Perdita del grado

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serpico66
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Perdita del grado

Messaggio da serpico66 »

Salve, qualcuno che a già vissuto una esperienza analoga del forum sa darmi una risposta, a seguito di sentenza penale definitiva, qualche giorno fa mi è stato notificato il decreto del ministero della Difesa della perdita del grado decreto legislativo 15 marzo 2010 nr 66 art 866 comma 3 , con relativo transito all'esercito, la domanda e: l'assegno alimentare continuero' ad averlo oppure no, siccome dovro' dare disponibilità al centro per l'impiego per un lavoro, chiedo con cortese sollecitudine nella risposta. Saluti


avt8
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Re: Perdita del grado

Messaggio da avt8 »

serpico66 ha scritto:Salve, qualcuno che a già vissuto una esperienza analoga del forum sa darmi una risposta, a seguito di sentenza penale definitiva, qualche giorno fa mi è stato notificato il decreto del ministero della Difesa della perdita del grado decreto legislativo 15 marzo 2010 nr 66 art 866 comma 3 , con relativo transito all'esercito, la domanda e: l'assegno alimentare continuero' ad averlo oppure no, siccome dovro' dare disponibilità al centro per l'impiego per un lavoro, chiedo con cortese sollecitudine nella risposta. Saluti
Se sei hai avuto la sanzione di stato della perdita del grado-Per prima cosa, guarda se il procedimento disciplinare, e stato fatto coorettamente- Per eventuale ricorso al T.A.R. contro la perdita del grado-
Non avrai più diritto all'assegno alimentare-
Se hai una patologia rico nosciuta causa di servizio ascritta a categoria della Tab.A -
Fai donanda che hai diritto alla pensione prviilegiata, a prescindire quanti anni di servizio hai-
avt8
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Re: Perdita del grado

Messaggio da avt8 »

serpico66 ha scritto:Salve, qualcuno che a già vissuto una esperienza analoga del forum sa darmi una risposta, a seguito di sentenza penale definitiva, qualche giorno fa mi è stato notificato il decreto del ministero della Difesa della perdita del grado decreto legislativo 15 marzo 2010 nr 66 art 866 comma 3 , con relativo transito all'esercito, la domanda e: l'assegno alimentare continuero' ad averlo oppure no, siccome dovro' dare disponibilità al centro per l'impiego per un lavoro, chiedo con cortese sollecitudine nella risposta. Saluti
Il comma 3 dell'art.866 non esiste- ho idea che ti hanno applicato il comma 2 in quanto hai avuto l'interdizione dai pubblici uffici - E corretto ?
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serpico66
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Re: Perdita del grado

Messaggio da serpico66 »

In tanto volevo ringraziarti della tua cortese risposta:
Si corretto, IPU x 5 anni, hai ragione 866 comma 1 e 867 comma 3, comunque ho una causa di servizio ascritta a tabella 8 cat.A massima riconosciuta la domanda di pensione posso farla subito.

P.S L'iter del procedimento disciplinare è stato corretto sia nei contenuti che nella tempistica maah!!!! che dire piu' fare ricorso mi sa di presa per i fondelli, tutti i ricorsi letti sul forum su cento ne passa 1 e forse, oltre tutto non ho gli euri da dare ha un avvocato, mi trovo al punto di non ritorno per il mio avvocato che non ho potuto onorare il suo dovuto, lui cosa fa non presenta il ricorso al terzo grado di giudizio mi sono visto notificare l'atto definitivo, ho deciso di dedicare un paio d'ore a scrivere alla corte di giustizia dei diritti dell'uomo e vedere cosa accade. Certamente non mi affliggo ho 49 anni a pensare i trascorsi 25 anni nell'arma anzi quasi 30 non ho nessuna voglia di rientrare e iniziare d'accapo. Non so tu se facevi parte della mia stessa barca oppure se, hai vissuto una storia analoga, mi sono bastate le storie vissute. Saluti e ancora grazie
francorx

Re: Perdita del grado

Messaggio da francorx »

desidererei un suo semplice parere riguardo questa dicitura di fianco riportata, trascritta dalla Suprema Corte di Cassazione: """orbene, posti tali parametri valutativi, il percorso argomentativo proprio dell' impugnata ordinanza appare inadeguato e affetto da vizi logici e giuridici che ne minano l intrinseca coerenza. difetta infatti nel richiamato provvedimento la compiuta esposizione di elementi probatori che per la loro consistenza, consentano allo stato di ritenere una qualificata probabilità di colpevolezza dell'indagato per i reati a lui addebitati"" gradito sara ogni parere poiche questo è cio che ha scritto la cassazione sul ricorso fatto al tribunale del riesame che mi imputava la Calunnia aggravata in concorso.
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Re: Perdita del grado

Messaggio da serpico66 »

Ciao da quello che leggo chi ha scritto il ricorso ha dato un interpretazione non esatta per cui chi legge capisce tutt'altra cosa.....
panorama
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Re: Perdita del grado

Messaggio da panorama »

1) - è stata disposta nei confronti del ricorrente la "perdita del grado" ai sensi degli articoli 866, comma 1 e 867, comma 3 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n.66, a decorrere dal 24.9.2010 e, per effetto del quale, lo stesso ricorrente è stato iscritto d'ufficio nel ruolo militari di truppa dell'Esercito Italiano, senza alcun grado, a norma dell'articolo 861, comma 4 del richiamato decreto legislativo n.66/2010;

2) - già OMISSIS dell’Arma dei Carabinieri, impugnava il provvedimento con il quale era stata disposta nei suoi confronti la "perdita del grado" ai sensi degli articoli 866, comma 1 e 867, comma 3 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n.66, con conseguente e contestuale cessazione del rapporto d’impiego.

3) - Nello specifico, l’amministrazione di appartenenza del OMISSIS, avendo preso atto della condanna penale definitiva emessa a carico di costui - con irrogazione della pena di 2 anni, sei mesi e venti giorni di reclusione e contestuale interdizione temporanea dai pubblici uffici per una durata pari a quella della pena principale inflitta -, aveva dichiarato, quale effetto automatico dell'applicazione in sede penale della predetta pena accessoria, la perdita del grado.

IL TAR nella sentenza pubblica il 01/07/2015, scrive:

4) - Sotto questo profilo, l’amministrazione ha dunque correttamente inflitto al ricorrente la misura della perdita del grado prevista dagli artt. 866 e 867 del codice dell’ordinamento militare, senza dare corso ad alcun procedimento disciplinare.

5) - Invero, il ricorrente, fino al 24 settembre 2013 in servizio presso l’ Arma dei Carabinieri in qualità di OMISSIS, nell’impugnare il provvedimento con il quale è stata disposta nei suoi confronti la perdita del grado, ha dedotto, quale vizio di legittimità dell'atto impugnato, anche l’illegittimità costituzionale della norma di cui si è avvalsa l'amministrazione per decretare la perdita di grado suddetta.

6) - Il Comando dell'Arma ha infatti proceduto all’emissione del provvedimento ablativo sulla base dell'art. 866 del d.lgs. n. 66/2010 - che prevede, quale effetto automatico dell'applicazione in sede penale della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, la perdita del grado - prendendo atto della condanna definitiva del sig. OMISSIS alla pena di 2 anni, sei mesi e venti giorni di reclusione, per fatti risalenti al giugno 2007, con contestuale interdizione temporanea dai pubblici uffici per una durata pari a quella della pena principale inflitta.

