Detenzione armi e certificazione medica
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Detenzione armi e certificazione medica
Messaggio da paulus1962 »
Ho letto che ora per detenere delle armi a titolo personale occorre avere un certificato medico, anche per coloro che già detengono armi, e consegnarlo agli uffici di P.S.
Ho capito bene?
Quindi mio padre, 83 anni, che detiene regolarmente denunciati alcuni fucili da caccia non usati da molti anni, deve farsi fare un certificato medico e portarlo in Commissariato?
Grazie a chi saprà chiarire i miei dubbi!
Ho capito bene?
Quindi mio padre, 83 anni, che detiene regolarmente denunciati alcuni fucili da caccia non usati da molti anni, deve farsi fare un certificato medico e portarlo in Commissariato?
Grazie a chi saprà chiarire i miei dubbi!
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Re: Detenzione armi e certificazione medica
Messaggio da Ossimoro65 »
Ciao. Si bisogna farlo.
Entro il 4 maggio 2015 chi detiene armi deve presentare il certificato medico di idoneità psicofisica alla detenzione; in pratica lo stesso certificato richiesto per il rilascio del nulla osta all’acquisto, previsto dall’art. 35 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
Lo stabilisce il decreto legislativo n. 121 del 29 settembre 2013, entrato in vigore il 5 novembre, che ha introdotto diverse novità in tema di controlli per l’acquisizione e la detenzione di armi (bianche, da sparo o da fuoco).
La certificazione dovrà attestare che il richiedente non sia affetto da malattie mentali oppure patologie che ne diminuiscano, anche temporaneamente, la capacità di intendere e di volere ovvero non risulti assumere, anche occasionalmente, sostanze stupefacenti e psicotrope oppure abusare di alcol.
Il certificato medico in questione è rilasciato dal medico provinciale o dall’ufficiale sanitario (attualmente Asl) o da un medico militare.
Sono esentati dall’obbligo di presentazione coloro che nei sei anni antecedenti l’entrata in vigore del decreto, abbiano già consegnato il certificato al momento della richiesta di una licenza di porto d’armi o di un nulla osta all’acquisto di armi.
Le persone che entro la data di scadenza non avranno provveduto a consegnare il certificato agli uffici di Polizia o Carabinieri che avevano ricevuto le denunce di detenzione, riceveranno una diffida per la presentazione del certificato stesso. Se nei successivi 30 giorni la certificazione non sarà presentata, sarà avviato il procedimento finalizzato al divieto di detenzione.
Il richiedente, sottoponendosi agli accertamenti, è tenuto a presentare un certificato anamnestico, rilasciato dal medico di fiducia, di data non anteriore a tre mesi.
Il medico accertatore potrà richiedere, ove ritenuto necessario, ulteriori specifici esami o visite specialistiche, che saranno effettuati presso strutture pubbliche.
Entro il 4 maggio 2015 chi detiene armi deve presentare il certificato medico di idoneità psicofisica alla detenzione; in pratica lo stesso certificato richiesto per il rilascio del nulla osta all’acquisto, previsto dall’art. 35 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
Lo stabilisce il decreto legislativo n. 121 del 29 settembre 2013, entrato in vigore il 5 novembre, che ha introdotto diverse novità in tema di controlli per l’acquisizione e la detenzione di armi (bianche, da sparo o da fuoco).
La certificazione dovrà attestare che il richiedente non sia affetto da malattie mentali oppure patologie che ne diminuiscano, anche temporaneamente, la capacità di intendere e di volere ovvero non risulti assumere, anche occasionalmente, sostanze stupefacenti e psicotrope oppure abusare di alcol.
Il certificato medico in questione è rilasciato dal medico provinciale o dall’ufficiale sanitario (attualmente Asl) o da un medico militare.
Sono esentati dall’obbligo di presentazione coloro che nei sei anni antecedenti l’entrata in vigore del decreto, abbiano già consegnato il certificato al momento della richiesta di una licenza di porto d’armi o di un nulla osta all’acquisto di armi.
Le persone che entro la data di scadenza non avranno provveduto a consegnare il certificato agli uffici di Polizia o Carabinieri che avevano ricevuto le denunce di detenzione, riceveranno una diffida per la presentazione del certificato stesso. Se nei successivi 30 giorni la certificazione non sarà presentata, sarà avviato il procedimento finalizzato al divieto di detenzione.
Il richiedente, sottoponendosi agli accertamenti, è tenuto a presentare un certificato anamnestico, rilasciato dal medico di fiducia, di data non anteriore a tre mesi.
Il medico accertatore potrà richiedere, ove ritenuto necessario, ulteriori specifici esami o visite specialistiche, che saranno effettuati presso strutture pubbliche.
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Re: Detenzione armi e certificazione medica
Messaggio da paulus1962 »
Credo che dovrò far intestare i fucili in questione a mio fratello o altrimenti dovranno cederli a qualcuno, non credo che mio padre vista l'età e gli acciacchi possa superare una visita medica...
Grazie per la risposta!
Grazie per la risposta!
Re: Detenzione armi e certificazione medica
vedi/leggi e scarica nuova disposizione del Ministero dell'Interno.
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Re: Detenzione armi e certificazione medica
Armi: novità per la detenzione, serve il certificato medico
Entro il 4 maggio 2015 chi detiene armi deve presentare il certificato medico di idoneità psicofisica alla detenzione; in pratica lo stesso certificato richiesto per il rilascio del nulla osta all'acquisto, previsto dall'art. 35 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
Lo stabilisce il decreto legislativo n. 121 del 29 settembre 2013, entrato in vigore il 5 novembre, che ha introdotto diverse novità in tema di controlli per l'acquisizione e la detenzione di armi (bianche, da sparo o da fuoco).
La certificazione dovrà attestare che il richiedente non sia affetto da malattie mentali oppure patologie che ne diminuiscano, anche temporaneamente, la capacità di intendere e di volere ovvero non risulti assumere, anche occasionalmente, sostanze stupefacenti e psicotrope oppure abusare di alcol.
Il certificato medico in questione è rilasciato dal medico provinciale o dall'ufficiale sanitario (attualmente Asl) o da un medico militare.
Sono esentati dall'obbligo di presentazione coloro che nei sei anni antecedenti l'entrata in vigore del decreto, abbiano già consegnato il certificato al momento della richiesta di una licenza di porto d'armi o di un nulla osta all'acquisto di armi.
Le persone che entro la data di scadenza non avranno provveduto a consegnare il certificato agli uffici di Polizia o Carabinieri che avevano ricevuto le denunce di detenzione, riceveranno una diffida per la presentazione del certificato stesso. Se nei successivi 30 giorni la certificazione non sarà presentata, sarà avviato il procedimento finalizzato al divieto di detenzione.
Il richiedente, sottoponendosi agli accertamenti, è tenuto a presentare un certificato anamnestico, rilasciato dal medico di fiducia, di data non anteriore a tre mesi.
Il medico accertatore potrà richiedere, ove ritenuto necessario, ulteriori specifici esami o visite specialistiche, che saranno effettuati presso strutture pubbliche.
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ecco il link
http://www.poliziadistato.it/articolo/view/36638/" onclick="window.open(this.href);return false;
Entro il 4 maggio 2015 chi detiene armi deve presentare il certificato medico di idoneità psicofisica alla detenzione; in pratica lo stesso certificato richiesto per il rilascio del nulla osta all'acquisto, previsto dall'art. 35 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza.
Lo stabilisce il decreto legislativo n. 121 del 29 settembre 2013, entrato in vigore il 5 novembre, che ha introdotto diverse novità in tema di controlli per l'acquisizione e la detenzione di armi (bianche, da sparo o da fuoco).
La certificazione dovrà attestare che il richiedente non sia affetto da malattie mentali oppure patologie che ne diminuiscano, anche temporaneamente, la capacità di intendere e di volere ovvero non risulti assumere, anche occasionalmente, sostanze stupefacenti e psicotrope oppure abusare di alcol.
Il certificato medico in questione è rilasciato dal medico provinciale o dall'ufficiale sanitario (attualmente Asl) o da un medico militare.
Sono esentati dall'obbligo di presentazione coloro che nei sei anni antecedenti l'entrata in vigore del decreto, abbiano già consegnato il certificato al momento della richiesta di una licenza di porto d'armi o di un nulla osta all'acquisto di armi.
Le persone che entro la data di scadenza non avranno provveduto a consegnare il certificato agli uffici di Polizia o Carabinieri che avevano ricevuto le denunce di detenzione, riceveranno una diffida per la presentazione del certificato stesso. Se nei successivi 30 giorni la certificazione non sarà presentata, sarà avviato il procedimento finalizzato al divieto di detenzione.
Il richiedente, sottoponendosi agli accertamenti, è tenuto a presentare un certificato anamnestico, rilasciato dal medico di fiducia, di data non anteriore a tre mesi.
Il medico accertatore potrà richiedere, ove ritenuto necessario, ulteriori specifici esami o visite specialistiche, che saranno effettuati presso strutture pubbliche.
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ecco il link
http://www.poliziadistato.it/articolo/view/36638/" onclick="window.open(this.href);return false;
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Re: Detenzione armi e certificazione medica
Ciao a tutti, io nel mese di ottobre 2014 ho fatto richiesta del porto d'armi per uso sportivo, (costava meno del nulla osta per la detenzione) ed in effetti il mio medico di famiglia ha dovuto farmi un certificato medico che ho portato all'ufficiale medico in legione il quale, a sua volta mi ha fatto un certificato che ho portato in commissariato, poi allegando il congedo ed il motivo della riforma ( ho consegnato il verbale della CMO) dopo venti giorni mi hanno consegnato il porto d'armi per uso sportivo e tiro a volo, per sei anni sto bene, ciao, Nino.
P.S. ho fatto ciò perché mio padre ha ormai 86 anni e non è il caso che abbia sottomano il fucile ed una carabina ad aria compressa che era di mio nonno, ciao.
P.S. ho fatto ciò perché mio padre ha ormai 86 anni e non è il caso che abbia sottomano il fucile ed una carabina ad aria compressa che era di mio nonno, ciao.
Re: Detenzione armi e certificazione medica
======================================================juriromeo ha scritto:Ciao a tutti, io nel mese di ottobre 2014 ho fatto richiesta del porto d'armi per uso sportivo, (costava meno del nulla osta per la detenzione) ed in effetti il mio medico di famiglia ha dovuto farmi un certificato medico che ho portato all'ufficiale medico in legione il quale, a sua volta mi ha fatto un certificato che ho portato in commissariato, poi allegando il congedo ed il motivo della riforma ( ho consegnato il verbale della CMO) dopo venti giorni mi hanno consegnato il porto d'armi per uso sportivo e tiro a volo, per sei anni sto bene, ciao, Nino.
P.S. ho fatto ciò perché mio padre ha ormai 86 anni e non è il caso che abbia sottomano il fucile ed una carabina ad aria compressa che era di mio nonno, ciao.
P.S. Uso sportivo o uso famiglia....??? ahaaaa
Re: Detenzione armi e certificazione medica
ahahaahahaahaha ciao Gino, ovviamente uso famiglia, ciao, Nino.gino59 ha scritto:======================================================juriromeo ha scritto:Ciao a tutti, io nel mese di ottobre 2014 ho fatto richiesta del porto d'armi per uso sportivo, (costava meno del nulla osta per la detenzione) ed in effetti il mio medico di famiglia ha dovuto farmi un certificato medico che ho portato all'ufficiale medico in legione il quale, a sua volta mi ha fatto un certificato che ho portato in commissariato, poi allegando il congedo ed il motivo della riforma ( ho consegnato il verbale della CMO) dopo venti giorni mi hanno consegnato il porto d'armi per uso sportivo e tiro a volo, per sei anni sto bene, ciao, Nino.
P.S. ho fatto ciò perché mio padre ha ormai 86 anni e non è il caso che abbia sottomano il fucile ed una carabina ad aria compressa che era di mio nonno, ciao.
P.S. Uso sportivo o uso famiglia....??? ahaaaa
Re: Detenzione armi e certificazione medica
http://xxxxxxxxxxx.it/forze-polizia-fina ... rto-darmi/" onclick="window.open(this.href);return false;
...una buona notizia!
...una buona notizia!
Re: Detenzione armi e certificazione medica
LICENZA DI PORTO D'ARMI PER DIFESA PERSONALE, USO CACCIA O ATTIVITA' SPORTIVA, RICHIESTE DAGLI APPARTENENTI DELLE FORZE DI POLIZIA
- Circolare Ministero dell’Interno 22 apr 2016 -
Finalmente.
vedi/leggi e scarica allegato PDF se d'interesse.
- Circolare Ministero dell’Interno 22 apr 2016 -
Finalmente.
vedi/leggi e scarica allegato PDF se d'interesse.
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Re: Detenzione armi e certificazione medica
Ricorso perso.
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Ufficiale medico.
1) - impugna sulla base del parere espresso dall’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. IGESAN/PS-14/X (115) dell’8.10.2014 il provvedimento dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. 9563 del 5.9.2014 – diramato con nota del Comando Generale dell’Arma del 9.10.2014 – con cui, sulla base del parere dell’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore Difesa, ha comunicato che i medici militari in servizio non possono svolgere attività libero professionale certificativa in relazione a certificazioni di idoneità alla licenza di porto d’armi “sancendo la conseguente non autorizzabilità ai sensi dell’art. 209 co. 4 del COM della predetta attività da parte degli Uffici di appartenenza degli stessi – in quanto il rilascio di tali autorizzazioni è riservato ai competenti uffici medico-legali o distretti sanitari delle ASL o della PS”.
