraneità delle Forze Armate alle competizioni politiche: posto, infatti, che lo status di militare non è limitato agli orari di servizio ma, sia in ottica ordinamentale sia nella più ampia considerazione sociale, attiene alla persona e ne segue e connota l’operare, quelle dichiarazioni pubbliche, quelle scelte programmatiche, quelle polemiche politiche sarebbero inevitabilmente ricondotte dal generale pubblico (anche) alla Forza Armata cui l’esponente partitico appartiene e per la quale continua a prestare contestualmente servizio attivo.
10.4. Questa indebita commistione, poi, si apprezzerebbe in misura esponenziale nell’ambito locale ove vive (e dove solitamente presta servizio) il militare: tale status, con ogni verosimiglianza, ne aumenterebbe la visibilità e l’identificabilità e, in tal modo, determinerebbe altresì la riconduzione di quella attività partitica, in sé necessariamente “politica” e legittimamente “di parte”, ad un’istituzione strutturalmente e costitutivamente neutrale quale sono e debbono in ogni circostanza rimanere e dimostrare di rimanere le Forze Armate.
10.5. A conferma di quanto sopra, del resto, si osserva che, ai sensi dell’art. 16 dello statuto del partito “P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”, “il Segretario Regionale … ha la rappresentanza politica del partito nella Regione” e ne “attua la linea politica” (così la nota prot. n. 3241/10-2009-D del 31 agosto 2010 impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non specificamente contestata dal maresciallo Cataldi in parte qua): sono evidenti, inevitabili ed imprescindibili, dunque, i connotati attivi intrinsecamente propri della carica in questione.
10.6. La correttezza di siffatta ricostruzione emerge, a contrario, dalle previsioni recate dal codice dell’ordinamento militare in punto di esercizio, da parte dei militari, del diritto di elettorato passivo in relazione a “cariche politiche”.
10.6.1. Ai sensi dell’art. 1484, infatti, i militari candidati ad elezioni possono sì “svolgere liberamente attività politica e di propaganda”, purché “al di fuori dell’ambiente militare e in abito civile” e, comunque, sono ex lege collocati “in apposita licenza straordinaria per la durata della campagna elettorale”.
10.6.2. In caso, poi, di effettiva elezione a “cariche politiche”, i militari interessati sono posti d’ufficio in “aspettativa” sin “dall’atto della proclamazione degli eletti” (articoli 903 e 1488).
10.6.3. La legge, quindi, si cura di frapporre un diaframma strutturale fra esercizio del diritto di elettorato passivo relativo a “cariche politiche” ed attività di servizio, in tal modo evitando che il militare impegnato in campagna elettorale (e, a fortiori, eletto ad una “carica politica”) possa svolgere contestualmente attività istituzionale, al fine di elidere ogni possibile coinvolgimento, anche solo indiretto, della Forza Armata di appartenenza nella competizione politica cui si sia dedicato un proprio membro.
10.7. In definitiva, de jure condito il singolo militare può sì iscriversi ad un partito e, anche in tale qualità, esercitare il proprio diritto di elettorato passivo, ma non può mai assumere, nell’ambito di una formazione partitica, alcuna carica statutaria neppure di carattere onorario, a tutela indiretta ma necessaria del principio di neutralità “politica” delle Forze Armate: tale principio, infatti, sarebbe inevitabilmente leso ove un militare, lungi dal limitarsi ad aderire, mediante la propria iscrizione, alle coordinate valoriali di una formazione politica o dal rappresentare in prima persona i cittadini in assemblee elettive, contribuisse personalmente, direttamente e, per così dire, istituzionalmente, in forza di una formale qualifica statutaria, a plasmare ab interno la linea politica di formazioni di massa ed intrinsecamente di parte quali sono gli odierni partiti politici.
11. L’applicazione di tali coordinate esegetiche al caso di specie conduce al parziale accoglimento dell’appello.
11.1. E’, anzitutto, legittimo l’ammonimento a recedere dalla carica di segretario regionale del “P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”, recato dal provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo del giudizio di prime cure.
11.2. Parimenti legittimo è il successivo provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare di corpo della consegna di rigore (impugnato in prime cure con ricorso per motivi aggiunti) nella parte in cui si fonda sulla mancata ottemperanza, da parte del maresciallo Cataldi, al previo ammonimento a recedere dalla menzionata carica partitica; il provvedimento è, viceversa, illegittimo nella parte in cui si riferisce alla mancata ottemperanza, da parte del militare, al previo ammonimento (peraltro non impugnato) a recedere dall’iscrizione al partito “Lega Nord – Bossi”.
11.3. Deve, dunque, in parziale accoglimento dell’appello, riformarsi la sentenza impugnata nella parte in cui ha annullato il provvedimento del comandante della Legione carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” prot. n. 3241/10 del 31 agosto 2010 e nella parte in cui ha annullato in toto, anziché solo in parte, il successivo provvedimento del comandante interregionale carabinieri “Pastrengo” prot. n. 171/3 dell’1 aprile 2011 ed il connesso provvedimento del comandante della Legione carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” prot. n. 3241/65 del 9 dicembre 2010.
11.4. In osservanza della presente decisione, l’Amministrazione è conseguentemente chiamata a rideterminarsi, ora per allora, sulla misura della sanzione disciplinare (in sé legittima) inflitta al maresciallo Cataldi per le due mancanze disciplinari de quibus sotto il profilo della congruità e della proporzione, in considerazione del fatto che uno degli originari addebiti è stato ex post riconosciuto come ab origine privo di rilievo disciplinare.
12. Le spese del doppio grado di giudizio - ricorrendo i presupposti applicativi degli articoli 26, comma 1, c.p.a. e 92, comma 2, c.p.c. - possono essere integralmente compensate, in considerazione dell’andamento del giudizio nei due gradi e, più in generale, della novità e complessità giuridica delle sottese questioni.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente ai sensi, nei limiti e per gli effetti indicati in parte motiva.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2017 con l'intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Leonardo Spagnoletti, Consigliere
Giuseppe Castiglia, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Luca Lamberti Filippo Patroni Griffi
IL SEGRETARIO
1) - Né può valere, a conforto della tesi propugnata dalla difesa erariale, il disposto di cui all’art. 751 del d.p.r. n. 90 del 2010, in considerazione della natura meramente attuativa del provvedimento, che, come tale, non definisce le categorie giuridiche cui si riferisce ma, al contrario, le mutua dal sovra-ordinato atto legislativo.
2) - Allargando la visuale, poi, il Collegio osserva che, allorché il legislatore ha inteso escludere in toto il diritto di iscrizione a partiti politici, lo ha fatto con ben altra chiarezza dispositiva: si ponga mente all’art. 114 della l. n. 121 del 1981, la cui efficacia è stata più volte prorogata ma che allo stato non è più vigente, secondo il quale “Fino a che non intervenga una disciplina più generale della materia di cui al terzo comma dell'articolo 98 della Costituzione, e comunque non oltre un anno dall'entrata in vigore della presente legge, gli appartenenti alle forze di polizia di cui all'articolo 16 della presente legge non possono iscriversi ai partiti politici”.
3) - Da ultimo, si sottolinea che l’esegesi caldeggiata dalla difesa erariale si pone pure in possibile attrito con il diritto internazionale convenzionale e comunitario.
4) - In conclusione, la mera iscrizione di un appartenente alle Forze Armate ad un partito politico costituisce, allo stato attuale della legislazione, un comportamento ab imis lecito che in nessun caso può essere stigmatizzato dall’Amministrazione militare.
5) - In definitiva, de jure condito il singolo militare può sì iscriversi ad un partito e, anche in tale qualità, esercitare il proprio diritto di elettorato passivo, ma non può mai assumere, nell’ambito di una formazione partitica, alcuna carica statutaria neppure di carattere onorario, a tutela indiretta ma necessaria del principio di neutralità “politica” delle Forze Armate: tale principio, infatti, sarebbe inevitabilmente leso ove un militare, lungi dal limitarsi ad aderire, mediante la propria iscrizione, alle coordinate valoriali di una formazione politica o dal rappresentare in prima persona i cittadini in assemblee elettive, contribuisse personalmente, direttamente e, per così dire, istituzionalmente, in forza di una formale qualifica statutaria, a plasmare ab interno la linea politica di formazioni di massa ed intrinsecamente di parte quali sono gli odierni partiti politici.