7) - In punto di rilevanza della questione di costituzionalità che si sta per esporre, occorre preliminarmente precisare come soltanto l’eventuale accoglimento del relativo motivo di ricorso, con la conseguente caducazione della norma sottoposta al vaglio di costituzionalità, consentirebbe a questo Giudice di annullare il provvedimento impugnato.

8) - Va altresì osservato che, a seguito di apposita richiesta istruttoria formulata dal Tribunale rimettente nel corso del giudizio, l’amministrazione competente ha precisato che il decreto impugnato ha comportato in via automatica anche la cessazione del rapporto di pubblico impiego, in applicazione dell’art. 923 del d.lgs. n. 66/2010, che prevede che il rapporto di impiego del militare cessi, tra l’altro, a seguito di perdita del grado.

9) - E' stato dunque accertato che l’applicazione della norma della cui legittimità costituzionale si dubita ha determinato in via diretta - anche nell’interpretazione che ne ha adottato il datore di lavoro pubblico - la fine del rapporto di impiego tra dipendente e amministrazione.

10) - Passando al merito della questione di costituzionalità da sottoporre a codesta Corte, il Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione d’illegittimità costituzionale degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66/2010, per violazione dell'art. 3 della Costituzione - nei termini e nei limiti già in precedenza indicati -, sotto il seguente, duplice profilo.

11) - Invero, ritiene il Collegio rimettente che le norme di cui si sospetta l’incostituzionalità violino l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza della scelta operata dal legislatore e del trattamento identico di due situazioni strutturalmente diverse.

12) - Con riferimento al primo aspetto, si richiamano le pronunce di codesta Corte (sentenza n. 971 del 1988 e, poi, fra le varie, le sentenze nn. 40 del 1990, 16, 415 e 104 del 1991, 134 del 1992, 197 del 1993 e 363 del 1996) che hanno statuito l’incompatibilità costituzionale della destituzione dal rapporto di impiego senza il previo filtro del procedimento disciplinare.

13) - Nel caso di specie, come rilevato, la perdita del grado consegue automaticamente alla sanzione penale accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e determina senza soluzione di continuità la cessazione del rapporto di impiego dell’appartenente all’Arma dei Carabinieri.

14) - Invero, il quinto comma dell’art. 923 del d.lgs. n. 66/2010 prevede che il militare cessi dal servizio, nel momento in cui nei suoi riguardi si verifica la perdita del grado (che è una delle cause di cessazione del rapporto di impiego elencate nel primo comma) e il comma 3 dell’art. 867 del d.lgs. n. 66/2010 stabilisce che se la perdita del grado consegue a condanna penale (come nel caso di specie), la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza.

15) - L’art. 866, comma 1, a sua volta, prevede che “la perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle
- pene accessorie di cui all'articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del
codice penale”.

16) - Ne deriva che il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, con applicazione della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, determina l’automatica cessazione del rapporto di impiego (come peraltro confermato dall’amministrazione competente nella concreta applicazione di tali norme).

17) - Nella sentenza della Corte Costituzionale n. 363 del 1996, che aveva scrutinato la legittimità costituzionale della norma (art. 34, numero 7 della L. n. 1168/1961) che stabiliva l’automatica cessazione del rapporto di impiego a seguito di applicazione della perdita del grado conseguente alla pena accessoria della rimozione, in una fattispecie analoga a quella per cui è causa, si legge:
- ) - “La questione è fondata, alla luce dell'art. 3 della Costituzione.
Questa Corte non può che ribadire l'illegittimità della destituzione di diritto, e la necessità che si svolga il procedimento disciplinare al fine di assicurare l'indispensabile gradualità sanzionatoria, riconducendo alla loro sede naturale le relative valutazioni. L'automatismo presente nella normativa denunciata è illegittimo per violazione dell'art. 3 della Costituzione, con riguardo, innanzitutto, al canone della razionalità normativa (sentenza n. 971 del 1988 e, poi, fra le varie, le sentenze nn. 415 e 104 del 1991, 134 del 1992, 126 del 1995). D'altra parte, il trattamento deteriore riservato agli appartenenti all'Arma dei carabinieri non trova valida ragione giustificatrice nel loro status militare: questa Corte ha rilevato come la mancata previsione del procedimento disciplinare, nel vulnerare le garanzie procedurali poste a presidio della difesa, finisca per ledere il buon andamento dell'amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali, oltre che l'art. 3 della Costituzione (sentenza n. 126 del 1995)”.

18) - Il Collegio rimettente osserva che la motivazione adottata nella sentenza appena citata abbia validità anche nel caso di specie, in cui l’unica differenza rispetto alla questione all’epoca sottoposta a codesta Corte consiste nella circostanza che la pena accessoria che aveva dato luogo alla perdita del grado fosse quella della rimozione e non dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

19) - Il Collegio non ritiene peraltro di ravvisare una differenza di rilievo tra le due ipotesi (rimozione e interdizione temporanea dai pubblici uffici), tale cioè da giustificare una diversa applicabilità dei principi espressi dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 363 del 1996.

20) - Si tratta, infatti, in entrambe le ipotesi, di sanzioni penali (di cui una accessoria alla condanna per un reato militare, l’altra accessoria alla condanna per un reato comune) che comportano la perdita del grado e la conseguente cessazione dal rapporto di impiego, ai sensi dell’art. 923 del d.lgs. n. 66/2010 (norma che riproduce, di fatto, l’art. 34, numero 7 della L. n. 1168/1961, già dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 363 sopra citata).

21) - Comune è anche il presupposto generale applicativo, ovvero una condanna in via definitiva alla reclusione (comune o militare) per durata non inferiore a tre anni (tre anni e un giorno, ai sensi del codice penale militare di pace).

22) - Peraltro, la sanzione penale accessoria della rimozione è perpetua, mentre l’interdizione temporanea è, per definizione, non definitiva.

23) - In entrambi i casi, la sanzione della destituzione di diritto (dovendosi considerare tale ogni mutamento dello status del lavoratore implicante la fine traumatica del suo rapporto di impiego), comminata in ossequio all’automatismo applicativo della legge di cui è posta in dubbio la costituzionalità, colpisce, senza alcuna distinzione, la molteplicità dei comportamenti possibili nell’area dello stesso illecito penale, con offesa del “principio di proporzione”, che è alla base della razionalità che domina “il principio di eguaglianza”, e che postula l’adeguatezza della sanzione al caso concreto. Adeguatezza che non può essere raggiunta se non attraverso la valutazione degli specifici comportamenti messi in atto nella commissione dell’illecito amministrativo, che soltanto il procedimento disciplinare consente.

24) - Sotto altro, concorrente profilo, le norme in questione violerebbero l’art. 3 della Costituzione, perché equiparano tra di loro gli effetti della interdizione perpetua e gli effetti della interdizione temporanea dai pubblici uffici.

25) - Si tratta, invero, di pene accessorie profondamente diverse tra di loro, per presupposti applicativi (tipologie di condanna) e conseguenze sullo status del soggetto condannato (temporaneità o definitività degli effetti interdittivi).

26) - Ritiene, pertanto, il Collegio rimettente, che risulti manifestamente illogica la scelta del legislatore di far conseguire a due sanzioni così differenti lo stesso effetto espulsivo con riguardo al rapporto di lavoro in corso tra amministrazione ed appartenente all’Arma, senza consentire al datore di lavoro di graduare la sanzione da applicare in rapporto alla condanna subita dal dipendente colpito da interdizione temporanea nella sua “sede naturale”, ovvero all’interno del procedimento disciplinare.

