ALLATTAMENTO DEL PADRE ANCHE QUANDO LA MADRE E' CASALINGA

Diritto Militare e per le Forze di Polizia
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Re: ALLATTAMENTO DEL PADRE ANCHE QUANDO LA MADRE E' CASALING

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L. n. 1204/71
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Legge 30 dicembre 1971, n. 1204
"Tutela delle lavoratrici madri"
(Pubblicata nella Gazz. Uff. 18 gennaio 1972, n. 14)

Nota bene: testo aggiornato con le modifiche apportate dalla legge 8 marzo 2000, n. 53

Nota bene: la presente legge è stata abrogata dal Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 "Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53"


Articolo 4. È vietato adibire al lavoro le donne:

a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto;
b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;
c) durante i tre mesi dopo il parto.

L'astensione obbligatoria dal lavoro è anticipata a tre mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all'avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli.

Tali lavori sono determinati con propri decreti dal Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali.

Qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, i giorni non goduti di astensione obbligatoria prima del parto vengono aggiunti al periodo di astensione obbligatoria dopo il parto. La lavoratrice è tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato attestante la data del parto.

Articolo 4-bis. - 1. Ferma restando la durata complessiva dell'astensione dal lavoro, le lavoratrici hanno la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.
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Articolo 7. - 1. Nei primi otto anni di vita del bambino ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro secondo le modalità stabilite dal presente articolo. Le astensioni dal lavoro dei genitori non possono complessivamente eccedere il limite di dieci mesi, fatto salvo il disposto del comma 2 del presente articolo. Nell'ambito del predetto limite, il diritto di astenersi dal lavoro compete:

a) alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di astensione obbligatoria di cui all'articolo 4, primo comma, lettera c), della presente legge, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi;
b) al padre lavoratore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi;
c) qualora vi sia un solo genitore, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a dieci mesi.

2. Qualora il padre lavoratore eserciti il diritto di astenersi dal lavoro per un periodo non inferiore a tre mesi, il limite di cui alla lettera b) del comma 1 è elevato a sette mesi e il limite complessivo delle astensioni dal lavoro dei genitori di cui al medesimo comma è conseguentemente elevato a undici mesi.

3. Ai fini dell'esercizio del diritto di cui al comma 1, il genitore è tenuto, salvo casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di lavoro secondo le modalità e i criteri definiti dai contratti collettivi, e comunque con un periodo di preavviso non inferiore a quindici giorni.

4. Entrambi i genitori, alternativamente, hanno diritto, altresì, di astenersi dal lavoro durante le malattie del bambino di età inferiore a otto anni ovvero di età compresa fra tre e otto anni, in quest'ultimo caso nel limite di cinque giorni lavorativi all'anno per ciascun genitore, dietro presentazione di certificato rilasciato da un medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato. La malattia del bambino che dia luogo a ricovero ospedaliero interrompe il decorso del periodo di ferie in godimento da parte del genitore.

5. I periodi di astensione dal lavoro di cui ai commi 1 e 4 sono computati nell'anzianità di servizio, esclusi gli effetti relativi alle ferie e alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia. Ai fini della fruizione del congedo di cui al comma 4, la lavoratrice ed il lavoratore sono tenuti a presentare una dichiarazione rilasciata ai sensi dell'articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, attestante che l'altro genitore non sia in astensione dal lavoro negli stessi giorni per il medesimo motivo.


panorama
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Re: ALLATTAMENTO DEL PADRE ANCHE QUANDO LA MADRE E' CASALING

Messaggio da panorama »

1) - corresponsione dell’indennità giudiziaria durante i periodi di congedo per maternità.

2) - corresponsione delle differenze retributive ed in particolare l’indennità giudiziaria di cui all’art. 3, c. 1 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, relativamente a due periodi di congedo straordinario di assenza obbligatoria ex artt. 4 e 7 della L. n. 1204/71 (nel 1997-98 in relazione al figlio OMISSIS , nato a OMISSIS 1997 e nel 2000-01 in relazione al figlio OMISSIS, nato a OMISSIS 2000) oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria.

3) - Parere del CdS "SOSPESO" e interessata la Corte di Giustizia dell’Unione Europea

4) - Cmq. il Parere del CdS “NON definitivo” richiama diversi diritti e benefici dei lavoratori, quindi bisogna leggerlo attentamente per eventuali altri fattori e studi di settore.

RISERVA futura.
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PARERE INTERLOCUTORIO ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201501665
- Public 2015-06-04-


Numero 01665/2015 e data 04/06/2015 Spedizione


REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda

Adunanza di Sezione del 22 aprile 2015 e del 13 maggio 2015

NUMERO AFFARE 03815/2007

OGGETTO:
Ministero della Giustizia.

Ministero della Giustizia, Direzione Generale dell’Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi - Direzione Generale dei Magistrati del Ministero. Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla dott.ssa O. M. C. E., magistrato ordinario, per l’annullamento del provvedimento in data 30 marzo 2007 con cui il Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, ha respinto l’istanza di corresponsione dell’indennità giudiziaria durante i periodi di congedo per maternità, presentata dall’interessata in data 5 marzo 2007.

LA SEZIONE
Vista la relazione firmata in data 3 ottobre 2007, trasmessa con nota n. 4436/2007 CONT./10597, pervenuta il giorno 16 successivo, dell’ Ministero della Giustizia (Direzione Generale dei Magistrati) di richiesta di parere sull’affare indicato in oggetto;

Visto il parere interlocutorio espresso nell’adunanza del 29.01.2008 dalla III Sezione (alla quale nel frattempo è succeduta questa II Sezione), trasmesso al Ministero riferente – Gabinetto – con nota del S.G. n. 1204 in data 4/03/2008;

Vista la nota ministeriale 0042978.U in data 7.4.2015, pervenuta il giorno 21 successivo;

Vista l’ordinanza n. 137 del 14 maggio 2008 della Corte Costituzionale;

Esaminati gli atti e udito il relatore, presidente Sergio Santoro;

I. I FATTI ALL’ORIGINE DELLA CONTROVERSIA E LE RAGIONI DEL RINVIO PREGIUDIZIALE.

1. Con istanza del 23 febbraio 2007 pervenuta all’Amministrazione della Giustizia il 5 marzo successivo, la dott.ssa M. C. E. O. Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di OMISSIS, chiedeva la corresponsione delle differenze retributive ed in particolare l’indennità giudiziaria di cui all’art. 3, c. 1 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, relativamente a due periodi di congedo straordinario di assenza obbligatoria ex artt. 4 e 7 della L. n. 1204/71 (nel 1997-98 in relazione al figlio OMISSIS , nato a OMISSIS 1997 e nel 2000-01 in relazione al figlio OMISSIS, nato a OMISSIS 2000) oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria.

Con nota prot. n. 9054/MGG/3913 del 30 marzo 2007 la D.G. Magistrati - comunicava all’interessata i motivi del rigetto dell’istanza.