Il resto potete leggerlo qui sotto.
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SENTENZA ,sede di ROMA ,sezione SEZIONE 1B ,numero provv.: 201605653, - Public 2016-05-12 -
N. 05653/2016 REG.PROV.COLL.
N. 14542/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 14542 del 2014, proposto da:
Antonio Ce., rappresentato e difeso dagli avv. Antonio Marrocco, Vincenzo Castaldo, Luigi Chiarolanza, con domicilio eletto presso Studio Legale Marrocco - Castaldo in Roma, Via U. Tupini, 96;
contro
Ministero della Difesa, Ministero dell'Interno, Ministero della Salute, Ispettorato Generale della Sanita' Militare, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
della nota dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. M_D SIGSM 0009563 id. IGESAN/PS-14/X del 5.9.2014 comunicato con nota del Comando Generale dell’Arma - Direzione di Sanità –del 9.10.2014, nonché di tutti gli atti presupposti, preparatori, connessi e conseguenziali in virtù dei quali ai ricorrenti, nella qualità di medici militari in servizio, veniva negato il diritto a svolgere attività certificativa in relazione al rilascio di certificazioni di idoneità alla licenza di porto d'armi e disposta la non autorizzabilità della medesima da parte dell'A.D. e/o dei singoli diretti Comandi;
e per il conseguente riconoscimento
del diritto del ricorrente ad ottenere l'autorizzazione ed a svolgere attività libero-professionale in relazione al rilascio di certificazioni di idoneità al porto d'armi.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa, dell’Interno e della Salute;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 8 gennaio 2016 la dott.ssa Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Con il ricorso in esame l’Ufficiale medico ricorrente impugna sulla base del parere espresso dall’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. IGESAN/PS-14/X (115) dell’8.10.2014
il provvedimento dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. 9563 del 5.9.2014 – diramato con nota del Comando Generale dell’Arma del 9.10.2014 – con cui, sulla base del parere dell’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore Difesa, ha comunicato che i medici militari in servizio non possono svolgere attività libero professionale certificativa in relazione a certificazioni di idoneità alla licenza di porto d’armi “sancendo la conseguente non autorizzabilità ai sensi dell’art. 209 co. 4 del COM della predetta attività da parte degli Uffici di appartenenza degli stessi – in quanto il rilascio di tali autorizzazioni è riservato ai competenti uffici medico-legali o distretti sanitari delle ASL o della PS”.
Il ricorso è affidato ai seguenti motivi: 1) Violazione dell’art. 3 della Costituzione; 2) Violazione del combinato disposto dell’art. 35 del rd 773/1931 e dell’art. 53 del D.lvo n. 165/2001 in relazione all’art. 210 COM nonché della legge n.89/1987; inconferenza del richiamo al decreto di perenzione del 16.4.2014 (con conseguente persistente efficacia dell’ordinanza sospensiva del TAR Veneto, n. 1219/1998; mancata considerazione della manifestazione di interesse del ricorrente D’aniello sul ricorso n. 11501/1999); 3) Violazione dell’art. 3 della legge n. 241/90.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Sanità e del Ministero dell’Interno ed il Ministero della Difesa, i primi con atto di costituzione formale e quest’ultimo depositando scritti difensivi.
Con ordinanza n. 533/2015 è stata rigettata l’istanza di sospensiva.
Va in via preliminare disposta l’estromissione dal giudizio del Ministero della Sanità e del Ministero dell’Interno per difetto di legittimazione passiva in quanto l’atto è stato adottato dal solo Ministero della Difesa.
Siccome il ricorso è palesemente infondato, si può soprassedere dall’esaminare la questione dell’inammissibilità del gravame, che risulta proposto solo avverso la nota del 2014 indicata in epigrafe – nonché, quali atti presupposti, avverso i pareri dell’Ufficio legale ed altri atti aventi natura di mere comunicazioni –che è meramente riproduttiva del divieto già sancito dal decreto ministeriale del 28.4.1998 - che però non risulta formalmente impugnato nemmeno in questa sede, e quindi avverso un atto privo di autonoma valenza lesiva (peraltro, un ulteriore profilo di inammissibilità deriverebbe dall’intervenuta acquiescenza per non averlo impugnato nei termini, ove il ricorrente all’epoca fosse già in servizio, circostanza che però non viene precisata nel gravame, da cui si desume solo la nascita nel 1966).
Con il primo motivo di ricorso si lamenta genericamente la violazione dell’art. 3 della Costituzione, lamentando che il provvedimento impugnato comprime la professionalità del ricorrente nella sua qualità di medico militare e ne limita l’ambito operativo rispetto ad altri soggetti di pari professionalità.
La doglianza si pone ai limiti dell’ammissibilità, in considerazione della sua genericità, va comunque disattesa in quanto è naturale che il medico militare sia sottoposto ad un regime autorizzatorio dell’attività libero professionale, al pari di tutti gli altri professionisti che sono lavoratori dipendenti di una struttura pubblica (almeno se questo è il senso della censura). Se invece il ricorrente intendeva lamentare una disparità di trattamento rispetto ai medici operanti nel settore privato, la doglianza risulta del pari destituita di fondamento in quanto anche a questi ultimi è precluso lo svolgimento di attività certificativa dell’idoneità psicofisica al porto d’armi. Se, infine, si intendeva, più in generale, prospettare un contrasto della disciplina in materia con il principio di ragionevolezza, la censura va del pari disattesa per le ragioni che si esporranno in sede di esame dei successivi mezzi di gravame.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, innanzitutto, che il provvedimento impugnato “per come reso dall'Ispettorato Generale della Sanità Militare, appare intimamente connesso al "parere" reso dall'Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore della Difesa che “almeno in apparenza fonda tutto sulla perenzione e dunque sulla "inefficacia" della sospensiva concessa relativamente all'art. 3 del D.M. del Ministero della Sanità del 1998. ln realtà, come chiarito anche da una Circolare (la n. l539l99lmI-Blbis/7 del 24 novembre 1999 di DIFESAN), nient'affatto contraria a disposizioni cogenti, deve considerarsi che: l. innazitutto un Decreto Ministeriale (D.M. 28.4.98 del Ministero della Sanità) non può abrogare una norma di legge tuttora vigente (art. 35 del TULPS); 2. ricorrendo e persistendo altra sospensiva (e qui ci si riferisce all'ordinanza
ancora valida n.1219/1998 resa nel ricorso "gemello" a quello dichiarato perento n. 2371198 proposto dal Dott. Domenico Morabito innanzi al T.A.R. Veneto – Prima Sezione Feriale che sostanzialmente ricalca la n. 1217/1998, e parimenti sospende I'esecuzione del D.M. Sanità 28 aprile 1998 (….) e, chiaramente, ogni atto applicativo dei precedenti) l'art. 3 del D.M. 28.4.98 del Ministero della Sanità non è operativo; 3. allo stato degli atti è invece ancora pienamente operativa la disposizione (conforme all'art.35 del TULPS) dell'art. 3 del D.M.14.9.94 del Ministero della
Sanità.
Il mezzo di gravame è infondato in tutti e due i motivi in cui esso è articolato.
Innanzitutto, per quanto riguarda la prima doglianza va osservato che essa parte dall’erronea prospettazione – mutuando l’errore interpretativo in cui era incorsa l’Amministrazione nella circolare del 24 novembre 1999 di DIFESAN (invocata dal ricorrente) - secondo cui l’art. 3 del DM 1998 avrebbe inteso “abrogare una norma di legge tuttora vigente (art. 35 TULPS)” in violazione del principio di gerarchia delle fonti.
La prospettazione attorea non merita condivisione.
L’art. 3 dell’impugnato DM 28.4.1998 nel ridisciplinare le modalità di accertamento dei requisiti psicofisici per il rilascio ed il rinnovo del porto d'armi – in virtù della previsione legislativa introdotta dalla legge n. 89/1987 – s’è limitato a modificare quanto disposto dal DM 14.9.1994 (sicchè, è con quest’ultimo che semmai il DM impugnato si pone in contrasto, piuttosto che con la legge-fonte, che nulla prevedeva riguardo il regime delle competenze) – che aveva riconosciuto tale potere certificatorio anche al singolo medico militare – ripristinando l’originario assetto di competenze sancito dal previgente DM 4.12.1991 che attribuiva il potere certificatorio solo a strutture della sanità pubblica civile e militare. La ratio della restituzione al regime “pubblicistico” di relativi controlli è insita nel grave rischio per la sicurezza pubblica di affidare ad un singolo sanitario operante come libero professionista nel libero mercato la delicata e complessa valutazione dell’idoneità del soggetto che richiede di girare armato (anche a seguito della fallacia delle valutazioni prognostiche sul rischio di abuso evidenziate da ripetuti fatti di cronaca) e della necessità di disporre di una struttura in cui assoggettare i richiedenti a controlli più efficaci e penetranti – che investono non solo la sfera psichica, ma anche tutta una serie di requisiti fisici (uditivi, visivi, motori, etc.) per scongiurare il rischio di incidenti ed abusi nell’uso delle armi.
L’attività certificativa relativa alla licenza disciplinata dal DM 1998 si fonda infatti sulla valutazione complessiva dell’idoneità fisico-psichica dell’istante e, proprio per la sua maggiore complessità, si distingue da quella prevista per il rilascio del nulla osta all’acquisto di armi dall’art. 35 del R.D. 18/06/1931, n. 773 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) – titolo limitato dalla validità temporale limitata e che viene ritirato dall’armiere al momento della vendita - che riguarda il solo aspetto mentale dell’istante.
La scarna disciplina del TULPS è stata successivamente integrata da ulteriori misure volte ad assicurare una maggiore tutela alla generalità dei consociati richiedendo ulteriori attestati, quali l’idoneità al maneggio di armi, finalizzati ad accertare che chi domanda il permesso di girare armato abbia sufficientemente dimestichezza con l’arma (legge 287 del 28.5.1981).
Infine con l’art. 1 della legge 6.3.1987 N. 89, si introduce l’ulteriore onere di aggiungere alla documentazione richiesta per ottenere la licenza di porto d’armi l’apposito certificato medico di idoneità di cui si discute, rinviando, per quanto riguarda i “criteri tecnici generali per l’accertamento dei requisiti psico-fisici minimi per ottenere il certificato medico dell'idoneità al porto delle armi”. Tale legge, tuttavia, non specificava quali fossero tali requisiti, né disciplinava direttamente gli aspetti organizzativi della procedura o individuare gli enti o soggetti deputati al rilascio di tale certificato, demandandone, in tal modo, la disciplina ad un emanando Decreto del Ministero della Sanità.
Ciò ha determinato ripetute modifiche della disciplina del procedimento di verificazione del possesso dei requisiti di idoneità al porto d’armi che ha portato prima a riservare il relativo potere certificatorio alle sole strutture pubbliche della sanità civile e militare (DM 4.12.1991) e successivamente ha invece riconosciuto potere certificato anche ai medici militari operanti individualmente negli studi medici privati e quindi esercenti al di fuori di tali organizzazioni (come previsto dal previgente DM 14.9.1994) e, da ultimo, con il decreto del 1998 nuovamente avocando il potere certificatorio alle strutture pubbliche.
Nel silenzio della legge-fonte, pertanto, il Ministero della Sanità ha alternativamente adottato diversi modelli di potere certificatorio, alternando un regime di riserva ad un regime di liberalizzazione “controllata”, addivenendo tuttavia alla scelta, messa in contestazione con il ricorso in esame, di escludere la competenza del medico militare a rilasciare certificazioni in regime libero-professionale finalizzati a consentire ai privati cittadini di girare armati al di fuori della loro abitazione.
Si tratta di una scelta che il Ministro della Sanità ha legittimamente operato nell’ambito delle diverse opzioni alternative possibili, introducendo una misura necessaria a scongiurare il grave rischio per la sicurezza e l’incolumità dei consociati di affidare ad un singolo sanitario, operante in regime di libera professione, presso strutture esterne (studi privati, etc.) la delicata e complessa valutazione dell’idoneità del soggetto-cliente che richiede di girare armato.
Tale scelta non si pone in contrasto né con la legge-fonte (legge n. 89/1987) né con le specifiche e puntuali previsioni normative che consentono al medico militare di attestare il possesso di determinati requisiti psicofici per svariate finalità (guida di autoveicoli, esonero dalle lezioni di ginnastica etc.), che non valgono a configurare un principio generale di “autorizzabilità” di qualunque attività certificatoria da parte di detti medici che invece non trova alcun fondamento nella normativa in materia, dalla quale si desume, invece, proprio il contrario e cioè che, al di fuori delle ipotesi espressamente previste non sia consentito al medico militare di rilasciare certificati (sicchè non è possibile configurare un potere certificatorio in regime libero professionale dei medici che operino al di fuori delle strutture sanitarie militari). Infatti la normativa in materia è chiaramente indicativa della tassatività di tali competenze, come espressamente sancito dall’art. 209 co. 4 del D.lvo n. 66/2010 che vieta di eseguire visite e redigere certificati al di fuori dei casi previsti e della previa autorizzazione del Ministero della Difesa (riproducendo quanto già disposto dal r.d. n. 2410/1926 e dal r.d. 17.11.1932, facendo salvi i casi in cui l’attività era già consentita, o per legge, o per autorizzazione ministeriale, come appunto quella certificatoria relativa alla patente di guida e alla patente nautica; alle visite fiscali contemplate dalla legge n. 122/1965).
