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Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: lun giu 17, 2013 12:10 pm
da crimor
Gentilmente qualcuno e a conoscenza della lista dei beneficiari di quanto in oggetto.era un vecchio ricorso per I piantoni h24. Non so come sapere se I'll mio nominativo figuri nella lista molti colleghi stanno in questi giorni ricevendo cifre dai 4mila ai7mila euro. Grazie per eventuali collaborazioni
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: lun giu 17, 2013 3:01 pm
da mimmo63
A me, ed altri colleghi, la corte di Appello di Perugia, ci riconosceva la somma di 8600.00 euro circa.
Lo studio dell' avv. Frisani mi comunicava che per riscuotere la somma bisognava aspettare circa un'anno.
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: lun giu 17, 2013 3:02 pm
da mimmo63
scusami! rettifico la somma 6800.00 euro.
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: mar giu 25, 2013 10:01 pm
da rosari60
mimmo63 scusa collega ma come si fa sapere se anche io ci sono in questo indinnizzo ? io mi ricordo che ho fatto anchio il ricorso ma non so dove ho fatto , ma dove mi posso rivolgermi per sapere ciaoo
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: mar giu 25, 2013 10:47 pm
da Poseidon1966
Non ridete del sottoscritto, ma purtroppo sono ignaro di quanto state discutendo. Non ho mai saputo del ricorso in questione ( forse qualcuno l'ha voluto celare volutamente?.....Ma! ). Eventualmente chi avrebbe diritto, solo i ricorrenti o tutti gli interessati? Da 1986 a 1989 sono stato interessato anch'io al Piantone h24, qualcuno sa dirmi qualcosa? Grazie - Aps M.F.
p.s. per l'ennesima olta ripeto: ma possibile che quando c'è da ricorrere per avere un nostro diritto sono solo in pochi a saperlo? ...Ma perchè!
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: mer giu 26, 2013 8:28 am
da maurizio1962
L'anno scorso avevo chiesto lumi allo studio SALMASO di Conselve (PD) che dovrebbe rappresentarmi e mi veniva riferito che aspettavano il deposito della Sentenza alla Corte d'Appello di Perugia e “non appena sarà depositata la sentenza ne faremo relativa comunicazione ai ricorrenti e ci attiveremo per la relativa esecuzione”. Se qualcuno che è già stato liquidato o ha avuto comunicazione di prossima liquidazione può postare qualche riferimento relativo alla sentenza gliene sarei grato così torno a ricontattare lo studio. Intanto grazie
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: gio giu 27, 2013 9:55 pm
da Poseidon1966
Poseidon1966 ha scritto:Non ridete del sottoscritto, ma purtroppo sono ignaro di quanto state discutendo. Non ho mai saputo del ricorso in questione ( forse qualcuno l'ha voluto celare volutamente?.....Ma! ). Eventualmente chi avrebbe diritto, solo i ricorrenti o tutti gli interessati? Da 1986 a 1989 sono stato interessato anch'io al Piantone h24, qualcuno sa dirmi qualcosa? Grazie - Aps M.F.
p.s. per l'ennesima olta ripeto: ma possibile che quando c'è da ricorrere per avere un nostro diritto sono solo in pochi a saperlo? ...Ma perchè!
Grazie a tutti per le risposte esaudienti
Re: R: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: gio giu 27, 2013 10:00 pm
da crimor
Poseidon ..solo I ricorrenti purtroppo.
crimor
Re: R: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: lun lug 01, 2013 10:10 pm
da Poseidon1966
crimor ha scritto:Poseidon ..solo I ricorrenti purtroppo.
crimor
Gent.mo come sempre! Cmq. se ci sono novità ( eventuali altri ricorsi ), fammi / fatemi sapere.
Grazie - Aps M.F.
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: mar lug 02, 2013 8:47 am
da gazzella61
io l'elenco completo ce l'ho, ma siamo 120 ricorrento con lo studio legale Frisani di Firenze. Sono stato contattato un paio di giorni fa dallo studio che voleva sapere le mie coordinate bancarie per accreditarmi euro 4.650,33 (lordi 6.800). La sentenza può essere letta nel sito dello studio Frisani, alla voce "i nostri successi". Un saluto a tutti, Gazzella61
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: mar lug 02, 2013 2:28 pm
da rosari60
scusate anchio penso che ho fatto questa riparazione legge pinto anni fa solo come posso fare per sapere se vi sono anchio nell'elenco? oppure come posso fare per usufrire anchio di questa sentenza ? se qualcuno mi puo' suggerire qualche cosa come fare ciaoo
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: mer lug 16, 2014 10:39 am
da panorama
Consiglio di Stato in Plenaria su penalità di mora.
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1) - Con gli appelli in epigrafe il Ministero della Giustizia impugna le sentenze in epigrafe anche, o solo, nella parte in cui è stata disposta la condanna dell'Amministrazione al pagamento di somme di denaro a titolo di penalità di mora ex art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo ammnistrativo, in ragione della mancata esecuzione dei decreti della Corte di Appello di Roma di condanna alla corresponsione di un indennizzo a titolo di equa riparazione per eccessiva durata del processo di cui alla L. 24 marzo 2001 n. 89 (cd. Legge Pinto).
Il CdS in sede Plenaria ha disposto:
2) - L’Adunanza Plenaria afferma pertanto il seguente principio di diritto: “Nell’ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo amministrativo, è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria”.
Il resto leggetelo qui sotto.
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25/06/2014 201400015 Sentenza
N. 00015/2014REG.PROV.COLL.
N. 00014/2014 REG.RIC.A.P.
N. 00015/2014 REG.RIC.A.P.
N. 00016/2014 REG.RIC.A.P.
N. 00017/2014 REG.RIC.A.P.
N. 00018/2014 REG.RIC.A.P.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 14 di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;
contro
M. A. F., G. F., P. P., G. M. P., A. P., D. P.;
sul ricorso numero di registro generale 15 di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
contro
C. F., G. M. F., M. L. F., rappresentati e difesi dall'avv. Raffaele Porpora, con domicilio eletto presso lo stesso, alla via della Giuliana, n. 74;
sul ricorso numero di registro generale 16 di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
contro
L. R. S., rappresentato e difeso dall'avv. Vincenzo Ussani D'Escobar, con domicilio eletto presso lo stesso in Roma, alla via Colli della Farnesina, n. 110;
sul ricorso numero di registro generale 17 di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
contro
A. R.;
sul ricorso numero di registro generale 18 di A.P. del 2014, proposto da:
Ministero della Giustizia, come sopra rappresentato, difeso e domiciliato;
contro
V. P., M. P., I. P., C. P., R. P.;
per la riforma
quanto al ricorso n. 14 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 05341/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del decreto della Corte d'Appello di Roma n.585/2009 - equa riparazione l.89/01 - corresponsione somme
quanto al ricorso n. 15 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 05411/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del decreto della Corte d'Appello di Roma n.590/2009 - equa riparazione l.89/01 - corresponsione somme
quanto al ricorso n. 16 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 07619/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del giudicato del decreto della Corte d'Appello di Roma n.53537/2006 - equa riparazione l.89/01 -
corresponsione somme
quanto al ricorso n. 17 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 07459/2013, resa tra le parti, concernente l’esecuzione del decreto n. 5949/2011 della Corte di Appello di Roma - equa riparazione l.89/2001
quanto al ricorso n. 18 del 2014:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 07468/2013, resa tra le parti, concernente l’esecuzione del decreto n. 5954/2011 della Corte di Appello di Roma - equa riparazione l.89/2001
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di C. F., di G. M. F., di M. L. F. e di L. R. S.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 18 giugno 2014 il Cons. Francesco Caringella e uditi per le parti gli avvocati D'Avanzo e Ussani D'Escobar;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Con gli appelli in epigrafe il Ministero della Giustizia impugna le sentenze in epigrafe anche, o solo, nella parte in cui è stata disposta la condanna dell'Amministrazione al pagamento di somme di denaro a titolo di penalità di mora ex art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo ammnistrativo, in ragione della mancata esecuzione dei decreti della Corte di Appello di Roma di condanna alla corresponsione di un indennizzo a titolo di equa riparazione per eccessiva durata del processo di cui alla L. 24 marzo 2001 n. 89 (cd. Legge Pinto).
I gravami in esame sono affidati alla deduzione della violazione dell'art. 114, comma 4, cod. proc. amm., dell'art. 6 par. i) della CEDU, dell'art. 117 della Costituzione, degli artt. 2 e 3, comma 7, della legge n. 89 del 2001.
I motivi di ricorso possono così essere compendiati.
1.1. Con un primo motivo la difesa erariale ha ricordato come un primo orientamento giurisprudenziale abbia ritenuto doversi escludere l'ammissibilità dell'astreinte nel caso in cui l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro, in quanto la penalità di mora costituisce un mezzo di coazione indiretta sul debitore, utile in modo particolare quando si è in presenza di obblighi di facere infungibili: di qui l’iniquità della condanna dell'Amministrazione al pagamento di ulteriori somme di denaro, quando l'obbligo di cui si chiede l'adempimento consiste, esso stesso, nell'adempimento di un'obbligazione pecuniaria.
Il Tribunale di prime cure, con le decisioni impugnate, avrebbe invece seguito l’orientamento per cui la naturale "coercibilità" degli obblighi di fare dell'Amministrazione nel giudizio amministrativo di ottemperanza e la collocazione della misura sanzionatoria nell'ambito di tale giudizio non consentono, in linea di principio, di escluderne la riferibilità anche alle sentenze di condanna pecuniarie secondo il modello originario dell'astreinte, e non secondo quello di cui all'art. 614 bis c.p.c. .
In coerenza, per il Ministero appellante:
- deve escludersi la possibilità di far ricorso all'astreinte quando l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma dì denaro, che, come tale, è già assistito, a termine del vigente ordinamento, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall'obbligo accessorio degli interessi legali;
-- la somma dovuta a titolo di penalità andrebbe indebitamente ad aggiungersi agli altri accessori determinando un ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore della prestazione principale e di quella accessoria;
-- l'interpretazione seguita dal primo Giudice contraddirebbe la ratio della norma in questione rinvenibile nella Relazione Governativa di accompagnamento al Codice ove si sottolinea il sostanziale parallelismo con la nuova previsione dell'art. 614 bis c.p.c. (introdotta dall'art. 49 comma 1, 1. 18 giugno 2009 n. 69) che fa riferimento a “obblighi di fare infungibile o di non fare”;
-- la formulazione dell'art. 114, comma 4 lettera e) del cod. proc. amm. è identica a quella del nuovo art. 614-bis c.p.c., come introdotto dall'art. 49, comma 1, della L. 18 giugno 2009, n. 69, con l’unica differenziazione relativa all'inciso "se non sussistono altre ragioni ostative";
-- si finirebbe per offrire uno strumento ulteriore di coercizione indiretta all'effettività della tutela (art. 1 cod. proc. amm), la quale non è certo volta a garantire al ricorrente più di quanto gli spetti secondo diritto;
-- l'istituto de quo si attaglia propriamente a quelle situazioni nelle quali si tratta di porre in essere un' attività amministrativa da svolgersi, per quanto possibile, nel rispetto dell'ordine fisiologico delle competenze (si pensi all'adozione di una deliberazione in materia urbanistica), in quanto contribuisce a prevenire l'intervento del commissario ad acta: esigenza, questa, estranea alla logica che ispira la disciplina degli adempimenti di prestazioni a carattere pecuniario, sia sul piano fisiologico sia sul piano della patologia derivante dal ritardo, il cui paradigma di riferimento si rinviene essenzialmente nella disciplina civilistica degli interessi e del risarcimento del danno;
1.2. Con un secondo ordine di motivi si rileva, poi, che sarebbe del tutto illegittima la liquidazione automatica della predetta misura dato che, l'art. 114, comma 4, lett e) cod. proc. amm., consente il riconoscimento della misura ivi prevista previa la verifica dei presupposti cui il legislatore ha inteso subordinare la condanna anche al pagamento di una somma di denaro ed in particolare: dell'effettiva inerzia dell'Amministrazione nell'esecuzione della sentenza di equa riparazione, della ragionevolezza dei tempi alla luce della giurisprudenza che si è pronunciata in materia (da ultimo, Cass. n. 5924/2012; Cass., sez. unite n. 6312/2014) e delle esigenze di bilancio.