6) - In osservanza della presente decisione, l’Amministrazione è conseguentemente chiamata a rideterminarsi, ora per allora, sulla misura della sanzione disciplinare (in sé legittima) inflitta al maresciallo Cataldi per le due mancanze disciplinari de quibus sotto il profilo della congruità e della proporzione, in considerazione del fatto che uno degli originari addebiti è stato ex post riconosciuto come ab origine privo di rilievo disciplinare.
N.B.: per completezza leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201705845 - Public 2017-12-12 -
Pubblicato il 12/12/2017
N. 05845/2017REG.PROV.COLL.
N. 01507/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1507 del 2017, proposto da Ministero della difesa - Comando Legione Carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta”, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
Carmelo Cataldi, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Carta e Giovanni Carta, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, viale Parioli, 55;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per il Piemonte, Sez. I, n. 1127 del 5 settembre 2016, resa tra le parti, concernente ammonimento a recedere da una carica all’interno di un partito politico e successiva irrogazione della sanzione disciplinare di corpo della consegna di rigore per giorni cinque per mancato recesso da tale carica e da precedente iscrizione ad altro partito.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Carmelo Cataldi;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 novembre 2017 il Cons. Luca Lamberti e uditi per la parte ricorrente gli avvocati dello Stato Natale e Greco;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il maresciallo aiutante dell’Arma dei carabinieri Carmelo Cataldi, all’epoca in servizio presso il Nucleo Operativo Radiomobile della Compagnia di Bra (Cn), ha impugnato avanti il competente T.a.r. il provvedimento prot. n. 3241/10 del 31 agosto 2010 (e i propedeutici atti procedimentali) con cui il comandante della Legione carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” lo ha formalmente ammonito a recedere dalla carica, da lui in precedenza assunta, di segretario regionale per il Piemonte del “P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”.
1.1. Con ricorso per motivi aggiunti il maresciallo Cataldi ha impugnato il successivo decreto (Comando Interregionale carabinieri “Pastrengo” prot. n. 171/3 dell’1 aprile 2011) recante il rigetto del ricorso gerarchico proposto avverso la sanzione disciplinare di corpo della consegna di rigore per giorni cinque (decreto Comando Legione carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” prot. n. 3241/65 del 9 dicembre 2010).
Le mancanze contestate consistevano nell’iscrizione, in data 28 novembre 2009, ad un partito politico (l’allora “Lega Nord - Bossi”), nella successiva assunzione, in data 23 marzo 2010, della carica di segretario regionale in altro partito politico (“P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”) e nella mancata ottemperanza a due distinti provvedimenti di formale ammonimento a recedere da tali iniziative, a lui notificati in data 4 agosto 2010 (con riferimento all’iscrizione al partito “Lega Nord - Bossi”, non impugnato) e 4 settembre 2010 (con riferimento all’assunzione di carica nell’ambito del partito “P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”, impugnato con il ricorso introduttivo).
2. Il Tribunale, all’esito di un’approfondita ricostruzione del vigente tessuto normativo relativo alla possibilità, per i militari, di svolgere attività politica, ha accolto le censure del ricorrente, annullando tutti gli atti impugnati.
3. L’Amministrazione ha interposto appello, riproponendo le coordinate esegetiche già coltivate in prime cure.
4. Il maresciallo Cataldi si è costituito ed ha eccepito in rito l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità, nel merito la correttezza del decisum di primo grado.
5. Il ricorso, trattato ed assunto in decisione alla pubblica udienza del 9 novembre 2017, merita parziale accoglimento nei limiti che seguono.
6. In primis, non si apprezza alcuna ragione di inammissibilità o improcedibilità dell’appello o del ricorso di primo grado.
6.1. Laddove, infatti, la materia del contendere inerisca solo a questioni di diritto, il requisito della specificità prescritto dall’art. 101 c.p.a. è nella sostanza soddisfatto allorché l’appello, come nella specie, delinei con sufficiente precisione un’esegesi normativa alternativa a quella adottata dalla sentenza impugnata e con essa radicalmente incompatibile.
6.2. Né l’intervenuto annullamento dell’irrogazione della consegna di rigore, disposto con provvedimento del 25 novembre 2016, determina l’improcedibilità del gravame, perché l’atto – comunque non riferito anche al propedeutico ammonimento a recedere dalla carica di segretario regionale, parimenti impugnato – è stato emanato al solo e dichiarato fine di prestare ottemperanza alla sentenza del Tribunale e non concreta, quindi, una forma di spontanea autotutela.
6.3. Non ha, infine, incidenza sulla procedibilità del presente giudizio il fatto (peraltro non documentato dall’interessato ed in ordine al quale la difesa erariale non ha svolto alcuna deduzione) che, a quanto consta, nelle more della decisione il maresciallo Cataldi sia stato collocato in “congedo illimitato per sopravvenuta permanente inidoneità al servizio militare incondizionato” (cfr. memoria del 23 marzo 2017, pag. 3).
6.3.1. In disparte il fatto che il congedo costituisce una posizione di stato giuridico del personale militare (cfr. art. 874 cod. ord. mil. di cui al d. lgs. n. 66 del 2010) e che manca una dichiarazione espressa di sopravvenuta carenza di interesse alla coltivazione del ricorso di primo grado, il maresciallo Cataldi conserva comunque interesse alla definizione di una controversia afferente alla legittimità di una sanzione inflitta per il pregresso esercizio di un suo diritto fondamentale (e caratterizzante ab interno il suo status civitatis), alla luce della norma sancita dagli artt. 880, comma 6, e 982, comma 2, cod. ord. mil., in forza della quale il militare in congedo o in congedo assoluto è comunque soggetto alle disposizioni di stato riflettenti il grado e la disciplina.
7. Nel merito, il Collegio osserva quanto segue.
7.1. L’art. 49 della Costituzione statuisce che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
7.2. Il successivo art. 98, terzo comma, aggiunge che “Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero”.
7.3. Il diritto di associazione (di cui, invero, l’iscrizione a partiti politici costituisce una species) è, poi, contemplato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 11), dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 12), dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite in data 10 dicembre 1948 (art. 20) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici, anch’esso elaborato in ambito O.N.U. e sottoscritto in New York in data 16 dicembre 1966 (art. 22).
7.4. Sul crinale della legislazione ordinaria, i riferimenti sono dati dall’art. 6, commi 1 e 2, della l. n. 382 del 1978, poi sostituito - peraltro con una dizione assolutamente identica - dall’art. 1483 cod. ord. mil..
7.5. Le speculari disposizioni in questione stabiliscono, in particolare, che “1. Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche.
2. Ai militari che si trovano nelle condizioni di cui al comma 2 dell'articolo 1350” (il previgente art. 6 della l. n. 382 rimandava al terzo comma dell’articolo 5, di contenuto analogo) “è fatto divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative”.
7.6. A sua volta, il comma 2 dell’art. 1350 (come il previgente terzo comma dell’art. 5 della l. n. 382) statuisce che “Le disposizioni in materia di disciplina militare si applicano nei confronti dei militari che si trovino in una delle seguenti condizioni: a) svolgono attività di servizio; b) sono in luoghi militari o comunque destinati al servizio; c) indossano l'uniforme; d) si qualificano, in relazione ai compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad altri militari in divisa o che si qualificano come tali”.
8. Ad avviso dell’Amministrazione, la dizione di cui al primo comma (“1. Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche”) non può che implicare un generalizzato divieto anche per i singoli appartenenti alle Forze Armate di partecipare alle “competizioni politiche” e, dunque, di iscriversi a partiti, che lo stesso testo costituzionale, del resto, riconosce diretti a consentire al cittadino di “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
8.1. Siffatta esegesi, argomenta la difesa erariale, risponderebbe a criteri di razionalità interpretativa: in primo luogo le Forze Armate in sé, ossia come istituzione della Repubblica, non potrebbero strutturalmente partecipare alle competizioni politiche, naturaliter riservate al singolo civis, per cui, ove interpretata in tal senso, la norma sarebbe inutiliter data; inoltre la disposizione, riferendosi non alle elezioni ma, più in generale, alle competizioni politiche, plasmerebbe un generalizzato divieto di immistione in ambito lato sensu politico che non potrebbe essere concretamente ed efficacemente attinto se non mediante l’imposizione in capo ad ogni singolo militare di un rigido dovere di assoluta estraneità.