2. Con il ricorso in esame proposto il 30 luglio 2007 l’interessata impugnava tale provvedimento chiedendo il riconoscimento del diritto all’indennità giudiziaria per i due periodi di congedo per maternità del 1997-98 e 2000-01, anteriori alla L. 311 del 2004. A sostegno del diritto alle differenze retributive ricordava, richiamando il contenuto dell’istanza, che l’art. 3, comma 1° della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nel testo novellato dall’art. 1, c. 325 della Legge finanziaria 30 dicembre 2004, n. 311, troverebbe applicazione anche per quelle fattispecie verificatesi prima dell’entrata in vigore di quest’ultima, rispetto alle quali non si fosse maturato il periodo di prescrizione estintiva del relativo diritto, decorrente da tale medesima data (secondo il comma 572 dell’art. 1 della L.311/2004, “La presente legge entra in vigore il 1° gennaio 2005”).

Contestava, quindi, le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza opposte dall’Amministrazione, sostenendone l’illogicità e l’infondatezza, sia con riguardo al principio generale di irretroattività delle norme di cui all’art.11 c.c. - in relazione al quale formulava (in via incidentale e subordinata) eccezione di costituzionalità della norma, in relazione agli artt. 3, c. 2 e 97 della Cost., se interpretata come non retroattiva - sia con riferimento alla ritenuta impossibilità dell’estensione del giudicato formatosi sulla sentenza del TAR Lombardia n. 161/2007.

3. Con relazione 9 ottobre 2007 la D.G. dei Magistrati escludeva l’applicazione retroattiva della nuova disciplina, richiamando l’ordinanza con la quale la IV sez. di questo Consiglio (n. 2287/2007 del 13 aprile 2007), aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della norma invocata dalla ricorrente, nonché la sentenza della Corte Costituzionale n. 238/1990, che per prima aveva escluso il contrasto dell’art. 3 della L. n. 27/81 con gli artt. 3, 30, 31 e 37 Cost., seguita poi nello sesso senso dalla sentenza n. 407/1996 e dalle ordinanze nn. 422/1996, 106/1997, 346/2008, 272/1999.

4. Con pronuncia interlocutoria resa nell’adunanza del 29.01.2008 la Terza Sezione del Consiglio di Stato, rilevato che la IV Sezione dello stesso Consiglio aveva già sollevato in sede giurisdizionale (con ordinanza n.2278/2007 cit.) questione di costituzionalità dell’art. 3, c. 1°, L. 27/81, nel testo anteriore alla novella recata dalla L. finanziaria 2005, in relazione ai periodi di astensione per maternità anteriori al 1° gennaio 2005, riteneva opportuno sospendere l’esame del ricorso in attesa della ulteriore pronuncia della Corte Costituzionale (in applicazione dell’art. 295 c.p.c.).

A seguito della trasformazione della Terza Sezione da consultiva a giurisdizionale, disposta dal Presidente del Consiglio di Stato nel 2010, questa Seconda Sezione consultiva proseguiva la trattazione del ricorso straordinario in esame.

5. Il Ministero riferente, infine, con nota 13 aprile 2015 pervenuta nella segreteria della Sezione il 5 maggio successivo, trasmetteva a questa Sezione, in vista della conclusione del giudizio, l’ordinanza n. 137 del 14 maggio 2008 della Corte Costituzionale, che aveva dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005), nella parte in cui esclude la corresponsione dell'indennità da esso prevista nel periodo di astensione obbligatoria per maternità, sollevata dal Consiglio di Stato con riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione. Erano conformi nello stesso senso le ordinanze 302/2006, 346/2008, e la sentenza 295/2012 della Corte Costituzionale, tutte negative circa la possibile invocata retroattività della novella del 2004.

6. Il ricorso è stato, quindi, riportato all’esame di questa Sezione all’odierna adunanza, nella quale il Collegio ritiene di sottoporre d’ufficio alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea questione pregiudiziale, ai sensi dell'art. 267, paragrafo 1, lett. a) e paragrafo 2, del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, anche per impedire il formarsi o il consolidarsi di una giurisprudenza nazionale che possa comportare, in ipotesi, eventuali errori di interpretazione od erronea applicazione di disposizioni del diritto dell’Unione che interessano il caso per cui è causa. Va anche premesso che tale questione è senza dubbio rilevante nel giudizio, dal momento che la sentenza della Corte Costituzionale 137/2008 cit. ha stabilito in via definitiva che la modifica recata dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, all'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, con l'ammettere il diritto all’indennità giudiziaria per il periodo di congedo per maternità, non può considerarsi retroattiva, e che conseguentemente non può applicarsi a fattispecie in cui il diritto stesso è riferito a periodi anteriori all’entrata in vigore della novella legislativa, e cioè al 1° gennaio 2005, come appunto nel caso di specie.

7. Le ragioni per le quali la Sezione ritiene di porre la questione pregiudiziale ex art. 267, paragrafo 1, lett. a) e paragrafo 2, del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, muovono sostanzialmente dall'esigenza di completare l'interpretazione, da parte della giurisprudenza comunitaria, delle disposizioni del diritto dell'Unione e dalle altre pronunce delle Istituzioni europee in tema di tutela, sotto il profilo retributivo, della lavoratrice madre, al fine di chiarirne l'applicazione nel giudizio.

8. Come detto nelle premesse al punto I, dopo le numerose pronunce della Corte Costituzionale che hanno escluso il contrasto dell’art. 3 della L. n. 27/81 con gli artt. 3, 30, 31 e 37 Cost., almeno come prospettato nelle ordinanze di rimessione dai giudici “a quo”, la questione che residua ed è ancor più rilevante nel presente giudizio è se il medesimo art. 3, primo comma, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, sia compatibile con il diritto comunitario, nelle varie disposizioni in cui vi si assicura la tutela della maternità e la non discriminazione tra i sessi, anche sotto il profilo retributivo riferito al lavoro dipendente.

Il trattamento deteriore che un magistrato di sesso femminile, come la ricorrente, ha subito durante il periodo di congedo obbligatorio per maternità fruito anteriormente al 1° gennaio 2005, rispetto alla generalità dei suoi colleghi, per effetto dell’art. 3, primo comma, cit. nella formulazione anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (si noti, l’unica applicabile al caso in esame, per effetto della giurisprudenza della Corte costituzionale sopra citata), potrebbe infatti integrare una violazione dei principi, validi per gli Stati membri la cui moneta è l'euro, contenuti nel Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, negli artt. 157 (ex art.141 TCE), in quanto discriminazione nel trattamento retributivo fondata sul sesso, e 158 (ex art. 142 TCE), secondo cui “gli Stati membri si adoperano a mantenere l'equivalenza esistente nei regimi di congedo retribuito”.

9. Il principio della parità retributiva tra lavoratori di sesso maschile e femminile per lavori identici o di equivalente impegno, inizialmente rivolto a prevenire distorsioni della concorrenza all’interno del mercato comune riconducibili a casi patologici di sottoretribuzione del lavoro femminile, è poi divenuto, per effetto della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e delle intuibili implicazioni di politica sociale, un vero e proprio diritto fondamentale della persona (cfr. la direttiva 2006/54/CE del Parlamento e del Consiglio, del 5 luglio 2006, cui in Italia è stata data attuazione soltanto con il d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5).