Non si sarebbe potuto prescindere dal vagliare puntualmente la condotta amministrativa ai fini dell'eventuale riscontro di responsabilità.
2. Si sono costituite in giudizio le controparti in epigrafe specificate.
3. Con l’Ordinanza 18 aprile 2014, n. 14, la sezione quarta di questo Consiglio ha riunito gli appelli di cui in epigrafe, in ragione della ricorrenza di profili di connessione oggettiva e parzialmente soggettiva.
Con la stessa Ordinanza si è disposta la rimessione dei ricorsi all’esame dell’Adunanza Plenaria in ragione dei contrasti giurisprudenziali già registratisi in merito alle questioni relative:
a) alla natura ed all'ammissibilità in generale dell'astreinte di cui all'art. 114, comma 4, lett. e) cod. proc. amm. nel caso in cui l'esecuzione del giudicato consista nel pagamento di una somma di denaro;
b) alla sua applicabilità, in particolare, all’equa riparazione di cui alla c.d. legge Pinto, per l’indebita “automaticità” della condanna dell’Amministrazione fatta in assenza della previa verifica dei presupposti indicati dal c.p.a.
DIRITTO
1. E’ sottoposta al vaglio dell’Adunanza Plenaria la quaestio iuris relativa all’ammissibilità della comminatoria delle penalità di mora, di cui all'art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo amministrativo, nel caso in cui il ricorso per ottemperanza venga proposto in ragione della non esecuzione di una sentenza che abbia imposto alla pubblica amministrazione il pagamento di una somma di denaro.
Ai fini della soluzione del problema è necessaria un’indagine sulla genesi e sulla fisionomia dell’istituto in esame.
2. L'art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a. prevede che il giudice dell’ottemperanza, in caso di accoglimento del ricorso in executivis, “salvo che ciò sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato; tale statuizione costituisce titolo esecutivo”.
La norma, che costituisce una novità nel processo amministrativo italiano, delinea una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, inquadrabile nell’ambito delle pene private o delle sanzioni civili indirette, che mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’ obbligazione sancita a suo carico dall’ordine del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688).
La norma dà la stura, in definitiva, ad un meccanismo automatico di irrogazione di penalità pecuniarie in vista dell’assicurazione dei valori dell’effettività e della pienezza della tutela giurisdizionale a fronte della mancata o non esatta o non tempestiva esecuzione delle sentenze emesse nei confronti della pubblica amministrazione e, più in generale, della parte risultata soccombente all’esito del giudizio di cognizione.
Il modello della penalità di mora trova un antecedente, nell’ambito del processo civile, nell’art. 614-bis (inserito nel c.p.c. dall’art.49, comma 1, della legge 18 giugno 2009, n. 69), rubricato “attuazione degli obblighi di fare infungibile o non fare”. La norma in analisi dispone che “Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. (…)”. Al comma II viene precisato che “Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.
3. Sia l’istituto previsto dal codice del processo amministrativo sia quello contemplato dal codice di procedura civile sono fortemente innovativi rispetto alla nostra tradizione processuale.
Il legislatore nazionale si è, infatti, mostrato in passato restio all’abbandono dell’ispirazione liberal-individualistica di matrice ottocentesca, manifestando diffidenza per il recepimento dell’istituto delle misure coercitive indirette, ritenute una forma di eccessiva ingerenza dello Stato delle libere scelte degli individui anche in merito all’osservanza, in forma specifica o meno, di un comando giudiziale.
Prima della riforma del 2009, dunque, la possibilità che un provvedimento giurisdizionale di condanna fosse assistito da una penalità di mora era prevista, in modo episodico, solo con riferimento a fattispecie tassativamente individuate da norme speciali, insuscettibili di applicazione analogica. Tra queste vanno ricordati l’art. 18, ultimo comma, dello Statuto dei lavoratori, in base al quale il datore di lavoro, in caso di illegittimo licenziamento, è tenuto al pagamento di una somma commisurata alle retribuzioni dovute dal momento del licenziamento fino a quello dell’effettivo reintegro; gli artt. 124, co. 2, e 131, co. 2, del codice della proprietà industriale, che, in tema di brevetti, prevede l’adozione di una sanzione pecuniaria in caso di violazione della misura inibitoria applicata nei confronti dell’autore della violazione del diritto di proprietà industriale; l’art. 156 della legge sul diritto d’autore, relativo alla protezione del diritto d’autore, che prevede parimenti una sanzione pecuniaria in caso di inosservanza della statuizione inibitoria; l’art. 8, co. 3, d. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, che, in tema di ritardato pagamento nelle transazioni commerciali, contempla la possibilità di irrogare un’astreinte in caso di mancato rispetto degli obblighi imposti dalla sentenza che abbia accertato l’iniquità delle clausole contrattuali; l’art. 140, co. VII, del codice del consumo, che ha previsto misure pecuniarie per il caso di inadempimento del professionista a fronte di pronunce rese dal giudice civile su ricorsi proposti dalle associazioni di tutela degli interessi collettivi in materia consumeristica; l’art. 709-ter, co. 2, n. 4, cod. proc. civ., che, con riferimento alle controversie relative all’esercizio della potestà genitoriale o alle modalità dell’affidamento dei figli, prevede, a carico del genitore inadempiente alle obbligazioni di facere, il pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria a favore della Cassa delle ammende.
Con l’art. 614-bis cod. proc. civ. e con l’art. 114, comma 4, lettera e, cod. proc. amm., il nostro ordinamento, conferendo alla misura in esame un respiro generale, ha esibito, quindi, una nuova sensibilità verso l’istituto delle sanzioni civili indirette, dando seguito ai ripetuti moniti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui “il diritto ad un tribunale sarebbe fittizio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato membro permettesse che una decisione giudiziale definitiva e vincolante restasse inoperante a danno di una parte” (sent. Hornsby c. Grecia, 13/03/1997, e Ventorio c. Italia, 17/05/2011).
Nell’adeguamento dell’ordinamento nazionale al panorama degli ordinamenti più evoluti in subiecta materia il legislatore ha seguito il modello francese delle cc. dd. “astreintes”, costituenti misure coercitive indirette a carattere esclusivamente patrimoniale, che mirano ad incentivare l’adeguamento del debitore ad ogni sentenza di condanna, attraverso la previsione di una sanzione pecuniaria che la parte inadempiente dovrà versare a favore del creditore vittorioso in giudizio.
Il carattere essenzialmente sanzionatorio della misura, prevista dall’ordinamento francese con riferimento ad ogni tipo di sentenza di condanna, è dimostrato dal tenore della legge 5 luglio 1972, ove, all’art. 6, si prevede specificamente che l’astreinte è “indépendante des dommages-intérets”. La natura giuridica della misura coercitiva indiretta francese, dunque, non è ispirata alla logica riparatoria che permea la teoria generale della responsabilità civile, dovendosi configurare la sua comminatoria alla stregua di una pena privata o, più precisamente, di una sanzione civile indiretta. Trattasi, quindi, di una pena, e non di un risarcimento, che vuole sanzionare la disobbedienza all’ordine del giudice, a prescindere dalla sussistenza e dalla dimostrazione di un danno. E’ altresì pacifica, nella stessa prospettiva, la cumulabilità della penalità con il danno cagionato dall’inosservanza del precetto giudiziale, al pari della non defalcabilità dell’ammontare della sanzione dall’importo dovuto a titolo di riparazione.
Nel campo dei rapporti amministrativi la legge 8 febbraio 1995 ha poi attribuito anche ai Tribunaux Administratifs e alle Cours Administraves d’Appel il potere, prima assegnato dal decreto 30 luglio 1963 al solo Conseil d’Etat, di disporre l’astreinte a carico dell’amministrazione inadempiente, anticipando al momento della pronuncia della sentenza la possibilità di disporre il mezzo di coercizione indiretta e introducendo un nuovo potere del giudice amministrativo, nei casi in cui l’esecuzione del giudicato amministrativo comporti necessariamente l’emanazione di un provvedimento dal contenuto determinato, di ordinare all’amministrazione l’adozione dell’atto satisfattorio e, quando risulti opportuno, di fissare un termine per l’esecuzione (si veda la disciplina oggi prevista dagli artt. L.911-4 e 911-5 del code de justice administrative).
Norme simili, pur se con modulazioni diverse, sono presenti anche negli ordinamenti tedesco (c.d. Zwangsgeld) e inglese (c.d. Contempt of Court).
Le Zwangsgeld, in particolare, possono assistere esclusivamente provvedimenti di condanna a obblighi di fare infungibili o di non fare (come negli ordinamenti rumeno, greco e sloveno) e consistono in una condanna al pagamento di una somma di denaro (Zwangsgeld/Ordnungsgeld) in favore dello Stato, con la possibilità di conversione in arresto (Zwangsgeld/Ordnungshaft) nel caso in cui il debitore non disponga di un patrimonio capiente.
Il Contempt of Court, invece, può, come avviene per le astreintes francesi, essere pronunciato a fronte della violazione di ogni provvedimento dell’autorità giudiziaria, a prescindere dal suo contenuto, e consiste in una sanzione pecuniaria da versarsi allo Stato (in alternativa al sequestro di beni) o in una sanzione detentiva (arrest for the contempt of the court), con facoltà di scelta discrezionale per il giudice tra la misura patrimoniale e quella limitativa della libertà personale.
3.1. Tutte le misure descritte sono ispirate dalla medesima esigenza di offrire uno strumento di coazione all’adempimento delle pronunce giurisdizionali.
La breve ricognizione comparatistica effettuata, mettendo in luce l’eterogeneità delle opzioni abbracciate nei vari ordinamenti circa l’ambito di applicazione delle penalità di mora, consente di mettere in chiaro che la scelta attuata dall’art. 614-bis c.p.c., al pari di alcuni degli altri ordinamenti passati in rassegna, di limitare l’astreinte al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile, non deriva da un limite concettuale insito nella ratio o nella struttura ontologica dell’istituto ma è il frutto di un’opzione discrezionale del legislatore.
4. Si deve, a questo punto, segnalare che la penalità di mora disciplinata dall’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a. si distingue in modo significativo da quella prevista per il processo civile.
I profili differenziali rispetto all’omologo istituto di cui all’art. 614 bis c.p.c. sono, infatti, molteplici e di rilevante importanza:
a) mentre la sanzione di cui al 614-bis c.p.c. è adottata con la sentenza di cognizione che definisce il giudizio di merito, la penalità è irrogata dal Giudice Amministrativo, in sede di ottemperanza, con la sentenza che accerta il già intervenuto inadempimento dell’obbligo di contegno imposto dal comando giudiziale;
b) di conseguenza, nel processo civile la sanzione è ad esecuzione differita, in quanto la sentenza che la commina si atteggia a condanna condizionata (o in futuro) al fatto eventuale dell’inadempimento del precetto giudiziario nel termine all’uopo contestualmente fissato; al contrario, nel processo amministrativo l’astreinte, salva diversa valutazione del giudice, può essere di immediata esecuzione, in quanto è sancita da una sentenza che, nel giudizio d’ottemperanza di cui agli artt. 112 e seguenti c.p.a., ha già accertato l’inadempimento del debitore;
c) le astreintes disciplinate dal codice del processo amministrativo presentano, almeno sul piano formale, una portata applicativa più ampia rispetto a quelle previste nel processo civile, in quanto non si è riprodotto nell’art. 114, co. 4, lett. e, c.p.a., il limite della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile;
d) la norma del codice del processo amministrativo non richiama i parametri di quantificazione dell’ammontare della somma fissati dall’art. 614 bis c.p.c.;
e) il codice del processo amministrativo prevede, accanto al requisito positivo dell’inesecuzione della sentenza e al limite negativo della manifesta iniquità, l’ulteriore presupposto negativo consistente nella ricorrenza di “ragioni ostative”.
4.1 La questione dell’applicabilità delle astreintes nel caso in cui sia chiesta, nell’ambito di un giudizio di ottemperanza, l’esecuzione di un titolo giudiziario avente ad oggetto somme di danaro, trae origine dalla terza delle differenze delineate.
Per il processo amministrativo, infatti, manca una previsione esplicita che limiti la riferibilità delle penalità di mora al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi ad oggetto un non fare o un fare infungibile. Nasce quindi il problema relativo alla possibilità di richiedere l’applicazione delle penalità anche nel caso dell’ottemperanza a sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario.