Si tratta pertanto di misure organizzative che non possono ritenersi irragionevolmente lesive del prestigio professionale o degli interessi economici dei medici militari – né atte ad introdurre irragionevoli discriminazioni rispetto ad altre categorie professionali – in quanto sono chiaramente ispirate alle finalità precauzionali e necessarie per salvaguardare superiori interessi di sicurezza pubblica che, assumendo rango primario, sono stati considerati in modo del tutto ragionevole come prevalenti rispetto all’interesse meramente economico dei medici militari a poter svolgere l’attività libero-professionale di rilascio a pagamento, nell’attività privata, dei relativi certificati.
Di conseguenza vano disattesi, nuovamente, anche sotto questo profilo, i dubbi di legittimità costituzionale prospettati da parte ricorrente: è proprio la delicatezza del complesso compito valutativo e dell’importante impatto sulla sicurezza pubblica dell’attività certificatoria in parola che giustifica la riserva del loro rilascio agli uffici medico-legali delle strutture pubbliche - sottraendolo all’ambito privato delle certificazioni con conseguente ritorno al regime pubblicistico (come d’altronde già sancito dal DM 4.12.1991) - che, oltre a disporre delle diverse professionalità medico-legali e di professionisti dotati di specifiche competenze (psichiatriche, oculistiche, etc.) necessarie ad una valutazione “interdisciplinare” dell’attitudine complessiva del soggetto a girare armato, comporta un differente e più severo regime giuridico rispetto alle certificazioni relative ad altri titoli abilitativi (alla guida di autoveicoli, patenti nautiche), etc., che incidono principalmente sulla sicurezza alla circolazione dei veicoli e dei natanti - e quindi solo indirettamente ed occasionalmente sulla sicurezza delle persone – ed implicano verifiche dei requisiti psico-fisici meno complesse e meno suscettibili di errore di valutazione (quali sono invece quelle relative alla personalità e capacità di controllo degli impulsi del richiedente il porto d’armi).
Alla luce delle considerazioni soprasvolte va infine disatteso il terzo ed ultimo motivo di ricorso – di cui si anticipa l’esame - con cui si lamenta il difetto di motivazione dell’atto impugnato: a parte l’ovvio rilievo che l’art. 3 della legge 241/90 non trova applicazione nel caso di esame in cui viene impugnato un atto generale, è evidente, da quanto sopra indicato, che la riserva alle strutture pubbliche del potere certificatorio in questione risponde a ragioni sostanziali di tutta evidenza.
Si passa pertanto ad esaminare l’ulteriore questione, dedotta con il secondo ed articolato motivo di ricorso in cui si sostiene che illegittimamente la CM del 2014 impugnata fa rivivere il DM 1998 sulla sola base dell’intervenuta perenzione del ricorso n. 1704/1999 senza tener conto dei persistenti effetti dell’ordinanza sospensiva resa sul ricorso– n. 11501/1999 (“gemello” di quello dichiarato perento) dal TAR Veneto, Sez. II, n. 1219/1998 –che parimenti sospende l’esecuzione del DM 1998.
La prospettazione attorea non merita condivisione. Questa infatti dà per scontato che l’ordinanza sospensiva di un regolamento o di atti amministrativi generali “indivisibili” avrebbe efficacia erga omnes, al pari della sentenza che lo annulli. La soluzione propugnata tuttavia non è affatto pacifica. Si tratta di una questione molto complessa, che scaturisce dalla mancata previsione, nel nostro ordinamento, di un apposito ricorso contro gli atti amministrativi generali ed i regolamenti – e che pone problemi delicati investendo, più alla radice, il problema dell’oggetto del processo e la scelta fondamentale tra un modello di giurisdizione di diritto oggettiva oppure soggettivo - che non ha ancora trovato una soluzione, nonostante le diverse proposte di riforma del processo amministrativo (quali il ddl del 12 ottobre 1989), nemmeno nel codice del processo amministrativo di recente approvato.
Anche se la giurisprudenza concorda sulle “ragioni” che giustificano l'efficacia erga omnes del giudicato di annullamento degli atti amministrativi generali o normativi – rimarcando che “un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario non può esistere per taluni e non esistere per altri” - tuttavia non è pacifico in cosa consista tale carattere di “indivisibilità” dell’atto impugnato (talvolta ravvisato nel contenuto o negli effetti dell'atto oppure ricondotto al vizio che ne abbia determinato l’annullamento ovvero alla posizione giuridica del soggetto coinvolto nel “rapporto amministrativo” in contestazione piuttosto che all'esercizio del potere che ha trovato espressione nell’atto impugnato).
La complessità di tale problematica, ovviamente, si riflette anche sulla (diversa) questione dell’individuazione dell’ambito soggettivo della pronuncia cautelare: qui la tematica viene ad essere ulteriormente complicata dalle diatribe sull’oggetto del giudizio cautelare e dall’esigenza di “compatibilizzare” la soluzione “tradizionale” dell’annullamento con effetto erga omnes soprarichiamata con il carattere interinale, la funzione strumentale e l’esigenza di assicurare l’effettività della tutela anche mediante misure “anticipatorie” degli effetti della sentenza di merito (e talvolta addirittura anticipatorie “di ciò che può essere assicurato solo in sede di ottemperanza” come nel caso della sospensione di certi tipi di atti di diniego)
Così la giurisprudenza riconosce che “sui limiti soggettivi dei provvedimenti cautelari si registrano orientamenti contrastanti” (TAR Sicilia Palermo, Sez. III, n. 2274/2010) ed ammette che si tratta di un tema “innegabilmente complesso e controvertibile, in quanto (…) un conto è il giudicato di annullamento di un provvedimento generale, che, in ragione della sua portata caducatoria, eliminando dal mondo giuridico l’atto impugnato, ha naturalmente effetto erga omnes, altro conto è la sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato, la quale non può che avere contenutisticamente effetto inter partes” (TAR Puglia, Bari, Sez. I n. 24/2001).
Tanto precisato, una parte della giurisprudenza afferma l’efficacia generale dell’ordinanza sospensiva in base al principio di effettività della tutela e di strumentalità della tutela cautelare (vedi, TAR Puglia, Bari, Sez. I n. 24/2001: “ravvisandosi la strumentalità essenzialmente nel mantenere una situazione di fatto integra, sì che la decisione di merito possa risultare concretamente efficace, derivandosi da ciò l’affermazione che nel caso di atti generali anche l’ordinanza di sospensione, per simmetria, ha efficacia generale, estesa dunque a coloro che non siano parti del giudizio) che opera in funzione anticipatoria degli effetti della sentenza per prevenire il danno che il ricorrente subirebbe dal ritardo nella decisione del ricorso (TAR Campania, Napoli, Sez. I, n. 6586/2007; TAR Sicilia Palermo, Sez. III, n. 2274/2010: considerata “la sua funzione potenzialmente anticipatoria degli effetti della decisione sul merito, l'ordinanza cautelare (…) pur essendo provvisoria e temporanea, allo stato priva di efficacia ex tunc l'atto impugnato con conseguenze corrispondenti a quelle proprie delle pronunce d'annullamento; perciò, ogni qual volta gli effetti demolitori della sentenza di annullamento sono destinati a prodursi erga omnes per la natura dell'atto caducato, anche la sospensione, in via cautelare, dei suoi effetti opera non limitatamente alle parti del giudizio, ma nei confronti della generalità dei consociati”).
Si pone in tal modo un parallelismo tra l’efficacia dell’ordinanza sospensiva di un regolamento o di un atto generale e gli effetti erga omnes della sentenza di annullamento sulla base della considerazione che “del suddetto regime non possono non essere partecipi anche i provvedimenti di sospensione che, impedendo temporaneamente, e con efficacia "ex nunc", la possibilità di portare l' atto ad ulteriore esecuzione, hanno natura strumentale ed esplicano una funzione cautelativa del tutto provvisoria, in quanto volti ad evitare che la futura pronuncia del giudice possa restare pregiudicata nel tempo necessario per ottenerla (Tar Calabria, Catanzaro 1388/2004) . Viene pertanto riconosciuta efficacia erga omnes all’ordinanza di sospensione di una prescrizione regolamentare sulla distanza minima dalle abitazioni degli impianti di telefonia mobile ribadendo che “l'annullamento di un atto amministrativo a contenuto normativo ha efficacia "erga omnes", per la sua ontologica indivisibilità. Non estendere il principio suindicato alle ordinanze cautelari comporterebbe una incomprensibile aporia (…)” (Cons. St., sez. VI, 06/09/2010 n. 6473).
Si tratta di un orientamento dichiaratamente ispirato – in un’impostazione di giurisdizione di diritto oggettivo - all’esigenza di evitare che gli atti viziati possano seguitare a produrre effetti “ad ampio raggio” (TAR Abruzzo, Pescara, n. 855 /05 che evidenzia che, altrimenti, l’Amministrazione “continuerebbe ad applicare delle norme o degli atti generali indivisibili, già dichiarati illegittimi, con evidente violazione di ogni regola di buona amministrazione”). In quest’ultima prospettiva è stato perciò affermato che “il tema dell'efficacia della pronuncia cautelare su atti a contenuto generale, di certo complesso, poiché la pronuncia è per sua funzione limitata alle parti del giudizio, per la connessione con il periculum in mora dedotto dal ricorrente; sicchè pur ribadendo l’efficacia inter partes della sospensiva, in quanto misura concessa in base al danno (personale) paventato dall’interessato, si ritiene che essa possa avere effetto generale ove essa sia “resa a motivo della lesione di un interesse collettivo” (Cons. stato, Sez. VI, n. 4074/2009). Tale soluzione risponde anche ad esigenza di certezza giuridica “atteso che la natura unitaria del regolamento impedisce che esso trovi applicazione, nonostante esso sia dichiarato illegittimo ovvero sospeso cautelarmente, in relazione solo ad alcuni destinatari dell'atto che non hanno preso parte al procedimento” (TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, n. 161/2016).
A tale corrente si oppone, però, una diversa giurisprudenza che rileva che “un conto è l’efficacia generale dell’atto impugnato ed altro è l’efficacia generale della misura cautelare che quello sospenda” e pertanto esclude che si possa, in via generale, attribuire una “efficacia generalizzata” all’ordinanza sospensiva di un atto generale data la “inerenza alla situazione specifica del ricorrente e segnatamente al periculum da questi denunciato” della misura cautelare .
In tale prospettiva viene esclusa la possibilità di operare un automatico parallelismo tra gli effetti della sentenza e quelli della pronuncia cautelare e si sottolinea che: “se è vero che l’efficacia erga omnes caratterizza il giudizio di annullamento del provvedimento amministrativo, non potendo logicamente l’atto annullato non esistere per alcuni soggetti ed esistere per altri, è anche vero che non sussistono ostacoli logici e giuridici a concepire la ‘sospensione dell’esecuzione’…di un atto (sia pure a contenuto generale) come naturaliter limitata tra le parti in causa ed a beneficio soltanto di alcuni soggetti e cioè di quelli che l’abbiano richiesta, e che tale è la (limitata) funzione che si deve riconoscere in linea di principio alle ordinanze sospensive” (TAR Calabria, sent. n. 340 del 22.7.1987).
In un’ottica funzionale si obietta che la validità ultra partes dell’ordinanza sospensiva di un atto normativo o generale non si giustifica con la funzione della pronuncia cautelare dato che la misura cautelare non risponde all’esigenza di adeguare l’ordinamento ad una certezza legale e di restaurare la legalità violata dal regolamento illegittimo (funzione che semmai deve essere assicurata dal giudicato), bensì di assicurare che, nelle more della conclusione del giudizio, non si producano gli effetti (giuridici o materiali) di un atto che non potrebbero essere riparati da una decisione di merito intempestiva.
E proprio sulla base della valorizzazione dell’interesse “sostanziale” del ricorrente, la questione della determinazione del contenuto e dell’ambito oggettivo e soggettivo della pronuncia cautelare è stata affrontata in modo pragmatico ricorrendo alla “modulazione” della tutela cautelare, secondo la “logica dell’azione finalizzata”, dando luogo ad una svariata tipologia di ordinanze “atipiche”, di accoglimenti ad tempus, con riserva, parziali, etc.,
L’ambito soggettivo dell’ordinanza sospensiva di un atto generale o normativo è stato pertanto individuato tenendo conto delle specifiche circostanze del caso, in corrispondenza alla situazione contingente di pericolo da fronteggiare ed alla concreta esigenza di protezione della posizione giuridica del ricorrente, modulando l’efficacia della pronuncia, accogliendo l’istanza cautelare nella misura che a tal fine risultava necessaria, senza necessariamente anticipare tutti gli effetti della (futura ed eventuale) sentenza di annullamento, ma solo (e comunque tutti) quelli che risultassero necessari per prevenire il danno incombente e comunque, come espressamente precisato con svariate formule, solo “nei limiti dell’interesse del ricorrente” (per chiarire che essa non giova a soggetti terzi, esplicando i propri effetti in ambito circoscritto al solo giudizio nel quale sono emesse e non anche rispetto a giudizi differenti (cfr. Cons. Stato, VI, n. 49/1982; TAR Lazio, I, n. 1168/1985; Cons. Stato, V, n. 548/1986 ord. TAR Lombardia, Milano, n. 326/1987; nonché TAR Campania, Salerno, n. 3/2009 che rigetta la pretesa del ricorrente di avvalersi della sospensiva concessa in altro giudizio osservando che “la cautela giurisdizionale accordata in altro giudizio, anche se riguardante un atto generale, non può assumere rilevanza al di fuori del giudizio in cui è accordata, tenuto conto del suo carattere provvisorio e della sua portata limitata al profilo d’interesse (di tipo cautelare) riconoscibile al ricorrente che l’ha chiesta”). E ciò è stato affermato anche qualora si tratti di atti con valenza generale e indivisibile ed persino qualora il vizio comporterebbe l’annullamento dell’atto impugnato in sede di merito (TAR Lazio, sez. I, n. 1188/1985).