Il Giudice comunitario ne ha affermato l’efficacia diretta nei confronti non solo degli Stati membri ma anche dei singoli datori di lavoro, in quanto “principio fondamentale dell’ordinamento giuridico comunitario” (cfr. Corte di Giustizia, 10 febbraio 2000, in causa C-50/96, Deutsche Telekom, cit., e Corte di Giustizia, 26 giugno 2001, in causa C-381/99, Brunnhofer v. Bank der Österreichischen Postsparkasse AG). La giurisprudenza comunitaria ha estensivamente compreso, nella nozione di retribuzione, “il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo”. Natura retributiva è stata quindi riconosciuta, ad esempio, alle indennità di malattia pagate dal datore di lavoro od alle somme che lo stesso corrisponde, in virtù della legge o di convenzioni collettive, ad una lavoratrice durante il congedo di maternità, in quanto fondate sul rapporto di lavoro. Perché sussista una discriminazione rilevante ed incompatibile con il diritto comunitario, la verifica deve effettuarsi su ciascuna voce retributiva e non sul trattamento economico complessivamente considerato, accertando se le eventuali differenze possano considerarsi esenti o meno da qualsiasi discriminazione basata sulla diversità di sesso (cfr. Corte di Giustizia, 13 luglio 1989, in causa 171/88, Rinner-Kuehn v. FWW Spezial- Gebaeudereinigung GmbH & Co KG; 13 febbraio 1996, in causa C-342/93, Gillespie e a. v. Northern Health and Social Services Board; 27 ottobre 1998, in causa C-411/96, Boyle e a. v. Equal Opportunities Commission; 30 marzo 2004, in causa C-147/02, Alabaster v. Woolwich; 6 aprile 2000, in causa C-226/98, Jørgensen v. Foreningen af Speciall&ger e Sygesikringens Forhandlingsudvalg; 26 giugno 2001, in causa C-381/99, Brunnhofer, cit.).

10 È poi fondamentale la distinzione data dalla giurisprudenza comunitaria tra forme di discriminazione diretta ed indiretta, alla cui verifica occorre che uomo e donna si trovino in situazioni lavorative effettivamente comparabili, ad esempio sotto l’aspetto della qualificazione professionale dei lavoratori, e che possano essere ricondotte ad unico datore di lavoro in ipotesi responsabile della disuguaglianza, pur non essendo necessario che i lavoratori posti a confronto si trovino alle dipendenze di un datore di lavoro della medesima natura (Corte di Giustizia, 17 settembre 2002, in causa C-320/00, Lawrence e a. v. Regent Office Care Ltd, Commercial Catering Group e Mitie Security Services Ltd.; 13 gennaio 2004, in causa C-256/01, Allonby v. Accrington & Rossendale College; 27 ottobre 1993, in causa C-127/92, Pamela Mary Enderby v. Frenchay Health Authority e Secretary of State for Health). Del resto, la Corte di Giustizia ha più volte affermato che, qualora il pregiudizio arrecato a una donna sia dovuto al suo stato di gravidanza, la stessa sarà considerata oggetto di discriminazione diretta basata sul sesso, senza necessità di un termine di confronto (sentenza 8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker c. Stichting Vormingscentrum voor Jong Volwassenen Plus; nello stesso senso, sentenza 14 luglio 1994, causa C-32/93, Webb c. EMO Air Cargo Ltd).

11. La giurisprudenza comunitaria ha altresì fatto applicazione dei principi di parità e non discriminazione in relazione alla situazione della lavoratrice in congedo per maternità, riconoscendo innanzitutto la legittimità di una disciplina speciale a protezione della maternità per la speciale condizione della donna lavoratrice nel periodo della gestazione e del puerperio, giustificando così le specifiche misure per “garantire una sostanziale parità” della donna lavoratrice (direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006 sulle pari opportunità e la parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, al ventiquattresimo Considerando, ma lo stesso principio era già espresso nell’art. 2, comma 7, della direttiva 9 febbraio 1976, n. 76/207/CEE).

12. Per converso, e nella stessa ottica, non sono stati ritenuti discriminatori i benefici concessi alla sola lavoratrice in relazione allo stato di maternità o comunque agli oneri connessi alla crescita del figlio, “qualora il vantaggio concesso al solo lavoratore di sesso femminile sia destinato a compensare svantaggi professionali derivanti ad un tale lavoratore in seguito all’allontanamento dal posto di lavoro che il congedo di maternità comporta”.

Tutta la citata giurisprudenza comunitaria, quindi, è univocamente orientata a far sì che lo stato di maternità non determini una condizione deteriore nel rapporto di lavoro della lavoratrice madre interessata.

Già la direttiva 76/207 disponeva che “un trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE costituisce una discriminazione” (art.2, comma 7). Analoga previsione è oggi contenuta nell’art. 2, comma 3, lett. c) della direttiva n. 54 del 2006, la quale, al ventitreesimo Considerando, ricorda, inoltre, come "dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso”, della quale non sono ammesse ragioni giustificative (cfr. Corte di Giustizia, 18 novembre 2004, in causa C- 284/02, Land Brandenburg v. Sass, che ha negato che la lavoratrice madre possa subire un trattamento sfavorevole con riguardo ai requisiti necessari ad accedere ad un livello superiore della gerarchia professionale).

13. Non possono pertanto ammettersi trattamenti sfavorevoli di alcun tipo che possano anche solo indirettamente dipendere dalla circostanza che la lavoratrice ottenga o abbia ottenuto un congedo per maternità, e ciò per non incorrere in una discriminazione direttamente fondata sul sesso, nel senso inteso dalla direttiva 76/207 (v. sentenze 13 febbraio 1996, causa C342/93, Gillespie e a.; 30 marzo 2004, causa C147/02, Alabaster). Nello stesso senso, la Corte UE ha ritenuto incompatibile col diritto comunitario una disciplina che posticipava la data di entrata in servizio della lavoratrice alla fine del congedo di maternità, senza prendere in considerazione tale periodo ai fini dell’anzianità di servizio:, affermando che “un lavoratore di sesso femminile è tutelato, nel suo rapporto di lavoro, contro ogni trattamento sfavorevole motivato dalla circostanza che egli usufruisca o abbia usufruito di un congedo per maternità” e “una donna che subisca un trattamento sfavorevole a causa di un'assenza per congedo di maternità è vittima di una discriminazione che ha origine nella sua gravidanza e nel detto congedo” (Corte di Giustizia, 16 febbraio 2006, causa C-294/04, Sarkatzis Herrero v. Instituto Madrileño de la Salud p. 39). Ed ancora, è stata dichiarata incompatibile con l’art. 6, n. 1, lett. g), della direttiva 86/378, come modificata dalla direttiva 96/97, una disposizione che aveva l’effetto di interrompere l’acquisto dei diritti ad una rendita assicurativa durante i congedi obbligatori di maternità, in quanto imponeva come condizione che la lavoratrice percepisse un reddito imponibile durante tali congedi (Corte di Giustizia, 13 gennaio 2005, causa C-356/03, Mayer v. Versorgungsanstalt des Bundes und der Lander), e ritenuta altresì una diretta discriminazione la pretesa del datore di lavoro di motivare con lo stato di gravidanza della lavoratrice il diniego di reintegrazione nel posto di lavoro prima della scadenza del congedo parentale (Corte di Giustizia, 27 febbraio 2003, in causa C-320/01, Bush v. Klinikum Neustadt GmbH & Co. Betriebs-KG; 30 aprile 1998, in causa C-136/95 Caisse Nationale d'assurance vieillesse des travailleurs salariés (CNAVTS) v. Thibault, ove si è testualmente (punto 32) affermato che “una donna che subisce un trattamento sfavorevole per quanto riguarda le sue condizioni di lavoro, nel senso che viene privata del diritto di ricevere il suo rapporto informativo annuale e, conseguentemente, di ottenere una promozione, a causa di un'assenza per maternità, è vittima di una discriminazione che ha origine nella sua gravidanza e nel suo congedo di maternità.