27) - Tale valutazione non cambia se rapportata alla più recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, in quanto le scelte di maggiore severità del legislatore con riferimento alle conseguenze di pronunce penali sull’onorabilità dei pubblici funzionari devono essere contemperate con il parametro costituzionale del diritto al lavoro (artt. 4 e 35 della Cost.), nella cui accezione più estensiva è da ricomprendere anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro e, in particolare, a difendersi all’interno del procedimento disciplinare rispetto a contestazioni che in sede penale comportano pene accessorie espulsive.

28) - Al contrario, il Collegio rileva - con particolare riferimento alla disciplina di cui alla L. n. 97 del 2001, che ha introdotto nel corpo del codice penale l’art. 32-quinquies - l’incongruità di un sistema normativo che, da un lato, fa derivare automaticamente l'estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni od enti pubblici soltanto in caso di sua condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni (e unicamente per alcune fattispecie di delitti contro la p.a.), dall’altro, impone lo stesso automatismo anche nell’ipotesi di perdita del grado connessa a condanne dello stesso tipo ma inferiori ai tre anni (come nel caso del ricorrente).

29) - D’altra parte, il particolare status del sig. OMISSIS (già facente parte dell’Arma dei Carabinieri) non giustifica una diversa e deteriore applicabilità nei suoi confronti delle garanzie connesse e connaturate allo status generale di dipendente pubblico.

30) - Non occorre dimenticare, al riguardo, che la pronuncia di incostituzionalità restituirebbe al ricorrente la possibilità di essere sottoposto a procedimento disciplinare, e non l’automatica salvaguardia del suo rapporto di impiego; resterebbero pertanto pienamente operative, accanto alle garanzie del procedimento disciplinare, anche le peculiarità (tra cui la notoria severità dei giudizi applicati agli appartenenti all’Arma, in virtù del delicato compito istituzionale agli stessi assegnato) dello specifico status di militare.

31) - In sostanza, la pronuncia d’incostituzionalità richiesta si limiterebbe a porre riparo al vulnus di ragionevolezza ravvisabile nella disciplina del nuovo codice dell’ordinamento militare, introducendo tra l’interdizione temporanea dai pubblici uffici e la fine del rapporto di impiego il filtro del procedimento disciplinare, così come già avvenuto per la disciplina precedente al codice - e sempre con specifico riguardo all’Arma dei carabinieri - con la richiamata pronuncia di codesta Corte (la n. 363 del 1996), seppure con riferimento all’ipotesi speculare di perdita del grado per rimozione.

32) - Non osta a tale soluzione la natura dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, che, proprio per la sua intrinseca transitorietà, garantisce, a differenza dall’interdizione perpetua dai pubblici uffici, la possibilità per il dipendente di riprendere il servizio dopo il periodo di temporanea impossibilità.

33) - Rileva infine il Collegio rimettente che in una situazione di crisi occupazionale e delle finanze erariali come è quella attuale, dove specialmente nel settore pubblico le assunzioni sono sempre più rare e legate a parametri di ricambio generazionale, la cessazione automatica del rapporto di impiego nei confronti dell’appartenente all’Arma dei Carabinieri a seguito di un’interdizione solo temporanea (nel caso di specie, meno di due anni e sette mesi) si tramuterebbe, nella sostanza, in un’espulsione definitiva dall’intero comparto pubblico, cioè proprio dal comparto dove è ragionevole presumere che il soggetto espulso abbia maggiori attitudini e background professionale.

34) - Il procedimento disciplinare conseguente alla sanzione penale che ha comportato, quale pena accessoria, l’interdizione temporanea, può dunque costituire la prima – e, forse, l’ultima - chance del dipendente di far valere, anche ai fini di una graduazione della sanzione da infliggere, la competenza e il valore professionali già acquisiti nel tempo (in termini, sent. n. 363 del 1996 di codesta Corte).

35) - Sulla base delle su esposte considerazioni, il Collegio ritiene dunque necessaria la sospensione del giudizio e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale affinché si pronunci sulla questione.

36) - Ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese resta riservata alla decisione definitiva.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la OMISSIS (Sezione I),
non definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge parzialmente, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione.

Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66/2010, in relazione all’art. 3 della Costituzione.

Dispone la sospensione del presente giudizio.

Ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Ordina che, a cura della Segreteria della sezione, la presente sentenza sia notificata alle parti in causa e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.

Riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in OMISSIS nella camera di consiglio del giorno 29 aprile 2015 con l'intervento dei magistrati:
OMISSIS


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/06/2015
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Re: Perdita del grado

Messaggio da panorama »

per la partecipazione a tutti, vi posto quì la sentenza di oggi ( 15/12/2016) emessa dalla Corte Costituzionale.

articoli
866, comma 1,
867, comma 3, e
923, comma 1, lettera i),
del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare).

T.A.R. per la Lombardia

T.A.R. per la Campania

La Corte Costituzionale precisa:

1) - Nel merito la questione è fondata in riferimento all’art. 3 Cost., sia per contrasto con il fondamentale canone di ragionevolezza e proporzionalità, a cui tutte le leggi debbono conformarsi, sia per violazione del principio di eguaglianza.

e conclude con

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici.

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SENTENZA N. 268
ANNO 2016

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Alessandro CRISCUOLO Giudice
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
-Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3, e 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), promossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con ordinanza del 26 giugno 2015 e dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania con ordinanza del 5 novembre 2015 iscritte, rispettivamente, al n. 246 del registro ordinanze 2015 e al n. 78 del registro ordinanze 2016 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2015 e n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di costituzione di D. M. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 2016 il Giudice relatore Marta Cartabia;

uditi l’avvocato Marco Zambelli per D.M. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 26 giugno 2015, iscritta al r.o. n. 246 del 2015, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3, e 923 (recte: 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare).

Le norme impugnate prevedono che: «La perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue a condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per reato militare o delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure una delle pene accessorie di cui all’articolo 19, comma 1, numeri 2) e 6) del codice penale» (art. 866, comma 1); «se la perdita del grado consegue a condanna penale, la stessa decorre dal passaggio in giudicato della sentenza» (art. 867, comma 3); «1. Il rapporto di impiego del militare cessa per una delle seguenti cause: [omissis] i) perdita del grado» (art. 923, comma 1).

Il giudice a quo dubita che il combinato disposto delle citate disposizioni violi l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza della scelta operata dal legislatore, in quanto sproporzionata, sia sotto il profilo del principio di uguaglianza, in quanto riserva un identico trattamento a situazioni strutturalmente diverse, equiparando gli effetti dell’interdizione perpetua a quelli dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

1.1.– In particolare, il rimettente ha precisato di essere investito del ricorso proposto da D.M. per l’annullamento del decreto del Direttore della III Divisione della Direzione Generale per il personale militare del Ministero della Difesa, con il quale è stata disposta, ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66 del 2010, la perdita del grado e la contestuale cessazione del rapporto d’impiego del militare.

Il provvedimento è stato emesso dall’amministrazione in quanto divenuta definitiva la condanna di D.M. a due anni, sei mesi e venti giorni di reclusione, con contestuale interdizione temporanea dai pubblici uffici per una durata pari a quella della pena principale inflitta, costituendo la perdita del grado e la cessazione del rapporto d’impiego effetto automatico dell’applicazione in sede penale della predetta pena accessoria.

1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente ha osservato come soltanto l’eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale, sollevata sui citati artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66 del 2010, consentirebbe al Tribunale di annullare il provvedimento impugnato, che si basa sull’applicazione delle predette disposizioni ed è immune da ulteriori vizi formali e sostanziali.