A quest’ultimo riguardo va osservato peraltro che l'orientamento giurisprudenziale secondo cui “nel processo amministrativo, quale processo di parti, la latitudine dell'annullamento giurisdizionale risulta strettamente circoscritta dall'ampiezza dell'interesse di cui si invoca la tutela, a meno che i vizi denunciati e riconosciuti dal giudice non investano aspetti indivisibili del provvedimento impugnato” (Cons. St., Sez. IV, n. 450/1993) può risultare di difficile applicazione nel caso in cui l’ordinanza sospensiva risulti priva di motivazione. Nel caso – come quello in esame- in cui sono imperscrutabili le ragioni che hanno indotto il giudice cautelare a ritenere sussistente il fumus boni iuris e non si riesce ad individuare quali dei vizi dedotti dal ricorrente siano stati ritenuti sussistenti dal giudicante, non risulta possibile stabilire se la portata della pronuncia debba essere circoscritta al ricorrente oppure possa essere estesa a terzi sulla base del criterio della “indivisibilità del vizio”.
In conclusione l’orientamento “restrittivo” soprarichiamato, ad avviso del Collegio, merita ancor oggi piena condivisione in quanto tiene adeguatamente conto del proprium del processo cautelare e della natura e della funzione dell’ordinanza sospensiva – in particolare della sua “inerenza alla situazione specifica del ricorrente e segnatamente al periculum da questi denunciato” per cui tale pronuncia costituisce misura cautelare concessa “ad personam” (a parità di circostanze oggettive di fatto, il danno può prospettarsi in grado di gravità diverso a seconda delle specifiche condizioni soggettive) – e della conseguente esigenza di “modulare” l’intensità della tutela cautelare (e di conseguenza del contenuto e degli effetti dell’ordinanza sospensiva) e di proporzionare la determinazione dell’ambito soggettivo ed oggettivo di efficacia della relativa pronuncia “a seconda delle specifiche circostanze del caso sottoposto all’attenzione del giudice” in modo da pervenire ad un “equo contemperamento” dei diversi interessi in gioco che rischiano di essere pregiudicati nelle more della definizione del giudizio. Ed in tal modo si evita anche il drammatico scollamento che altrimenti si determinerebbe tra l’ambito soggettivo di coloro che sono necessariamente chiamati in giudizio (dato che nel ricorso contro regolamenti e atti generali non sono configurabili contro interessati) e coloro che sono destinatari delle conseguenze di una pronuncia resa in un processo al quale non sono stati messi in grado di partecipare.
Tale soluzione, peraltro, si pone in linea con le recenti evoluzioni di un’autorevole corrente giurisprudenziale che, nella prospettiva “sostanzialistica” sopraindicata, ha ammesso una modulazione della tutela - addirittura prospettando la possibilità di soprassedere all’annullamento dell’atto illegittimo in considerazione del danno sociale che ne deriverebbe da un eventuale annullamento (Cons. Stato, Sez. V ord. 284/2015) – limitandosi a disporre il solo effetto conformativo ove esigenze di effettività della tutela giurisdizionale lo impongano (come nel caso di materia ambientale in cui il determinarsi di un vuoto di tutela potrebbe risultare ancor più pregiudizievole, per gli interessi presidiati, di un provvedimento illegittimo, vedi Cons. Stato, Sez. VI, n. 2755/2011) e ad ammettere la possibilità di una “flessibilità degli effetti della sentenza di annullamento” (cfr. AP 4/2015 determinando “in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all'interesse del ricorrente “la portata dell'annullamento, con formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come l'annullamento parziale, nella parte in cui prevede o non prevede, oppure nei limiti di interesse del ricorrente e così via) oltre che con il crescente affermarsi, nei giudizi contro i regolamenti, dell’orientamento volto a preferire la disapplicazione all’annullamento degli stessi (vedi da ultimo Cons. St., sez. IV ord. n. 3791/2015 con cui è stata sospesa dal giudice d’appello la sentenza gravata, nella parte in cui annullava, anziché limitarsi a meramente disapplicarlo, il regolamento che prescriveva limiti di altezza minima per gli aspiranti militari)
Il crescente favor giurisprudenziale per la disapplicazione in luogo dell’annullamento, in sede di decisione di merito, costituisce un’ulteriore conferma della necessità di escludere l’automatica validità erga omnes dell’ordinanza sospensiva di atti normativi anche al fine di evitare che il giudice cautelare possa interferire nell’esercizio del potere regolamentare mediante decisioni assunte in Camera di Consiglio, in base a sommaria cognitio, senza una visione completa dell’intera problematica che si intende “regolare” e senza alcuna legittimazione democratica per sostituirsi alla PA nell’assetto degli interessi in gioco che solo a questa spetta stabilire. E sotto tale profilo, è stata da tempo evidenziata la natura “latu sensu politica” dei regolamenti e degli atti generali.
Quest’ultima considerazione ben si attaglia al caso in esame, in cui il DM impugnato non contiene solo “norme tecniche”, ma costituisce l’espressione di precise scelte in merito all’ordine ed al valore dei vari interessi in gioco. I soggetti che vengono interessati dalla sospensione dell’atto impugnato, infatti, non sono solo i medici militari ai quali viene precluso lo svolgimento in regime libero professionale della redditizia attività certificativa del possesso dei requisiti necessari per ottenere il porto d’armi (che quindi fanno valere un interesse di tipo economico-corporativo), ma anche i cittadini che sono “contro interessati” ad evitare che vadano in circolazione soggetti armati di cui non sia stata accertata adeguatamente (mediante strutture pubbliche indipendenti e non soggette a pressioni) la capacità psico-fisica necessaria ad escludere incidenti. In questo quadro la soluzione dell’efficacia erga omnes della sospensiva resa dal giudice territoriale veneto (incompetente) in un giudizio promosso tra altri soggetti non sarebbe neppure giustificato con il rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere tra l’esigenza di tutela dell’interesse del ricorrente e l’ambito di operatività della misura ed avrebbe l’effetto di espandere (senza alcuna ragione) la platea dei beneficiari o comunque dei destinatari di una previsione regolamentare alterando (con effetti in larga parte irreversibili) le reciproche posizioni di vantaggio/svantaggio.
Alla luce delle considerazioni soprasvolte il ricorso risulta infondato e va respinto.
Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) respinge il ricorso in esame.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 8 gennaio 2016, 16 marzo 2016, con l'intervento dei magistrati:
Salvatore Mezzacapo, Presidente FF
Nicola D'Angelo, Consigliere
Floriana Rizzetto, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 12/05/2016
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Ufficiale medico.
1) - impugna sulla base del parere espresso dall’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. IGESAN/PS-14/X (115) dell’8.10.2014 il provvedimento dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. 9563 del 5.9.2014 – diramato con nota del Comando Generale dell’Arma del 9.10.2014 – con cui, sulla base del parere dell’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore Difesa, ha comunicato che i medici militari in servizio non possono svolgere attività libero professionale certificativa in relazione a certificazioni di idoneità alla licenza di porto d’armi “sancendo la conseguente non autorizzabilità ai sensi dell’art. 209 co. 4 del COM della predetta attività da parte degli Uffici di appartenenza degli stessi – in quanto il rilascio di tali autorizzazioni è riservato ai competenti uffici medico-legali o distretti sanitari delle ASL o della PS”.
Il resto potete leggerlo qui sotto.
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SENTENZA ,sede di ROMA ,sezione SEZIONE 1B ,numero provv.: 201605653, - Public 2016-05-12 -
N. 05653/2016 REG.PROV.COLL.
N. 14542/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 14542 del 2014, proposto da:
Antonio Ce., rappresentato e difeso dagli avv. Antonio Marrocco, Vincenzo Castaldo, Luigi Chiarolanza, con domicilio eletto presso Studio Legale Marrocco - Castaldo in Roma, Via U. Tupini, 96;
contro
Ministero della Difesa, Ministero dell'Interno, Ministero della Salute, Ispettorato Generale della Sanita' Militare, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
della nota dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. M_D SIGSM 0009563 id. IGESAN/PS-14/X del 5.9.2014 comunicato con nota del Comando Generale dell’Arma - Direzione di Sanità –del 9.10.2014, nonché di tutti gli atti presupposti, preparatori, connessi e conseguenziali in virtù dei quali ai ricorrenti, nella qualità di medici militari in servizio, veniva negato il diritto a svolgere attività certificativa in relazione al rilascio di certificazioni di idoneità alla licenza di porto d'armi e disposta la non autorizzabilità della medesima da parte dell'A.D. e/o dei singoli diretti Comandi;
e per il conseguente riconoscimento
del diritto del ricorrente ad ottenere l'autorizzazione ed a svolgere attività libero-professionale in relazione al rilascio di certificazioni di idoneità al porto d'armi.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa, dell’Interno e della Salute;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 8 gennaio 2016 la dott.ssa Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Con il ricorso in esame l’Ufficiale medico ricorrente impugna sulla base del parere espresso dall’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. IGESAN/PS-14/X (115) dell’8.10.2014
il provvedimento dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. 9563 del 5.9.2014 – diramato con nota del Comando Generale dell’Arma del 9.10.2014 – con cui, sulla base del parere dell’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore Difesa, ha comunicato che i medici militari in servizio non possono svolgere attività libero professionale certificativa in relazione a certificazioni di idoneità alla licenza di porto d’armi “sancendo la conseguente non autorizzabilità ai sensi dell’art. 209 co. 4 del COM della predetta attività da parte degli Uffici di appartenenza degli stessi – in quanto il rilascio di tali autorizzazioni è riservato ai competenti uffici medico-legali o distretti sanitari delle ASL o della PS”.
Il ricorso è affidato ai seguenti motivi: 1) Violazione dell’art. 3 della Costituzione; 2) Violazione del combinato disposto dell’art. 35 del rd 773/1931 e dell’art. 53 del D.lvo n. 165/2001 in relazione all’art. 210 COM nonché della legge n.89/1987; inconferenza del richiamo al decreto di perenzione del 16.4.2014 (con conseguente persistente efficacia dell’ordinanza sospensiva del TAR Veneto, n. 1219/1998; mancata considerazione della manifestazione di interesse del ricorrente D’aniello sul ricorso n. 11501/1999); 3) Violazione dell’art. 3 della legge n. 241/90.
Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Sanità e del Ministero dell’Interno ed il Ministero della Difesa, i primi con atto di costituzione formale e quest’ultimo depositando scritti difensivi.
Con ordinanza n. 533/2015 è stata rigettata l’istanza di sospensiva.
Va in via preliminare disposta l’estromissione dal giudizio del Ministero della Sanità e del Ministero dell’Interno per difetto di legittimazione passiva in quanto l’atto è stato adottato dal solo Ministero della Difesa.
Siccome il ricorso è palesemente infondato, si può soprassedere dall’esaminare la questione dell’inammissibilità del gravame, che risulta proposto solo avverso la nota del 2014 indicata in epigrafe – nonché, quali atti presupposti, avverso i pareri dell’Ufficio legale ed altri atti aventi natura di mere comunicazioni –che è meramente riproduttiva del divieto già sancito dal decreto ministeriale del 28.4.1998 - che però non risulta formalmente impugnato nemmeno in questa sede, e quindi avverso un atto privo di autonoma valenza lesiva (peraltro, un ulteriore profilo di inammissibilità deriverebbe dall’intervenuta acquiescenza per non averlo impugnato nei termini, ove il ricorrente all’epoca fosse già in servizio, circostanza che però non viene precisata nel gravame, da cui si desume solo la nascita nel 1966).
Con il primo motivo di ricorso si lamenta genericamente la violazione dell’art. 3 della Costituzione, lamentando che il provvedimento impugnato comprime la professionalità del ricorrente nella sua qualità di medico militare e ne limita l’ambito operativo rispetto ad altri soggetti di pari professionalità.
La doglianza si pone ai limiti dell’ammissibilità, in considerazione della sua genericità, va comunque disattesa in quanto è naturale che il medico militare sia sottoposto ad un regime autorizzatorio dell’attività libero professionale, al pari di tutti gli altri professionisti che sono lavoratori dipendenti di una struttura pubblica (almeno se questo è il senso della censura). Se invece il ricorrente intendeva lamentare una disparità di trattamento rispetto ai medici operanti nel settore privato, la doglianza risulta del pari destituita di fondamento in quanto anche a questi ultimi è precluso lo svolgimento di attività certificativa dell’idoneità psicofisica al porto d’armi. Se, infine, si intendeva, più in generale, prospettare un contrasto della disciplina in materia con il principio di ragionevolezza, la censura va del pari disattesa per le ragioni che si esporranno in sede di esame dei successivi mezzi di gravame.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, innanzitutto, che il provvedimento impugnato “per come reso dall'Ispettorato Generale della Sanità Militare, appare intimamente connesso al "parere" reso dall'Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore della Difesa che “almeno in apparenza fonda tutto sulla perenzione e dunque sulla "inefficacia" della sospensiva concessa relativamente all'art. 3 del D.M. del Ministero della Sanità del 1998. ln realtà, come chiarito anche da una Circolare (la n. l539l99lmI-Blbis/7 del 24 novembre 1999 di DIFESAN), nient'affatto contraria a disposizioni cogenti, deve considerarsi che: l. innazitutto un Decreto Ministeriale (D.M. 28.4.98 del Ministero della Sanità) non può abrogare una norma di legge tuttora vigente (art. 35 del TULPS); 2. ricorrendo e persistendo altra sospensiva (e qui ci si riferisce all'ordinanza
ancora valida n.1219/1998 resa nel ricorso "gemello" a quello dichiarato perento n. 2371198 proposto dal Dott. Domenico Morabito innanzi al T.A.R. Veneto – Prima Sezione Feriale che sostanzialmente ricalca la n. 1217/1998, e parimenti sospende I'esecuzione del D.M. Sanità 28 aprile 1998 (….) e, chiaramente, ogni atto applicativo dei precedenti) l'art. 3 del D.M. 28.4.98 del Ministero della Sanità non è operativo; 3. allo stato degli atti è invece ancora pienamente operativa la disposizione (conforme all'art.35 del TULPS) dell'art. 3 del D.M.14.9.94 del Ministero della
Sanità.