Un comportamento del genere costituisce una discriminazione direttamente basata sul sesso ai sensi della direttiva”.

In modo ancor più esplicito, la sentenza della Corte UE 6 marzo 2014 causa C 595/12 Loredana Napoli v. Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP) ha affermato che:

- l’art. 15 della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che, per motivi di interesse pubblico, esclude una donna in congedo di maternità da un corso di formazione professionale inerente al suo impiego ed obbligatorio per poter ottenere la nomina definitiva in ruolo e beneficiare di condizioni d’impiego migliori, pur garantendole il diritto di partecipare a un corso di formazione successivo, del quale tuttavia resta incerto il periodo di svolgimento;

- l’articolo 14, paragrafo 2, della direttiva 2006/54 non si applica a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che non riserva una determinata attività ai soli lavoratori di sesso maschile, ma ritarda l’accesso a tale attività da parte delle lavoratrici che non abbiano potuto giovarsi di una formazione professionale completa a causa di un congedo di maternità obbligatorio;

- le disposizioni degli articoli 14, paragrafo 1, lettera c), e 15 della direttiva 2006/54 sono sufficientemente chiare, precise e incondizionate da poter produrre un effetto diretto.

A conferma, “a contrariis”, di quanto sopra riportato, la Corte di giustizia in due sentenze della Grande Sezione dell’8 marzo 2014, nelle cause C-167/12 C.D. v. S.T. e C-363/12 Z. v. A., ha anche affermato che il diritto dell’Unione europea non riconosce alla madre committente, che ha avuto un figlio mediante un contratto di maternità surrogata, il congedo retribuito equivalente al congedo di maternità o di adozione.

14. Quanto alla determinazione dell’ammontare della retribuzione/indennità dovuta alla lavoratrice in congedo di maternità (con specifico riferimento all’art.8 della direttiva 92/85/CEE del 19 ottobre 1992), la Corte ha ritenuto che una lavoratrice gestante, con una retribuzione anteriore all’assegnazione temporanea ad altro posto composta da uno stipendio di base e da una serie di integrazioni dovute all’esercizio di specifiche funzioni essenzialmente dirette a compensare gli inconvenienti collegati a tale esercizio (per esempio lavoro notturno, lavoro domenicale, lavoro straordinario), non può esigere la conservazione dell’intera retribuzione percepita prima della temporanea assegnazione. Essa però conserva oltre allo stipendio di base il diritto a percepire le integrazioni che si ricollegano al suo status professionale, legate per esempio alla sua qualità di superiore gerarchico, alla sua anzianità e alle sue qualifiche professionali (sentenza del 1° luglio 2010, causa C-471/08, Parviainen v. Finnair Oyj). In un diverso caso in cui la ricorrente aveva richiesto di mantenere il diritto al pagamento dell’indennità per servizi di guardia, nel periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per motivi di sicurezza e salute (art. 5 n.3 della direttiva 92/85/CEE del 19 ottobre 1992), la Corte questa volta ha assimilato, ai fini del calcolo della retribuzione da corrisponderle, la posizione della lavoratrice dispensata dal lavoro (art. 5 par. 3) con quello della lavoratrice in congedo di maternità (art. 8). In entrambi i casi la Corte ha concluso che fosse compatibile con la direttiva 92/85/CEE una normativa nazionale che riconosce alla lavoratrice il diritto a una retribuzione equivalente allo stipendio medio dalla stessa percepito nel corso di un periodo di riferimento anteriore all’inizio della gravidanza o all’inizio del congedo, con l’esclusione però dell’indennità per servizi di guardia. La Corte ha però aggiunto che nessuna disposizione della direttiva 92/85/CEE impedisce agli Stati membri o, eventualmente, alle parti sociali di prevedere il mantenimento di tutti gli elementi della retribuzione, compresa quindi anche la suddetta indennità (sentenza 1° luglio 2010, causa C 194/08 Gassmayr v. Bundesminister für Wissenschaft und Forschung).

15. Nella Carta sociale europea (riveduta), firmata a Strasburgo il 3 maggio 1996, si afferma (Parte I, art. 8) che “le lavoratrici, in caso di maternità, hanno diritto ad una speciale protezione….Per garantire l'effettivo esercizio del diritto delle lavoratrici madri ad una tutela, le Parti s'impegnano…a garantire alle lavoratrici prima e dopo il parto … un congedo retribuito sia mediante adeguate prestazioni di sicurezza sociale o con fondi pubblici”. Né può infine trascurarsi la recente “Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2015 sui progressi concernenti la parità tra donne e uomini nell'Unione europea nel 2013 n. 2014/2217 (INI)”, dove si afferma, tra l’altro, nel considerando B, “il principio della parità di trattamento fra donne e uomini comporta il divieto di qualunque discriminazione, diretta o indiretta, anche per quanto riguarda la maternità, la paternità e il fatto di condividere responsabilità familiari”; al punto 12 si “insiste sull'impellente necessità di ridurre i divari retributivi e pensionistici tra donne e uomini” ed al punto 13 si “deplora con la massima durezza il fatto che le donne non ricevano la stessa retribuzione nei casi in cui svolgono le stesse funzioni degli uomini o funzioni di pari valore”.

16. A conclusione dell'excursus, e sempre per ribadire la rilevanza della questione in questo giudizio, non può non farsi notare che all'indennità giudiziaria è stata implicitamente riconosciuta la natura di componente non eventuale della retribuzione del magistrato, e comunque del tutto indipendente e svincolata dal collocamento in congedo obbligatorio, e ciò per effetto dello stesso comma 325 della L. 311/2004, che l'ha appunto estesa al servizio trascorso in congedo per maternità (anche se a decorrere dal 2005).

Quanto ad un diverso profilo della rilevanza della sollevata questione di legittimità comunitaria, in relazione alla eventuale prescrizione del diritto qui azionato, si fa notare che la relativa eccezione non è mai stata proposta dall'Amministrazione in questo giudizio e dunque non può essere presa in esame, tanto meno per la verifica della rilevanza della questione comunitaria, e ciò per la preclusione derivante dagli artt. 2938 del codice civile e 112 del codice di procedura civile.

II. LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE DA SOTTOPORRE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA.

17. Preliminarmente, va segnalato che, secondo la giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quando il Consiglio di Stato, in sede Consultiva, emette un parere nell’ambito di un ricorso straordinario, esercita una funzione giurisdizionale ed è quindi un organo di giurisdizione ai sensi dell’art. 177 del Trattato istitutivo dell’Unione Europea (così Corte di Giustizia CE del 16 ottobre 1997, nei procedimenti riuniti da C-69/96 a C-79/96), ora art. 267 del TFUE.

Oltretutto, la funzione giustiziale del Consiglio di Stato, in sede consultiva, è stata medio tempore assimilata a quella giurisdizionale, per effetto sia dell’allineamento dei limiti del proprio sindacato giustiziale alle materie rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. art. 7, comma 8, del D.lgs 2 luglio 2010, n. 104), sia della nuova formulazione degli artt. 13 e 14 del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 disposta dall’art 69 della L. 18 giugno 2009, n. 69, in ordine alla possibilità di sollevare innanzi alla Corte Costituzionale incidenti di costituzionalità delle leggi e alla vincolatività dei propri pareri.

Non vi è dubbio inoltre, nonostante l’art. 267 del TFUE nel secondo paragrafo riporti testualmente "questione … sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri", che tale questione possa sollevarsi anche d'ufficio, e non soltanto su eccezione delle parti (cfr. Corte di Giustizia UE, grande sezione 15 gennaio 2013 C-416/10, Jozef Križan e A. v. Slovenská inšpekcia životného prostredia).

22. Alla luce di quanto sopra, ritiene questo Collegio di sottoporre all'esame della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, ai sensi dell'art. 267, paragrafo 1, lett. a) e paragrafo 2, del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), le seguenti questioni in ordine all’interpretazione delle disposizioni del diritto dell'Unione:

«se l’art.11, paragrafo 1 nn.1, 2 lett. b), 3 e l’ultimo e penultimo Considerando della direttiva 92/85/CEE del Consiglio del 19 ottobre 1992, nonché gli artt. 157 TFUE (ex art.141 TCE), paragrafi 1, 2, e 4; l’art. 158 TFUE (ex art. 142 TCE), ove prescrive che “gli Stati membri si adoperano a mantenere l'equivalenza esistente nei regimi di congedo retribuito”; gli artt. 2, paragrafo 2, lettera c), e 14, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/54, in combinato disposto tra loro, nonché l’art. 15 ed il 23° e 24° Considerando della direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, ed infine l’art.23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea 2000/C 364/01, ostino ad una normativa nazionale che, ai sensi dell’art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, non consenta di corrispondere l’indennità ivi prevista per i periodi di congedo obbligatorio per maternità anteriori al 1° gennaio 2005».

IV. ATTI DA TRASMETTERE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE.

23. Ai sensi della “nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali” 2011/C 160/01, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea 28 maggio 2011, è dato mandato alla Segreteria della Sezione di trasmettere, mediante plico raccomandato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Cour de Justice de l’Union Européenne – Palais de la Cour de Justice, Boulevard Konrad Adenauer, Kirchberg, L - 2925 Luxeembourg), i seguenti atti:

- copia dei provvedimenti impugnati con il ricorso straordinario;
- copia del ricorso straordinario, nonché della relazione dell'Amministrazione e delle memorie prodotte dalle parti;
- copia dell'ordinanza n. 137 del 14 maggio 2008 della Corte Costituzionale;
- copia del presente parere interlocutorio;
- copia delle seguenti norme nazionali: art. 7 del codice del processo amministrativo; D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 nel testo attualmente in vigore; art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27; art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311.

SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO.

24. Il presente giudizio viene sospeso ai sensi dell’art. 267 del TFUE, nelle more della definizione dell’incidente pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e ogni ulteriore pronuncia è riservata alla definizione dell’incidente medesimo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, Sezione II, rimette la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affinché decida, ai sensi dell’art. 267, lett. a) e comma 2, TFUE, sul quesito sopra specificato.

Insta affinché la questione pregiudiziale di cui ai quesiti suddetti sia trattata secondo la procedura accelerata di cui all’art. 105 del regolamento di procedura della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 29 settembre 2012.

Nelle more della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sospende l’emissione del richiesto parere sul ricorso straordinario.

Ordina la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea a cura della Segreteria.



IL PRESIDENTE ED ESTENSORE
Sergio Santoro




IL SEGRETARIO
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Re: ALLATTAMENTO DEL PADRE ANCHE QUANDO LA MADRE E' CASALING

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per la partecipazione a tutti gli interessati.

Ministero Difesa: compendio Tutela della maternità e paternità "riposi orari giornalieri dei genitori".

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Re: ALLATTAMENTO DEL PADRE ANCHE QUANDO LA MADRE E' CASALING

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per la partecipazione a tutti i colleghi.
------------------------------------------------------------------------------------

Con il presente Parere espresso dal CdS in favore del collega CC., il CdS precisa:

(ecco alcuni brani)

1) - Il ricorso è fondato, nei sensi di cui appresso.

2) - La questione, sottoposta all’esame odierno, concerne l’interpretazione dell’art. 40 del D.Lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui (comma 1, lett. c) riconosce al padre lavoratore il diritto di fruire, nel primo anno di vita del figlio, del riposo giornaliero di due ore “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. In particolare, si dibatte se con l’espressione “non ... lavoratrice dipendente” il legislatore abbia inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti una attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa.

3) - Ritiene il Collegio che, alla stregua di detto apparato normativo ed alla luce del principio espresso nella sentenza di questo Consiglio di Stato n. 4293 del 9.9.2008 (che, esaminando analoga problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice autonoma bensì casalinga, si è pronunciato nel senso della piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente), l’opposto diniego si riveli illegittimo.

4) - Ritiene, tuttavia, il Collegio di dovere aderire al primo orientamento, perché aderente alla non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al padre, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”.
- Tale formulazione, secondo il significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente: dunque, quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un’attività non retribuita da terzi (se a quest’ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga), e pur se l’attività si svolga prettamente tra le mura domestiche, maggiormente a contatto, dunque, con il bambino da assistere.
- Altro si direbbe se il legislatore avesse usato la formula “nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente”.
- La tecnica di redazione dell’art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia volutamente tassativa.

5) - In tal senso, peraltro, si è pronunciato, più di recente, questo Consiglio di Stato, nella sentenza della Sezione III, n. 4618 del 19 giugno 2014.

6) - Anche dal punto di vista della ratio, tale orientamento appare più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all'educazione della prole, che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.

7) - Proprio, dunque, lo spostamento dell'asse della ratio normativa sulla tutela del minore impone, invero, di ritenere che il beneficio, di cui uno dei due genitori può fruire, costituisca il punto di bilanciamento tra gli obblighi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro (con riferimento al rispetto dell'orario di servizio) e gli obblighi discendenti dal diritto di famiglia paritario, che gli impone, comunque, la cura del minore pure in presenza dell'altro genitore eventualmente non lavoratore.