5. Mentre la dottrina è in gran parte favorevole ad una lettura estensiva della norma de qua, la giurisprudenza amministrativa ha manifestato significative divisioni sulla questione rimessa all’Adunanza Plenaria.
5.1. L’opinione prevalente ammette l’applicazione delle penalità di mora anche per le sentenze di condanna pecuniaria (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462, Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3781; Cons. Stato, sez. V, sent., 19 giugno 2013, n. ri 3339, 3340, 3341 e 3342; Cons. Stato, sez. III, 30 maggio 2013, n. 2933; C.g.a.r.s., 30 aprile 2013, n. 424; Cons. Stato, sez. IV, 31 maggio 2012, n. 3272; Cons. Stato, sez. V, 14 maggio 2012, n. 2744; Cons. Stato, sez. V, 20 dicembre 2011 n. 6688; Cons. di Stato, Sez. IV, 21 agosto 2013, n. 4216; C.g.a.r.s., 22 gennaio 2013, n. 26; Cons. Stato sez. VI, 6 agosto 2012, n. 4523, Cons. Stato sez. VI, 4 settembre 2012, n. 4685).
Deporrebbero a favore di tale opzione ermeneutica (cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462) le seguenti argomentazioni:
a) il tenore letterale della disposizione, che, a differenza dell’art. 614-bis cod. proc. civ., non pone “alcuna distinzione per tipologie di condanne rispetto al potere del giudice di disporre, su istanza di parte, la condanna dell'amministrazione inadempiente al pagamento della penalità di mora” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462), con una scelta che “appare coerente con il rilievo che il rimedio dell’ottemperanza, grazie al potere sostitutivo esercitabile, nell’alveo di una giurisdizione di merito, dal giudice in via diretta o mediante la nomina di un commissario ad acta, non conosce, in linea di principio, l’ostacolo della non surrogabilità degli atti necessari al fine di assicurare l’esecuzione in re del precetto giudiziario” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688);
b) la peculiare natura giuridica della penalità di mora ex art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., che, in virtù della sua diretta derivazione dal modello francese delle cc. dd. “astreintes”, “assolve ad una finalità sanzionatoria e non risarcitoria in quanto non mira a riparare il pregiudizio cagionato dall’esecuzione della sentenza ma vuole sanzionare la disobbedienza alla statuizione giudiziaria e stimolare il debitore all’adempimento” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688), integrando un strumento “di pressione nei confronti della p.a., inteso ad assicurare il pieno e completo rispetto degli obblighi conformativi discendenti dal decisum giudiziale” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 462);
c) il rilievo secondo cui la matrice sanzionatoria della misura, idonea a confutare il rischio di duplicazione risarcitoria, è confermata dalla considerazione da parte dell’art. 614-bis, comma 2, cod. proc. civ., sempre nell’ottica dell’aderenza al modello francese, della misura del danno quantificato e prevedibile come “solo uno dei parametri di commisurazione in quanto prende in considerazione anche altri profili, estranei alla logica riparatoria, quali il valore della controversia, la natura della prestazione e ogni altra circostanza utile, tra cui si può annoverare il profitto tratto dal creditore per effetto del suo inadempimento” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20 dicembre 2011, n. 6688).
5.2 L’opposto orientamento dà risposta negativa alla questione (cfr. di recente Cons. Stato, Sez. IV, 13 giugno 2013 n. 3293; Cons. Stato, Sez. III, 06 dicembre 2013, n. 5819) sulla scorta delle seguenti argomentazioni:
a) la considerazione per la quale la funzione della penalità di mora nel giudizio di ottemperanza sarebbe quella di “incentivare l'esecuzione di condanne di fare o non fare infungibile prima dell'intervento del commissario ad acta, il quale comporta normalmente maggiori oneri per l'Amministrazione, oltre che maggiore dispendio di tempo per il privato”, di modo che “ove il giudizio di ottemperanza sia prescelto dalla parte per l'esecuzione di sentenza di condanna pecuniaria del giudice ordinario, la tesi favorevole all'ammissibilità dell'applicazione dell'astreinte finirebbe per consentire una tutela diversificata dello stesso credito a seconda del giudice dinanzi al quale si agisca atteso che il creditore pecuniario della p.a. nel giudizio di ottemperanza potrebbe ottenere maggiori e diverse utilità rispetto a quelle conseguibili nel giudizio di esecuzione civile solo in base ad un'opzione puramente potestativa” (cfr. Cons. di Stato, Sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819);
b) la valorizzazione dell’iniquità della condanna al pagamento di una somma di danaro laddove l'obbligo oggetto di domanda giudiziale sia esso stesso di natura pecuniaria, di talché sarebbe già assistito, per il caso di ritardo nel suo adempimento, dall’obbligo accessorio degli interessi legali, cui la somma dovuta a titolo di astreinte andrebbe ulteriormente ad aggiungersi, con le conseguenze della “duplicazione ingiustificata di misure volte a ridurre l'entità del pregiudizio derivante all'interessato dalla violazione, inosservanza o ritardo nell'esecuzione del giudicato, nonché dell’ingiustificato arricchimento del soggetto già creditore della prestazione principale e di quella accessoria” (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 6 dicembre 2013, n. 5819);
c) l’impossibilità di cumulare un modello di esecuzione surrogatoria con uno di carattere compulsorio, dal momento che il sistema nazionale di esecuzione amministrativa della decisione, connotato da caratteri di estrema incisività e pervasività, porrebbe già a presidio delle ragioni debitorie dell’amministrazione “la doppia garanzia sul piano patrimoniale del riconoscimento degli accessori del credito e su quello coercitivo generale dell’intervento del Commissario ad acta” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, ord. 18 aprile 2014, n. 2004).
6. L’Adunanza Plenaria ritiene di aderire all’orientamento prevalente che ammette l’operatività dell’istituto per tutte le decisioni di condanna adottate dal Giudice Amministrativo ex art. 112 c.p.a., ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni pecuniarie.
6.1. A sostegno dell’opzione estensiva si pone, innanzitutto, un argomento di diritto comparato.
Si deve considerare, infatti, che il sistema francese, modello sul quale sono stati coniati gli istituti nazionali che prevedono l’irrogazione della penalità di mora, è connotato da un’indiscussa funzione sanzionatoria, essendo teleologicamente orientato a costituire una pena per la disobbedienza alla statuizione giudiziaria, e non un risarcimento per il pregiudizio sofferto a causa di tale inottemperanza.
Il modello transalpino, quindi, in aderenza al favor espresso dalla giurisprudenza della CEDU verso la massima estensione, anche in executivis, dell’effettività delle decisioni giurisdizionali, dimostra che il rimedio compulsorio in esame può operare anche per le condanne pecuniarie, in quanto non conosce limiti strutturali in ragione della natura della condotta imposta dallo iussum iudicis.
Si conferma, in questo modo, che la delimitazione dell’ambito oggettivo di operatività della misura è frutto di una scelta di politica legislativa e non un limite concettuale derivante dalla fisionomia dell’istituto.
6.2. L’argomento di diritto comparato si salda con l’argomento letterale.
L’analisi del dato testuale dell’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., chiarisce, infatti, che, in sede di codificazione del processo amministrativo, il legislatore ha esercitato la sua discrezionalità, in sede di adattamento della conformazione dell’istituto alle peculiarità del processo amministrativo, nel senso di estendere il raggio d’azione delle penalità di mora a tutte le decisioni di condanna. La norma in analisi non ha, infatti, riprodotto il limite, stabilito della legge di rito civile nel titolo dell’art. 614-bis, della riferibilità del meccanismo al solo caso di inadempimento degli obblighi aventi per oggetto un non fare o un fare infungibile.
Si deve aggiungere che la norma in esame non solo non contiene un rinvio esplicito all’art. 614-bis, ma neanche richiama implicitamente il modello processual-civilistico.
Decisiva risulta la constatazione che l’art. 114, comma 4, lettera e), cod. proc. amm., modifica l’impianto normativo del rito civile prevedendo l’ulteriore limite negativo rappresentato dall’insussistenza di “ragioni ostative”.
Significativa appare, in questa direzione, anche la considerazione che nel giudizio civile l’astreinte è comminata dalla sentenza di cognizione con riguardo al fatto ipotetico del futuro inadempimento, mentre nel processo amministrativo la penalità di mora è applicata dal giudice dell’esecuzione a fronte del già inverato presupposto della trasgressione del dovere comportamentale imposto dalla sentenza che ha definito il giudizio.
Non può, dunque, essere attribuito un rilievo decisivo ai lavori preparatori, in quanto il riferimento, operato dalla Relazione governativa di accompagnamento, alla riproduzione dell’art. 614-bis cod. proc. civ., va inteso come richiamo della fisionomia dell’istituto e non come recepimento della sua disciplina puntuale.
In definitiva, a fronte dell’ampia formulazione dell’art. 114, co. IV, lett. e, cod. proc. amm., un’operazione interpretativa che intendesse colmare una lacuna che non c’è attraverso il richiamo dei limiti previsti dalla diversa norma del processo civile, si tradurrebbe in un’inammissibile analogia in malam partem volta ad assottigliare lo spettro delle tutele predisposte dal codice del processo amministrativo nel quadro di un potenziamento complessivo del giudizio di ottemperanza.
6.3. Occorre mettere l’accento, a questo punto, sull’ argomento sistematico.
La diversità delle scelte abbracciate dal legislatore per il processo civile e per quello amministrativo si giustifica in ragione della diversa architettura delle tecniche di esecuzione in cui si cala e va letto il rimedio in esame.
Nel processo civile, stante la distinzione tra sentenze eseguibili in forma specifica e pronunce non attuabili in re, la previsione della penalità di mora per le sole pronunce non eseguibili in modo forzato mira a introdurre una tecnica di coercizione indiretta che colmi l’assenza di una forma di esecuzione diretta.
Detto altrimenti, nel sistema processual-civilistico, con l’innesto della sanzione in parola il legislatore ha inteso porre rimedio all’anomalia insita nell’esistenza di sentenze di condanna senza esecuzione, dando la stura ad una tecnica compulsoria che supplisce alla mancanza di una tecnica surrogatoria.
Nel processo amministrativo, per converso, la norma si cala in un archetipo processuale in cui, grazie alle peculiarità del giudizio di ottemperanza, caratterizzato dalla nomina di un commissario ad acta con poteri sostitutivi, tutte le prestazioni sono surrogabili, senza che sia dato distinguere a seconda della natura delle condotte imposte.
La penalità di mora, in questo diverso humus processuale, assumendo una più marcata matrice sanzionatoria che completa la veste di strumento di coazione indiretta, si atteggia a tecnica compulsoria che si affianca, in termini di completamento e cumulo, alla tecnica surrogatoria che permea il giudizio d’ottemperanza.
Detta fisionomia impedisce di distinguere a seconda della natura della condotta ordinata dal giudice, posto che anche per le condotte di facere o non facere, al pari di quelle aventi ad oggetto un dare (pecuniario o no), vige il requisito della surrogabilità/fungibilità della prestazione e, quindi, l’esigenza di prevedere un rimedio compulsivo volto ad integrare quello surrogatorio.
6.4. Le considerazioni esposte sono suffragate anche dall’argomento costituzionale.
6.4.1. Non può ravvisarsi, in primo luogo, la paventata disparità collegata all’opzione potestativa, esercitabile da parte del creditore, attraverso la scelta, in sostituzione del rimedio dell’esecuzione forzata civile - priva dello strumento della penalità di mora per le sentenze di condanna pecuniaria –, dell’ottemperanza amministrativa, rafforzata dalla comminatoria delle astreintes.
Il riscontro di profili di disparità dev’essere, infatti, effettuato tenendo conto dei soggetti di diritto e non delle tecniche di tutela dagli stessi praticabili.
Ne deriva che la possibilità, per un creditore pecuniario della pubblica amministrazione, di utilizzare, in coerenza con una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e di questo Consiglio, due diversi meccanismi di esecuzione, lungi dal porre in essere una disparità di trattamento, per la quale difetterebbe il referente soggettivo discriminato, evidenzia un arricchimento del bagaglio delle tutele normativamente garantite in attuazione dell’art. 24 Cost. in una con i canoni europei e comunitari richiamati dall’art. 1 c.p.a.