8.2. In tale ottica, prosegue la difesa erariale, si restituirebbe pure linearità sistematica ed armonicità dispositiva al richiamo all’art. 1350, comma 2 operato dall’art. 1483 cod. ord. mil.: il singolo militare, in radice privo della facoltà di iscriversi a partiti politici, non potrebbe neppure, quand’anche non iscritto a partiti, “partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative” in specifiche (e tassative) condizioni, ossia allorché si trovi in servizio, in luoghi militari o comunque destinati al servizio, ovvero allorché indossi l’uniforme, ovvero ancora allorché si qualifichi come militare o si rivolga ad altri militari in divisa o che, comunque, si qualificano come tali.
8.3. Prova ulteriore della correttezza di tale tesi sarebbe, infine, costituita dal disposto dell’art. 751 del d.p.r. n. 90 del 2010, “Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare”, a tenore del quale può essere punito con la sanzione della consegna di rigore, inter alia, ogni “comportamento lesivo del principio della estraneità delle Forze armate alle competizioni politiche (articolo 1483 del codice)”.
9. Il Collegio osserva che tale opzione ermeneutica, pur astrattamente convincente in un’ottica sistematica e teleologicamente orientata, cionondimeno si infrange contro l’insuperabile chiarezza del dato testuale, primo e principale riferimento per l’operazione esegetica.
9.1. Deve in primis osservarsi che, a tenore dell’art. 49 della Costituzione, la facoltà di partecipare alla vita politica della Nazione mediante l’iscrizione a partiti politici rappresenta un diritto politico fondamentale di ogni cittadino, caratterizzante l’attuale ordinamento democratico.
9.2. Un’eventuale limitazione di tale fondamentale presidio di libertà del singolo e di garanzia della permanenza del carattere democratico della Repubblica è peraltro possibile, ai sensi del successivo articolo 98 della Carta fondamentale, per specifiche categorie di cittadini, tra cui “i militari di carriera in servizio attivo”, a mezzo di legge.
9.3. Orbene, è evidente che tale legge non possa che essere chiara, specifica ed univoca e, soprattutto, che debba essere interpretata, quale norma recante un’eccezione ad un principio costitutivo della Repubblica, in forma strettamente restrittiva, senza alcuna possibilità di esegesi estensive o, comunque, non direttamente e rigidamente conseguenti all’articolazione testuale della disposizione.
9.4. Tali caratteri, invero, ictu oculi difettano nel testo del primo comma dell’articolo 1483, privo di riferimenti diretti ed univoci alla facoltà del singolo militare di iscriversi a partiti politici.
9.5. Oltretutto, non solo il Titolo IX del Libro IV del codice dell’ordinamento militare, in cui è collocato l’art. 1483, si apre con una disposizione, l’art. 1465, che al primo comma statuisce espressamente che “Ai militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini”, dunque anche quello di associazione a fini politici, ma è semanticamente dubbio che la mera iscrizione ad un partito concreti, in sé, una forma di partecipazione alla competizione politica, cui solo è riferito l’articolo in commento.
9.6. Inoltre e prima ancora, il testo costituzionale delinea una mera facoltà del legislatore di introdurre “limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici”: in disparte la questione, nella presente sede irrilevante, se possa essere costituzionalmente legittima una legge che imponga una radicale elisione di tale diritto, il Collegio osserva che la regula juris costituzionale di base è nel senso dell’assoluta identità di condizione giuridica del civis in armi rispetto agli altri quanto alla facoltà di iscriversi a partiti.
9.7. Anche in tale ottica, dunque, la dizione legislativa secondo cui “Le Forze armate debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche” non è idonea a sorreggere le conclusioni cui perviene la difesa erariale, proprio in quanto la disposizione non menziona in alcun modo il singolo militare né, tanto meno, ne perimetra in senso riduttivo la libertà, costituzionalmente presidiata, di associazione a fini politici.
9.8. Di converso, non è vero che, ove interpretata nel senso anelato dal maresciallo Cataldi, la norma sia priva di senso: essa, al contrario, conserva uno spazio normativo proprio laddove impone all’istituzione “Forze Armate” di non prendere in alcun modo parte alle competizioni politiche.
9.8.1. Si pensi, in particolare, a comportamenti materiali, a dichiarazioni pubbliche o, comunque, ad iniziative di carattere prima facie politico adottate dai rappresentati apicali di una Forza Armata in tale loro qualità: simili azioni, inevitabilmente idonee ad impegnare l’istituzione tutta ed a determinarne il sostanziale ingresso nell’agone politico, costituiscono proprio ciò che la disposizione intende impedire.
9.9. Né può valere, a conforto della tesi propugnata dalla difesa erariale, il disposto di cui all’art. 751 del d.p.r. n. 90 del 2010, in considerazione della natura meramente attuativa del provvedimento, che, come tale, non definisce le categorie giuridiche cui si riferisce ma, al contrario, le mutua dal sovra-ordinato atto legislativo.
9.10. Allargando la visuale, poi, il Collegio osserva che, allorché il legislatore ha inteso escludere in toto il diritto di iscrizione a partiti politici, lo ha fatto con ben altra chiarezza dispositiva: si ponga mente all’art. 114 della l. n. 121 del 1981, la cui efficacia è stata più volte prorogata ma che allo stato non è più vigente, secondo il quale “Fino a che non intervenga una disciplina più generale della materia di cui al terzo comma dell'articolo 98 della Costituzione, e comunque non oltre un anno dall'entrata in vigore della presente legge, gli appartenenti alle forze di polizia di cui all'articolo 16 della presente legge non possono iscriversi ai partiti politici”.
9.11. Da ultimo, si sottolinea che l’esegesi caldeggiata dalla difesa erariale si pone pure in possibile attrito con il diritto internazionale convenzionale e comunitario.
9.11.1. L’art. 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, premesso che “ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione”, ammette che “l’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate” possa essere sottoposto a “restrizioni legittime”, locuzione nella cui area semantica, per quanto ampiamente considerata, non può farsi rientrare la radicale preclusione.
9.11.2. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce, all’art. 12, che “ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione a tutti i livelli, segnatamente in campo politico”, senza accennare neppure a possibili forme di limitazione per specifiche categorie di soggetti.
9.11.3. Analoga statuizione incondizionata si legge nell’art. 20 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, a tenore del quale “ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica”.
9.11.4. Infine, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, all’art. 22, ammette che il “diritto alla libertà di associazione”, riconosciuto ad ogni “individuo”, possa essere oggetto, per quanto attiene ai “membri delle forze armate”, di “restrizioni legali”, non già, dunque, di una radicale esclusione.
9.11.5. L’interprete, pertanto, è tenuto a formulare coordinate ermeneutiche atte ad evitare in radice il rischio di tali possibili contrasti, alla luce sia del disposto dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, sia del fatto che il relativo accertamento è, nell’ordinamento del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, sottratto alla cognizione e decisione del Giudice nazionale e rimesso ad organi giurisdizionali di origine pattizia e carattere sovranazionale.
9.12. In conclusione, la mera iscrizione di un appartenente alle Forze Armate ad un partito politico costituisce, allo stato attuale della legislazione, un comportamento ab imis lecito che in nessun caso può essere stigmatizzato dall’Amministrazione militare.
9.13. Significativamente, del resto, nell’ambito del procedimento finalizzato alla delibazione del possibile rilievo disciplinare della condotta del maresciallo Cataldi la stessa Amministrazione ha ritenuto (cfr. nota del Gabinetto del Ministro della difesa prot. n. 1/28411/2.6.32/06ML del 3 luglio 2009 e successiva nota prot. n. 81/19-136-2-1981 del 20 giugno 2010 del Comando generale dell’Arma – documenti nn. 3 e 4 prodotti in primo grado da parte ricorrente) che “l’iscrizione” a partiti politici sia vietata “non in sé” ma in quanto, in tesi, “assorbita dal divieto di esercizio di attività politica”.