8) - Tale beneficio sostanzialmente grava sul datore di lavoro dell'uno o dell'altro genitore, ma, allorché uno dei due, per una ragione qualsiasi, non se ne avvalga (perché “non lavoratore dipendente” e, dunque, anche non lavoratore “tout court” ), ben può essere richiesto e fruito dall'altro.

Cmq. leggete tutto il contesto qui sotto.

Auguri per il collega.
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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201600230 - Public 2016-02-03 -

Numero 00230/2016 e data 03/02/2016


REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda

Adunanza di Sezione del 4 novembre 2015

NUMERO AFFARE 03228/2013

OGGETTO:
Ministero della Difesa, Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dall’App. Sc. dei Carabinieri Gianluigi Pellegrino per l’annullamento del provvedimento di diniego prot. n. 3858/8 in data 30.03.2009 dei permessi giornalieri di due ore previsti dagli articoli 39 e 40 del D.Lgs. n. 151/2001 e di ogni atto antecedente, connesso e/o conseguenziale.

LA SEZIONE
Vista la nota prot. n. 50/6 datata settembre 2013, con la quale il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri ha trasmesso la relazione istruttoria e quella integrativa, con le quali chiede il prescritto parere del Consiglio di Stato sul ricorso straordinario in oggetto;
Esaminati gli atti ed udito il relatore, consigliere Nicolò Pollari;

Premesso:

L’Appuntato Scelto dei Carabinieri Gianluigi Pellegrino, in servizio presso il Nucleo Informativo del Comando Provinciale Carabinieri di Cuneo, successivamente alla nascita della figlia, avvenuta nel maggio del 2008, presentava istanza in data 7.11.2008, al fine di beneficiare dei permessi giornalieri di due ore, che il combinato disposto degli articoli 39 e 40 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, riconosce ai lavoratori padri durante il primo anno di vita del bambino, nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente.

Tale richiesta veniva avanzata nonostante la moglie fosse casalinga, evidenziando all’uopo la presenza in famiglia di altri sei figli, di età compresa tra i dodici e i cinque anni, e, insieme, richiamando la decisione n. 4293/08 del Consiglio di Stato- Sezione VI, in cui l’attività di casalinga viene assimilata a quella della lavoratrice autonoma.

Con provvedimento prot. n. 3858/8 in data 30.03.2009, il Comando di Corpo respingeva la richiesta, ritenendo che la decisione del Consiglio di Stato, invocata dall’interessato, “costituisce un orientamento isolato, che, allo stato, non giustifica un intervento emendativo delle disposizioni vigenti, aderenti sia al tenore letterale della norma che alla complessiva sistematica del decreto legislativo in questione”.

A seguito di un primo ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il Consiglio di Stato ha dichiarato la sua inammissibilità, difettando il previo esperimento del ricorso gerarchico avverso l’atto non definitivo.

Al contempo, rilevando che il Comando Legione Piemonte e Valle d’Aosta aveva erroneamente indicato in calce all’atto impugnato la possibilità di esperire ricorso al tribunale amministrativo regionale o ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, ha invitato l’Amministrazione a rimettere il ricorrente nei termini (per errore scusabile), per un’eventuale presentazione del ricorso gerarchico.

L’interessato, quindi, ha presentato ricorso gerarchico, che è stato rigettato dall’Amministrazione.

Con l’odierno ricorso straordinario al Capo dello Stato, datato 19 marzo 2013, l’App. Sc. Gianluigi Pellegrino ha dunque chiesto:

- l’annullamento del provvedimento prot. n. 3858/8 in data 30.03.2009, di ogni altro atto antecedente, preordinato e conseguenziale ad esso, nonché delle direttive gerarchiche - linee guida - circolari - orientamenti - compendi normativi del Ministero della Difesa e del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, relativamente alla mancata previsione della concessione dei benefici ex art. 40 D.Lgs. 151/2001 nel caso di coniuge casalinga;

- l’accertamento del proprio diritto alla fruizione dei periodi di riposo giornalieri richiesti, con relativo trattamento economico dalla nascita sino al compimento di un anno di vita della figlia;

- il pagamento di un importo commisurato al numero dei permessi di cui all’art. 40, lett. c), D.Lgs. n. 151/20001 non fruiti perché negati, comprensivi di interessi legali e rivalutazione monetaria;

- il risarcimento del danno economico, morale ed esistenziale, patito dall’intero nucleo familiare, in considerazione nella mancata conclusione del procedimento amministrativo nei termini previsti dall’art. 2 della Legge n. 241/1990;

- il pagamento, da parte dell’Amministrazione, del contributo unificato relativo al ricorso, non dovuto nell’anno 2009, nella considerazione che il ritardo nella sua presentazione sarebbe a lei imputabile per averlo indotto in errore mediante l’atto impugnato.

Il ricorrente deduce i seguenti motivi di diritto:
Violazione e/o erronea applicazione e/o interpretazione degli artt. 39 e 40 del D. Lgs. n. 151/2001; - violazione degli artt. 31 29, 30 e 31 della Costituzione;
violazione e/o erronea applicazione e/o interpretazione dei principi giurisprudenziali in materia di permessi di cui all’art. 40 lett. c) del D.Lgs. n. 151/2001;
violazione dell’art. 1 del D. Lgs. n. 198/2006 e violazione della normativa in materia di pari opportunità fra uomo e donna (D. Lgs. n. 5/2010) e della parità di trattamento sul lavoro di entrambi i sessi (Legge n. 903/1977);
violazione e/o erronea applicazione e/o interpretazione dell’art. 1493 del D. Lgs. n. 66/2010;
violazione del principio del buon andamento dell’azione amministrativa e dell’art 97 della Costituzione; violazione delle preleggi (artt. 3 e 4) e dei principi in materia di gerarchia delle fonti; violazione e/o erronea applicazione e/o interpretazione degli artt. 2 e 2 bis della Legge n. 241/1990;
eccesso di potere per erronea valutazione dei presupposti, illogicità, travisamento, contraddittorietà, difetto e/o insufficienza di istruttoria e di motivazione;
ingiustizia manifesta, disparità di trattamento.

Assume, nella sostanza, il ricorrente l’illegittimità del provvedimento impugnato, che, nel non accordargli la possibilità di fruire dei permessi di riposo giornalieri per accudire la figlia nel suo primo anno di vita, ai sensi dell’art. 40 del D. Lgs. n.151/2001, si porrebbe in contrasto con il principio della parità di trattamento e di opportunità tra uomini e donne, posto a base dell’istituto in questione, e con quell’orientamento interpretativo giurisprudenziale che equipara la madre casalinga alla lavoratrice non dipendente, così come affermato dal Consiglio di Stato, Sez. VI, nella sent. n. 4293/2008.

Evidenzia che il successivo parere n. 2732 del 22.10.2009 del Consiglio di Stato, che ha fornito una diversa chiave di lettura alla richiamata sentenza, esprimendo un orientamento contrario alla concessione del beneficio, rappresenterebbe posizione isolata e minoritaria.

Pertanto, sostiene il ricorrente, poiché la casalinga va equiparata alla donna lavoratrice, i permessi dalla stessa non fruiti debbono essere attribuiti al padre.