6.4.2. Non può neanche ravvisarsi, sotto altra e complementare angolazione, una discriminazione ai danni del debitore pubblico, per essere lo stesso soggetto, diversamente dal debitore privato, a tecniche di esecuzione diversificate e più incisive.
Tale differenziazione è il precipitato logico e ragionevole della peculiare condizione in cui versa il soggetto pubblico destinatario di un comando giudiziale.
La pregnanza dei canoni costituzionali di imparzialità, buona amministrazione e legalità che informano l’azione dei soggetti pubblici, qualificano in termini di maggior gravità l’inosservanza, da parte di tali soggetti, del precetto giudiziale, in guisa da giustificare la previsione di tecniche di esecuzione più penetranti, tra le quali si iscrive il meccanismo delle penalità di mora.
In questo quadro va rimarcato che la previsione di cui all’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a., si inserisce armonicamente in una struttura del giudizio di ottemperanza complessivamente caratterizzata, proprio per la specialità del debitore, da un potere di intervento del giudice particolarmente intenso, come testimoniato dall’assenza del limite dell’infungibilità della prestazione, dalla previsione di una giurisdizione di merito e dall’adozione di un modello surrogatorio di tutela esecutiva.
6.5. La tesi esposta non è, infine, scalfita dall’argomento equitativo su cui fanno leva i fautori della tesi restrittiva, richiamando il rischio di duplicazione di risarcimenti, con correlativa locupletazione del creditore e depauperamento del debitore.
L’argomento è inficiato dal rilievo che la penalità di mora, come fin qui osservato, assolve ad una funzione coercitivo-sanzionatoria e non, o quanto meno non principalmente, ad una funzione riparatoria, come dimostrato, tra l’altro, dalle caratteristiche dei modelli di diritto comparato e dalla circostanza che nell’articolo 614 bis c.p.c. la misura del danno è solo uno di parametri di quantificazione dell’importo della sanzione.
Trattandosi di una pena, e non di un risarcimento, non viene in rilievo un’inammissibile doppia riparazione di un unico danno ma l’aggiunta di una misura sanzionatoria ad una tutela risarcitoria. E’, in definitiva, insito nella diversa funzione della misura, da un lato, che a tale sanzione, diversamente da quanto accade per i punitive damages, si possa accedere anche in mancanza del danno o della sua dimostrazione; e, dall’altro, che al danno da inesecuzione della decisione, da risarcire comunque in via integrale ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., si possa aggiungere una pena che il legislatore, pur se implicitamente, ha inteso destinare al creditore insoddisfatto.
Si deve soggiungere che la locupletazione lamentata, frutto della decisione legislativa di disporre un trasferimento sanzionatorio di ricchezza, ulteriore rispetto al danno, dall’autore della condotta inadempitiva alla vittima del comportamento antigiuridico, si verifica in modo identico anche per sentenze aventi un oggetto non pecuniario, per le quali parimenti il legislatore, pur se non attraverso meccanismi automatici propri degli accessori del credito pecuniario (rivalutazione e interessi), prevede l’azionabilità del diritto al risarcimento dell’intero danno da inesecuzione del giudicato (art. 112, comma 3, cit), in aggiunta alla possibilità di fare leva sul meccanismo delle penalità di mora.
Anche sotto questo punto di vista, quindi, le sentenze aventi ad oggetto un dare pecuniario non pongono problemi specifici e non presentano caratteristiche diverse rispetto alle altre pronunce di condanna.
Va soggiunto che la funzione deterrente e general-preventiva delle penalità di mora verrebbe frustrata dalla mancata erogazione della tutela in analisi ove vi sia già stato o possa essere assicurato un integrale risarcimento.
6.5.1. Si deve, infine, osservare che la considerazione delle peculiari condizioni del debitore pubblico, al pari dell’esigenza di evitare locupletazioni eccessive o sanzioni troppo afflittive, costituiscono fattori da valutare non ai fini di un’astratta inammissibilità della domanda relativa a inadempimenti pecuniari, ma in sede di verifica concreta della sussistenza dei presupposti per l’applicazione della misura nonché al momento dell’esercizio del potere discrezionale di graduazione dell’importo.
Non va sottaciuto che l’art. 114, comma 4, lett. e, c.p.a., proprio in considerazione della specialità, in questo caso favorevole, del debitore pubblico - con specifico riferimento alle difficoltà nell’adempimento collegate a vincoli normativi e di bilancio, allo stato della finanza pubblica e alla rilevanza di specifici interessi pubblici- ha aggiunto al limite negativo della manifesta iniquità, previsto nel codice di rito civile, quello, del tutto autonomo, della sussistenza di altre ragioni ostative.
Ferma restando l’assenza di preclusioni astratte sul piano dell’ammissibilità, spetterà allora al giudice dell’ottemperanza, dotato di un ampio potere discrezionale sia in sede di scrutinio delle ricordate esimenti che in sede di determinazione dell’ammontare della sanzione, verificare se le circostanza addotte dal debitore pubblico assumano rilievo al fine di negare la sanzione o di mitigarne l’importo.
7. L’Adunanza Plenaria afferma pertanto il seguente principio di diritto: “Nell’ambito del giudizio di ottemperanza la comminatoria delle penalità di mora di cui all’art. 114, comma 4, lett. e), del codice del processo amministrativo, è ammissibile per tutte le decisioni di condanna di cui al precedente art. 113, ivi comprese quelle aventi ad oggetto prestazioni di natura pecuniaria”.
8. Ciò affermato l’Adunanza Plenaria, ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., restituisce gli atti alla Sezione quarta di questo Consiglio per le ulteriori pronunce di rito, sul merito della controversia e sulle spese del giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
affermato il principio di diritto di cui in motivazione, restituisce gli atti alla Sezione quarta per ogni ulteriore statuizione di rito, nel merito della controversia e sulle spese del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 giugno 2014 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giovannini, Presidente
Riccardo Virgilio, Presidente
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Stefano Baccarini, Presidente
Alessandro Pajno, Presidente
Marzio Branca, Consigliere
Aldo Scola, Consigliere
Vito Poli, Consigliere
Francesco Caringella, Consigliere, Estensore
Maurizio Meschino, Consigliere
Carlo Deodato, Consigliere
Nicola Russo, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere
IL PRESIDENTE
L'ESTENSORE IL SEGRETARIO
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/06/2014
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: ven feb 19, 2016 8:10 pm
da panorama
la posto anche qui.
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SENTENZA N. 36
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, promossi dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con ordinanze del 14 ottobre 2013, del 27 febbraio, del 13 maggio (due ordinanze), del 17 aprile e del 3 marzo 2014, rispettivamente iscritte al n. 181 del registro ordinanze 2014 ed ai nn. 8, 9, 10, 11 e 12 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di costituzione di Basile Anna Maria, di Bellucci Marcello, di Salsano Pietro, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2016 e nella camera di consiglio del 13 gennaio 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati Ferdinando Emilio Abbate per Basile Anna Maria e Salsano Pietro, e l’avvocato dello Stato Tito Varrone per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14 ottobre 2013 (r.o. n. 181 del 2014), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il rimettente premette di dover decidere il ricorso con cui la parte ha proposto opposizione contro un decreto che, in accoglimento della domanda di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, ha stimato in un anno e dieci mesi il tempo che ha ecceduto la ragionevole durata del processo.
Si è trattato, in particolare, di un procedimento avviato proprio sulla base della legge n. 89 del 2001, a causa della eccessiva durata di un altro giudizio. Il procedimento finalizzato al ristoro del pregiudizio subito, a sua volta, ha avuto una durata complessiva di sette anni e dieci mesi e si è svolto in due gradi.
Il giudice a quo osserva che la durata del periodo oggetto di ristoro è stata determinata in applicazione dell’art. 2, comma 2-ter, introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012.
Tale disposizione stabilisce che «Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni».
Ne consegue che, sottratti i sei anni dalla durata complessiva del primo procedimento avviato in forza della legge n. 89 del 2001, residua il solo periodo già indicato di un anno e dieci mesi.
Il rimettente, dopo avere motivatamente respinto le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, osserva che la giurisprudenza di legittimità formatasi anteriormente alla novella del 2012 e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano indicato in due anni il limite di ragionevole durata complessiva del procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001.
Analoga conclusione si imporrebbe oggi, in base al dettato costituzionale, tenuto conto che il procedimento ha carattere semplificato, si svolge in un unico grado di merito, accerta fatti di immediata evidenza e persegue finalità acceleratorie.
Il legislatore, prescrivendo anche per tale procedimento un termine di durata ragionevole pari a sei anni, avrebbe violato gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.
Né il giudice potrebbe interpretare l’art. 2, comma 2-ter, in senso conforme alla Costituzione, perché esso si applica «ad ogni procedimento civile per cui non sia disposto diversamente, e non solo al giudizio ordinario di cognizione; tanto è vero che, per alcune procedure speciali, come quella esecutiva, e quella concorsuale, la legge ha previsto termini diversi e specifici».
La Corte rimettente censura, sulla base dei medesimi parametri e per analoghe ragioni, anche l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
Il giudice a quo afferma che, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale del termine complessivo di sei anni, dovrebbe trovare applicazione questa norma, parimenti sospetta di illegittimità costituzionale, e precisa che, nel caso di specie, il giudizio, sommando le fasi di merito e di legittimità, avrebbe dovuto avere la durata di quattro anni.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili.
Con riferimento all’art. 2, comma 2-ter, l’Avvocatura eccepisce che il giudice a quo avrebbe potuto adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata, in base alla quale ritenere che il limite di sei anni di durata complessiva del procedimento non sia vincolante, quando quest’ultimo ha carattere semplificato.
Inoltre la questione sarebbe inammissibile perché non potrebbe dar luogo a un intervento di questa Corte a “rime obbligate”.
3.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, la quale rileva, anzitutto, che l’art. 2, comma 2-ter, sarebbe applicabile solo ai procedimenti svoltisi in tre gradi di giudizio, in quanto la disposizione andrebbe letta in collegamento con l’art. 2, comma 2-bis, che stabilisce i termini di ragionevole durata del processo con riguardo al primo, al secondo e al terzo grado di giudizio.
Ne seguirebbe che il rito previsto dalla legge n. 89 del 2001, strutturato in due soli gradi, si sottrarrebbe alla previsione impugnata e continuerebbe ad essere soggetto al limite di durata di due anni, enunciato dalla Corte EDU.
Se tale interpretazione non fosse condivisa, la Corte dovrebbe accogliere la questione di legittimità costituzionale.
4.– Con ordinanza del 27 febbraio 2014 (r.o. n. 8 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001 e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni e sette mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate.
Dopo avere ribadito le eccezioni di inammissibilità svolte nel precedente giudizio con riguardo alla questione vertente sull’art. 2, comma 2-ter, la difesa dello Stato rileva che è sopraggiunta la sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione civile, 6 novembre 2014, n. 23745, con la quale è stato statuito che il termine di sei anni ivi previsto si applica ai soli processi strutturati su tre gradi di giudizio. Il procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001 non sarebbe perciò disciplinato da tale disposizione e spetterebbe al giudice decidere quale ne sia la ragionevole durata.
Per tali ragioni, la questione sarebbe non fondata.
6.– Con ordinanza del 13 maggio 2014 (r.o. n. 9 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, cinque anni e dieci mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni.
7.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
8.– Con ordinanza del 13 maggio 2014 (r.o. n. 10 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni, nove mesi e sedici giorni.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni.
9.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti del tutto analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
10.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, che chiede l’accoglimento delle questioni, sviluppando argomenti analoghi a quelli proposti dal giudice a quo. La parte aggiunge che la dichiarazione di illegittimità costituzionale sarebbe a “rime obbligate”, poiché la giurisprudenza della Corte EDU ha fissato in due anni il termine di ragionevole durata complessiva della procedura prevista dalla legge n. 89 del 2001, escludendo la compatibilità con la CEDU di un termine più lungo, in ragione della semplicità dell’accertamento e delle finalità cui esso risponde.
11.– Con ordinanza del 17 aprile 2014 (r.o. n. 11 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2 -ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, quattro anni, otto mesi e quindici giorni.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
12.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli enunciati nei precedenti giudizi.
13.– Con ordinanza del 3 marzo 2014 (r.o. n. 12 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni e otto mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
14.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
15.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, svolgendo considerazioni analoghe a quelle formulate dalla parte privata nel giudizio iscritto al n. 181 del registro ordinanze 2014.