10. Conclusioni frontalmente diverse, invece, debbono essere raggiunte ove il militare non si limiti alla mera e per così dire “statica” iscrizione ad un partito, ma spenda una condotta politicamente “dinamica” mediante l’assunzione di cariche all’interno di una formazione politica.
10.1. Mentre, infatti, la mera iscrizione, quale adesione ideale alle scelte politico-ideologiche di un partito, non presenta, in sé, un contenuto attivo e propositivo, al contrario l’assunzione di cariche direttive veicola la possibilità di incidere ab interno su tali scelte, contribuendo a determinarne profilo, direzione ed intensità.
10.2. Inoltre, tale condizione accentua (recte, nell’attuale società della comunicazione sostanzialmente impone) l’esposizione sociale e mediatica dell’interessato, potenzialmente suscettibile di essere chiamato a dare conto dell’indirizzo politico della formazione cui aderisce ed a parlare in nome e per conto di essa in plurimi contesti pubblici, ossia a svolgere, in varie forme, attività di “propaganda politica”, espressamente vietata dall’art. 1472, comma 3, cod. ord. mil..
10.3. Questo diverso ed assai maggiore grado di magnitudine dell’impegno politico determina, quindi, una frizione con il richiamato principio di estraneità delle Forze Armate alle competizioni politiche: posto, infatti, che lo status di militare non è limitato agli orari di servizio ma, sia in ottica ordinamentale sia nella più ampia considerazione sociale, attiene alla persona e ne segue e connota l’operare, quelle dichiarazioni pubbliche, quelle scelte programmatiche, quelle polemiche politiche sarebbero inevitabilmente ricondotte dal generale pubblico (anche) alla Forza Armata cui l’esponente partitico appartiene e per la quale continua a prestare contestualmente servizio attivo.
10.4. Questa indebita commistione, poi, si apprezzerebbe in misura esponenziale nell’ambito locale ove vive (e dove solitamente presta servizio) il militare: tale status, con ogni verosimiglianza, ne aumenterebbe la visibilità e l’identificabilità e, in tal modo, determinerebbe altresì la riconduzione di quella attività partitica, in sé necessariamente “politica” e legittimamente “di parte”, ad un’istituzione strutturalmente e costitutivamente neutrale quale sono e debbono in ogni circostanza rimanere e dimostrare di rimanere le Forze Armate.
10.5. A conferma di quanto sopra, del resto, si osserva che, ai sensi dell’art. 16 dello statuto del partito “P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”, “il Segretario Regionale … ha la rappresentanza politica del partito nella Regione” e ne “attua la linea politica” (così la nota prot. n. 3241/10-2009-D del 31 agosto 2010 impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, non specificamente contestata dal maresciallo Cataldi in parte qua): sono evidenti, inevitabili ed imprescindibili, dunque, i connotati attivi intrinsecamente propri della carica in questione.
10.6. La correttezza di siffatta ricostruzione emerge, a contrario, dalle previsioni recate dal codice dell’ordinamento militare in punto di esercizio, da parte dei militari, del diritto di elettorato passivo in relazione a “cariche politiche”.
10.6.1. Ai sensi dell’art. 1484, infatti, i militari candidati ad elezioni possono sì “svolgere liberamente attività politica e di propaganda”, purché “al di fuori dell’ambiente militare e in abito civile” e, comunque, sono ex lege collocati “in apposita licenza straordinaria per la durata della campagna elettorale”.
10.6.2. In caso, poi, di effettiva elezione a “cariche politiche”, i militari interessati sono posti d’ufficio in “aspettativa” sin “dall’atto della proclamazione degli eletti” (articoli 903 e 1488).
10.6.3. La legge, quindi, si cura di frapporre un diaframma strutturale fra esercizio del diritto di elettorato passivo relativo a “cariche politiche” ed attività di servizio, in tal modo evitando che il militare impegnato in campagna elettorale (e, a fortiori, eletto ad una “carica politica”) possa svolgere contestualmente attività istituzionale, al fine di elidere ogni possibile coinvolgimento, anche solo indiretto, della Forza Armata di appartenenza nella competizione politica cui si sia dedicato un proprio membro.
10.7. In definitiva, de jure condito il singolo militare può sì iscriversi ad un partito e, anche in tale qualità, esercitare il proprio diritto di elettorato passivo, ma non può mai assumere, nell’ambito di una formazione partitica, alcuna carica statutaria neppure di carattere onorario, a tutela indiretta ma necessaria del principio di neutralità “politica” delle Forze Armate: tale principio, infatti, sarebbe inevitabilmente leso ove un militare, lungi dal limitarsi ad aderire, mediante la propria iscrizione, alle coordinate valoriali di una formazione politica o dal rappresentare in prima persona i cittadini in assemblee elettive, contribuisse personalmente, direttamente e, per così dire, istituzionalmente, in forza di una formale qualifica statutaria, a plasmare ab interno la linea politica di formazioni di massa ed intrinsecamente di parte quali sono gli odierni partiti politici.
11. L’applicazione di tali coordinate esegetiche al caso di specie conduce al parziale accoglimento dell’appello.
11.1. E’, anzitutto, legittimo l’ammonimento a recedere dalla carica di segretario regionale del “P.S.D. – Partito per gli operatori della Sicurezza e della Difesa”, recato dal provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo del giudizio di prime cure.
11.2. Parimenti legittimo è il successivo provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare di corpo della consegna di rigore (impugnato in prime cure con ricorso per motivi aggiunti) nella parte in cui si fonda sulla mancata ottemperanza, da parte del maresciallo Cataldi, al previo ammonimento a recedere dalla menzionata carica partitica; il provvedimento è, viceversa, illegittimo nella parte in cui si riferisce alla mancata ottemperanza, da parte del militare, al previo ammonimento (peraltro non impugnato) a recedere dall’iscrizione al partito “Lega Nord – Bossi”.
11.3. Deve, dunque, in parziale accoglimento dell’appello, riformarsi la sentenza impugnata nella parte in cui ha annullato il provvedimento del comandante della Legione carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” prot. n. 3241/10 del 31 agosto 2010 e nella parte in cui ha annullato in toto, anziché solo in parte, il successivo provvedimento del comandante interregionale carabinieri “Pastrengo” prot. n. 171/3 dell’1 aprile 2011 ed il connesso provvedimento del comandante della Legione carabinieri “Piemonte e Valle d’Aosta” prot. n. 3241/65 del 9 dicembre 2010.
11.4. In osservanza della presente decisione, l’Amministrazione è conseguentemente chiamata a rideterminarsi, ora per allora, sulla misura della sanzione disciplinare (in sé legittima) inflitta al maresciallo Cataldi per le due mancanze disciplinari de quibus sotto il profilo della congruità e della proporzione, in considerazione del fatto che uno degli originari addebiti è stato ex post riconosciuto come ab origine privo di rilievo disciplinare.
12. Le spese del doppio grado di giudizio - ricorrendo i presupposti applicativi degli articoli 26, comma 1, c.p.a. e 92, comma 2, c.p.c. - possono essere integralmente compensate, in considerazione dell’andamento del giudizio nei due gradi e, più in generale, della novità e complessità giuridica delle sottese questioni.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente ai sensi, nei limiti e per gli effetti indicati in parte motiva.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2017 con l'intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Leonardo Spagnoletti, Consigliere
Giuseppe Castiglia, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Luca Lamberti Filippo Patroni Griffi
IL SEGRETARIO
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Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Messaggio da naturopata »
Pubblicato il 13/01/2018
N. 00409/2018 REG.PROV.COLL.
N. 11186/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 11186 del 2017, proposto da:
Danilo Scipio, Marco Moroni, Francesca Fabrizi, Associazione “Unione Forestali Carabinieri e Diritti - Unforced, rappresentati e difesi dall'avv. Egidio Lizza, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Valadier 43;
contro
Ministero della Difesa, Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri non costituiti in giudizio;
per l'annullamento
del provvedimento del 4.9.2017, notificato l'11.9.2017 del Ministero della Difesa, con cui è negata l'autorizzazione ai sensi dell'art. 1475, comma 1, d.lgs. n. 66/2010;
delle direttive del 18.3.1996, del 15.1.2002, delle linee guida del 16.7.2003 integrate dall'atto del 8.11.2005;
del Parere dell'Avvocatura Generale dello Stato, del Parere del Comandante del CUTFAA n. 205/1-3 di prot. del 3 maggio 2017; del Parere del Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri riferito all'istanza di autorizzazione di Unforced; del Parere del Capo di Stato Maggiore della Difesa riferito all'istanza di autorizzazione di Unforced; nonché della nota n. 29/15-1-2017 di prot. del 7.11.2017 del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri a firma del Gen. D. Enzo Bernardini.;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2017 il dott. Ugo De Carlo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
I ricorrenti impugnano la mancata autorizzazione a costituire un’associazione fra militari con fini culturali e ricreativi.