Richiama, al riguardo, una serie di recenti pronunce della giurisprudenza amministrativa, che si sarebbe attestata in linea con tale interpretazione. In tal senso, si sarebbero mossi anche il Ministro del Lavoro e l’INPS, che con diverse circolari avrebbero riconosciuto il diritto del padre lavoratore di fruire dei riposi giornalieri anche qualora la madre svolga attività di lavoro casalingo.

Illegittima sarebbe la motivazione posta a base del provvedimento di diniego, in quanto tutte le disposizioni regolamentari citate dall’Amministrazione a sostegno del rigetto dell’istanza debbono ritenersi a loro volta illegittime, in quanto contrastanti con norme di rango superiore e principi fondamentali del nostro ordinamento giuridico, nonché della Costituzione.

Sussisterebbe, inoltre, violazione dell’art. 1493 del D. Lgs. n. 66/2010 per disparità di trattamento del personale militare rispetto agli altri settori dell’impiego pubblico e privato, ove viene concesso il beneficio di cui si discorre.

Evidenzia, altresì, di aver subito un danno grave e irreparabile dal diniego impugnato, nonché dal ritardo con cui l’Amministrazione ha definito il procedimento amministrativo, in violazione dell’art. 2 della L. 241/1990, essendo stato il provvedimento gravato notificato all’interessato oltre il termine di trenta giorni previsto dalla citata normativa.

Il Ministero riferente ritiene il ricorso infondato.

Nel procedere ad una ricostruzione dell’istituto di cui al D.Lgs. n. 151/2001, il Ministero osserva come il Consiglio di Stato, con il parere n. 2732 del 22 ottobre 2009, abbia espresso avviso contrario all’assimilabilità dell’attività della casalinga a quella della lavoratrice autonoma, ai fini della configurazione del presupposto utile per ammettere il padre al godimento del beneficio in tema, evidenziando come la statuizione della Sezione VI del medesimo Consiglio di Stato (n. 4293/2008) attenga alla valutazione economica del lavoro domestico, in relazione a profili di natura previdenziale e risarcitoria, mentre non risulta estensibile alle norme sulla tutela della maternità e della paternità.

Né, sostiene il Ministero, possono essere richiamate nel caso di specie norme (tra le quali quella del C.o.m., ex art. 1493 D.Lgs.n.66/2010, secondo il quale “al personale militare femminile e maschile si applica, tenendo conto del particolare stato rivestito, la normativa vigente per il personale delle pubbliche amministrazioni in materia di maternità e paternità, nonché le disposizioni dettate dai provvedimenti di concertazione”) ed interpretazioni (riferite a sentenze della giurisprudenza amministrativa di primo grado) più favorevoli al ricorrente, ma successive alla presentazione dell’istanza (7.11.2008), dovendo la rivalutazione del provvedimento impugnato avvenire alla luce delle disposizioni normative e del quadro interpretativo vigenti al momento della sua adozione, che a quel tempo chiaramente escludevano il riconoscimento del beneficio richiesto in caso di lavoro casalingo svolto da altro genitore.

Con atto in data 2 giugno 2013, il ricorrente, nel confermare quanto già dedotto nel ricorso principale, controbatte alle argomentazioni poste a fondamento della relazione ministeriale, contestando, in particolare, la presunta, errata affermazione della dicitura “ogni atto va valutato secondo la normativa vigente al momento del suo compimento”, in ragione della possibile emanazione nell’ordinamento di “leggi ordinarie con efficacia retroattiva con possibile effetto ablativo di tutti gli atti posti in essere in applicazione di quelle norme (che siano suscettibili di valutazione perché non ancora definitivi)”. Peraltro, secondo il ricorrente, il quadro normativo di settore prevedeva sin dal momento della presentazione della sua richiesta in data 07.11.2008 la concessione dei permessi anche al padre lavoratore nel caso in cui la moglie sia casalinga, come stabilito, in particolare, dalla sentenza n. 4293/2008 del 09.09.2008 del Consiglio di Stato (tra l’altro, confermativa di una precedente pronuncia del Tar Toscana n. 2737 del 25.11.2002), laddove, invece, il successivo parere del Consiglio di Stato n. 2732/2009, assunto dal Ministero della Difesa a sostegno della propria posizione, risale all’ottobre 2009, ossia ad un’epoca successiva rispetto alla nascita della figlia, avvenuta oltre un anno prima.

Osserva che sul sito internet del Ministero della Difesa, nella sezione dedicata al personale civile, è presente una nota di commento alla norma in discussione in favore della concessione del beneficio in parola. Tale evidenza mostrerebbe come la posizione assunta dall’Amministrazione della Difesa incorra in una disparità di trattamento tra personale appartenente allo stesso comparto.

Conclude evidenziando che il diniego dei permessi sia divenuto un atto definitivo in data 24.12.2012 (con l’emanazione del provvedimento che, in sede di esame del ricorso gerarchico, ha confermato nel merito l’atto impugnato), allorquando, quindi, era già vigente un quadro normativo e giurisprudenziale favorevole alla concessione dell’agevolazione nel senso auspicato dall’interessato.

Il Ministero nella propria relazione integrativa conferma tutto quanto già dedotto in sede di relazione principale. Afferma, in particolare, che “non è stata emanata alcuna disposizione normativa che dia efficacia retroattiva all’art. 40 del Decreto Legislativo n. 151 del 2001 e, pertanto, deve necessariamente applicarsi il richiamato principio [tempus regit actum]”. Evidenzia, inoltre, che il provvedimento adottato nel 2012, a seguito di annullamento dell’atto impugnato per meri vizi di forma, è stato assunto secondo le norme vigenti nel 2008 e, pertanto, con identica valutazione di merito a quello del 2009 e, in ordine alla nota di commento presente sul sito del comparto Difesa per il personale civile, che la stessa non risulta avere alcuna rilevanza per ciò che qui interessa, trattandosi di personale in diverso regime giuridico.

Considerato:

Il ricorso è fondato, nei sensi di cui appresso.

La questione, sottoposta all’esame odierno, concerne l’interpretazione dell’art. 40 del D.Lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui (comma 1, lett. c) riconosce al padre lavoratore il diritto di fruire, nel primo anno di vita del figlio, del riposo giornaliero di due ore “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. In particolare, si dibatte se con l’espressione “non ... lavoratrice dipendente” il legislatore abbia inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti una attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa.

L’istituto del riposo giornaliero è stato introdotto nel nostro ordinamento come un beneficio strettamente collegato al parto ed alle esigenze fisiologiche ad esso connesse, come si ricava chiaramente dall’art. 9 della Legge 26 agosto 1950 n. 860, che lo condizionava alla necessità di soddisfare i bisogni dell’allattamento.

Successivamente, l’art. 10 della Legge n. 1204 del 1971, non menzionando più la necessità dell’allattamento e, anzi, prescindendo espressamente da essa, ha modificato la natura e la finalità dell’istituto, il cui scopo è divenuto (come, del resto, indicato nella relazione illustrativa alla legge) quello di consentire alla madre di attendere ai molteplici compiti, tutti delicati e impegnativi, connessi con l’assistenza del bambino nel primo anno di vita.