Al riguardo viene altresì precisato che, conformemente al consolidato orientamento del Consiglio di Stato, la perdita di grado e la cessazione del rapporto d’impiego costituiscono effetto indiretto delle pene accessorie applicate in sede penale, con la conseguenza che deve applicarsi la disciplina vigente al momento dell’emanazione del provvedimento ablativo (cioè i citati artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923), non quella vigente al momento della commissione dei fatti di reato (artt. 12, lettera f e 34, numero 7, della legge 18 ottobre 1961, n. 1168, recante «Norme sullo stato giuridici dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei carabinieri»).

1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente ha osservato quanto segue.

1.3.1.– Il rimettente ritiene, in primo luogo, che le norme impugnate violino l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, richiamando la giurisprudenza costituzionale secondo cui è illegittima la destituzione dal rapporto di impiego senza il previo filtro del procedimento disciplinare (vengono citate le sentenze n. 971 del 1988, n. 40 del 1990, n. 415, n. 104 e n. 16 del 1991, n. 134 del 1992, n. 197 del 1993 e n. 363 del 1996).

Più precisamente il giudice a quo considera estensibili al caso di specie i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 363 del 1996, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, numero 7, della l. n. 1168 del 1961, secondo cui alla pena accessoria della rimozione conseguiva l’automatica cessazione del rapporto d’impiego.

La circostanza che in quel caso la cessazione del rapporto d’impiego conseguisse alla pena accessoria militare della rimozione, e non alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dei pubblici uffici, non viene infatti ritenuta tale da poter discriminare le due fattispecie. Si osserva che, in entrambi i casi, la perdita del grado con cessazione del rapporto consegue a sanzioni penali accessorie (la prima a reato militare e la seconda a reato comune) in modo automatico, in conseguenza della definitività della sentenza che le applica. A maggior ragione, poi, dovrebbe riconoscersi l’irragionevolezza dell’attuale disciplina in quanto la rimozione è perpetua, mentre l’interdizione temporanea è per definizione non definitiva.

In questo modo, prosegue il rimettente, si colpiscono, senza possibilità di alcuna distinzione, la molteplicità dei comportamenti possibili nell’area degli illeciti penali cui consegue l’interdizione temporanea dai pubblici uffici, pregiudicando il principio di proporzione tra misure e fatti concreti cui conseguono.

1.3.2.– Il giudice a quo ritiene che l’art. 3 Cost. sia violato anche sotto il profilo del necessario rispetto del principio di uguaglianza, perché equipara, ai fini della perdita del grado con cessazione del rapporto d’impiego, gli effetti dell’interdizione perpetua a quelli dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici: mentre la prima pregiudica in radice qualsiasi ripresa del rapporto, la seconda è per definizione provvisoria, di tal che si riserva un medesimo trattamento a situazioni strutturalmente dissimili.

Secondo il rimettente, tale valutazione non cambia anche se rapportata alla più recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, in quanto l’estinzione del rapporto di lavoro e di impiego del dipendente di pubbliche amministrazioni ed enti pubblici consegue soltanto, ai sensi dell’art. 32-quinquies cod. pen., alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni e unicamente per determinati reati contro la pubblica amministrazione, mentre lo stesso automatismo è previsto per la perdita del grado anche in caso di condanne inferiori a tre anni e per la generalità dei reati.

2.– Con memoria depositata il 22 ottobre 2015, si è costituito D.M. e, insistendo per l’accoglimento delle prospettate questioni di legittimità costituzionale, ha sottolineato che l’ordinanza di rimessione ha colmato le lacune motivazionali che avevano indotto la Corte costituzionale a dichiarare inammissibile, con la sentenza n. 276 del 2013, analoga questione sollevata in precedenza con ordinanza di altro Tribunale.

In particolare, ad avviso della parte privata, l’attuale ordinanza di rimessione ricostruisce con completezza il quadro normativo, esplicita le ragioni per le quali le ragioni di illegittimità, valide in generale per il pubblico impiego, si estendano anche agli appartenenti ai ruoli dell’Arma dei carabinieri, e tiene adeguatamente conto della più recente evoluzione normativa in materia di reati contro la pubblica amministrazione, dettagliatamente illustrando le condivisibili ragioni per le quali le disposizioni impugnate debbano ritenersi violare l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza, sia sotto quello del principio di uguaglianza.

3.– Con atto depositato il 15 dicembre 2015, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare infondate le sollevate questioni di legittimità costituzionale.

In particolare, la difesa dello Stato ha osservato come sia inidoneo a dimostrare l’assunta irragionevolezza della disciplina il generico riferimento ad una giurisprudenza costituzionale formatasi in un contesto normativo diverso dall’attuale, che è caratterizzato da una maggiore severità, ai sensi del novellato art. 32-quinquies cod. pen., delle conseguenze sul rapporto di pubblico impiego delle sanzioni accessorie consistenti nell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Perfettamente coerente, e in linea con l’indirizzo espresso da questo nuovo contesto normativo, dovrebbe quindi considerarsi la disciplina censurata, come tale esente da ogni vizio, di irragionevolezza o disuguaglianza.

4.– Con ordinanza del 5 novembre 2015 (r.o. n. 78 del 2016), il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1 (recte: 923, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 66 del 2010, per violazione degli artt. 3, 4, 24, secondo comma, 35 e 97 Cost.

4.1.– Il giudice a quo ha premesso di essere investito del ricorso proposto da T.M. per l’annullamento del decreto del Direttore della III Divisione della Direzione Generale per il personale militare del Ministero della Difesa, con il quale è stata disposta, ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del d.lgs. n. 66 del 2010, la perdita del grado e la contestuale cessazione del rapporto d’impiego del militare. Il provvedimento impugnato è stato emesso sulla base della sentenza n. 1354 del 14 maggio 2012 con la quale la Corte di appello di Napoli ha sostituito con la pena pecuniaria di euro 3.040,00 di multa, revocando il beneficio della sospensione condizionale, la pena detentiva di mesi due e giorni venti di reclusione, inflitta all’imputato, unitamente alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, con sentenza n. 7 del 15 gennaio 2009 del Giudice dell’udienza preliminare di Nola. L’imputazione per la quale l’imputato è stato condannato è quella di cui agli artt. 110 e 323 cod. pen., per avere intenzionalmente procurato a un terzo, nella sua qualità di pubblico ufficiale, l’indebito vantaggio consistito nella mancata elevazione del verbale di contravvenzione per non avere il terzo indossato la cintura di sicurezza.

4.2.– Lo stesso rimettente ha escluso vizi di legittimità formale, ritenendo così la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sulle disposizioni di cui agli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1 del d.lgs. n. 66 del 2010, in quanto il provvedimento amministrativo impugnato costituisce atto dovuto, a contenuto vincolato proprio dalle predette disposizioni: conseguentemente solo la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle medesime potrebbe consentire l’accoglimento del ricorso presentato.

4.3.– In punto di non manifesta infondatezza il rimettente ha osservato quanto segue, ritenendo in tal modo di colmare le lacune motivazionali che hanno portato la Corte costituzionale a dichiarare inammissibile, con la sentenza n. 276 del 2013, analoga questione sollevata in precedenza da altro giudice.

4.3.1.– In particolare, il giudice a quo ritiene violato il canone di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.