Il mezzo di gravame è infondato in tutti e due i motivi in cui esso è articolato.
Innanzitutto, per quanto riguarda la prima doglianza va osservato che essa parte dall’erronea prospettazione – mutuando l’errore interpretativo in cui era incorsa l’Amministrazione nella circolare del 24 novembre 1999 di DIFESAN (invocata dal ricorrente) - secondo cui l’art. 3 del DM 1998 avrebbe inteso “abrogare una norma di legge tuttora vigente (art. 35 TULPS)” in violazione del principio di gerarchia delle fonti.
La prospettazione attorea non merita condivisione.
L’art. 3 dell’impugnato DM 28.4.1998 nel ridisciplinare le modalità di accertamento dei requisiti psicofisici per il rilascio ed il rinnovo del porto d'armi – in virtù della previsione legislativa introdotta dalla legge n. 89/1987 – s’è limitato a modificare quanto disposto dal DM 14.9.1994 (sicchè, è con quest’ultimo che semmai il DM impugnato si pone in contrasto, piuttosto che con la legge-fonte, che nulla prevedeva riguardo il regime delle competenze) – che aveva riconosciuto tale potere certificatorio anche al singolo medico militare – ripristinando l’originario assetto di competenze sancito dal previgente DM 4.12.1991 che attribuiva il potere certificatorio solo a strutture della sanità pubblica civile e militare. La ratio della restituzione al regime “pubblicistico” di relativi controlli è insita nel grave rischio per la sicurezza pubblica di affidare ad un singolo sanitario operante come libero professionista nel libero mercato la delicata e complessa valutazione dell’idoneità del soggetto che richiede di girare armato (anche a seguito della fallacia delle valutazioni prognostiche sul rischio di abuso evidenziate da ripetuti fatti di cronaca) e della necessità di disporre di una struttura in cui assoggettare i richiedenti a controlli più efficaci e penetranti – che investono non solo la sfera psichica, ma anche tutta una serie di requisiti fisici (uditivi, visivi, motori, etc.) per scongiurare il rischio di incidenti ed abusi nell’uso delle armi.
L’attività certificativa relativa alla licenza disciplinata dal DM 1998 si fonda infatti sulla valutazione complessiva dell’idoneità fisico-psichica dell’istante e, proprio per la sua maggiore complessità, si distingue da quella prevista per il rilascio del nulla osta all’acquisto di armi dall’art. 35 del R.D. 18/06/1931, n. 773 (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) – titolo limitato dalla validità temporale limitata e che viene ritirato dall’armiere al momento della vendita - che riguarda il solo aspetto mentale dell’istante.
La scarna disciplina del TULPS è stata successivamente integrata da ulteriori misure volte ad assicurare una maggiore tutela alla generalità dei consociati richiedendo ulteriori attestati, quali l’idoneità al maneggio di armi, finalizzati ad accertare che chi domanda il permesso di girare armato abbia sufficientemente dimestichezza con l’arma (legge 287 del 28.5.1981).
Infine con l’art. 1 della legge 6.3.1987 N. 89, si introduce l’ulteriore onere di aggiungere alla documentazione richiesta per ottenere la licenza di porto d’armi l’apposito certificato medico di idoneità di cui si discute, rinviando, per quanto riguarda i “criteri tecnici generali per l’accertamento dei requisiti psico-fisici minimi per ottenere il certificato medico dell'idoneità al porto delle armi”. Tale legge, tuttavia, non specificava quali fossero tali requisiti, né disciplinava direttamente gli aspetti organizzativi della procedura o individuare gli enti o soggetti deputati al rilascio di tale certificato, demandandone, in tal modo, la disciplina ad un emanando Decreto del Ministero della Sanità.
Ciò ha determinato ripetute modifiche della disciplina del procedimento di verificazione del possesso dei requisiti di idoneità al porto d’armi che ha portato prima a riservare il relativo potere certificatorio alle sole strutture pubbliche della sanità civile e militare (DM 4.12.1991) e successivamente ha invece riconosciuto potere certificato anche ai medici militari operanti individualmente negli studi medici privati e quindi esercenti al di fuori di tali organizzazioni (come previsto dal previgente DM 14.9.1994) e, da ultimo, con il decreto del 1998 nuovamente avocando il potere certificatorio alle strutture pubbliche.
Nel silenzio della legge-fonte, pertanto, il Ministero della Sanità ha alternativamente adottato diversi modelli di potere certificatorio, alternando un regime di riserva ad un regime di liberalizzazione “controllata”, addivenendo tuttavia alla scelta, messa in contestazione con il ricorso in esame, di escludere la competenza del medico militare a rilasciare certificazioni in regime libero-professionale finalizzati a consentire ai privati cittadini di girare armati al di fuori della loro abitazione.
Si tratta di una scelta che il Ministro della Sanità ha legittimamente operato nell’ambito delle diverse opzioni alternative possibili, introducendo una misura necessaria a scongiurare il grave rischio per la sicurezza e l’incolumità dei consociati di affidare ad un singolo sanitario, operante in regime di libera professione, presso strutture esterne (studi privati, etc.) la delicata e complessa valutazione dell’idoneità del soggetto-cliente che richiede di girare armato.
Tale scelta non si pone in contrasto né con la legge-fonte (legge n. 89/1987) né con le specifiche e puntuali previsioni normative che consentono al medico militare di attestare il possesso di determinati requisiti psicofici per svariate finalità (guida di autoveicoli, esonero dalle lezioni di ginnastica etc.), che non valgono a configurare un principio generale di “autorizzabilità” di qualunque attività certificatoria da parte di detti medici che invece non trova alcun fondamento nella normativa in materia, dalla quale si desume, invece, proprio il contrario e cioè che, al di fuori delle ipotesi espressamente previste non sia consentito al medico militare di rilasciare certificati (sicchè non è possibile configurare un potere certificatorio in regime libero professionale dei medici che operino al di fuori delle strutture sanitarie militari). Infatti la normativa in materia è chiaramente indicativa della tassatività di tali competenze, come espressamente sancito dall’art. 209 co. 4 del D.lvo n. 66/2010 che vieta di eseguire visite e redigere certificati al di fuori dei casi previsti e della previa autorizzazione del Ministero della Difesa (riproducendo quanto già disposto dal r.d. n. 2410/1926 e dal r.d. 17.11.1932, facendo salvi i casi in cui l’attività era già consentita, o per legge, o per autorizzazione ministeriale, come appunto quella certificatoria relativa alla patente di guida e alla patente nautica; alle visite fiscali contemplate dalla legge n. 122/1965).
Si tratta pertanto di misure organizzative che non possono ritenersi irragionevolmente lesive del prestigio professionale o degli interessi economici dei medici militari – né atte ad introdurre irragionevoli discriminazioni rispetto ad altre categorie professionali – in quanto sono chiaramente ispirate alle finalità precauzionali e necessarie per salvaguardare superiori interessi di sicurezza pubblica che, assumendo rango primario, sono stati considerati in modo del tutto ragionevole come prevalenti rispetto all’interesse meramente economico dei medici militari a poter svolgere l’attività libero-professionale di rilascio a pagamento, nell’attività privata, dei relativi certificati.
Di conseguenza vano disattesi, nuovamente, anche sotto questo profilo, i dubbi di legittimità costituzionale prospettati da parte ricorrente: è proprio la delicatezza del complesso compito valutativo e dell’importante impatto sulla sicurezza pubblica dell’attività certificatoria in parola che giustifica la riserva del loro rilascio agli uffici medico-legali delle strutture pubbliche - sottraendolo all’ambito privato delle certificazioni con conseguente ritorno al regime pubblicistico (come d’altronde già sancito dal DM 4.12.1991) - che, oltre a disporre delle diverse professionalità medico-legali e di professionisti dotati di specifiche competenze (psichiatriche, oculistiche, etc.) necessarie ad una valutazione “interdisciplinare” dell’attitudine complessiva del soggetto a girare armato, comporta un differente e più severo regime giuridico rispetto alle certificazioni relative ad altri titoli abilitativi (alla guida di autoveicoli, patenti nautiche), etc., che incidono principalmente sulla sicurezza alla circolazione dei veicoli e dei natanti - e quindi solo indirettamente ed occasionalmente sulla sicurezza delle persone – ed implicano verifiche dei requisiti psico-fisici meno complesse e meno suscettibili di errore di valutazione (quali sono invece quelle relative alla personalità e capacità di controllo degli impulsi del richiedente il porto d’armi).
Alla luce delle considerazioni soprasvolte va infine disatteso il terzo ed ultimo motivo di ricorso – di cui si anticipa l’esame - con cui si lamenta il difetto di motivazione dell’atto impugnato: a parte l’ovvio rilievo che l’art. 3 della legge 241/90 non trova applicazione nel caso di esame in cui viene impugnato un atto generale, è evidente, da quanto sopra indicato, che la riserva alle strutture pubbliche del potere certificatorio in questione risponde a ragioni sostanziali di tutta evidenza.
Si passa pertanto ad esaminare l’ulteriore questione, dedotta con il secondo ed articolato motivo di ricorso in cui si sostiene che illegittimamente la CM del 2014 impugnata fa rivivere il DM 1998 sulla sola base dell’intervenuta perenzione del ricorso n. 1704/1999 senza tener conto dei persistenti effetti dell’ordinanza sospensiva resa sul ricorso– n. 11501/1999 (“gemello” di quello dichiarato perento) dal TAR Veneto, Sez. II, n. 1219/1998 –che parimenti sospende l’esecuzione del DM 1998.
La prospettazione attorea non merita condivisione. Questa infatti dà per scontato che l’ordinanza sospensiva di un regolamento o di atti amministrativi generali “indivisibili” avrebbe efficacia erga omnes, al pari della sentenza che lo annulli. La soluzione propugnata tuttavia non è affatto pacifica. Si tratta di una questione molto complessa, che scaturisce dalla mancata previsione, nel nostro ordinamento, di un apposito ricorso contro gli atti amministrativi generali ed i regolamenti – e che pone problemi delicati investendo, più alla radice, il problema dell’oggetto del processo e la scelta fondamentale tra un modello di giurisdizione di diritto oggettiva oppure soggettivo - che non ha ancora trovato una soluzione, nonostante le diverse proposte di riforma del processo amministrativo (quali il ddl del 12 ottobre 1989), nemmeno nel codice del processo amministrativo di recente approvato.
Anche se la giurisprudenza concorda sulle “ragioni” che giustificano l'efficacia erga omnes del giudicato di annullamento degli atti amministrativi generali o normativi – rimarcando che “un atto sostanzialmente e strutturalmente unitario non può esistere per taluni e non esistere per altri” - tuttavia non è pacifico in cosa consista tale carattere di “indivisibilità” dell’atto impugnato (talvolta ravvisato nel contenuto o negli effetti dell'atto oppure ricondotto al vizio che ne abbia determinato l’annullamento ovvero alla posizione giuridica del soggetto coinvolto nel “rapporto amministrativo” in contestazione piuttosto che all'esercizio del potere che ha trovato espressione nell’atto impugnato).
La complessità di tale problematica, ovviamente, si riflette anche sulla (diversa) questione dell’individuazione dell’ambito soggettivo della pronuncia cautelare: qui la tematica viene ad essere ulteriormente complicata dalle diatribe sull’oggetto del giudizio cautelare e dall’esigenza di “compatibilizzare” la soluzione “tradizionale” dell’annullamento con effetto erga omnes soprarichiamata con il carattere interinale, la funzione strumentale e l’esigenza di assicurare l’effettività della tutela anche mediante misure “anticipatorie” degli effetti della sentenza di merito (e talvolta addirittura anticipatorie “di ciò che può essere assicurato solo in sede di ottemperanza” come nel caso della sospensione di certi tipi di atti di diniego)
Così la giurisprudenza riconosce che “sui limiti soggettivi dei provvedimenti cautelari si registrano orientamenti contrastanti” (TAR Sicilia Palermo, Sez. III, n. 2274/2010) ed ammette che si tratta di un tema “innegabilmente complesso e controvertibile, in quanto (…) un conto è il giudicato di annullamento di un provvedimento generale, che, in ragione della sua portata caducatoria, eliminando dal mondo giuridico l’atto impugnato, ha naturalmente effetto erga omnes, altro conto è la sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato, la quale non può che avere contenutisticamente effetto inter partes” (TAR Puglia, Bari, Sez. I n. 24/2001).