16.– Con due memorie di analogo tenore, le parti private dei giudizi iscritti al n. 181 del registro ordinanze 2014 e al n. 12 del registro ordinanze 2015 hanno evidenziato che il più recente indirizzo della Corte di cassazione esclude l’applicabilità dell’art. 2, comma 2-ter, ai procedimenti che non sono strutturati in tre gradi di giudizio, e in particolare a quelli disciplinati dalla legge n. 89 del 2001.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con sei ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 181 del 2014 e nn. 8, 9, 10, 11 e 12 del 2015), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001 assicura un’equa riparazione a chi abbia subito un danno conseguente all’irragionevole durata di un processo.
Le disposizioni oggetto di censura sono state introdotte dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012, al fine di adottare una disciplina legale dei termini entro cui il giudizio deve reputarsi rispettoso del principio della ragionevole durata del processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
L’art. 2, comma 2-bis, stabilisce, a tale proposito, che il termine è considerato ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, due in secondo grado e un anno nel giudizio di legittimità.
L’art. 2, comma 2-ter, aggiunge che «Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni».
I rimettenti sono chiamati a pronunciarsi su domande di condanna all’equa riparazione, conseguenti all’eccessiva protrazione di procedimenti regolati a loro volta dalla legge n. 89 del 2001, e sostengono di dover applicare le norme impugnate.
Per tale peculiare ipotesi, i giudici a quibus ritengono che entrambi i termini indicati dalle disposizioni censurate siano incompatibili con quanto previsto, sulla base dell’art. 6 della CEDU, dalla Corte europea del diritti dell’uomo e dalla stessa giurisprudenza di legittimità consolidatasi prima della novella recata dal d.l. n. 83 del 2012, anche in forza dell’art. 111, secondo comma, Cost.
La Corte europea avrebbe infatti reiteratamente affermato che grava un peculiare onere di diligenza sullo Stato già inadempiente all’obbligo di assicurare la ragionevole durata di un processo. Per questa ragione, il diritto all’equa riparazione dovuta a causa dell’eccessiva protrazione di un procedimento disciplinato dalla legge n. 89 del 2001 andrebbe soddisfatto con particolare celerità, mentre non sarebbero a tal fine adeguati i termini previsti in via generale, con riferimento alla durata dell’ordinario processo di cognizione.
In applicazione di questi principi, la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto congruo il termine di durata di un anno, per l’unico grado di merito del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, e quello di un ulteriore anno, relativamente al giudizio di legittimità previsto da tale legge, per complessivi due anni (da ultimo, Corte di cassazione, sezioni unite civili, 19 marzo 2014, n. 6312).
I rimettenti, reputando tali termini conformi all’art. 111, secondo comma, Cost. e all’art. 6 della CEDU, denunciano le disposizioni censurate, anche con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., «nella parte in cui si applicano anche ai procedimenti di equa riparazione» previsti dalla legge n. 89 del 2001.
2.– I giudizi vertono sulle medesime disposizioni e pongono analoghe questioni, sicché ne appare opportuna la riunione, ai fini di una decisione congiunta.
3.– L’art. 2, comma 2-bis, viene impugnato da alcuni rimettenti (r.o. n. 181 del 2014 e nn. 8, 11 e 12 del 2015), sia nella parte in cui indica la «ragionevole» durata del procedimento di primo grado, sia in quella relativa al giudizio di legittimità. Tuttavia, solo nel caso dell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2014 il rimettente dà conto dello svolgimento del giudizio di cassazione, nell’ambito del procedimento regolato dalla cosiddetta legge Pinto, per il quale è chiesta l’equa riparazione, mentre dalle ordinanze iscritte ai nn. 8, 11 e 12 del registro ordinanze 2015 risulta che tale ricorso non ha avuto luogo.
Ne consegue, solo per queste ultime, l’inammissibilità per difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte relativa al termine di ragionevole durata del giudizio di legittimità.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, perché i giudici a quibus avrebbero omesso di adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni impugnate. Queste ultime, in tale prospettiva, si limiterebbero ad introdurre un «parametro cui il giudice deve attenersi senza esserne vincolato in termini assoluti», potendone invece prescindere alla luce della natura del procedimento.
L’eccezione è manifestamente infondata.
L’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (sentenza n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale.
I commi 2-bis e 2-ter dell’art. 2, nell’affermare che il termine ivi indicato «Si considera rispettato», sono univoci e non possono che essere intesi nel senso che tale termine va ritenuto ragionevole. Ciò appare tanto più vero, se si tiene a mente che questa affermazione è stata fatta nell’ambito di un intervento normativo segnato dall’intento del legislatore di sottrarre alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della congruità del termine, per affidarla invece ad una previsione legale di carattere generale.
Si può aggiungere fin d’ora che, in tal modo, e in coerenza con quest’ultima finalità, è stato regolato l’insieme dei processi civili di cognizione, e dunque anche il procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001, cui la giurisprudenza di legittimità ha costantemente attribuito tale natura. Difatti, lo stesso art. 2, comma 2-bis, di tale legge reca previsioni speciali esclusivamente per il procedimento di esecuzione forzata e per le procedure concorsuali.
5.– L’Avvocatura generale dello Stato ha, altresì, eccepito l’inammissibilità delle questioni perché ad esse non corrisponderebbe una soluzione costituzionalmente obbligata, spettando al legislatore individuare il termine congruo di durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, una volta dichiarati illegittimi i termini ora previsti dalle disposizioni censurate.
L’eccezione è infondata.
I rimettenti, sulla scia della consolidata giurisprudenza europea, si limitano a denunciare l’illegittimità costituzionale della scelta del legislatore di equiparare la ragionevole durata complessiva dei procedimenti regolati dalla legge n. 89 del 2001 a quella di ogni altro procedimento civile di cognizione, quando, invece, gli artt. 3 e 111 Cost. e l’art. 6 della CEDU imporrebbero che essa sia più contenuta. In tale prospettiva, i giudici a quibus non sono certamente tenuti ad indicare quali termini siano adeguati al caso di specie, né l’eventuale discrezionalità del legislatore nel rimodularli può essere d’ostacolo alla rimozione di norme che, in ipotesi, determinano un vulnus alla Costituzione.
Peraltro, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella della Corte di cassazione antecedente alla novella introdotta dal d.l. n. 83 del 2012 ben possono soccorrere l’interprete nella immediata individuazione del termine di durata ragionevole, ove l’intervento del legislatore ritardi o manchi del tutto.
6.– L’Avvocatura ha poi osservato che l’art. 2, comma 2-ter, non sarebbe applicabile ai procedimenti previsti dalla legge n. 89 del 2001, perché essi sono articolati su due gradi di giudizio, mentre il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera «comunque» ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi.
In effetti, appare chiaro il collegamento tra l’art. 2, comma 2-bis, ed il successivo comma 2-ter. La prima disposizione contiene la ragionevole durata del processo entro tre anni per il primo grado, due per il secondo e uno per il giudizio di legittimità, per un totale di sei anni. La seconda norma, riferendosi proprio a quest’ultimo arco temporale, permette di compensare le violazioni determinatesi in una fase con l’eventuale recupero goduto in un’altra, a condizione che non si superi il limite complessivo di sei anni.
L’art. 2, comma 2-ter, pertanto, benché sia in linea astratta riferibile a qualunque procedimento civile di cognizione, non potrà in concreto trovare applicazione nel procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, che non è strutturato in tre gradi di giudizio. In questa direzione si è infatti pronunciata la Corte di cassazione (a partire dalla sentenza della sesta sezione civile, 6 novembre 2014, n. 23745).
Ne consegue che le questioni relative all’art. 2, comma 2-ter, sono inammissibili per difetto di rilevanza, posto che i rimettenti non sono chiamati ad applicare tale disposizione.
7.– Sono invece ammissibili le questioni relative all’art. 2, comma 2-bis, nei limiti di quanto già precisato al punto 3. del Considerato in diritto, poiché i giudici a quibus che hanno compiutamente descritto la fattispecie sono tenuti all’applicazione della norma, sia nel caso in cui il limite ivi indicato non sia stato superato (ciò che li obbligherebbe a rigettare la domanda di equa riparazione), sia per l’ipotesi contraria, ai fini della quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001.
8.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel primo e unico grado di merito, è fondata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
Dalla giurisprudenza europea consolidata si evince (sentenza n. 49 del 2015) il principio di diritto, secondo cui lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, e che, comunque, non sono costruite per rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 6 marzo 2012, Gagliano Giorgi contro Italia; sentenza 27 settembre 2011, CE.DI.SA Fortore snc Diagnostica Medica Chirurgica contro Italia; sentenza 21 dicembre 2010, Belperio e Ciarmoli contro Italia).
Ne consegue che l’art. 6 della CEDU, il cui significato si forma attraverso il reiterato ed uniforme esercizio della giurisprudenza europea sui casi di specie (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale.
Quest’ultima, in applicazione degli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., alla luce dell’interpretazione data dal giudice europeo all’art. 6 della CEDU, aveva in precedenza determinato il termine ragionevole di cui si discute, per il caso di procedimento svoltosi in entrambi i gradi previsti, in due anni, che è il limite di regola ammesso dalla Corte EDU.
Inoltre, questa Corte ha recentemente precisato che la discrezionalità del legislatore nella costruzione del rimedio giudiziale in questione, e in particolar modo nella specificazione dei criteri di quantificazione della somma dovuta, non si presta «in linea astratta ad incidere sull’an stesso del diritto, anziché sul quantum» (sentenza n. 184 del 2015), come invece accadrebbe se, per effetto della norma censurata, dovesse venire integralmente rigettata la domanda di equa riparazione.
Ne consegue che la disposizione impugnata, imponendo di considerare ragionevole la durata del procedimento di primo grado regolato dalla legge n. 89 del 2001, quando la stessa non eccede i tre anni, viola gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., posto che questo solo termine comporta che la durata complessiva del giudizio possa essere superiore al limite biennale adottato dalla Corte europea (e dalla giurisprudenza nazionale sulla base di quest’ultima) per un procedimento regolato da tale legge, che si svolga invece in due gradi.
L’art. 2, comma 2-bis, va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001.
Resta assorbita la censura relativa all’art. 3, primo comma, Cost.
9.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in un anno la ragionevole durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, non è fondata.
Il termine annuale scelto dal legislatore è conforme alle indicazioni di massima provenienti dalla Corte europea e recepite dalla giurisprudenza nazionale. Inoltre, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della previsione concernente la durata del processo di primo grado fa sì che la ragionevole durata complessiva di un procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, in concreto articolatosi su due gradi di giudizio, sia inferiore a quella stabilita per gli altri procedimenti ordinari di cognizione, e comunque possa essere contenuta nel tetto di due anni, in conformità agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.
Una volta accertata tale conformità, va considerato, per quanto concerne l’art. 3, primo comma, Cost., che rientra nel margine di apprezzamento discrezionale del legislatore equiparare la durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel giudizio di impugnazione a quella considerata ragionevole in via generale per i giudizi davanti alla Corte di cassazione, anche alla luce delle peculiarità proprie del giudizio di legittimità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con le ordinanze iscritte ai nn. 8, 11 e 12 del registro ordinanze 2015;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-ter, della legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con le ordinanze indicate in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con l’ordinanza iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2014.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2016.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2016.
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: dom feb 21, 2016 7:10 pm
da Briscola
panorama ha scritto:la posto anche qui.
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SENTENZA N. 36
ANNO 2016
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, promossi dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con ordinanze del 14 ottobre 2013, del 27 febbraio, del 13 maggio (due ordinanze), del 17 aprile e del 3 marzo 2014, rispettivamente iscritte al n. 181 del registro ordinanze 2014 ed ai nn. 8, 9, 10, 11 e 12 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di costituzione di Basile Anna Maria, di Bellucci Marcello, di Salsano Pietro, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2016 e nella camera di consiglio del 13 gennaio 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;
uditi gli avvocati Ferdinando Emilio Abbate per Basile Anna Maria e Salsano Pietro, e l’avvocato dello Stato Tito Varrone per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 14 ottobre 2013 (r.o. n. 181 del 2014), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il rimettente premette di dover decidere il ricorso con cui la parte ha proposto opposizione contro un decreto che, in accoglimento della domanda di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, ha stimato in un anno e dieci mesi il tempo che ha ecceduto la ragionevole durata del processo.