Essi, ex appartenenti al Corpo Forestale dello Stato e transitati ex lege nell’Arma dei Carabinieri, facevano presente che l’Unione Forestali Carabinieri e Diritti – Unforced non aveva ottenuto l’autorizzazione perché l’Amministrazione aveva dedotto la natura sindacale della stessa, vietata ex art. 1475, comma 2, D.lgs. 66/2010, da alcuni punti dello statuto.
Dopo la comunicazione del preavviso di rigetto, facevano presente in proposito che lo statuto dell’associazione era stato predisposto sul modello di quello dell'Associazione Nazionale "Finanzieri, Cittadini e Solidarietà" che era stato dal Ministero ritenuto idoneo, dopo opportune modifiche per rimuovere gli aspetti critici di tipo sindacale evidenziati dal Comando Generale della G.d.F.
Il provvedimento di diniego dell’autorizzazione del Ministero, che non ha tenuto conto della memoria presentata, ad avviso dei ricorrenti, lede i diritti e gli interessi dei singoli associati e fondatori dell’associazione e viene contestata sulla base di due motivi ed in subordine con la richiesta di sollevare un incidente di costituzionalità.
Il primo denuncia la violazione degli artt. 1475 D.lgs. 66/2010, 751 n. 11 e 12 D.P.R. 90/2010, 3 e
97 Cost. e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria.
Il Ministro della Difesa ha negato l’autorizzazione richiesta ritenendo che “il sodalizio aspira di fatto allo svolgimento di funzioni sindacali, a nulla valendo la precisazione contenuta nello statuto in base alla quale “l’associazione non ha ... carattere sindacale ed è fatto divieto assoluto agli organi nazionali e/o territoriali dell’associazione o ai soci di porre in essere comportamenti configurabili come sindacali”.
Nel parere dell’Avvocatura dello Stato era contenuta un’ulteriore sottolineatura circa il fatto che l’associazione era promossa da persone che hanno ricoperto incarichi di rilievo nell’ambito di alcuni dei sindacati cui aderiva il personale appartenente al Corpo forestale dello Stato.
Ritengono i ricorrenti che le finalità enucleate dallo Statuto dell’associazione, siano ben lontane da integrare le caratteristiche proprie dell’attività sindacale.
Nella definizione di sindacato hanno rilievo le attività svolte nelle controversie economiche collettive, anche organizzando l’azione degli associati riguardo alla contrattazione collettiva, agendo in assistenza del singolo lavoratore riguardo alla sua vicenda lavorativa, avendo la capacità di imporsi quale controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti.
L’associazione in esame, invece, prevede tra le diverse attività costitutive dell’oggetto sociale di adoperarsi per il riconoscimento dei diritti sindacali e di associazione degli iscritti, ma autolimita la propria azione, facendo “divieto assoluto agli organi nazionali e/o territoriali dell’associazione o ai soci di porre in essere comportamenti configurabili come sindacali”.
Pertanto la finalità sospetta esprime la volontà di partecipare al dibattito già esistente sulla possibile apertura dell’ordinamento militare al riconoscimento di maggiori diritti dei suoi membri nella costruzione di quel modello democratico cui aspirare.
Il riferimento all’aspirazione di fatto allo svolgimento di attività sindacali, oltre a tradire il significato di quanto scritto nell’oggetto sociale dell’associazione, realizzerebbe una fattispecie di pericolo amministrativo o più semplicemente un processo alle intenzioni.
Seguono una serie di considerazioni volte ad evidenziare quali siano le caratteristiche ed i servizi che deve offrire un’associazione per poter essere definita sindacato.
Esaminando, inoltre, l’oggetto sociale nella sua interezza, è evidente il rilievo modesto che hanno, nella vita sociale, gli aspetti ritenuti sintomatici della natura sindacale dell’associazione posti a fondamento del diniego all’autorizzazione.
Secondo la giurisprudenza amministrativa per individuare se una determina associazione abbia quella natura sindacale occorre guardare a concreti comportamenti. Nel caso in esame, tale indagine è stata del tutto pretermessa dall’Amministrazione resistente, che nega l’autorizzazione in virtù della lettura di alcuni profili statutari.
Anche il riferimento, sottolineato criticamente dall’Avvocatura nel parere, all’attenzione dell’associazione verso l’elevazione delle “condizioni culturali, economiche, sociali e morali degli associati” ritenuta sintomatica dell’ingresso nel “terreno di elezione delle associazioni sindacali”, non coglie nel segno.
Ogni categoria punta ad una sua elevazione morale, sociale, culturale e economica, ma ciò non può essere indice della natura sindacale dell’associazione.
Vengono, infine, richiamate una serie di norme e di sentenze a livello comunitario che precisano in che termini possa essere legittimo il divieto per i militari di aderire ad associazioni di carattere sindacale.
Il secondo motivo contesta la violazione degli artt. 1475 D.lgs. 66/2010, 3 e 97 Cost. e l’eccesso di potere per ingiustizia manifesta e disparità di trattamento dal momento che pur essendo lo statuto dell’associazione in questione identico a quello di Ficiesse (Finanzieri Cittadini e Solidarietà) quest’ultima ha ottenuto l’autorizzazione fin dal 2006.
Veniva da ultimo proposta la questione di legittimità costituzionale degli articoli 1475, comma 2, D.lgs. 66/2010, 751 n. 11 e 12 D.P.R. 90 /2010 per contrasto con l’art. 117 della Cost., per effetto della violazione degli artt. 11 e 14 CEDU e dell’articolo 5 della Carta sociale europea riveduta.
Il Ministero della Difesa non si costituiva in giudizio.
Il ricorso è fondato.
Il Collegio non ritiene di sollevare la questione di costituzionalità proposta non solo perché già sollevata dal Consiglio di Stato con l’ordinanza 2043/2017 tanto che basterebbe a tal fine una sospensione impropria del processo per attendere la decisione della Consulta, ma perché non necessaria per la decisione della controversia.
Sottolineando alcuni passaggi dell’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale si può notare come le norme del Codice dell’ordinamento militare che pongono limiti all’esercizio dei diritti politici e sindacali debbono essere soggette ad un’interpretazione strettamente letterale poiché, quanto meno a livello comunitario, è stato affermato che tali limiti in tanto sono legittimi in quanto presuppongono l’esistenza di un diritto a monte ed operino solo quanto alla proibizione di alcune forme di manifestazione di questi diritti.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con due sentenze emesse in data 2/10/2014 ha affermato che “le restrizioni che possono essere imposte ai tre gruppi di soggetti menzionati nell’art. 11 CEDU [membri delle Forze Armate, della Polizia e dell’Amministrazione dello Stato] richiedono un’interpretazione restrittiva e devono, conseguentemente, limitarsi all’esercizio dei diritti in questione. Esse non possono, tuttavia, mettere in discussione l’essenza stessa del diritto alla libertà sindacale. Pertanto la Corte non accetta le restrizioni che incidono sugli elementi essenziali della libertà sindacale senza i quali il contenuto di tale libertà sarebbe vuotato della sua sostanza. Il diritto di formare un sindacato e di aderirvi è un elemento essenziale della libertà sindacale”.
Ed è sulla scorta della contrarietà agli artt. 11 e 14 delle Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo che l’eccezione di costituzionalità è stata sollevata.
Ma non è necessario attendere la pronuncia della Corte Costituzionale poichè sono condivisibili le considerazioni svolte nell’ambito del primo motivo di ricorso circa l’insussistenza della natura sindacale nell’associazione promossa dai ricorrenti.