Sarebbe violato in primo luogo il principio, stabilito dalla Corte, secondo cui una presunzione assoluta deve considerarsi arbitraria se non risponde a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit e, quindi, se sia possibile formulare agevolmente ipotesi di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (vengono citate le sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n. 231 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010). Proprio l’indiscriminata ampiezza del presupposto cui viene collegata la misura espulsiva dall’Arma dei carabinieri dimostrerebbe la sua inidoneità a fondare una adeguata presunzione assoluta di riprorevolezza o indegnità morale.

Il rimettente ha ricordato come la Corte costituzionale abbia da tempo affermato il principio secondo cui, nel campo della potestà disciplinare come nell’area penale, sussiste l’esigenza di esclusione di sanzioni rigide, imponendo l’art. 3 Cost. una gradualità sanzionatoria che assicuri adeguatezza tra illecito e irroganda sanzione (viene richiamata la sentenza n. 270 del 1986).

Corollario di tale principio viene ritenuto quello della necessaria mediazione del procedimento disciplinare, che ha portato la Corte costituzionale, con la sentenza n. 971 del 1988, a dichiarare l’illegittimità della destituzione di diritto, che era prevista dall’art. 85, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti gli impiegati civili dello Stato).

Il vulnus rappresentato dall’automatismo della massima sanzione disciplinare, senza possibilità di discriminare tra i molteplici possibili comportamenti, è stato ribadito da molteplici ulteriori sentenze della Corte (segnatamente vengono richiamate le sentenze n. 40 e n. 158 del 1990, n. 16 e n. 104 del 1991, n. 197 del 1993, n. 363 del 1996), fino a che il legislatore – con l’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzioni dei pubblici dipendenti) – ha espunto dall’ordinamento la destituzione del pubblico dipendente a seguito di condanna penale, abrogando ogni contraria disposizione.

Tale assetto normativo è poi stato confermato dalla legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), nonché dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni).

Assodato, dunque, il principio del divieto di automatismi sanzionatori a seguito di condanna penale, sussistente nei rapporti tra procedimento penale e disciplinare, il giudice rimettente ha rilevato come nella specie venga in rilievo il più specifico problema degli (eventuali) effetti destitutori di una pena accessoria interdittiva.

Sul punto, ha ricordato il giudice a quo, la Corte costituzionale con la sentenza n. 286 del 1999 ha ritenuto legittima la previsione di detto effetto destitutorio in rapporto all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Tuttavia, mentre l’interdizione perpetua risulta strutturalmente incompatibile con qualsiasi prosecuzione del rapporto d’impiego pubblico, non così può ritenersi per l’interdizione temporanea, caratterizzata ontologicamente dalla sua provvisorietà.

D’altro canto, la Corte costituzionale, con specifico riguardo alla perdita del grado dei militari appartenenti all’Arma dei carabinieri, ha già ritenuto necessaria la mediazione di un procedimento disciplinare anche nel caso di applicazione della pena accessoria della rimozione, che nell’ordinamento militare è una sanzione interdittiva addirittura di carattere permanente, dichiarando illegittime le norme che la prevedevano (sentenza n. 363 del 1996).

Da questo punto di vista, la provvisorietà strutturale della pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici porterebbe, ad avviso del rimettente, a ritenere a maggior ragione estensibile alla disciplina qui scrutinata i principi affermati dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 363 del 1996 a proposito della pena accessoria militare della rimozione, con riferimento alla disciplina previgente.

Del resto, ha osservato il giudice a quo, anche il novellato art. 32-quinquies cod. pen. subordina pur sempre l’estinzione del rapporto d’impiego, conseguente alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, alla presenza di ulteriori presupposti (rappresentati da determinati e qualificati titoli di reato e da una pena principale non inferiore a due anni di reclusione) che, per la specificità del titolo e la gravità concreta del fatto, consentano di giustificare l’esclusione del procedimento disciplinare per la sanzione espulsiva.

Secondo il rimettente, proprio l’assenza di tali ulteriori presupposti per l’appartenente all’Arma dei carabinieri e l’abnormità delle conseguenze dovute all’indiscriminata latitudine dei comportamenti per i quali può intervenire l’interdizione temporanea, determinano, con riferimento alla disciplina sospettata d’illegittimità, il venir meno di quel necessario rapporto di congruità e di intrinseca ragionevolezza tra misura ed esigenze da tutelare, che deve sussistere ai sensi dell’art. 3 Cost.

In realtà, lo stesso caso concreto sottoposto all’esame del giudice a quo evidenzia un’ipotesi di particolare levità che rende chiara l’esigenza della mediazione di un procedimento disciplinare attraverso il quale valutare la portata del concreto comportamento realizzato, in rapporto all’effetto destitutorio che se ne vuole far derivare, fornendo così un agevole esempio contrario che smentisce la generalizzazione posta a base della presunzione assoluta che determina l’automatismo espulsivo ai sensi degli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010.

4.3.2.– Il giudice a quo ritiene che la disciplina in esame violi anche il principio di uguaglianza codificata dall’art. 3 Cost., in quanto equipara ai fini dell’automatismo espulsivo situazioni strutturalmente diverse quali l’interdizione temporanea e quella perpetua.

Né tale ingiustificata omologazione, secondo il rimettente, potrebbe trovare spiegazione nel particolare status militare del carabiniere, tanto più che viene posta in discussione non la possibilità di prevedere una misura espulsiva, ma il modo in cui si perviene a tale risultato, attraverso un automatismo che esclude il procedimento disciplinare, riservando così ai carabinieri un trattamento deteriore che la Corte costituzionale aveva già ritenuto non giustificato dal loro status di militari (viene citata la sentenza n. 126 del 1995).

Del resto, osserva il giudice a quo, la disparità di trattamento risulta particolarmente evidente nel caso di specie dove l’episodio concreto, che ha portato alla condanna, afferisce ad attribuzioni di polizia stradale, come tali esercitate anche da personale non militare, che non incorrerebbe in simile automatismo.

4.3.3.– Ad avviso del giudice rimettente le norme censurate violano anche il diritto di difesa garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto precludono all’interessato ogni possibilità di far valere le proprie ragioni in relazione alla misura espulsiva dall’Arma dei carabinieri, ragioni che avrebbero potuto trovare adeguato spazio nel solo procedimento disciplinare, escluso invece in radice dal ricordato automatismo.

4.3.4.– Il giudice a quo ritiene, inoltre, che le norme censurate pregiudichino il diritto al lavoro dell’interessato, tutelato dagli artt. 4 e 35 Cost., posto che la cessazione del rapporto di impiego, in considerazione della marcata connotazione specialistica dell’attività svolta, impedirebbe ogni plausibile possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro.

4.3.5.– Secondo il rimettente, infine, l’automatismo precluderebbe ogni possibile valutazione della pubblica amministrazione sulla possibilità di una proficua prosecuzione del rapporto d’impiego, così da incidere sul buon andamento dell’amministrazione militare sotto il profilo della migliore utilizzazione delle risorse professionali e da violare il canone previsto dall’art. 97 Cost.

5.– Con atto depositato il 10 maggio 2016, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di respingere le sollevate questioni di legittimità costituzionale.

Secondo la difesa dello Stato il rimettente non avrebbe tenuto conto dell’orientamento espresso dalla Corte, per il quale misure espulsive, come quelle in esame, possono essere giustificate dall’esigenza di dare attuazione alle pene accessorie previste dal legislatore penale.