Si è trattato, in particolare, di un procedimento avviato proprio sulla base della legge n. 89 del 2001, a causa della eccessiva durata di un altro giudizio. Il procedimento finalizzato al ristoro del pregiudizio subito, a sua volta, ha avuto una durata complessiva di sette anni e dieci mesi e si è svolto in due gradi.
Il giudice a quo osserva che la durata del periodo oggetto di ristoro è stata determinata in applicazione dell’art. 2, comma 2-ter, introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012.
Tale disposizione stabilisce che «Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni».
Ne consegue che, sottratti i sei anni dalla durata complessiva del primo procedimento avviato in forza della legge n. 89 del 2001, residua il solo periodo già indicato di un anno e dieci mesi.
Il rimettente, dopo avere motivatamente respinto le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, osserva che la giurisprudenza di legittimità formatasi anteriormente alla novella del 2012 e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano indicato in due anni il limite di ragionevole durata complessiva del procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001.
Analoga conclusione si imporrebbe oggi, in base al dettato costituzionale, tenuto conto che il procedimento ha carattere semplificato, si svolge in un unico grado di merito, accerta fatti di immediata evidenza e persegue finalità acceleratorie.
Il legislatore, prescrivendo anche per tale procedimento un termine di durata ragionevole pari a sei anni, avrebbe violato gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.
Né il giudice potrebbe interpretare l’art. 2, comma 2-ter, in senso conforme alla Costituzione, perché esso si applica «ad ogni procedimento civile per cui non sia disposto diversamente, e non solo al giudizio ordinario di cognizione; tanto è vero che, per alcune procedure speciali, come quella esecutiva, e quella concorsuale, la legge ha previsto termini diversi e specifici».
La Corte rimettente censura, sulla base dei medesimi parametri e per analoghe ragioni, anche l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
Il giudice a quo afferma che, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale del termine complessivo di sei anni, dovrebbe trovare applicazione questa norma, parimenti sospetta di illegittimità costituzionale, e precisa che, nel caso di specie, il giudizio, sommando le fasi di merito e di legittimità, avrebbe dovuto avere la durata di quattro anni.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili.
Con riferimento all’art. 2, comma 2-ter, l’Avvocatura eccepisce che il giudice a quo avrebbe potuto adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata, in base alla quale ritenere che il limite di sei anni di durata complessiva del procedimento non sia vincolante, quando quest’ultimo ha carattere semplificato.
Inoltre la questione sarebbe inammissibile perché non potrebbe dar luogo a un intervento di questa Corte a “rime obbligate”.
3.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, la quale rileva, anzitutto, che l’art. 2, comma 2-ter, sarebbe applicabile solo ai procedimenti svoltisi in tre gradi di giudizio, in quanto la disposizione andrebbe letta in collegamento con l’art. 2, comma 2-bis, che stabilisce i termini di ragionevole durata del processo con riguardo al primo, al secondo e al terzo grado di giudizio.
Ne seguirebbe che il rito previsto dalla legge n. 89 del 2001, strutturato in due soli gradi, si sottrarrebbe alla previsione impugnata e continuerebbe ad essere soggetto al limite di durata di due anni, enunciato dalla Corte EDU.
Se tale interpretazione non fosse condivisa, la Corte dovrebbe accogliere la questione di legittimità costituzionale.
4.– Con ordinanza del 27 febbraio 2014 (r.o. n. 8 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001 e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni e sette mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate.
Dopo avere ribadito le eccezioni di inammissibilità svolte nel precedente giudizio con riguardo alla questione vertente sull’art. 2, comma 2-ter, la difesa dello Stato rileva che è sopraggiunta la sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione civile, 6 novembre 2014, n. 23745, con la quale è stato statuito che il termine di sei anni ivi previsto si applica ai soli processi strutturati su tre gradi di giudizio. Il procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001 non sarebbe perciò disciplinato da tale disposizione e spetterebbe al giudice decidere quale ne sia la ragionevole durata.
Per tali ragioni, la questione sarebbe non fondata.
6.– Con ordinanza del 13 maggio 2014 (r.o. n. 9 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, cinque anni e dieci mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni.
7.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
8.– Con ordinanza del 13 maggio 2014 (r.o. n. 10 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni, nove mesi e sedici giorni.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni.
9.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti del tutto analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
10.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, che chiede l’accoglimento delle questioni, sviluppando argomenti analoghi a quelli proposti dal giudice a quo. La parte aggiunge che la dichiarazione di illegittimità costituzionale sarebbe a “rime obbligate”, poiché la giurisprudenza della Corte EDU ha fissato in due anni il termine di ragionevole durata complessiva della procedura prevista dalla legge n. 89 del 2001, escludendo la compatibilità con la CEDU di un termine più lungo, in ragione della semplicità dell’accertamento e delle finalità cui esso risponde.
11.– Con ordinanza del 17 aprile 2014 (r.o. n. 11 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2 -ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, quattro anni, otto mesi e quindici giorni.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
12.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli enunciati nei precedenti giudizi.
13.– Con ordinanza del 3 marzo 2014 (r.o. n. 12 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni e otto mesi.
Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.
14.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.
15.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, svolgendo considerazioni analoghe a quelle formulate dalla parte privata nel giudizio iscritto al n. 181 del registro ordinanze 2014.
16.– Con due memorie di analogo tenore, le parti private dei giudizi iscritti al n. 181 del registro ordinanze 2014 e al n. 12 del registro ordinanze 2015 hanno evidenziato che il più recente indirizzo della Corte di cassazione esclude l’applicabilità dell’art. 2, comma 2-ter, ai procedimenti che non sono strutturati in tre gradi di giudizio, e in particolare a quelli disciplinati dalla legge n. 89 del 2001.
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con sei ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 181 del 2014 e nn. 8, 9, 10, 11 e 12 del 2015), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001 assicura un’equa riparazione a chi abbia subito un danno conseguente all’irragionevole durata di un processo.
Le disposizioni oggetto di censura sono state introdotte dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012, al fine di adottare una disciplina legale dei termini entro cui il giudizio deve reputarsi rispettoso del principio della ragionevole durata del processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
L’art. 2, comma 2-bis, stabilisce, a tale proposito, che il termine è considerato ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, due in secondo grado e un anno nel giudizio di legittimità.
L’art. 2, comma 2-ter, aggiunge che «Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni».
I rimettenti sono chiamati a pronunciarsi su domande di condanna all’equa riparazione, conseguenti all’eccessiva protrazione di procedimenti regolati a loro volta dalla legge n. 89 del 2001, e sostengono di dover applicare le norme impugnate.
Per tale peculiare ipotesi, i giudici a quibus ritengono che entrambi i termini indicati dalle disposizioni censurate siano incompatibili con quanto previsto, sulla base dell’art. 6 della CEDU, dalla Corte europea del diritti dell’uomo e dalla stessa giurisprudenza di legittimità consolidatasi prima della novella recata dal d.l. n. 83 del 2012, anche in forza dell’art. 111, secondo comma, Cost.
La Corte europea avrebbe infatti reiteratamente affermato che grava un peculiare onere di diligenza sullo Stato già inadempiente all’obbligo di assicurare la ragionevole durata di un processo. Per questa ragione, il diritto all’equa riparazione dovuta a causa dell’eccessiva protrazione di un procedimento disciplinato dalla legge n. 89 del 2001 andrebbe soddisfatto con particolare celerità, mentre non sarebbero a tal fine adeguati i termini previsti in via generale, con riferimento alla durata dell’ordinario processo di cognizione.
In applicazione di questi principi, la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto congruo il termine di durata di un anno, per l’unico grado di merito del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, e quello di un ulteriore anno, relativamente al giudizio di legittimità previsto da tale legge, per complessivi due anni (da ultimo, Corte di cassazione, sezioni unite civili, 19 marzo 2014, n. 6312).
I rimettenti, reputando tali termini conformi all’art. 111, secondo comma, Cost. e all’art. 6 della CEDU, denunciano le disposizioni censurate, anche con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., «nella parte in cui si applicano anche ai procedimenti di equa riparazione» previsti dalla legge n. 89 del 2001.
2.– I giudizi vertono sulle medesime disposizioni e pongono analoghe questioni, sicché ne appare opportuna la riunione, ai fini di una decisione congiunta.
3.– L’art. 2, comma 2-bis, viene impugnato da alcuni rimettenti (r.o. n. 181 del 2014 e nn. 8, 11 e 12 del 2015), sia nella parte in cui indica la «ragionevole» durata del procedimento di primo grado, sia in quella relativa al giudizio di legittimità. Tuttavia, solo nel caso dell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2014 il rimettente dà conto dello svolgimento del giudizio di cassazione, nell’ambito del procedimento regolato dalla cosiddetta legge Pinto, per il quale è chiesta l’equa riparazione, mentre dalle ordinanze iscritte ai nn. 8, 11 e 12 del registro ordinanze 2015 risulta che tale ricorso non ha avuto luogo.
Ne consegue, solo per queste ultime, l’inammissibilità per difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte relativa al termine di ragionevole durata del giudizio di legittimità.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, perché i giudici a quibus avrebbero omesso di adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni impugnate. Queste ultime, in tale prospettiva, si limiterebbero ad introdurre un «parametro cui il giudice deve attenersi senza esserne vincolato in termini assoluti», potendone invece prescindere alla luce della natura del procedimento.
L’eccezione è manifestamente infondata.
L’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (sentenza n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale.
I commi 2-bis e 2-ter dell’art. 2, nell’affermare che il termine ivi indicato «Si considera rispettato», sono univoci e non possono che essere intesi nel senso che tale termine va ritenuto ragionevole. Ciò appare tanto più vero, se si tiene a mente che questa affermazione è stata fatta nell’ambito di un intervento normativo segnato dall’intento del legislatore di sottrarre alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della congruità del termine, per affidarla invece ad una previsione legale di carattere generale.
Si può aggiungere fin d’ora che, in tal modo, e in coerenza con quest’ultima finalità, è stato regolato l’insieme dei processi civili di cognizione, e dunque anche il procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001, cui la giurisprudenza di legittimità ha costantemente attribuito tale natura. Difatti, lo stesso art. 2, comma 2-bis, di tale legge reca previsioni speciali esclusivamente per il procedimento di esecuzione forzata e per le procedure concorsuali.
5.– L’Avvocatura generale dello Stato ha, altresì, eccepito l’inammissibilità delle questioni perché ad esse non corrisponderebbe una soluzione costituzionalmente obbligata, spettando al legislatore individuare il termine congruo di durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, una volta dichiarati illegittimi i termini ora previsti dalle disposizioni censurate.
L’eccezione è infondata.
I rimettenti, sulla scia della consolidata giurisprudenza europea, si limitano a denunciare l’illegittimità costituzionale della scelta del legislatore di equiparare la ragionevole durata complessiva dei procedimenti regolati dalla legge n. 89 del 2001 a quella di ogni altro procedimento civile di cognizione, quando, invece, gli artt. 3 e 111 Cost. e l’art. 6 della CEDU imporrebbero che essa sia più contenuta. In tale prospettiva, i giudici a quibus non sono certamente tenuti ad indicare quali termini siano adeguati al caso di specie, né l’eventuale discrezionalità del legislatore nel rimodularli può essere d’ostacolo alla rimozione di norme che, in ipotesi, determinano un vulnus alla Costituzione.
Peraltro, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella della Corte di cassazione antecedente alla novella introdotta dal d.l. n. 83 del 2012 ben possono soccorrere l’interprete nella immediata individuazione del termine di durata ragionevole, ove l’intervento del legislatore ritardi o manchi del tutto.
6.– L’Avvocatura ha poi osservato che l’art. 2, comma 2-ter, non sarebbe applicabile ai procedimenti previsti dalla legge n. 89 del 2001, perché essi sono articolati su due gradi di giudizio, mentre il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera «comunque» ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi.
In effetti, appare chiaro il collegamento tra l’art. 2, comma 2-bis, ed il successivo comma 2-ter. La prima disposizione contiene la ragionevole durata del processo entro tre anni per il primo grado, due per il secondo e uno per il giudizio di legittimità, per un totale di sei anni. La seconda norma, riferendosi proprio a quest’ultimo arco temporale, permette di compensare le violazioni determinatesi in una fase con l’eventuale recupero goduto in un’altra, a condizione che non si superi il limite complessivo di sei anni.