Tanto precisato, una parte della giurisprudenza afferma l’efficacia generale dell’ordinanza sospensiva in base al principio di effettività della tutela e di strumentalità della tutela cautelare (vedi, TAR Puglia, Bari, Sez. I n. 24/2001: “ravvisandosi la strumentalità essenzialmente nel mantenere una situazione di fatto integra, sì che la decisione di merito possa risultare concretamente efficace, derivandosi da ciò l’affermazione che nel caso di atti generali anche l’ordinanza di sospensione, per simmetria, ha efficacia generale, estesa dunque a coloro che non siano parti del giudizio) che opera in funzione anticipatoria degli effetti della sentenza per prevenire il danno che il ricorrente subirebbe dal ritardo nella decisione del ricorso (TAR Campania, Napoli, Sez. I, n. 6586/2007; TAR Sicilia Palermo, Sez. III, n. 2274/2010: considerata “la sua funzione potenzialmente anticipatoria degli effetti della decisione sul merito, l'ordinanza cautelare (…) pur essendo provvisoria e temporanea, allo stato priva di efficacia ex tunc l'atto impugnato con conseguenze corrispondenti a quelle proprie delle pronunce d'annullamento; perciò, ogni qual volta gli effetti demolitori della sentenza di annullamento sono destinati a prodursi erga omnes per la natura dell'atto caducato, anche la sospensione, in via cautelare, dei suoi effetti opera non limitatamente alle parti del giudizio, ma nei confronti della generalità dei consociati”).
Si pone in tal modo un parallelismo tra l’efficacia dell’ordinanza sospensiva di un regolamento o di un atto generale e gli effetti erga omnes della sentenza di annullamento sulla base della considerazione che “del suddetto regime non possono non essere partecipi anche i provvedimenti di sospensione che, impedendo temporaneamente, e con efficacia "ex nunc", la possibilità di portare l' atto ad ulteriore esecuzione, hanno natura strumentale ed esplicano una funzione cautelativa del tutto provvisoria, in quanto volti ad evitare che la futura pronuncia del giudice possa restare pregiudicata nel tempo necessario per ottenerla (Tar Calabria, Catanzaro 1388/2004) . Viene pertanto riconosciuta efficacia erga omnes all’ordinanza di sospensione di una prescrizione regolamentare sulla distanza minima dalle abitazioni degli impianti di telefonia mobile ribadendo che “l'annullamento di un atto amministrativo a contenuto normativo ha efficacia "erga omnes", per la sua ontologica indivisibilità. Non estendere il principio suindicato alle ordinanze cautelari comporterebbe una incomprensibile aporia (…)” (Cons. St., sez. VI, 06/09/2010 n. 6473).
Si tratta di un orientamento dichiaratamente ispirato – in un’impostazione di giurisdizione di diritto oggettivo - all’esigenza di evitare che gli atti viziati possano seguitare a produrre effetti “ad ampio raggio” (TAR Abruzzo, Pescara, n. 855 /05 che evidenzia che, altrimenti, l’Amministrazione “continuerebbe ad applicare delle norme o degli atti generali indivisibili, già dichiarati illegittimi, con evidente violazione di ogni regola di buona amministrazione”). In quest’ultima prospettiva è stato perciò affermato che “il tema dell'efficacia della pronuncia cautelare su atti a contenuto generale, di certo complesso, poiché la pronuncia è per sua funzione limitata alle parti del giudizio, per la connessione con il periculum in mora dedotto dal ricorrente; sicchè pur ribadendo l’efficacia inter partes della sospensiva, in quanto misura concessa in base al danno (personale) paventato dall’interessato, si ritiene che essa possa avere effetto generale ove essa sia “resa a motivo della lesione di un interesse collettivo” (Cons. stato, Sez. VI, n. 4074/2009). Tale soluzione risponde anche ad esigenza di certezza giuridica “atteso che la natura unitaria del regolamento impedisce che esso trovi applicazione, nonostante esso sia dichiarato illegittimo ovvero sospeso cautelarmente, in relazione solo ad alcuni destinatari dell'atto che non hanno preso parte al procedimento” (TAR Calabria, Reggio Calabria, sez. I, n. 161/2016).
A tale corrente si oppone, però, una diversa giurisprudenza che rileva che “un conto è l’efficacia generale dell’atto impugnato ed altro è l’efficacia generale della misura cautelare che quello sospenda” e pertanto esclude che si possa, in via generale, attribuire una “efficacia generalizzata” all’ordinanza sospensiva di un atto generale data la “inerenza alla situazione specifica del ricorrente e segnatamente al periculum da questi denunciato” della misura cautelare .
In tale prospettiva viene esclusa la possibilità di operare un automatico parallelismo tra gli effetti della sentenza e quelli della pronuncia cautelare e si sottolinea che: “se è vero che l’efficacia erga omnes caratterizza il giudizio di annullamento del provvedimento amministrativo, non potendo logicamente l’atto annullato non esistere per alcuni soggetti ed esistere per altri, è anche vero che non sussistono ostacoli logici e giuridici a concepire la ‘sospensione dell’esecuzione’…di un atto (sia pure a contenuto generale) come naturaliter limitata tra le parti in causa ed a beneficio soltanto di alcuni soggetti e cioè di quelli che l’abbiano richiesta, e che tale è la (limitata) funzione che si deve riconoscere in linea di principio alle ordinanze sospensive” (TAR Calabria, sent. n. 340 del 22.7.1987).
In un’ottica funzionale si obietta che la validità ultra partes dell’ordinanza sospensiva di un atto normativo o generale non si giustifica con la funzione della pronuncia cautelare dato che la misura cautelare non risponde all’esigenza di adeguare l’ordinamento ad una certezza legale e di restaurare la legalità violata dal regolamento illegittimo (funzione che semmai deve essere assicurata dal giudicato), bensì di assicurare che, nelle more della conclusione del giudizio, non si producano gli effetti (giuridici o materiali) di un atto che non potrebbero essere riparati da una decisione di merito intempestiva.
E proprio sulla base della valorizzazione dell’interesse “sostanziale” del ricorrente, la questione della determinazione del contenuto e dell’ambito oggettivo e soggettivo della pronuncia cautelare è stata affrontata in modo pragmatico ricorrendo alla “modulazione” della tutela cautelare, secondo la “logica dell’azione finalizzata”, dando luogo ad una svariata tipologia di ordinanze “atipiche”, di accoglimenti ad tempus, con riserva, parziali, etc.,
L’ambito soggettivo dell’ordinanza sospensiva di un atto generale o normativo è stato pertanto individuato tenendo conto delle specifiche circostanze del caso, in corrispondenza alla situazione contingente di pericolo da fronteggiare ed alla concreta esigenza di protezione della posizione giuridica del ricorrente, modulando l’efficacia della pronuncia, accogliendo l’istanza cautelare nella misura che a tal fine risultava necessaria, senza necessariamente anticipare tutti gli effetti della (futura ed eventuale) sentenza di annullamento, ma solo (e comunque tutti) quelli che risultassero necessari per prevenire il danno incombente e comunque, come espressamente precisato con svariate formule, solo “nei limiti dell’interesse del ricorrente” (per chiarire che essa non giova a soggetti terzi, esplicando i propri effetti in ambito circoscritto al solo giudizio nel quale sono emesse e non anche rispetto a giudizi differenti (cfr. Cons. Stato, VI, n. 49/1982; TAR Lazio, I, n. 1168/1985; Cons. Stato, V, n. 548/1986 ord. TAR Lombardia, Milano, n. 326/1987; nonché TAR Campania, Salerno, n. 3/2009 che rigetta la pretesa del ricorrente di avvalersi della sospensiva concessa in altro giudizio osservando che “la cautela giurisdizionale accordata in altro giudizio, anche se riguardante un atto generale, non può assumere rilevanza al di fuori del giudizio in cui è accordata, tenuto conto del suo carattere provvisorio e della sua portata limitata al profilo d’interesse (di tipo cautelare) riconoscibile al ricorrente che l’ha chiesta”). E ciò è stato affermato anche qualora si tratti di atti con valenza generale e indivisibile ed persino qualora il vizio comporterebbe l’annullamento dell’atto impugnato in sede di merito (TAR Lazio, sez. I, n. 1188/1985).
A quest’ultimo riguardo va osservato peraltro che l'orientamento giurisprudenziale secondo cui “nel processo amministrativo, quale processo di parti, la latitudine dell'annullamento giurisdizionale risulta strettamente circoscritta dall'ampiezza dell'interesse di cui si invoca la tutela, a meno che i vizi denunciati e riconosciuti dal giudice non investano aspetti indivisibili del provvedimento impugnato” (Cons. St., Sez. IV, n. 450/1993) può risultare di difficile applicazione nel caso in cui l’ordinanza sospensiva risulti priva di motivazione. Nel caso – come quello in esame- in cui sono imperscrutabili le ragioni che hanno indotto il giudice cautelare a ritenere sussistente il fumus boni iuris e non si riesce ad individuare quali dei vizi dedotti dal ricorrente siano stati ritenuti sussistenti dal giudicante, non risulta possibile stabilire se la portata della pronuncia debba essere circoscritta al ricorrente oppure possa essere estesa a terzi sulla base del criterio della “indivisibilità del vizio”.
In conclusione l’orientamento “restrittivo” soprarichiamato, ad avviso del Collegio, merita ancor oggi piena condivisione in quanto tiene adeguatamente conto del proprium del processo cautelare e della natura e della funzione dell’ordinanza sospensiva – in particolare della sua “inerenza alla situazione specifica del ricorrente e segnatamente al periculum da questi denunciato” per cui tale pronuncia costituisce misura cautelare concessa “ad personam” (a parità di circostanze oggettive di fatto, il danno può prospettarsi in grado di gravità diverso a seconda delle specifiche condizioni soggettive) – e della conseguente esigenza di “modulare” l’intensità della tutela cautelare (e di conseguenza del contenuto e degli effetti dell’ordinanza sospensiva) e di proporzionare la determinazione dell’ambito soggettivo ed oggettivo di efficacia della relativa pronuncia “a seconda delle specifiche circostanze del caso sottoposto all’attenzione del giudice” in modo da pervenire ad un “equo contemperamento” dei diversi interessi in gioco che rischiano di essere pregiudicati nelle more della definizione del giudizio. Ed in tal modo si evita anche il drammatico scollamento che altrimenti si determinerebbe tra l’ambito soggettivo di coloro che sono necessariamente chiamati in giudizio (dato che nel ricorso contro regolamenti e atti generali non sono configurabili contro interessati) e coloro che sono destinatari delle conseguenze di una pronuncia resa in un processo al quale non sono stati messi in grado di partecipare.
Tale soluzione, peraltro, si pone in linea con le recenti evoluzioni di un’autorevole corrente giurisprudenziale che, nella prospettiva “sostanzialistica” sopraindicata, ha ammesso una modulazione della tutela - addirittura prospettando la possibilità di soprassedere all’annullamento dell’atto illegittimo in considerazione del danno sociale che ne deriverebbe da un eventuale annullamento (Cons. Stato, Sez. V ord. 284/2015) – limitandosi a disporre il solo effetto conformativo ove esigenze di effettività della tutela giurisdizionale lo impongano (come nel caso di materia ambientale in cui il determinarsi di un vuoto di tutela potrebbe risultare ancor più pregiudizievole, per gli interessi presidiati, di un provvedimento illegittimo, vedi Cons. Stato, Sez. VI, n. 2755/2011) e ad ammettere la possibilità di una “flessibilità degli effetti della sentenza di annullamento” (cfr. AP 4/2015 determinando “in relazione ai motivi sollevati e riscontrati e all'interesse del ricorrente “la portata dell'annullamento, con formule ben note alla prassi giurisprudenziale, come l'annullamento parziale, nella parte in cui prevede o non prevede, oppure nei limiti di interesse del ricorrente e così via) oltre che con il crescente affermarsi, nei giudizi contro i regolamenti, dell’orientamento volto a preferire la disapplicazione all’annullamento degli stessi (vedi da ultimo Cons. St., sez. IV ord. n. 3791/2015 con cui è stata sospesa dal giudice d’appello la sentenza gravata, nella parte in cui annullava, anziché limitarsi a meramente disapplicarlo, il regolamento che prescriveva limiti di altezza minima per gli aspiranti militari)
Il crescente favor giurisprudenziale per la disapplicazione in luogo dell’annullamento, in sede di decisione di merito, costituisce un’ulteriore conferma della necessità di escludere l’automatica validità erga omnes dell’ordinanza sospensiva di atti normativi anche al fine di evitare che il giudice cautelare possa interferire nell’esercizio del potere regolamentare mediante decisioni assunte in Camera di Consiglio, in base a sommaria cognitio, senza una visione completa dell’intera problematica che si intende “regolare” e senza alcuna legittimazione democratica per sostituirsi alla PA nell’assetto degli interessi in gioco che solo a questa spetta stabilire. E sotto tale profilo, è stata da tempo evidenziata la natura “latu sensu politica” dei regolamenti e degli atti generali.