La ragionevolezza della previsione del meccanismo espulsivo, anche in presenza di una interdizione temporanea dai pubblici uffici, sarebbe dimostrata dalla peculiarità dello status di militare del carabiniere, il cui comportamento deve essere sempre improntato alla massima rettitudine e onestà, così da rendere impensabile la riammissione in servizio dopo il periodo di interdizione temporanea conseguito alla condanna penale, non condizionalmente sospesa, di per sé dimostrativa del disvalore sociale della condotta, così da giustificare l’estromissione del suo autore dall’Arma dei carabinieri.

Ingiustificato sarebbe poi il richiamo al diritto al lavoro, posto che tale diritto non è incompatibile con la necessità di assicurare al datore di lavoro l’adozione di misure rigorose per salvaguardare il buon andamento e l’efficienza dell’amministrazione.

Ciò dimostrerebbe altresì l’inconferenza del richiamo al principio di cui all’art. 97 Cost., posto che la normativa denunciata risulta funzionale proprio a garantire il buon andamento della pubblica amministrazione.

Quanto, infine, alla dedotta violazione del diritto di difesa ex art. 24, secondo comma, Cost., l’Avvocatura generale dello Stato ha osservato che, seguendo la tesi del rimettente, qualsiasi provvedimento vincolato della pubblica amministrazione determinerebbe un vulnus costituzionale: l’assurdità della predetta conclusione dimostrerebbe, pertanto, l’infondatezza della censura.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 26 giugno 2015 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 (recte: 923, comma 1, lettera i, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare).

Secondo la prospettazione del rimettente, per effetto delle disposizioni impugnate, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, non condizionalmente sospesa, per delitto non colposo che comporti la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, determina la perdita del grado senza giudizio disciplinare; a sua volta, la perdita del grado è causa automatica di cessazione del rapporto di impiego del militare.

La disciplina in esame violerebbe l’art. 3 Cost. sotto molteplici profili: anzitutto, sarebbe frutto di una scelta legislativa incongrua e sproporzionata, come tale del tutto irragionevole; inoltre, essa riserverebbe un identico trattamento, la cessazione automatica del rapporto di impiego, a situazioni strutturalmente diverse, per di più equiparando gli effetti della interdizione temporanea a quelli della interdizione perpetua dai pubblici uffici.

2.– Con ordinanza del 5 novembre 2015, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni contenute negli artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1 (recte: 923, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 66 del 2010, per violazione degli artt. 3, 24, secondo comma, 4, 35 e 97 Cost.

Il giudice a quo ritiene che la disciplina in esame sia intrinsecamente irragionevole, perché prevedendo, a determinate condizioni, l’automatica perdita del grado senza procedimento disciplinare – la quale, a sua volta, è causa di automatica cessazione del rapporto di impiego – violerebbe il principio di gradualità e proporzione delle sanzioni.

La violazione sarebbe particolarmente evidente nella specie sottoposta a giudizio, in cui l’espulsione automatica del militare è conseguente ad una condanna per abuso lieve di ufficio, per non avere l’interessato elevato una contravvenzione stradale consistente nel mancato utilizzo delle cinture di sicurezza.

L’automatismo della cessazione dal servizio determinerebbe, inoltre, una violazione del principio di uguaglianza. Si verificherebbe, infatti, una ingiustificata disparità di trattamento tra il militare che incorra nella ricordata sanzione penale accessoria temporanea, per la quale è previsto un automatismo espulsivo, rispetto allo stesso militare che sia soggetto all’analoga sanzione penale militare accessoria della rimozione, per la quale la perdita del grado e la cessazione dal servizio sono invece subordinate alle valutazioni da compiersi in un procedimento disciplinare. Parimenti ingiustificata sarebbe poi la disparità di trattamento rispetto al pubblico impiegato la cui posizione, per analoga interdizione temporanea dai pubblici uffici, dovrebbe invece essere vagliata in procedimento disciplinare all’uopo previsto dalla legge.

Oltre ai ricordati profili di violazione dell’art. 3 Cost., il rimettente ravvisa altresì la contestuale violazione: dell’art. 24, secondo comma, Cost., in quanto l’automatismo della perdita del grado e la conseguente cessazione dal servizio impedirebbero all’interessato qualsiasi difesa in merito all’applicazione delle ricordate misure disciplinari; degli artt. 4 e 35 Cost., in quanto il predetto automatismo finirebbe per pregiudicare il diritto al lavoro; dell’art. 97 Cost., in quanto il medesimo automatismo pregiudicherebbe il buon andamento della pubblica amministrazione, impedendo all’amministrazione interessata ogni valutazione sulla perdurante opportunità della permanenza in servizio e, quindi, sulla migliore utilizzazione delle risorse professionali.

3.– In via preliminare deve osservarsi che le questioni sollevate con le due descritte ordinanze hanno ad oggetto le medesime disposizioni e lamentano la violazione di parametri almeno parzialmente coincidenti.

Ai fini di una decisione congiunta è perciò opportuna la riunione dei relativi giudizi.

4.– Sempre in via preliminare, deve osservarsi, che la costituzione della parte privata D.M. è pienamente ammissibile, in quanto si tratta di parte nel giudizio a quo.

5.– Non sono state eccepite, né risultano, cause di inammissibilità delle sollevate questioni, dovendosi escludere che le ordinanze introduttive del presente giudizio soffrano delle medesime carenze che hanno indotto questa Corte, con la sentenza n. 276 del 2013, a dichiarare inammissibile analoga questione sollevata sul solo art. 866 del d.lgs. n. 66 del 2010, per incompleta ricostruzione del quadro normativo e insufficienza di motivazione.

Invero, entrambi i Tribunali rimettenti si sono confrontati con la precedente sentenza di inammissibilità e hanno colmato le numerose lacune che avevano allora indotto questa Corte a ritenere che la questione di legittimità non fosse sufficientemente precisata nei suoi termini essenziali, né fosse sufficientemente sorretta da un adeguato iter argomentativo, alla luce della complessità del quadro normativo in cui la disposizione censurata doveva essere collocata.

Non così nel caso oggi all’esame della Corte. I giudici rimettenti hanno ricostruito con completezza il quadro normativo di riferimento, anche alla luce delle più recenti evoluzioni legislative, hanno dato adeguato conto della giurisprudenza costituzionale e comune sul tema, si sono fatti carico delle necessarie precisazioni in ordine alle peculiarità delle funzioni dell’Arma dei carabinieri, attinenti alla pubblica sicurezza e all’ordine pubblico, e hanno precisato l’oggetto della questione, individuandolo nelle disposizioni, congiuntamente interpretate, di cui agli art. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923 del citato d.lgs. n. 66 del 2010.

Al riguardo deve solo osservarsi che, in riferimento a quest’ultima disposizione, la censura non investe l’intero articolo, ma deve essere circoscritta al solo comma 1, lett. i). Tra le numerose cause di cessazione del rapporto di impiego enumerate nell’intero corpo dell’art. 923, viene in rilievo, nel presente giudizio, solo quella connessa alla «perdita del grado», indicata appunto al comma 1, lett. i), come si evince inequivocabilmente dalla puntuale motivazione delle due ordinanze di rimessione. Ad essa, dunque, deve limitarsi il giudizio di questa Corte.

6.– Nel merito la questione è fondata in riferimento all’art. 3 Cost., sia per contrasto con il fondamentale canone di ragionevolezza e proporzionalità, a cui tutte le leggi debbono conformarsi, sia per violazione del principio di eguaglianza.

6.1.– Le disposizioni impugnate prevedono un caso di automatica cessazione del rapporto di pubblico impiego, applicabile al personale militare.