L’art. 2, comma 2-ter, pertanto, benché sia in linea astratta riferibile a qualunque procedimento civile di cognizione, non potrà in concreto trovare applicazione nel procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, che non è strutturato in tre gradi di giudizio. In questa direzione si è infatti pronunciata la Corte di cassazione (a partire dalla sentenza della sesta sezione civile, 6 novembre 2014, n. 23745).
Ne consegue che le questioni relative all’art. 2, comma 2-ter, sono inammissibili per difetto di rilevanza, posto che i rimettenti non sono chiamati ad applicare tale disposizione.
7.– Sono invece ammissibili le questioni relative all’art. 2, comma 2-bis, nei limiti di quanto già precisato al punto 3. del Considerato in diritto, poiché i giudici a quibus che hanno compiutamente descritto la fattispecie sono tenuti all’applicazione della norma, sia nel caso in cui il limite ivi indicato non sia stato superato (ciò che li obbligherebbe a rigettare la domanda di equa riparazione), sia per l’ipotesi contraria, ai fini della quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001.
8.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel primo e unico grado di merito, è fondata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.
Dalla giurisprudenza europea consolidata si evince (sentenza n. 49 del 2015) il principio di diritto, secondo cui lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, e che, comunque, non sono costruite per rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 6 marzo 2012, Gagliano Giorgi contro Italia; sentenza 27 settembre 2011, CE.DI.SA Fortore snc Diagnostica Medica Chirurgica contro Italia; sentenza 21 dicembre 2010, Belperio e Ciarmoli contro Italia).
Ne consegue che l’art. 6 della CEDU, il cui significato si forma attraverso il reiterato ed uniforme esercizio della giurisprudenza europea sui casi di specie (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale.
Quest’ultima, in applicazione degli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., alla luce dell’interpretazione data dal giudice europeo all’art. 6 della CEDU, aveva in precedenza determinato il termine ragionevole di cui si discute, per il caso di procedimento svoltosi in entrambi i gradi previsti, in due anni, che è il limite di regola ammesso dalla Corte EDU.
Inoltre, questa Corte ha recentemente precisato che la discrezionalità del legislatore nella costruzione del rimedio giudiziale in questione, e in particolar modo nella specificazione dei criteri di quantificazione della somma dovuta, non si presta «in linea astratta ad incidere sull’an stesso del diritto, anziché sul quantum» (sentenza n. 184 del 2015), come invece accadrebbe se, per effetto della norma censurata, dovesse venire integralmente rigettata la domanda di equa riparazione.
Ne consegue che la disposizione impugnata, imponendo di considerare ragionevole la durata del procedimento di primo grado regolato dalla legge n. 89 del 2001, quando la stessa non eccede i tre anni, viola gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., posto che questo solo termine comporta che la durata complessiva del giudizio possa essere superiore al limite biennale adottato dalla Corte europea (e dalla giurisprudenza nazionale sulla base di quest’ultima) per un procedimento regolato da tale legge, che si svolga invece in due gradi.
L’art. 2, comma 2-bis, va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001.
Resta assorbita la censura relativa all’art. 3, primo comma, Cost.
9.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in un anno la ragionevole durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, non è fondata.
Il termine annuale scelto dal legislatore è conforme alle indicazioni di massima provenienti dalla Corte europea e recepite dalla giurisprudenza nazionale. Inoltre, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della previsione concernente la durata del processo di primo grado fa sì che la ragionevole durata complessiva di un procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, in concreto articolatosi su due gradi di giudizio, sia inferiore a quella stabilita per gli altri procedimenti ordinari di cognizione, e comunque possa essere contenuta nel tetto di due anni, in conformità agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.
Una volta accertata tale conformità, va considerato, per quanto concerne l’art. 3, primo comma, Cost., che rientra nel margine di apprezzamento discrezionale del legislatore equiparare la durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel giudizio di impugnazione a quella considerata ragionevole in via generale per i giudizi davanti alla Corte di cassazione, anche alla luce delle peculiarità proprie del giudizio di legittimità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con le ordinanze iscritte ai nn. 8, 11 e 12 del registro ordinanze 2015;
3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-ter, della legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con le ordinanze indicate in epigrafe;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con l’ordinanza iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2014.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2016.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2016.
Vedasi Sentenza n.1562 Corte Cassazione, Sezione VI del 27 gennaio 2016.
Re: Equa riparazione legge pinto. Piantoni h24
Inviato: gio apr 26, 2018 3:17 pm
da panorama
Egr. colleghi tutti, copiate questa sentenza della Corte Costituzionale e inviatela ai vostri avvocati per quanto riguarda la c.d.. "equa riparazione" Legge Pinto sulla lunga durata dei processi.
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1) - quattro ordinanze di analogo tenore, della Corte di cassazione, sezione sesta civile.
La Corte Costituzionale precisa:
2) - Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, è fondata.
3) - Secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU, i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che il procedimento diventi eccessivamente lungo; tuttavia, per i paesi dove esistono già violazioni legate alla sua durata, per quanto auspicabili per l’avvenire, possono rivelarsi inadeguati (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
4) - Alla stregua delle considerazioni che precedono si deve concludere che, nonostante l’invito rivolto da questa Corte con la sentenza n. 30 del 2014, il legislatore non ha rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato e che, pertanto, l’art. 4 della legge n. 89 del 2001 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto (analogamente, sentenza n. 3 del 1997).
5) - Infatti, «[p]osta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma […] omette di prevedere. […] Spetterà, infatti,
- ) - da un lato,
ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione;
- ) - e, dall’altro,
al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione» (sentenza n. 113 del 2011).
N.B.: rileggi il punto n. 5.
e per il resto, leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA N. 88
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Frano MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANO’ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – promossi dalla Corte di cassazione, sezione sesta civile, con due ordinanze del 20 dicembre 2016, e con ordinanze del 16 febbraio e del 23 gennaio 2017, iscritte rispettivamente ai nn. 68, 69, 73 e 148 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 20, 21 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione di G. D. e altri e di G.A. F., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella udienza pubblica del 20 marzo e nella camera di consiglio del 21 marzo 2018 il Giudice relatore Aldo Carosi;
uditi gli avvocati Stefano Viti per G. D. e altri, Andrea Saccucci per G.A. F. e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 10 dicembre 2016 (reg. ord. n. 68 del 2017) la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
L’art. 4 della legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto), nella versione censurata, prevede che «[l]a domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva».
Il rimettente riferisce di alcuni ricorrenti che si erano rivolti alla Corte d’appello di Perugia per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale loro derivato dall’irragionevole durata del giudizio instaurato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio in data 13 marzo 1997 e definito con decreto di perenzione del 14 gennaio 2013. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda inammissibile, pronuncia confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che il decreto di perenzione non era ancora divenuto definitivo.
Adito per la cassazione del decreto che aveva deciso sull’opposizione, il giudice a quo condivide l’interpretazione dell’art. 4 della legge n. 89 del 2011 seguita dalla Corte d’appello e ormai assurta a “diritto vivente”, che esclude la proponibilità della domanda di equa riparazione durante la pendenza del giudizio presupposto, nondimeno dubita della sua legittimità costituzionale, così come sarebbe stato ritenuto, ma non dichiarato, da questa Corte nella sentenza n. 30 del 2014, laddove ha ravvisato nel differimento dell’esperibilità del rimedio all’esito del giudizio presupposto un pregiudizio alla sua effettività, sollecitando l’intervento del legislatore.
Poiché il vulnus costituzionale riscontrato non sarebbe stato ovviato dai rimedi preventivi introdotti dall’art. 1, comma 777, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» – volti a prevenire l’irragionevole durata del processo ma non incidenti sull’effettività della tutela indennitaria una volta che la soglia dell’eccessiva durata sia stata oltrepassata – sarebbe rimasto inascoltato il monito impartito da questa Corte e irrisolto il problema del differimento, perdurando i profili di illegittimità in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., aggravati dalla non reiterabilità della domanda di equa riparazione prematuramente proposta, sebbene, frattanto, il giudizio presupposto sia stato irretrattabilmente definito.
La questione sarebbe rilevante in quanto i ricorrenti hanno proposto domanda di equa riparazione prima che divenisse definitivo il decreto di perenzione e, perciò, si sono visti precludere l’accesso alla tutela indennitaria.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione.
Ad avviso dell’interveniente, il rimettente si sarebbe limitato a evocare i parametri costituzionali asseritamente violati, senza indicare i motivi del preteso contrasto. Né sarebbe sufficiente richiamare gli argomenti sviluppati nell’ambito del precedente giudizio di costituzionalità conclusosi con la sentenza n. 30 del 2014, stante il divieto di motivazione per relationem. Peraltro, la questione di legittimità costituzionale sollevata divergerebbe da quella precedentemente scrutinata, rendendo inevitabilmente necessario chiarire le ragioni delle censure.
Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, il rimettente avrebbe erroneamente identificato la norma da censurare, atteso che il divieto di riproposizione della domanda respinta sarebbe previsto dall’art. 3, comma 6, della legge n. 89 del 2001, e, comunque, non avrebbe esperito un tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto degli artt. 3, comma 6, e 4 della legge Pinto, tale da limitare il divieto di riproposizione della domanda alla sola ipotesi di reiezione nel merito e non per ragioni processuali, che di principio non sarebbero suscettibili di giudicato.
Ancora, l’interveniente sostiene che il giudice a quo non avrebbe indicato la ragione ostativa all’esame nel merito della domanda di equa riparazione nel caso in cui la condizione della definizione del giudizio presupposto fosse sopravvenuta nelle more, né avrebbe motivato sulla legittimità costituzionale dell’imputazione alla parte degli effetti della mancata diligenza professionale del difensore nell’accertare la sussistenza del requisito previsto.
In ultimo, l’intervento additivo richiesto rivestirebbe connotati di manipolatività in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, sconfinando inevitabilmente nella discrezionalità del legislatore, così come già ritenuto dalla sentenza n. 30 del 2014.
Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato evidenzia, anzitutto, che, in ossequio alla sollecitazione contenuta nella sentenza n. 30 del 2014, la legge n. 208 del 2015 avrebbe introdotto una serie di ulteriori rimedi volti a prevenire l’irragionevole durata del processo nell’ottica di effettività della tutela richiesta dalla Corte EDU. Inoltre, esclude che l’attuale disciplina, connotata dalla combinazione di strumenti di snellimento e accelerazione del procedimento con il riconoscimento dell’indennizzo, violi gli artt. 6 e 13 CEDU solo perché la domanda di equa riparazione non può essere proposta prima della definitività del provvedimento di chiusura del giudizio presupposto. Infine, gli artt. 3, comma 6, e 4, della legge n. 89 del 2001 ben potrebbero essere intesi nel senso di non precludere definitivamente la riproposizione della domanda respinta per motivi meramente processuali.
3.– Si sono costituiti alcuni dei ricorrenti nel giudizio a quo, invocando una pronuncia additiva che consenta l’esperibilità del rimedio indennitario anche in pendenza del giudizio presupposto, attesa l’irragionevole compressione del diritto di azione nel caso in cui, benché ancora non concluso, esso si sia protratto oltre ogni limite di ragionevolezza, in violazione degli artt. 3, 24 e 111 (espressivo del principio del giusto processo) Cost., nonché degli artt. 6 e 13 CEDU, come interpretati dalla Corte di Strasburgo (si cita la sentenza 21 luglio 2009, Lesjak contro Slovenia).
I ricorrenti costituiti hanno depositato memoria illustrativa in prossimità dell’udienza di discussione, replicando alle difese svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri e ulteriormente argomentando in merito alla fondatezza della questione.
4.– Con ordinanza del 20 dicembre 2016 (reg. ord. n. 69 del 2017) la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 convertito nella legge n. 134 del 2012 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.
Il rimettente riferisce di essere stato adito da un ricorrente che si era rivolto alla Corte d’appello di Lecce per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale derivatogli dall’irragionevole durata del giudizio iniziato dinanzi al TAR della Puglia in data 17 ottobre 2001 e definito con sentenza del Consiglio di Stato del 16 maggio 2013. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda inammissibile, pronuncia confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che la sentenza non era ancora passata in giudicato.
In punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, il rimettente svolge argomenti del tutto coincidenti con quelli sviluppati nell’ordinanza iscritta al n. 68 del reg. ord. 2017.
5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione per i medesimi motivi illustrati nell’atto di intervento afferente all’ordinanza iscritta al n. 68 del reg. ord. dell’anno 2017.
6.– Si è costituito il ricorrente nel giudizio a quo, invocando una pronuncia additiva che consenta l’esperibilità del rimedio indennitario in pendenza del giudizio presupposto o la valutazione della sua definitività al momento della decisione sulla domanda di equa riparazione anziché a quello del deposito del ricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa in prossimità dell’udienza di discussione, replicando alle difese svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri e ulteriormente argomentando in merito alla fondatezza della questione.
7.– Con ordinanza del 16 febbraio 2017 (reg. ord. n. 73 del 2017) la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 convertito nella legge n. 134 del 2012 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.
Il rimettente riferisce di essere stato adito da un ricorrente che si era rivolto alla Corte d’appello di Perugia per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale derivatogli dall’irragionevole durata del giudizio svoltosi dinanzi al Giudice di pace e, successivamente, davanti al Tribunale di Civitavecchia dal 29 aprile 2006 al 23 ottobre 2014, allorquando il giudizio d’appello era stato cancellato dal ruolo e contestualmente dichiarato estinto. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda di equa riparazione improponibile, pronuncia confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che, in virtù dell’art. 181 codice di procedura civile nella versione applicabile ratione temporis, la dichiarazione di estinzione non poteva ritenersi avvenuta contestualmente alla cancellazione dal ruolo, ma solo all’esito del decorso del termine stabilito dall’art. 307 cod. proc. civ. per l’eventuale riassunzione.
Il rimettente ritiene che la decisione impugnata debba essere confermata, seppur correggendone la motivazione, e solleva la descritta questione di legittimità costituzionale, svolgendo argomenti, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, del tutto coincidenti con quelli sviluppati nelle ordinanze iscritte ai nn. 68 e 69 del reg. ord. dell’anno 2017 e chiedendo che la norma sia dichiarata illegittima «nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione alla previa definizione del procedimento presupposto».
8.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione per i medesimi motivi illustrati negli atti di intervento afferenti alle ordinanze iscritte ai nn. 68 e 69 del reg. ord. 2017.
9.– Con ordinanza del 23 gennaio 2017 (reg. ord. n. 148 del 2017) la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 convertito nella legge n. 134 del 2012 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.
Il rimettente riferisce di essere stato adito da una ricorrente che si era rivolta alla Corte d’appello di Perugia per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale derivatole dall’irragionevole durata del giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale di Roma. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda di equa riparazione improponibile, pronuncia confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che la sentenza non risultava notificata e dunque occorreva attendere il decorso del termine “lungo” di cui all’art. 327 cod. proc. civ. perché passasse in giudicato, a nulla rilevando la transazione intervenuta con una delle controparti.
Il rimettente, condividendo l’irrilevanza della transazione non rifluita nel processo, a seguito di quanto dedotto dalla ricorrente in ordine all’incostituzionalità dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001, solleva la descritta questione di legittimità, svolgendo argomenti, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, del tutto coincidenti con quelli sviluppati nelle ordinanze iscritte ai nn. 68, 69 e 73 del reg. ord. 2017 e chiedendo che la norma sia dichiarata illegittima «nella parte in cui subordina al passaggio in giudicato del provvedimento che ha definito il procedimento presupposto la proponibilità della domanda di equo indennizzo».
10.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione per i medesimi motivi illustrati negli atti di intervento afferenti alle ordinanze iscritte ai nn. 68, 69 e 73 del reg. ord. 2017.
Considerato in diritto
1.– Con quattro ordinanze di analogo tenore, la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
La disposizione censurata, nel significato ormai assurto a “diritto vivente”, preclude la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume essersi verificata (sentenza n. 30 del 2014; Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenze 1° luglio 2016, n. 13556, 12 ottobre 2015, n. 20463, 2 settembre 2014, n. 18539; seconda sezione civile, sentenza 16 settembre 2014, n. 19479).
In sostanza, la Corte di cassazione censura la norma proprio nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione alla previa definizione del procedimento presupposto.
Il rimettente evidenzia come già la sentenza n. 30 del 2014 di questa Corte, nello scrutinare analoga questione di legittimità costituzionale, abbia ravvisato nel differimento dell’esperibilità del rimedio un pregiudizio alla sua effettività, sollecitando l’intervento correttivo del legislatore. Il vulnus costituzionale riscontrato, tuttavia, non sarebbe stato ovviato dai rimedi preventivi frattanto introdotti dall’art. 1, comma 777, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», volti a prevenire l’irragionevole durata del processo ma non incidenti sull’effettività della tutela indennitaria una volta che essa sia maturata; pertanto, il monito allora impartito sarebbe rimasto inascoltato, perdurando l’illegittimità costituzionale del differimento aggravata dalla definitiva improponibilità della domanda di equa riparazione prematuramente avanzata.
2.– I giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia, avendo a oggetto questioni relative alla medesima norma, censurata in riferimento a parametri coincidenti.
3.– Prima di affrontare il merito delle questioni proposte occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato.
3.1.– La difesa statale assume che i rimettenti si sarebbero limitati a evocare i parametri asseritamente violati, senza indicare i motivi di contrasto, se non per relationem.
L’eccezione è fondata limitatamente all’art. 24 Cost., la cui violazione non è argomentata.
Viceversa, con riguardo ai residui parametri, coincidenti con quelli alla cui stregua la norma è stata scrutinata da questa Corte nella precedente occasione, le ordinanze di rimessione riproducono per sintesi, riportandone ampi stralci, il contenuto della sentenza n. 30 del 2014, dimostrando di aderirvi. Inoltre, confrontandosi con la normativa sopravvenuta e giudicandola inidonea a emendare il vizio precedentemente riscontrato e a prestare ossequio al monito all’epoca impartito, i rimettent individuano in maniera sufficientemente chiara e adeguata le ragioni che lo inducono a dubitare della legittimità costituzionale della norma oggetto del presente giudizio.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, si deve escludere che si tratti di un caso di motivazione per relationem, «essendo pienamente ottemperato l’obbligo che questa Corte ritiene incombere sul rimettente di “rendere espliciti, facendoli propri, i motivi della non manifesta infondatezza” (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2014, n. 234 del 2011 e n. 143 del 2010; ordinanze n. 175 del 2013, n. 239 e n. 65 del 2012)» (sentenza n. 10 del 2015).
3.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta altresì che il rimettente abbia erroneamente individuato nel solo art. 4 della legge n. 89 del 2001 la disposizione da censurare, considerato che il divieto di riproposizione della domanda respinta, che la precluderebbe definitivamente, sarebbe previsto dall’art. 3, comma 6, della medesima legge, del quale, peraltro, sarebbe possibile un’interpretazione adeguatrice che restringa la preclusione alla sola reiezione nel merito e non per ragioni processuali.
Nella fattispecie, tuttavia, alla luce delle vicende descritte dalle ordinanze di rimessione, la Corte di cassazione è chiamata a fare applicazione esclusivamente della norma denunciata, atteso che si troverebbe a confermare la reiezione di domande di equa riparazione improponibili per la pendenza del giudizio presupposto e non perché reiterate, sebbene in tutto o in parte respinte, in spregio al divieto previsto dall’art. 3, comma 6, della legge n. 89 del 2001.
Correttamente, pertanto, i rimettenti non hanno incluso nella denuncia di incostituzionalità una norma che non doveva applicare, neppure in combinato disposto con quella della cui legittimità dubita.
3.3.– L’Avvocatura generale dello Stato rimprovera ai rimettenti di non aver valutato la possibilità di ritenere che, se sopravvenuta in corso di causa – come nei giudizi a quibus – la conclusione del giudizio presupposto consenta di sindacare nel merito la domanda di indennizzo, trattandosi di una condizione dell’azione la cui sussistenza andrebbe valutata al momento della decisione. Ne conseguirebbe l’irrilevanza delle questioni proposte.
L’eccezione non è fondata.
L’impostazione dei giudici rimettenti trova conforto tanto sul piano del diritto vivente – visto che, per come viene intesa, la disposizione preclude «la proposizione della domanda» (sentenza n. 30 del 2014) di equa riparazione – quanto su quello letterale, laddove, sia nella rubrica che nel precetto, l’art. 4 della legge n. 89 del 2001 fa richiamo alla sua “proponibilità”.
Inoltre, la definizione del giudizio presupposto non attiene al contenuto intrinseco della domanda, ma risulta a esso esterna, con ciò dovendosi escludere che si tratti di una condizione dell’azione.
Né, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il giudice a quo è tenuto a motivare l’impraticabilità dell’interpretazione adeguatrice prospettata dall’Avvocatura, incompatibile con il diritto vivente (sentenza n. 203 del 2016).
4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, è fondata.
Scrutinando la stessa questione di legittimità costituzionale, questa Corte aveva già riscontrato la lesione dei citati parametri, evidenziando «la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, […] la “priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario” […e] che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia» (sentenza n. 30 del 2014).
L’art. 1, commi 777, 781 e 782, della legge n. 208 del 2015 ha modificato la legge n. 89 del 2001, tra l’altro introducendo una serie di rimedi preventivi il cui mancato esperimento rende inammissibile la domanda di equa riparazione (art. 2, comma 1, della legge Pinto, come modificata) – per i processi che al 31 ottobre 2016 non abbiano ancora raggiunto una durata irragionevole né siano stati assunti in decisione (art. 6, comma 2-bis, della legge Pinto come modificata) – e che, in relazione alle diverse tipologie processuali, consistono o nell’impiego di riti semplificati già previsti dall’ordinamento (art. 1-ter, comma 1, della legge Pinto come modificata) o nella formulazione di istanze acceleratorie (art. 1-ter, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge Pinto come modificata).
Secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU, i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che il procedimento diventi eccessivamente lungo; tuttavia, per i paesi dove esistono già violazioni legate alla sua durata, per quanto auspicabili per l’avvenire, possono rivelarsi inadeguati (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
Già tale rilievo mina in radice l’idoneità dell’iniziativa assunta dal legislatore a sopperire alla carenza di effettività precedentemente riscontrata, posto che i rimedi introdotti non sono destinati a operare in tutte le ipotesi – tra cui quelle al vaglio nei giudizi a quibus – nelle quali, al 31 ottobre 2016, la durata del processo abbia superato la soglia della ragionevolezza.
A ciò si aggiunga che la Corte EDU «ha riconosciuto in numerose occasioni che questo tipo di mezzo di ricorso è “effettivo” nella misura in cui esso velocizza la decisione da parte del giudice competente» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).
Nella fattispecie, da un lato, tutti i rimedi preventivi introdotti, alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, dall’altro, per espressa previsione normativa, «[r]estano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti» (art. 1-ter, comma 7, della legge Pinto come modificata).
Tali rilievi, evidentemente, ne pregiudicano la concreta efficacia acceleratoria.
La conclusione trova conforto in quanto recentemente affermato dalla Corte EDU (sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia), pronunciando in ordine all’istanza di prelievo alla cui formulazione l’art. 54 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, subordinava la proponibilità della domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo amministrativo. Tale istanza, che costituisce l’archetipo di gran parte dei rimedi preventivi di nuova introduzione, è stata ritenuta dalla Corte EDU priva di effettività.
Alla stregua delle considerazioni che precedono si deve concludere che, nonostante l’invito rivolto da questa Corte con la sentenza n. 30 del 2014, il legislatore non ha rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato e che, pertanto, l’art. 4 della legge n. 89 del 2001 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto (analogamente, sentenza n. 3 del 1997).
D’altronde, se i parametri evocati presidiano l’interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia, rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l’attivazione dello strumento – l’unico disponibile, fino all’introduzione di quelli preventivi di cui s’è detto – volto a rimediare alla sua lesione, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina.
L’invocata pronuncia additiva non può essere impedita dalle peculiarità con cui la legge Pinto conforma il diritto all’equa riparazione, collegandolo, nell’an e nel quantum, all’esito del giudizio in cui l’eccessivo ritardo è maturato (sentenza n. 30 del 2014).
Infatti, «[p]osta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma […] omette di prevedere. […] Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione» (sentenza n. 113 del 2011).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2018.