L’oggetto sociale dell’associazione contenuto nell’art. 3 dello Statuto prevede:
- fornire il proprio contributo, progettuale e tecnico-professionale, nell'elaborazione delle riforme legislative attinenti il sistema della sicurezza, con particolare riguardo ai temi ambientali ed agroalimentari, in conformità ai principi della Costituzione e dei trattati dell'Unione Europea;
- promuovere iniziative, eventi e dibattiti, attività culturali, sociali e informative al fine di contribuire al miglioramento dei regimi di sicurezza, legalità e giustizia, anche nella prospettiva di riforme legislative e organizzative;
- adoperarsi per il pieno ed effettivo riconoscimento al personale dell'Arma dei Carabinieri e delle altre istituzioni a struttura militare dei diritti sindacali, di associazione, di libera manifestazione del pensiero e di associazione professionale in coerenza con il disposto degli articoli: 52 della Costituzione italiana, 12 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e 11 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo e in linea con quanto avviene negli altri Stati europei a democrazia avanzata;
-elevare le condizioni culturali, economiche, sociali e morali degli associati; '
-favorire, realizzare ed incentivare iniziative di carattere ricreativo in favore degli associati e delle proprie famiglie;
-contribuire a diffondere tra i cittadini, anche all'interno degli istituti scolastici di formazione, il rispetto della legalità ed una maggiore cultura ambientale, nella consapevolezza che solo attraverso il rispetto della natura, in ogni sua forma, è possibile preservare l'immenso patrimonio naturalistico dell'Italia;
-stimolare il confronto delle idee sul tema del coordinamento tra forze di polizia, al fine di assicurare un servizio più efficace ai cittadini ed alle Istituzioni;
-sviluppare costruttivi e trasparenti rapporti con i cittadini;
-contribuire ad iniziative di studio e di progetto per il rispetto della legalità ed il contrasto ai reati contro l'ambiente;
-contribuire all'aggiornamento e all'informazione degli associati;
-organizzare e partecipare a manifestazioni pubbliche per il perseguimento delle finalità istituzionali;
- promuovere e partecipare ad attività di volontariato per far attenuare i principi della solidarietà;
-favorire un processo federativo tra associazioni aventi scopi e finalità similari;
-mantenere vive e divulgare nella società, anche attraverso iniziative sociali e culturali, la storia, i valori e le tradizioni del Corpo forestale dello Stato.
Nessuna di dette finalità consente di classificare l’associazione come rientrante in un’associazione di tipo sindacale vietata dall’art. 1475, comma 2, D.lgs. 66/2010; peraltro nello stesso art. 3 dello Statuto si precisa che “L'associazione non ha altresì carattere sindacale ed è fatto divieto assoluto agli organi nazionali e/o territoriali dell'associazione o ai soci di porre in essere comportamenti configurabili come sindacali.”.
Il parere contrario dell’Avvocatura dello Stato, dopo aver dato atto di quali siano le caratteristiche di un’associazione sindacale citando un passo della sentenza 2208/2012 del Consiglio di Stato, ritiene un puro mascheramento l’affermazione del carattere non sindacale dell’associazione che invece deve ricavarsi dall’impegno per favorire un pieno riconoscimento dei diritti sindacali ai militari e nel concorre a proporre riforme legislative in tal senso.
Sono proprio queste considerazioni che dimostrano il travisamento delle caratteristiche dell’associazione da parte di chi aveva il compito di valutarne la compatibilità con l’ordinamento.
L’associazione sindacale si caratterizza per l’espletamento di quei compiti che i ricorrenti hanno richiamato nel primo motivo di ricorso e cioè l’impegno nelle controversie economiche collettive, la predisposizione anche per i singoli associati di forme di tutela nel corso di giudizi aventi a che fare con la condizione di lavoratore, la partecipazioni a trattive con le organizzazioni di datori di lavoro.
Rientra, invece, nel campo della libera manifestazione del pensiero anche allo scopo di modificare l’assetto giuridico dell’ordinamento militare per quanto attiene alle libertà sindacali e politiche, fondare associazioni che si propongano questo scopo proprio perché, consapevoli di limiti attualmente posti dall’ordinamento, vogliono promuover le condizioni per superare tale assetto ritenuto non più conforme all’ordinamento giuridico nazionale ed internazionale attualmente in essere.
A questo proposito è interessante l’esame della sentenza 1127/2016 del TAR Piemonte confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza 5845/2017, in tema di legittimità di iscrizione di un militare ad un partito politico. Il principio affermato in dette pronunce riguarda il campo di applicazione dell’art. 1483, comma 2, D.lgs. 66/2010 che prevede un limite alla manifestazione dell’attività politica (divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative ), ma non un divieto assoluto di esercitare i propri diritti politici di cittadino iscrivendosi ad un partito politico.
Ed allora non si può fare una sorta di lettura delle supposte reali intenzioni dei fondatori dell’associazione, ritenendo che, dietro lo schermo di uno statuto che sembra rispettare i limiti di cui all’art. 1475 citato, si nasconda la volontà di creare un’associazione sindacale tra i militari.
Il Ministero resistente ha negato l’autorizzazione travisando la natura dell’associazione costituita dai ricorrenti e pertanto il provvedimento va annullato perché l’Amministrazione possa procedere ad esaminare nuovamente la domanda di autorizzazione alla luce dei criteri indicati in sentenza.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima Bis, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.
Condanna il Ministero della Difesa a rifondere le spese di giudizio che liquida in € 2.000 oltre accessori ed alla restituzione del contributo unificato ove versato.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2017 con l'intervento dei magistrati:
Concetta Anastasi, Presidente
Ugo De Carlo, Consigliere, Estensore
Paola Patatini, Referendario
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Ugo De Carlo Concetta Anastasi
N. 00409/2018 REG.PROV.COLL.
N. 11186/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 11186 del 2017, proposto da:
Danilo Scipio, Marco Moroni, Francesca Fabrizi, Associazione “Unione Forestali Carabinieri e Diritti - Unforced, rappresentati e difesi dall'avv. Egidio Lizza, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Valadier 43;
contro
Ministero della Difesa, Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri non costituiti in giudizio;
per l'annullamento
del provvedimento del 4.9.2017, notificato l'11.9.2017 del Ministero della Difesa, con cui è negata l'autorizzazione ai sensi dell'art. 1475, comma 1, d.lgs. n. 66/2010;
delle direttive del 18.3.1996, del 15.1.2002, delle linee guida del 16.7.2003 integrate dall'atto del 8.11.2005;
del Parere dell'Avvocatura Generale dello Stato, del Parere del Comandante del CUTFAA n. 205/1-3 di prot. del 3 maggio 2017; del Parere del Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri riferito all'istanza di autorizzazione di Unforced; del Parere del Capo di Stato Maggiore della Difesa riferito all'istanza di autorizzazione di Unforced; nonché della nota n. 29/15-1-2017 di prot. del 7.11.2017 del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri a firma del Gen. D. Enzo Bernardini.;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2017 il dott. Ugo De Carlo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
I ricorrenti impugnano la mancata autorizzazione a costituire un’associazione fra militari con fini culturali e ricreativi.
Essi, ex appartenenti al Corpo Forestale dello Stato e transitati ex lege nell’Arma dei Carabinieri, facevano presente che l’Unione Forestali Carabinieri e Diritti – Unforced non aveva ottenuto l’autorizzazione perché l’Amministrazione aveva dedotto la natura sindacale della stessa, vietata ex art. 1475, comma 2, D.lgs. 66/2010, da alcuni punti dello statuto.
Dopo la comunicazione del preavviso di rigetto, facevano presente in proposito che lo statuto dell’associazione era stato predisposto sul modello di quello dell'Associazione Nazionale "Finanzieri, Cittadini e Solidarietà" che era stato dal Ministero ritenuto idoneo, dopo opportune modifiche per rimuovere gli aspetti critici di tipo sindacale evidenziati dal Comando Generale della G.d.F.
Il provvedimento di diniego dell’autorizzazione del Ministero, che non ha tenuto conto della memoria presentata, ad avviso dei ricorrenti, lede i diritti e gli interessi dei singoli associati e fondatori dell’associazione e viene contestata sulla base di due motivi ed in subordine con la richiesta di sollevare un incidente di costituzionalità.