Per effetto del congiunto operare delle disposizioni censurate – artt. 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i), del d.lgs. n. 66 del 2010 – il militare che abbia subito una condanna penale, non condizionalmente sospesa, per la quale è prevista la pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici, cessa automaticamente e definitivamente dal servizio a partire dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna. Infatti, l’art. 923, comma 1, lettera i) stabilisce la cessazione dal servizio del militare in caso di «perdita del grado». A sua volta, ai sensi dell’art. 866, comma 1, la «perdita del grado» consegue, «senza giudizio disciplinare», alla condanna definitiva, non condizionalmente sospesa, per delitto non colposo che comporti l’interdizione temporanea dai pubblici uffici. In proposito, l’art. 867, comma 3, precisa che la perdita del grado decorre dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna.

L’esplicita previsione che la cessazione dal servizio avviene «senza giudizio disciplinare» (art. 866, comma 1) e con decorrenza dal «passaggio in giudicato» della sentenza penale di condanna (art. 867, comma 3) attesta inequivocabilmente il carattere automatico della misura destitutoria.

6.2.– La giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare l’illegittimità costituzionale dell’automatica destituzione da un pubblico impiego a seguito di sentenza penale, senza la mediazione del procedimento disciplinare.

Questa Corte ha, infatti, chiarito che la sanzione disciplinare va graduata, di regola, nell’ambito dell’autonomo procedimento a ciò preposto, secondo criteri di proporzionalità e adeguatezza al caso concreto, e non può pertanto costituire l’effetto automatico e incondizionato di una condanna penale (sentenze n. 234 del 2015, n. 2 del 1999, n. 363 del 1996, n. 220 del 1995, n. 197 del 1993, n. 16 del 1991, n. 158 del 1990, n. 971 del 1988 e n. 270 del 1986), neppure quando si tratti di rapporto di servizio del personale militare (ad esempio, sentenze n. 363 del 1996 e n. 126 del 1995).

Solo eccezionalmente l’automatismo potrebbe essere giustificato: segnatamente quando la fattispecie penale abbia contenuto tale da essere radicalmente incompatibile con il rapporto di impiego o di servizio, come ad esempio quella sanzionata anche con la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici ex art. 28, secondo comma, cod. pen. (sentenze n. 286 del 1999 e n. 363 del 1996) o dell’estinzione del rapporto di impiego ex art. 32-quinquies cod. pen.

Queste ragioni di incompatibilità assoluta con la prosecuzione del rapporto di impiego – che giustifica l’automatismo destitutorio non come sanzione disciplinare, ma come effetto indiretto della pena già definitivamente inflitta – non sussiste in relazione all’interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 28, terzo comma, cod. pen., connotata per definizione da un carattere provvisorio e, quindi, tale da non escludere la prosecuzione del rapporto momentaneamente interrotto.

Da qui l’intrinseca irrazionalità della disciplina censurata che collega automaticamente – senza possibilità di alcuna valutazione discrezionale sulla proporzionale graduazione della sanzione disciplinare nel caso concreto – una grave conseguenza irreversibile ad una misura temporanea che, di per sé, non la implica necessariamente.

6.3.– Né si versa, nella specie, in un caso in cui l’automatismo destitutorio si giustifica in vista della necessità di tutelare la collettività dalla pericolosità sociale del condannato, quale già accertata nel procedimento penale.

Vero è che questa Corte, in nome di tale esigenza di protezione della collettività, ha ritenuto non illegittima la previsione – contenuta nell’art. 8, comma 1, lettera c), del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti) – dell’automatica cessazione dal servizio del personale appartenente all’amministrazione di pubblica sicurezza a cui, in sede penale, sia stata applicata una misura di sicurezza personale (così, ad esempio, nella sentenza n. 112 del 2014).

È altresì vero, però, che la misura di sicurezza ha come presupposto necessario della sua applicazione l’accertamento in concreto della pericolosità sociale della persona che vi è soggetta. Sicché la Corte ha ritenuto non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una presunzione assoluta di incompatibilità con il rapporto di servizio nell’ambito dell’amministrazione della pubblica sicurezza, della persona sottoposta a misura di sicurezza personale.

L’interdizione temporanea dai pubblici uffici – di cui si tratta nel caso sottoposto all’attuale giudizio della Corte costituzionale – non è, invece, una misura di sicurezza che si applica esclusivamente a persone socialmente pericolose, ma è soltanto una pena accessoria.

6.4. Una presunzione assoluta (nella specie di incompatibilità con il rapporto di servizio) deve poi essere rispettosa dei canoni esplicitati dalla Corte in proposito.

Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, infatti, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit», con la conseguenza che «l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (ex multis, sentenze n. 185 del 2015, n. 232 e n. 213 del 2013, n. 182 e n. 164 del 2011, n. 265 e n. 139 del 2010).

Tali principi sono violati dalle disposizioni sottoposte allo scrutinio della Corte nel giudizio in esame.
Nella specie, proprio in uno dei procedimenti a quibus (r.o. n. 78 del 2016), si rinviene una chiara esemplificazione di un accadimento reale che smentisce la generalizzazione legislativa. Si tratta, segnatamente, di un militare condannato alla pena detentiva di mesi due e giorni venti di reclusione per abuso lieve d’ufficio. Nel caso di specie, il condannato, agendo nella sua qualità di pubblico ufficiale, ha procurato intenzionalmente a un terzo (conducente di un’auto) un indebito vantaggio, consistente nella mancata elevazione del verbale di contravvenzione stradale, per non avere questi indossato la cintura di sicurezza. Nella sentenza definitiva di condanna, con la quale la pena detentiva è stata sostituita con quella pecuniaria, sono stati evidenziati gli elementi di tenuità del fatto e lieve offensività in concreto, che contrastano con l’abnormità delle conseguenze derivanti dall’applicazione della massima sanzione disciplinare, basata sulla mera presunzione di pericolosità o indegnità del pubblico ufficiale.

Dunque, a causa dell’ampiezza dei presupposti a cui viene collegata l’automatica cessazione dal servizio, le disposizioni impugnate non possono validamente fondare, in tutti i casi in esse ricompresi, una presunzione assoluta di inidoneità o indegnità morale o, tanto meno, di pericolosità dell’interessato, tale da giustificare una sanzione disciplinare così grave come la perdita del grado con conseguente cessazione dal servizio.

L’automatica interruzione del rapporto di impiego è, infatti, suscettibile di essere applicata a una troppo ampia generalità di casi, rispetto ai quali è agevole formulare ipotesi in cui essa non rappresenta una misura proporzionata rispetto allo scopo perseguito.

Di qui, l’irragionevolezza delle disposizioni oggetto di giudizio, e la conseguente violazione dell’art. 3 Cost. sotto questo profilo.

6.5.– La disciplina censurata viola anche il principio di uguaglianza, in quanto sottopone a un ingiustificato trattamento deteriore l’appartenente all’Arma dei carabinieri rispetto ai dipendenti dello Stato e di altre amministrazioni pubbliche.

Per questi ultimi, infatti, il legislatore aveva disposto il radicale divieto di «destituzioni di diritto» per condanna penale, in virtù dell’art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti).