Quest’ultima considerazione ben si attaglia al caso in esame, in cui il DM impugnato non contiene solo “norme tecniche”, ma costituisce l’espressione di precise scelte in merito all’ordine ed al valore dei vari interessi in gioco. I soggetti che vengono interessati dalla sospensione dell’atto impugnato, infatti, non sono solo i medici militari ai quali viene precluso lo svolgimento in regime libero professionale della redditizia attività certificativa del possesso dei requisiti necessari per ottenere il porto d’armi (che quindi fanno valere un interesse di tipo economico-corporativo), ma anche i cittadini che sono “contro interessati” ad evitare che vadano in circolazione soggetti armati di cui non sia stata accertata adeguatamente (mediante strutture pubbliche indipendenti e non soggette a pressioni) la capacità psico-fisica necessaria ad escludere incidenti. In questo quadro la soluzione dell’efficacia erga omnes della sospensiva resa dal giudice territoriale veneto (incompetente) in un giudizio promosso tra altri soggetti non sarebbe neppure giustificato con il rapporto di necessaria proporzionalità che deve sussistere tra l’esigenza di tutela dell’interesse del ricorrente e l’ambito di operatività della misura ed avrebbe l’effetto di espandere (senza alcuna ragione) la platea dei beneficiari o comunque dei destinatari di una previsione regolamentare alterando (con effetti in larga parte irreversibili) le reciproche posizioni di vantaggio/svantaggio.
Alla luce delle considerazioni soprasvolte il ricorso risulta infondato e va respinto.
Sussistono tuttavia giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) respinge il ricorso in esame.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 8 gennaio 2016, 16 marzo 2016, con l'intervento dei magistrati:
Salvatore Mezzacapo, Presidente FF
Nicola D'Angelo, Consigliere
Floriana Rizzetto, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 12/05/2016
Re: Detenzione armi e certificazione medica
Allora, quale altro accertamento non possono fare i nostri Medici militari in servizio alle infermerie nei nostri confronti se non hanno una certa abilitazione specifica?
Re: Detenzione armi e certificazione medica
Gli ufficiali medici hanno perso l'appello presso il CdS.
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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201705883 - Public 2017-12-13
Pubblicato il 13/12/2017
N. 05883/2017 REG. PROV. COLL.
N. 09123/2016 REG. RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9123 del 2016, proposto dal dottor Antonio Celentano, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco De Leonardis, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Cola di Rienzo n. 212;
contro
il Ministero della Salute, il Ministero dell'Interno e il Ministero della Difesa, in persona dei rispettivi Ministri in carica, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
l’Ispettorato Generale della Sanità Militare, in persona del Dirigente p.t., non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I BIS n. 05653/2016, resa tra le parti, concernente la mancata autorizzazione a svolgere attività di medico libero professionista per il rilascio di certificazioni di idoneità al porto d’armi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Salute, del Ministero dell'Interno e del Ministero della Difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 dicembre 2017 il Consigliere. Carlo Schilardi e uditi per le parti l’avvocato De Leonardis e l’avocato dello Stato Caselli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il dott. Antonio Celentano, ufficiale medico dell'Arma dei Carabinieri con il grado di Tenente Colonnello, impugnava innanzi al T.A.R. per Lazio il provvedimento dell’Ispettore Generale della Sanità Militare del 5.9.2014 prot. n. M-D SIGSM 0009563 id. IGESAN/PS-14/X con cui, sulla base del parere dell’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore Difesa, veniva comunicato ai medici militari in servizio di non poter svolgere attività libero professionale "certificativa" in relazione a certificazione di idoneità alla licenza di porto d'armi e la non autorizzabilità della medesima attività da parte dell'A.D. e/o dei singoli diretti Comandi.
Il dott. Celentano contestava, in particolare, il divieto imposto dal Decreto del Ministro della Sanità del 28 aprile 1998, che aveva modificato la precedente disciplina recata dal D.M. del 14 settembre 1994, nella parte in cui all'art. 3 era stato stabilito che l'accertamento dell'idoneità psicofisica per il rilascio della licenza di porto d'armi era riservato ai competenti uffici medico-legali o distretti sanitari delle ASL o della Polizia di Stato, escludendo, quindi, che i singoli medici militari potessero svolgere tali funzioni nell'ambito della loro attività professionale.
1.2. Il T.A.R. Lazio con sentenza n. 5653 del 12 maggio 2016 ha rigettato il ricorso.
Avverso la sentenza il dott. Antonio Celentano ha proposto appello.
Si è costituito in giudizio il Ministero della Difesa che ha chiesto di rigettare l'appello.
1.3. All'udienza pubblica del 5 dicembre 2017 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
2. Con un primo motivo di censura l'appellante lamenta la violazione degli artt. 3 e 4 del D.M. del 28 aprile 1998 del Ministero della Sanità.
L'appellante sostiene che il T.A.R. ha errato nel ritenere che il decreto del Ministro della Sanità del 1998 attribuiva il potere certificatorio, finalizzato all'accertamento dei requisiti psico-fisici per l'idoneità al porto d'armi, solo a strutture della sanità pubblica civile e militare, considerata la necessità di assoggettare i richiedenti a controlli più "efficaci e penetranti".
2.2. L'appellante assume che non vi sarebbe alcuna differenza tra il regime previsto dal D.M. del 1998 e quello previsto dal precedente del 1994, atteso che la visita svolta nell'ambito di strutture pubbliche veniva sempre effettuata da un solo medico (art. 3) e l'unica ipotesi in cui sarebbe stato previsto l'intervento di un collegio medico (art. 4) riguarda il caso in cui l'interessato abbia riportato un giudizio negativo da parte del medico certificatore e chieda il riesame della propria istanza.
2.3. Con un secondo motivo di ricorso, l'appellante contesta la sentenza del T.A.R. laddove il Tribunale ha ritenuto che la disciplina prevista nel decreto ministeriale del 1998 non fosse lesiva del "prestigio professionale o degli interessi economici" dei medici militari, in quanto giustificata dalla necessità di salvaguardare interessi di sicurezza pubblica da considerare prevalenti rispetto all’interesse meramente economico degli stessi a svolgere attività libero-professionale di rilascio a pagamento dei relativi certificati.
2.4. Sotto altro profilo l'appellante evidenzia che il regime così come delineato comporterebbe una disparità di trattamento tra i medici militari ed i medici delle ASL ai quali è consentita l'attività certificativa in regime di intra moenia, attività che di per sé ha natura libero professionale, seppure esercitata all'interno di strutture sanitarie pubbliche.
3. Preliminarmente il Collegio osserva, come già rilevato dal TAR, che il gravame risulta proposto avverso la nota dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. 9563 del 5.9.2014 "che è meramente riproduttiva del divieto già sancito dal decreto ministeriale del 28.4.1998 - che però non risulta formalmente impugnato" malgrado l'appellante insista nel sostenere di aver provveduto a ciò impugnando gli atti presupposti alla nota stessa.
Si può prescindere, tuttavia, da riflessioni al riguardo, atteso che l'appello è infondato nel merito e va respinto.
3.2. L'art. 3 del decreto, di cui si controverte prevede, infatti, che "L'accertamento dei requisiti psicofisici è effettuato dagli uffici medico-legali o dai distretti sanitari dell'unità sanitarie locali o dalle strutture sanitarie militari e della Polizia di Stato" e nella sentenza appellata il T.A.R. ha ritenuto non illegittime, né prive di giustificazione logica le previsioni dell'art. 3 del D.M. del 28.4.1998 che, per il rilascio ed il rinnovo del porto d'armi ha modificato il D.M. del 14.9.1994 che consentivano l'attività certificatoria circa il possesso dei requisiti psicofisici necessari, anche al singolo medico militare, reintroducendo la precedente previsione del D.M. del 4.12.1991 che già riservava detto compito alle strutture della sanità pubblica civile e militare.
3.3. Orbene, il ricorso è stato respinto dal primo giudice nel presupposto che la sottrazione del potere certificatorio in capo al singolo medico militare e la restituzione al regime pubblicistico dei relativi controlli “è insita nel grave rischio per la sicurezza pubblica di affidare ad un singolo sanitario operante come libero professionista nel libero mercato la delicata e complessa valutazione dell’idoneità del soggetto che richiede di girare armato (…) e della necessità di disporre di una struttura in cui assoggettare i richiedenti a controlli più efficaci e penetranti – che investono non solo la sfera psichica, ma anche tutta una serie di requisiti fisici (uditivi, visivi, motori, etc.) per scongiurare il rischio di incidenti ed abusi nell’uso delle armi."
3.4. Con il decreto in questione, invero, non si è inteso esentare i medici militari dalla attività certificatoria in materia ma, piuttosto si è stabilito che essa debba essere disimpegnata in strutture sanitarie pubbliche, con tutte le garanzie dalle stesse offerte in termini qualitativi, potendo il medico certificatore disporre di collaborazione delle altre professionalità sanitarie presenti.
Sulla base di tali presupposti va inquadrata la determinazione dello Stato di far effettuare gli accertamenti sanitari, non in studi privati, ma in luoghi che consentono di "assoggettare i richiedenti a controlli più efficaci e penetranti - che investono non solo la sfera psichica, ma anche tutta una serie di requisiti fisici (uditivi, visivi, motori, etc.)."
Come evidenziato dalla giurisprudenza, la sussistenza di una totale ed incondizionata idoneità fisica e psichica è condizione indispensabile per il rilascio del titolo abilitativo in parola, essendo necessario ai fini della tutela della pubblica incolumità, che le armi siano maneggiate da soggetti che ne possano garantire l'uso corretto senza pericoli per la collettività.
3.5. Apodittica è l'affermazione dell'appellante che non vi sia differenza tra la visita effettuata dal medico all'interno delle strutture pubbliche e quella effettuata privatamente dal libero professionista sia esso civile o militare e che sia irrilevante il titolo in base al quale i medici delle ASL svolgono l'attività certificatoria in parola, rileva il fatto che essi sono tenuti ad operare all'interno di una struttura pubblica.
Dal punto di vista letterale, infatti, il riferimento ad "uffici medico - legali" esclude che possano essere presi in considerazione gli ambulatori privati, essendo tali solo gli "uffici" pubblici, come è reso manifesto dalle strutture abilitate, tutte inserite nell'ambito degli apparati di una pubblica amministrazione.
E tale previsione risulta in linea con la ratio e con l'impianto sistematico della disciplina in esame che, "per ovvie ragioni legate alla delicatezza della funzione esercitata, è intrisa di cadenze procedimentali pubblicistiche che vanno, appunto, dal luogo pubblico in cui viene effettuato l'accertamento del requisito, alla veste che deve conseguentemente avere il medico certificatore, dalla necessità di avvalersi di strutture sanitarie pubbliche per effettuare gli accertamenti medici necessari alle comunicazioni degli esiti alle autorità di pubblica sicurezza, sino al giudizio finale che, avverso l'eventuale attestato negativo, è demandato a un collegio medico costituito presso l'U.S.L. competente, di norma a livello provinciale, composto da almeno tre medici, pubblici dipendenti, con individuate specializzazioni". (cfr. Cassazione Civile, sez. lav. 30 maggio 2016 n. 11130).
3.6. Nessuna discriminazione è recata dal D.M. del 28.4.1998 tra sanitari chiamati a svolgere le medesime funzioni, siano essi militari o civili, così da potersi configurare un difetto di legittimità dell'atto per eccesso di potere, per disparità di trattamento o ingiustizia manifesta, atteso che tali figure sintomatiche ricorrono solo quando, in situazioni identiche o analoghe, l'Amministrazione abbia applicato trattamenti diversi.
La disparità di trattamento è, infatti, sinonimo di eccesso di potere solo quando vi sia una assoluta identità di situazioni oggettive, che valga a testimoniare dell'irrazionalità delle diverse conseguenze tratte dall'Amministrazione.
Come evidenziato dallo stesso appellante, il medico, in sede di visita, può ritenere necessario prescrivere ulteriori accertamenti, da effettuare sempre presso strutture pubbliche e non è dubbio che sia corretto che essi siano disimpegnati nel medesimo contesto.
L'appellante sostiene che per la visita necessaria al rilascio della certificazione non sarebbe previsto l'utilizzo di alcuna strumentazione particolare e che il singolo medico, ove occorra, potrebbe dotarsi dei necessari strumenti anche nel proprio ambulatorio privato, ma con ciò finisce per riconoscere l'utilità di procedere a detto incombente in una struttura attrezzata, non mancando i casi che necessitano di approfondimenti multidisciplinari.
3.7. Quanto al bilanciamento degli interessi collegati alla funzione certificativa in questione, il TAR si è, poi, correttamente limitato ad osservare che quello alla sicurezza pubblica assume rango primario e prevalente, rispetto a quello dei liberi professionisti a svolgere tale attività.
4. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in misura di complessivi Euro 2.000,00 da ripartirsi in parti uguali in favore delle Amministrazione appellate e costituite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in misura di complessivi Euro 2000,00 da ripartirsi in parti uguali in favore delle Amministrazioni appellate e costituite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 dicembre 2017 con l'intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Carlo Schilardi, Consigliere, Estensore
Giuseppe Castiglia, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Carlo Schilardi Antonino Anastasi
IL SEGRETARIO
-------------------------------------
2^ sentenza in parte.
SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201705884 - Public 2017-12-13
Pubblicato il 13/12/2017
N. 05884/2017 REG. PROV. COLL.
N. 09127/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9127 del 2016, proposto dal dottor Domenico Morabito, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco De Leonardis, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Cola di Rienzo n. 212;
contro
il Ministero della Salute, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale Dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
il Ministero della Difesa e il Ministero dell’interno, in persona dei rispettivi Ministri in carica, non costituiti;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I BIS n. 05654/2016, resa tra le parti, concernente la mancata autorizzazione all'attività di medico libero professionista per il rilascio di certificazioni di idoneità al porto d’armi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Salute;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 dicembre 2017 il Consigliere Carlo Schilardi e uditi per le parti l’avvocato De Leonardis e l’avvocato dello Stato Caselli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso al T.A.R. per il Veneto notificato il 13 agosto 1998, il dott. Domenico Morabito, ufficiale medico dell'Aeronautica Militare con il grado di Tenente Colonnello, impugnava il Decreto del Ministro della Sanità del 28 aprile 1998 nella parte in cui era stato stabilito che l'accertamento dell'idoneità psicofisica per il rilascio della licenza di porto d'armi era riservato ai competenti uffici medico-legali o distretti sanitari delle ASL o della Polizia di Stato, escludendo, quindi, che i singoli medici militari potessero svolgere tali funzioni nell'ambito della loro attività professionale.