Il primo denuncia la violazione degli artt. 1475 D.lgs. 66/2010, 751 n. 11 e 12 D.P.R. 90/2010, 3 e
97 Cost. e l’eccesso di potere per difetto di istruttoria.
Il Ministro della Difesa ha negato l’autorizzazione richiesta ritenendo che “il sodalizio aspira di fatto allo svolgimento di funzioni sindacali, a nulla valendo la precisazione contenuta nello statuto in base alla quale “l’associazione non ha ... carattere sindacale ed è fatto divieto assoluto agli organi nazionali e/o territoriali dell’associazione o ai soci di porre in essere comportamenti configurabili come sindacali”.
Nel parere dell’Avvocatura dello Stato era contenuta un’ulteriore sottolineatura circa il fatto che l’associazione era promossa da persone che hanno ricoperto incarichi di rilievo nell’ambito di alcuni dei sindacati cui aderiva il personale appartenente al Corpo forestale dello Stato.
Ritengono i ricorrenti che le finalità enucleate dallo Statuto dell’associazione, siano ben lontane da integrare le caratteristiche proprie dell’attività sindacale.
Nella definizione di sindacato hanno rilievo le attività svolte nelle controversie economiche collettive, anche organizzando l’azione degli associati riguardo alla contrattazione collettiva, agendo in assistenza del singolo lavoratore riguardo alla sua vicenda lavorativa, avendo la capacità di imporsi quale controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti.
L’associazione in esame, invece, prevede tra le diverse attività costitutive dell’oggetto sociale di adoperarsi per il riconoscimento dei diritti sindacali e di associazione degli iscritti, ma autolimita la propria azione, facendo “divieto assoluto agli organi nazionali e/o territoriali dell’associazione o ai soci di porre in essere comportamenti configurabili come sindacali”.
Pertanto la finalità sospetta esprime la volontà di partecipare al dibattito già esistente sulla possibile apertura dell’ordinamento militare al riconoscimento di maggiori diritti dei suoi membri nella costruzione di quel modello democratico cui aspirare.
Il riferimento all’aspirazione di fatto allo svolgimento di attività sindacali, oltre a tradire il significato di quanto scritto nell’oggetto sociale dell’associazione, realizzerebbe una fattispecie di pericolo amministrativo o più semplicemente un processo alle intenzioni.
Seguono una serie di considerazioni volte ad evidenziare quali siano le caratteristiche ed i servizi che deve offrire un’associazione per poter essere definita sindacato.
Esaminando, inoltre, l’oggetto sociale nella sua interezza, è evidente il rilievo modesto che hanno, nella vita sociale, gli aspetti ritenuti sintomatici della natura sindacale dell’associazione posti a fondamento del diniego all’autorizzazione.
Secondo la giurisprudenza amministrativa per individuare se una determina associazione abbia quella natura sindacale occorre guardare a concreti comportamenti. Nel caso in esame, tale indagine è stata del tutto pretermessa dall’Amministrazione resistente, che nega l’autorizzazione in virtù della lettura di alcuni profili statutari.
Anche il riferimento, sottolineato criticamente dall’Avvocatura nel parere, all’attenzione dell’associazione verso l’elevazione delle “condizioni culturali, economiche, sociali e morali degli associati” ritenuta sintomatica dell’ingresso nel “terreno di elezione delle associazioni sindacali”, non coglie nel segno.
Ogni categoria punta ad una sua elevazione morale, sociale, culturale e economica, ma ciò non può essere indice della natura sindacale dell’associazione.
Vengono, infine, richiamate una serie di norme e di sentenze a livello comunitario che precisano in che termini possa essere legittimo il divieto per i militari di aderire ad associazioni di carattere sindacale.
Il secondo motivo contesta la violazione degli artt. 1475 D.lgs. 66/2010, 3 e 97 Cost. e l’eccesso di potere per ingiustizia manifesta e disparità di trattamento dal momento che pur essendo lo statuto dell’associazione in questione identico a quello di Ficiesse (Finanzieri Cittadini e Solidarietà) quest’ultima ha ottenuto l’autorizzazione fin dal 2006.
Veniva da ultimo proposta la questione di legittimità costituzionale degli articoli 1475, comma 2, D.lgs. 66/2010, 751 n. 11 e 12 D.P.R. 90 /2010 per contrasto con l’art. 117 della Cost., per effetto della violazione degli artt. 11 e 14 CEDU e dell’articolo 5 della Carta sociale europea riveduta.
Il Ministero della Difesa non si costituiva in giudizio.
Il ricorso è fondato.
Il Collegio non ritiene di sollevare la questione di costituzionalità proposta non solo perché già sollevata dal Consiglio di Stato con l’ordinanza 2043/2017 tanto che basterebbe a tal fine una sospensione impropria del processo per attendere la decisione della Consulta, ma perché non necessaria per la decisione della controversia.
Sottolineando alcuni passaggi dell’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale si può notare come le norme del Codice dell’ordinamento militare che pongono limiti all’esercizio dei diritti politici e sindacali debbono essere soggette ad un’interpretazione strettamente letterale poiché, quanto meno a livello comunitario, è stato affermato che tali limiti in tanto sono legittimi in quanto presuppongono l’esistenza di un diritto a monte ed operino solo quanto alla proibizione di alcune forme di manifestazione di questi diritti.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con due sentenze emesse in data 2/10/2014 ha affermato che “le restrizioni che possono essere imposte ai tre gruppi di soggetti menzionati nell’art. 11 CEDU [membri delle Forze Armate, della Polizia e dell’Amministrazione dello Stato] richiedono un’interpretazione restrittiva e devono, conseguentemente, limitarsi all’esercizio dei diritti in questione. Esse non possono, tuttavia, mettere in discussione l’essenza stessa del diritto alla libertà sindacale. Pertanto la Corte non accetta le restrizioni che incidono sugli elementi essenziali della libertà sindacale senza i quali il contenuto di tale libertà sarebbe vuotato della sua sostanza. Il diritto di formare un sindacato e di aderirvi è un elemento essenziale della libertà sindacale”.
Ed è sulla scorta della contrarietà agli artt. 11 e 14 delle Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo che l’eccezione di costituzionalità è stata sollevata.
Ma non è necessario attendere la pronuncia della Corte Costituzionale poichè sono condivisibili le considerazioni svolte nell’ambito del primo motivo di ricorso circa l’insussistenza della natura sindacale nell’associazione promossa dai ricorrenti.
L’oggetto sociale dell’associazione contenuto nell’art. 3 dello Statuto prevede:
- fornire il proprio contributo, progettuale e tecnico-professionale, nell'elaborazione delle riforme legislative attinenti il sistema della sicurezza, con particolare riguardo ai temi ambientali ed agroalimentari, in conformità ai principi della Costituzione e dei trattati dell'Unione Europea;
- promuovere iniziative, eventi e dibattiti, attività culturali, sociali e informative al fine di contribuire al miglioramento dei regimi di sicurezza, legalità e giustizia, anche nella prospettiva di riforme legislative e organizzative;
- adoperarsi per il pieno ed effettivo riconoscimento al personale dell'Arma dei Carabinieri e delle altre istituzioni a struttura militare dei diritti sindacali, di associazione, di libera manifestazione del pensiero e di associazione professionale in coerenza con il disposto degli articoli: 52 della Costituzione italiana, 12 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e 11 della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo e in linea con quanto avviene negli altri Stati europei a democrazia avanzata;
-elevare le condizioni culturali, economiche, sociali e morali degli associati; '
-favorire, realizzare ed incentivare iniziative di carattere ricreativo in favore degli associati e delle proprie famiglie;
-contribuire a diffondere tra i cittadini, anche all'interno degli istituti scolastici di formazione, il rispetto della legalità ed una maggiore cultura ambientale, nella consapevolezza che solo attraverso il rispetto della natura, in ogni sua forma, è possibile preservare l'immenso patrimonio naturalistico dell'Italia;
-stimolare il confronto delle idee sul tema del coordinamento tra forze di polizia, al fine di assicurare un servizio più efficace ai cittadini ed alle Istituzioni;
-sviluppare costruttivi e trasparenti rapporti con i cittadini;
-contribuire ad iniziative di studio e di progetto per il rispetto della legalità ed il contrasto ai reati contro l'ambiente;
-contribuire all'aggiornamento e all'informazione degli associati;
-organizzare e partecipare a manifestazioni pubbliche per il perseguimento delle finalità istituzionali;
- promuovere e partecipare ad attività di volontariato per far attenuare i principi della solidarietà;
-favorire un processo federativo tra associazioni aventi scopi e finalità similari;
-mantenere vive e divulgare nella società, anche attraverso iniziative sociali e culturali, la storia, i valori e le tradizioni del Corpo forestale dello Stato.