Successivamente sono intervenute altre disposizioni, tra le quali si deve ricordare l’art. 32-quinquies cod. pen., inserito dall’art. 5 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), modificato dall’art. 1, comma 75, lettera b), della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) e, poi, dall’art. 1 della legge 27 maggio 2015, n. 69 (Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio). La disposizione stabilisce che in casi tassativamente indicati si applica la cessazione automatica del rapporto di impiego, peraltro non come sanzione disciplinare, ma come pena accessoria. In particolare, si deve trattare di condanne per i delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, primo comma, e 320 cod. pen., per i quali sia stata in concreto inflitta la pena della reclusione per un tempo non inferiore a due anni. L’art. 32-quinquies cod. pen. ha, pertanto, una portata applicativa ben circoscritta e delimitata da precisi requisiti qualitativi e quantitativi, che non può in alcun modo essere assimilata all’ampiezza delle fattispecie che possono determinare la cessazione del rapporto di servizio del personale militare ai sensi degli impugnati artt. 866, 867 e 923 del Codice dell’ordinamento militare.

Per i casi non rientranti nel citato art. 32-quinquies cod. pen., l’art. 5, comma 4, della legge n. 97 del 2001 prevede, invece, l’instaurazione di un apposito procedimento disciplinare.

Anche tale disparità di trattamento non trova ragionevole giustificazione, considerato che questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il peculiare status dei militari, che pure esige il rispetto di severi codici di rettitudine e onestà, non può costituire di per sé una valida ragione a sostegno di una discriminazione del personale militare rispetto agli impiegati civili dello Stato sotto il profilo delle garanzie procedimentali poste a presidio del diritto di difesa, che risultano altresì strumentali al buon andamento dell’amministrazione militare (sentenza n. 126 del 1995).

Di qui anche la conseguente violazione degli artt. 24 e 97 Cost.

7.– Le rilevate ragioni di illegittimità costituzionale assumono rilievo assorbente degli ulteriori parametri dedotti.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 866, comma 1, 867, comma 3 e 923, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), nella parte in cui non prevedono l’instaurarsi del procedimento disciplinare per la cessazione dal servizio per perdita del grado conseguente alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2016.

F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 dicembre 2016.
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Re: Perdita del grado

Messaggio da ciro49 »

Unica cosa positiva di questa sentenza e quella che tutti i militari destituiti a seguito di condanna con oena accessoria temporanea ,possono fare istanza di riammissione in servizio per la caducazione della norma abrogata dalla corte costituzione-L'amministrazione che dovrebbe aderire all'istanza, riammette in servizio i militari, il giorno dopo li sospende per motivi disciplinari della condanna,inizia il procedimento disciplinare, che prima della sentenza non era stato fatto ,con il RISULTATO AL 100% DELLA DESTITUZIONE-
Perchè l'amministrazione difficilmente riammette in servizio un dipendente con pena accessoria-In quanto anche se lo facesse,lo deve assumere e sospenderlo o tenerlo in aspettativa speciale fino allo scadere della pena accessoria,e pagarlo con stipendio intero-
Mentre invece ne gioverebbe molto il dipendente condannato anche con pena accessoria e poi destituito.
Se nel frattempo prima dell'uscita di questa sentenza della Corte Costituzionale, ha avuto la riabilitazione penale, allora SOLO in questo caso l'amministrazione deve essere per forza più prudente ad emettere un provvedimento espulsivo in quanto si troverebbe adesso e non allora davanti ad una persona incensurata,e non più condannato-Perchè la riabilitazione vale a tutti gli effetti -
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Re: Perdita del grado

Messaggio da walkalone »

Salve a tutti. La perdita del grado per condanna penale non condizionalmente sospesa con pena accessoria dell'interdizione temporanea dai p.u. a mente degli artt.866,867 e 923 del codice dell'ordinamento militare senza giudizio disciplinare è stata dichiarata incostituzionale, per l'ennesima volta peraltro. Ritengo che i militari colpiti da questo grave provvedimento afflittivo possano o meglio debbano essere reintegrati d'ufficio come recita l'articolo 869 dello stesso codice essendo venute meno le ragioni che diedero luogo alla destituzione. Temo tuttavia che senza una precisa e circostanziata istanza da parte degli interessati nulla avverrà. Per ciò che attiene l'attivazione del procedimento disciplinare in caso di reintegro come dire "ora per allora" credo non abbia possibilità di applicazione essendo decaduti i termini che come è noto deve essere intrapreso entro i 90 giorni dalla data della sentenza divenuta irrevocabile. Sarebbe utile conoscere il pensiero sempre gradito e competente dell'avvocato Carta. Soprattutto sarebbe utile sapere se il militare eventualmente reintegrato abbia diritto della ricostruzione giuridica economica e pensionistica del periodo intercorso tra la destituzione e il reintegro in servizio.
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Re: Perdita del grado

Messaggio da ciro49 »

walkalone ha scritto:Salve a tutti. La perdita del grado per condanna penale non condizionalmente sospesa con pena accessoria dell'interdizione temporanea dai p.u. a mente degli artt.866,867 e 923 del codice dell'ordinamento militare senza giudizio disciplinare è stata dichiarata incostituzionale, per l'ennesima volta peraltro. Ritengo che i militari colpiti da questo grave provvedimento afflittivo possano o meglio debbano essere reintegrati d'ufficio come recita l'articolo 869 dello stesso codice essendo venute meno le ragioni che diedero luogo alla destituzione. Temo tuttavia che senza una precisa e circostanziata istanza da parte degli interessati nulla avverrà. Per ciò che attiene l'attivazione del procedimento disciplinare in caso di reintegro come dire "ora per allora" credo non abbia possibilità di applicazione essendo decaduti i termini che come è noto deve essere intrapreso entro i 90 giorni dalla data della sentenza divenuta irrevocabile. Sarebbe utile conoscere il pensiero sempre gradito e competente dell'avvocato Carta. Soprattutto sarebbe utile sapere se il militare eventualmente reintegrato abbia diritto della ricostruzione giuridica economica e pensionistica del periodo intercorso tra la destituzione e il reintegro in servizio.
Allora andiamo per ordine-
Avendo la Corte costituzionale abrogato l'art.che non prevedeva il procedimento disciplinare a seguito di condanna con pena accessoria temporanea cioè inferiore a 5 anni-in quanto da 5 anni in su si ha interdizione perpetua-
Per cui i militare che sono stati condannati alla pena accessoria temporanea e sono stati destituiti,oppure hanno avuto la perdita del grado o rimozione del grado- A domanda hanno diritto a rientrare in servizio,ed l'amministrazione una volta riammesso il dipendente deve procedere all'instaurazione del procedimento disciplinare con esito scontato di una nuova destituzione-
Nel caso di riammissione in servizio non si ha diritto ad alcuna ricostruzione di carriera,ne di stipendi-
In quanto il procedimento disciplinare sarà fatto ora per allora vista la sentenza della suprema Corte Costituzionale-
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Re: Perdita del grado

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Beh io non sono né un avvocato né un giurista tuttavia rimango della mia opinione è che per l'jnstaurarsi di un procedimento disciplinare dovrebbe essere rispettato il termine perentorio dei 90 giorni. Se il Ministero applica una norma che getta nello sconforto oltre che sulla strada tante persone che non hanno avuto la possibilità di difendersi oggi con la caducazione della norma infausta torna indietro a distanza di tanto tempo e instaura un procedimento disciplinare. Il cittadino nell'irrogazione di una pena o una sanzione disciplinare a diritto a tempi certi e celeri. Comunque se anche fosse così nella sede del procedimento disciplinare si ha la possibilità del contraddittorio e di difendersi ponendo all'attenzione se uno li ha i propri ottimi precedenti di servizio e disciplinari e confidare nella buona fede della commissione di disciplina. Non sarei così fermo sulla tua convinzione: procedimento disciplinare = destituzione.
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