OMISSIS,
stessa conclusione del CdS.
----------------------------------------------------------------------------
SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201705883 - Public 2017-12-13
Pubblicato il 13/12/2017
N. 05883/2017 REG. PROV. COLL.
N. 09123/2016 REG. RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9123 del 2016, proposto dal dottor Antonio Celentano, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco De Leonardis, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Cola di Rienzo n. 212;
contro
il Ministero della Salute, il Ministero dell'Interno e il Ministero della Difesa, in persona dei rispettivi Ministri in carica, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
l’Ispettorato Generale della Sanità Militare, in persona del Dirigente p.t., non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I BIS n. 05653/2016, resa tra le parti, concernente la mancata autorizzazione a svolgere attività di medico libero professionista per il rilascio di certificazioni di idoneità al porto d’armi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Salute, del Ministero dell'Interno e del Ministero della Difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 dicembre 2017 il Consigliere. Carlo Schilardi e uditi per le parti l’avvocato De Leonardis e l’avocato dello Stato Caselli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Il dott. Antonio Celentano, ufficiale medico dell'Arma dei Carabinieri con il grado di Tenente Colonnello, impugnava innanzi al T.A.R. per Lazio il provvedimento dell’Ispettore Generale della Sanità Militare del 5.9.2014 prot. n. M-D SIGSM 0009563 id. IGESAN/PS-14/X con cui, sulla base del parere dell’Ufficio Generale Affari Giuridici dello Stato Maggiore Difesa, veniva comunicato ai medici militari in servizio di non poter svolgere attività libero professionale "certificativa" in relazione a certificazione di idoneità alla licenza di porto d'armi e la non autorizzabilità della medesima attività da parte dell'A.D. e/o dei singoli diretti Comandi.
Il dott. Celentano contestava, in particolare, il divieto imposto dal Decreto del Ministro della Sanità del 28 aprile 1998, che aveva modificato la precedente disciplina recata dal D.M. del 14 settembre 1994, nella parte in cui all'art. 3 era stato stabilito che l'accertamento dell'idoneità psicofisica per il rilascio della licenza di porto d'armi era riservato ai competenti uffici medico-legali o distretti sanitari delle ASL o della Polizia di Stato, escludendo, quindi, che i singoli medici militari potessero svolgere tali funzioni nell'ambito della loro attività professionale.
1.2. Il T.A.R. Lazio con sentenza n. 5653 del 12 maggio 2016 ha rigettato il ricorso.
Avverso la sentenza il dott. Antonio Celentano ha proposto appello.
Si è costituito in giudizio il Ministero della Difesa che ha chiesto di rigettare l'appello.
1.3. All'udienza pubblica del 5 dicembre 2017 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
2. Con un primo motivo di censura l'appellante lamenta la violazione degli artt. 3 e 4 del D.M. del 28 aprile 1998 del Ministero della Sanità.
L'appellante sostiene che il T.A.R. ha errato nel ritenere che il decreto del Ministro della Sanità del 1998 attribuiva il potere certificatorio, finalizzato all'accertamento dei requisiti psico-fisici per l'idoneità al porto d'armi, solo a strutture della sanità pubblica civile e militare, considerata la necessità di assoggettare i richiedenti a controlli più "efficaci e penetranti".
2.2. L'appellante assume che non vi sarebbe alcuna differenza tra il regime previsto dal D.M. del 1998 e quello previsto dal precedente del 1994, atteso che la visita svolta nell'ambito di strutture pubbliche veniva sempre effettuata da un solo medico (art. 3) e l'unica ipotesi in cui sarebbe stato previsto l'intervento di un collegio medico (art. 4) riguarda il caso in cui l'interessato abbia riportato un giudizio negativo da parte del medico certificatore e chieda il riesame della propria istanza.
2.3. Con un secondo motivo di ricorso, l'appellante contesta la sentenza del T.A.R. laddove il Tribunale ha ritenuto che la disciplina prevista nel decreto ministeriale del 1998 non fosse lesiva del "prestigio professionale o degli interessi economici" dei medici militari, in quanto giustificata dalla necessità di salvaguardare interessi di sicurezza pubblica da considerare prevalenti rispetto all’interesse meramente economico degli stessi a svolgere attività libero-professionale di rilascio a pagamento dei relativi certificati.
2.4. Sotto altro profilo l'appellante evidenzia che il regime così come delineato comporterebbe una disparità di trattamento tra i medici militari ed i medici delle ASL ai quali è consentita l'attività certificativa in regime di intra moenia, attività che di per sé ha natura libero professionale, seppure esercitata all'interno di strutture sanitarie pubbliche.
3. Preliminarmente il Collegio osserva, come già rilevato dal TAR, che il gravame risulta proposto avverso la nota dell’Ispettore Generale della Sanità Militare prot. n. 9563 del 5.9.2014 "che è meramente riproduttiva del divieto già sancito dal decreto ministeriale del 28.4.1998 - che però non risulta formalmente impugnato" malgrado l'appellante insista nel sostenere di aver provveduto a ciò impugnando gli atti presupposti alla nota stessa.
Si può prescindere, tuttavia, da riflessioni al riguardo, atteso che l'appello è infondato nel merito e va respinto.
3.2. L'art. 3 del decreto, di cui si controverte prevede, infatti, che "L'accertamento dei requisiti psicofisici è effettuato dagli uffici medico-legali o dai distretti sanitari dell'unità sanitarie locali o dalle strutture sanitarie militari e della Polizia di Stato" e nella sentenza appellata il T.A.R. ha ritenuto non illegittime, né prive di giustificazione logica le previsioni dell'art. 3 del D.M. del 28.4.1998 che, per il rilascio ed il rinnovo del porto d'armi ha modificato il D.M. del 14.9.1994 che consentivano l'attività certificatoria circa il possesso dei requisiti psicofisici necessari, anche al singolo medico militare, reintroducendo la precedente previsione del D.M. del 4.12.1991 che già riservava detto compito alle strutture della sanità pubblica civile e militare.
3.3. Orbene, il ricorso è stato respinto dal primo giudice nel presupposto che la sottrazione del potere certificatorio in capo al singolo medico militare e la restituzione al regime pubblicistico dei relativi controlli “è insita nel grave rischio per la sicurezza pubblica di affidare ad un singolo sanitario operante come libero professionista nel libero mercato la delicata e complessa valutazione dell’idoneità del soggetto che richiede di girare armato (…) e della necessità di disporre di una struttura in cui assoggettare i richiedenti a controlli più efficaci e penetranti – che investono non solo la sfera psichica, ma anche tutta una serie di requisiti fisici (uditivi, visivi, motori, etc.) per scongiurare il rischio di incidenti ed abusi nell’uso delle armi."
3.4. Con il decreto in questione, invero, non si è inteso esentare i medici militari dalla attività certificatoria in materia ma, piuttosto si è stabilito che essa debba essere disimpegnata in strutture sanitarie pubbliche, con tutte le garanzie dalle stesse offerte in termini qualitativi, potendo il medico certificatore disporre di collaborazione delle altre professionalità sanitarie presenti.
Sulla base di tali presupposti va inquadrata la determinazione dello Stato di far effettuare gli accertamenti sanitari, non in studi privati, ma in luoghi che consentono di "assoggettare i richiedenti a controlli più efficaci e penetranti - che investono non solo la sfera psichica, ma anche tutta una serie di requisiti fisici (uditivi, visivi, motori, etc.)."
Come evidenziato dalla giurisprudenza, la sussistenza di una totale ed incondizionata idoneità fisica e psichica è condizione indispensabile per il rilascio del titolo abilitativo in parola, essendo necessario ai fini della tutela della pubblica incolumità, che le armi siano maneggiate da soggetti che ne possano garantire l'uso corretto senza pericoli per la collettività.
3.5. Apodittica è l'affermazione dell'appellante che non vi sia differenza tra la visita effettuata dal medico all'interno delle strutture pubbliche e quella effettuata privatamente dal libero professionista sia esso civile o militare e che sia irrilevante il titolo in base al quale i medici delle ASL svolgono l'attività certificatoria in parola, rileva il fatto che essi sono tenuti ad operare all'interno di una struttura pubblica.
Dal punto di vista letterale, infatti, il riferimento ad "uffici medico - legali" esclude che possano essere presi in considerazione gli ambulatori privati, essendo tali solo gli "uffici" pubblici, come è reso manifesto dalle strutture abilitate, tutte inserite nell'ambito degli apparati di una pubblica amministrazione.
E tale previsione risulta in linea con la ratio e con l'impianto sistematico della disciplina in esame che, "per ovvie ragioni legate alla delicatezza della funzione esercitata, è intrisa di cadenze procedimentali pubblicistiche che vanno, appunto, dal luogo pubblico in cui viene effettuato l'accertamento del requisito, alla veste che deve conseguentemente avere il medico certificatore, dalla necessità di avvalersi di strutture sanitarie pubbliche per effettuare gli accertamenti medici necessari alle comunicazioni degli esiti alle autorità di pubblica sicurezza, sino al giudizio finale che, avverso l'eventuale attestato negativo, è demandato a un collegio medico costituito presso l'U.S.L. competente, di norma a livello provinciale, composto da almeno tre medici, pubblici dipendenti, con individuate specializzazioni". (cfr. Cassazione Civile, sez. lav. 30 maggio 2016 n. 11130).
3.6. Nessuna discriminazione è recata dal D.M. del 28.4.1998 tra sanitari chiamati a svolgere le medesime funzioni, siano essi militari o civili, così da potersi configurare un difetto di legittimità dell'atto per eccesso di potere, per disparità di trattamento o ingiustizia manifesta, atteso che tali figure sintomatiche ricorrono solo quando, in situazioni identiche o analoghe, l'Amministrazione abbia applicato trattamenti diversi.
La disparità di trattamento è, infatti, sinonimo di eccesso di potere solo quando vi sia una assoluta identità di situazioni oggettive, che valga a testimoniare dell'irrazionalità delle diverse conseguenze tratte dall'Amministrazione.
Come evidenziato dallo stesso appellante, il medico, in sede di visita, può ritenere necessario prescrivere ulteriori accertamenti, da effettuare sempre presso strutture pubbliche e non è dubbio che sia corretto che essi siano disimpegnati nel medesimo contesto.
L'appellante sostiene che per la visita necessaria al rilascio della certificazione non sarebbe previsto l'utilizzo di alcuna strumentazione particolare e che il singolo medico, ove occorra, potrebbe dotarsi dei necessari strumenti anche nel proprio ambulatorio privato, ma con ciò finisce per riconoscere l'utilità di procedere a detto incombente in una struttura attrezzata, non mancando i casi che necessitano di approfondimenti multidisciplinari.
3.7. Quanto al bilanciamento degli interessi collegati alla funzione certificativa in questione, il TAR si è, poi, correttamente limitato ad osservare che quello alla sicurezza pubblica assume rango primario e prevalente, rispetto a quello dei liberi professionisti a svolgere tale attività.
4. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in misura di complessivi Euro 2.000,00 da ripartirsi in parti uguali in favore delle Amministrazione appellate e costituite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la parte soccombente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in misura di complessivi Euro 2000,00 da ripartirsi in parti uguali in favore delle Amministrazioni appellate e costituite.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 dicembre 2017 con l'intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Carlo Schilardi, Consigliere, Estensore
Giuseppe Castiglia, Consigliere
Luca Lamberti, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Carlo Schilardi Antonino Anastasi
IL SEGRETARIO
-------------------------------------
2^ sentenza in parte.
SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201705884 - Public 2017-12-13
Pubblicato il 13/12/2017
N. 05884/2017 REG. PROV. COLL.
N. 09127/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9127 del 2016, proposto dal dottor Domenico Morabito, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco De Leonardis, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Cola di Rienzo n. 212;
contro
il Ministero della Salute, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale Dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
il Ministero della Difesa e il Ministero dell’interno, in persona dei rispettivi Ministri in carica, non costituiti;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE I BIS n. 05654/2016, resa tra le parti, concernente la mancata autorizzazione all'attività di medico libero professionista per il rilascio di certificazioni di idoneità al porto d’armi.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Salute;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 dicembre 2017 il Consigliere Carlo Schilardi e uditi per le parti l’avvocato De Leonardis e l’avvocato dello Stato Caselli;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con ricorso al T.A.R. per il Veneto notificato il 13 agosto 1998, il dott. Domenico Morabito, ufficiale medico dell'Aeronautica Militare con il grado di Tenente Colonnello, impugnava il Decreto del Ministro della Sanità del 28 aprile 1998 nella parte in cui era stato stabilito che l'accertamento dell'idoneità psicofisica per il rilascio della licenza di porto d'armi era riservato ai competenti uffici medico-legali o distretti sanitari delle ASL o della Polizia di Stato, escludendo, quindi, che i singoli medici militari potessero svolgere tali funzioni nell'ambito della loro attività professionale.
OMISSIS,
stessa conclusione del CdS.
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