Nessuna di dette finalità consente di classificare l’associazione come rientrante in un’associazione di tipo sindacale vietata dall’art. 1475, comma 2, D.lgs. 66/2010; peraltro nello stesso art. 3 dello Statuto si precisa che “L'associazione non ha altresì carattere sindacale ed è fatto divieto assoluto agli organi nazionali e/o territoriali dell'associazione o ai soci di porre in essere comportamenti configurabili come sindacali.”.
Il parere contrario dell’Avvocatura dello Stato, dopo aver dato atto di quali siano le caratteristiche di un’associazione sindacale citando un passo della sentenza 2208/2012 del Consiglio di Stato, ritiene un puro mascheramento l’affermazione del carattere non sindacale dell’associazione che invece deve ricavarsi dall’impegno per favorire un pieno riconoscimento dei diritti sindacali ai militari e nel concorre a proporre riforme legislative in tal senso.
Sono proprio queste considerazioni che dimostrano il travisamento delle caratteristiche dell’associazione da parte di chi aveva il compito di valutarne la compatibilità con l’ordinamento.
L’associazione sindacale si caratterizza per l’espletamento di quei compiti che i ricorrenti hanno richiamato nel primo motivo di ricorso e cioè l’impegno nelle controversie economiche collettive, la predisposizione anche per i singoli associati di forme di tutela nel corso di giudizi aventi a che fare con la condizione di lavoratore, la partecipazioni a trattive con le organizzazioni di datori di lavoro.
Rientra, invece, nel campo della libera manifestazione del pensiero anche allo scopo di modificare l’assetto giuridico dell’ordinamento militare per quanto attiene alle libertà sindacali e politiche, fondare associazioni che si propongano questo scopo proprio perché, consapevoli di limiti attualmente posti dall’ordinamento, vogliono promuover le condizioni per superare tale assetto ritenuto non più conforme all’ordinamento giuridico nazionale ed internazionale attualmente in essere.
A questo proposito è interessante l’esame della sentenza 1127/2016 del TAR Piemonte confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza 5845/2017, in tema di legittimità di iscrizione di un militare ad un partito politico. Il principio affermato in dette pronunce riguarda il campo di applicazione dell’art. 1483, comma 2, D.lgs. 66/2010 che prevede un limite alla manifestazione dell’attività politica (divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati a elezioni politiche e amministrative ), ma non un divieto assoluto di esercitare i propri diritti politici di cittadino iscrivendosi ad un partito politico.
Ed allora non si può fare una sorta di lettura delle supposte reali intenzioni dei fondatori dell’associazione, ritenendo che, dietro lo schermo di uno statuto che sembra rispettare i limiti di cui all’art. 1475 citato, si nasconda la volontà di creare un’associazione sindacale tra i militari.
Il Ministero resistente ha negato l’autorizzazione travisando la natura dell’associazione costituita dai ricorrenti e pertanto il provvedimento va annullato perché l’Amministrazione possa procedere ad esaminare nuovamente la domanda di autorizzazione alla luce dei criteri indicati in sentenza.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Prima Bis, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato.
Condanna il Ministero della Difesa a rifondere le spese di giudizio che liquida in € 2.000 oltre accessori ed alla restituzione del contributo unificato ove versato.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2017 con l'intervento dei magistrati:
Concetta Anastasi, Presidente
Ugo De Carlo, Consigliere, Estensore
Paola Patatini, Referendario
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Ugo De Carlo Concetta Anastasi
Re: Circolare sulla limitazione di iscrizione ai partiti
Questa discussione si riferisce al mio post del 5 maggio 2017 di cui all'Ordinanza del CdS.
Oggi la discussione
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UDIENZA PUBBLICA 10 APRILE 2018
3. MILITARI E LIBERTÀ SINDACALE
Ordinamento militare - Limitazioni all'esercizio del diritto di associazione e divieto di sciopero - Divieto per i militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali.
[R. O. 111/2017 (u.p. 10 aprile 2018); R.O. 198/2017 (c.c. 11 aprile 2018)]
Il Consiglio di Stato (r.o. 111/2017) solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1475, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) che vieta ai militari la possibilità di costituire associazioni professionali a carattere sindacale nonché di aderire ad altre associazioni già esistenti. La disposizione censurata, ad avviso del giudice rimettente, contrasterebbe con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli articoli 11 e 14 della CEDU, come da ultimo interpretati dalle sentenze emesse in data 2 ottobre 2014 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09). In base al principio di diritto affermato dalle due pronunce della Corte EDU, ricorda il giudice rimettente, la restrizione dell’esercizio del diritto di associazione sindacale dei militari non può spingersi sino alla negazione della titolarità stessa di tale diritto, pena la violazione dei menzionati articoli 11 e 14 della Convenzione. Anche la Carta sociale europea riveduta, firmata a Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30, soggiunge il Consiglio di Stato rimettente, consentirebbe solo limitazioni della libertà sindacale per i militari e non una sua radicale obliterazione. Da ciò la distinta questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata per contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta. Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto (r.o. 198/2017) solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1475, comma 2, del decreto legislativo nei medesimi termini già esposti dal Consiglio di Stato, del quale richiama l’ordinanza di rimessione.
Norma censurata
D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66.
Codice dell'ordinamento militare.
--------------------------------------------
Art. 1475 Limitazioni all'esercizio del diritto di associazione e divieto di sciopero
In vigore dal 9 ottobre 2010
(omissis)
2. I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali.
(omissis)
Oggi la discussione
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UDIENZA PUBBLICA 10 APRILE 2018
3. MILITARI E LIBERTÀ SINDACALE
Ordinamento militare - Limitazioni all'esercizio del diritto di associazione e divieto di sciopero - Divieto per i militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali.
[R. O. 111/2017 (u.p. 10 aprile 2018); R.O. 198/2017 (c.c. 11 aprile 2018)]
Il Consiglio di Stato (r.o. 111/2017) solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1475, comma 2, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) che vieta ai militari la possibilità di costituire associazioni professionali a carattere sindacale nonché di aderire ad altre associazioni già esistenti. La disposizione censurata, ad avviso del giudice rimettente, contrasterebbe con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli articoli 11 e 14 della CEDU, come da ultimo interpretati dalle sentenze emesse in data 2 ottobre 2014 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi “Matelly c. Francia” (ricorso n. 10609/10) e “Adefdromil c. Francia” (ricorso n. 32191/09). In base al principio di diritto affermato dalle due pronunce della Corte EDU, ricorda il giudice rimettente, la restrizione dell’esercizio del diritto di associazione sindacale dei militari non può spingersi sino alla negazione della titolarità stessa di tale diritto, pena la violazione dei menzionati articoli 11 e 14 della Convenzione. Anche la Carta sociale europea riveduta, firmata a Strasburgo in data 3 maggio 1996 e resa esecutiva in Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30, soggiunge il Consiglio di Stato rimettente, consentirebbe solo limitazioni della libertà sindacale per i militari e non una sua radicale obliterazione. Da ciò la distinta questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata per contrasto con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 5, terzo periodo, della Carta sociale europea riveduta. Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto (r.o. 198/2017) solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1475, comma 2, del decreto legislativo nei medesimi termini già esposti dal Consiglio di Stato, del quale richiama l’ordinanza di rimessione.
Norma censurata
D.Lgs. 15 marzo 2010, n. 66.
Codice dell'ordinamento militare.
--------------------------------------------
Art. 1475 Limitazioni all'esercizio del diritto di associazione e divieto di sciopero
In vigore dal 9 ottobre 2010
(omissis)
2. I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali.
(omissis)
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