Tale finalità è stata ribadita dall’art. 10 del D.P.R. 25 novembre 1776 n. 1076 (Regolamento di esecuzione della Legge n. 1204 del 1971), in cui si è affermato che “i riposi di cui all’art. 10 devono assicurare alla lavoratrice la possibilità di provvedere alla assistenza diretta del bambino”.

Sennonché, una volta spostato il centro di attenzione della tutela legislativa dalla donna al minore, non poteva non essere presa in considerazione, nell’ambito del principio paritario affermato nel nostro ordinamento con la riforma del diritto di famiglia di cui alla Legge 19 maggio 1975, n. 151, e di quello sulla parità di trattamento sul lavoro di entrambi i sessi, di cui alla Legge 9 dicembre 1977 n. 903, anche la posizione del padre.

In particolare, l’art. 7 di quest’ultima legge aveva attribuito al lavoratore padre la possibilità di usufruire - in alternativa alla madre o quando il figlio fosse a lui solo affidato - della astensione facoltativa dal lavoro per la durata di sei mesi nel primo anno di vita del bambino, riconoscendo, così, l’idoneità anche dell’uomo a prestare assistenza materiale e supporto affettivo al minore, senza, peraltro, estendere allo stesso l’istituto del riposo giornaliero.

E’, pertanto, con riferimento al descritto quadro normativo, venutosi a delineare anche a seguito dell’intervento del giudice delle leggi, che va valutato il disposto dell’art. 6 ter, introdotto, nella Legge n. 903 del 1977, dalla Legge 8 marzo 2000, n. 53, ai sensi del quale “i periodi di riposo di cui all’articolo 10 della Legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, e i relativi trattamenti economici sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. Norma, quest’ultima, poi recepita nell’art. 40 del Testo unico di cui al D. Lgs. 26 marzo 2001 n. 151 (del quale si discute in questa sede).

E’ necessario, in particolare, valutare se la madre “casalinga” possa farsi rientrare nell’ipotesi di cui alla lett. c) del più volte citato art. 40, che ha riguardo ai casi in cui la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio. La soluzione affermativa, che ha indotto l’Amministrazione a richiedere il parere di questo Consiglio di Stato, si fonda essenzialmente sull’evoluzione della giurisprudenza del giudice civile, secondo la quale chi svolge attività domestica nell’ambito del proprio nucleo familiare (attività tradizionalmente attribuita alla “casalinga”), benché non percepisca reddito monetizzato, svolge, tuttavia, un’attività lavorativa (ovviamente non dipendente), suscettibile di valutazione economica. Da qui, la conclusione della equiparabilità della figura della casalinga a quella di tutte le lavoratrici non dipendenti, ai sensi e per gli effetti dell’attribuzione al padre del beneficio del riposo giornaliero nel primo anno di vita del bambino.

Ritiene il Collegio che, alla stregua di detto apparato normativo ed alla luce del principio espresso nella sentenza di questo Consiglio di Stato n. 4293 del 9.9.2008 (che, esaminando analoga problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice autonoma bensì casalinga, si è pronunciato nel senso della piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente), l’opposto diniego si riveli illegittimo.

Ha rilevato, infatti, tale pronuncia che, trattandosi di una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall'art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio, allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e, pur tuttavia, impegnata in attività (nella fattispecie, quella di “casalinga”), che la distolgano dalla cura del neonato.

A sostegno della condivisibilità di tale interpretazione va richiamata Cass. n. 20324 del 20.10.2005, che, esaminando la questione della risarcibilità del danno da perdita della capacità di lavoro, assimila l'attività domestica ad attività lavorativa, richiamando i principi di cui agli artt. 4, 36 e 37 della Costituzione.

E’ pur vero che in senso diametralmente opposto si è espresso il Consiglio di Stato in sede consultiva: "In merito all'interpretazione dell'art. 40 D.Lg.vo. n. 151 del 2001, nella parte in cui (comma 1, lett. c) riconosce al padre lavoratore il diritto di fruire, nel primo anno di vita del figlio, del riposo giornaliero di due ore nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, deve smentirsi l'interpretazione fornita dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. VI n. 4293 del 2008), secondo cui con l'espressione non lavoratrice dipendente il legislatore ha inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti una attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa; ciò perché la madre casalinga non può farsi rientrare nella menzionata ipotesi che ha riguardo ai casi in cui la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio" (C.d.S, Sez. I, 22.10.2009, n. 2732).

Ritiene, tuttavia, il Collegio di dovere aderire al primo orientamento, perché aderente alla non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al padre, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. Tale formulazione, secondo il significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente: dunque, quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un’attività non retribuita da terzi (se a quest’ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga), e pur se l’attività si svolga prettamente tra le mura domestiche, maggiormente a contatto, dunque, con il bambino da assistere. Altro si direbbe se il legislatore avesse usato la formula “nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente”. La tecnica di redazione dell’art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia volutamente tassativa.

In tal senso, peraltro, si è pronunciato, più di recente, questo Consiglio di Stato, nella sentenza della Sezione III, n. 4618 del 19 giugno 2014.

Anche dal punto di vista della ratio, tale orientamento appare più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all'educazione della prole, che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.

Né può condividersi l'assunto secondo cui "la considerazione dell'attività domestica, come vera e propria attività lavorativa prestata a favore del nucleo familiare, non esclude, ma al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali"(così il citato parere del C.d.S., Sez. I, 22.10.2009, n. 2732), poiché esso oblitera l'innegabile circostanza, che costituisce il fondamento dell'istituto dei permessi giornalieri, della estrema difficoltà di cura della prole da parte anche della madre casalinga, specie laddove si ponga mente alle complesse esigenze di accudimento dei figli nel primo anno di vita (nel corso del quale spettano i permessi de quibus).

Del resto, è stato spesso ribadito come i compiti esercitati dalla casalinga risultino di maggiore ampiezza, intensità e responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d'opera dipendente (Cass. civ., Sez. 3, n. 17977 del 24 agosto 2007; idem, 20 luglio 2010 n. 16896; da ultimo, Cass. civ., III, 13 dicembre 2012, n. 22909). Ciò vale ancor di più nel caso di specie, se si considera la necessità di accudire ben sei figli.

Come evidenziato dalla menzionata sentenza n. 4618/2014, i riposi giornalieri, una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del bambino, hanno la funzione di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità (Corte cost., 1 aprile 2003, n. 104 ); ed in tale prospettiva sarebbe del tutto irragionevole ritenere che l’onere di soddisfacimento degli stessi debba ricadere sul solo genitore che viva la già peculiare situazione di lavoro casalingo. Proprio, dunque, lo spostamento dell'asse della ratio normativa sulla tutela del minore impone, invero, di ritenere che il beneficio, di cui uno dei due genitori può fruire, costituisca il punto di bilanciamento tra gli obblighi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro (con riferimento al rispetto dell'orario di servizio) e gli obblighi discendenti dal diritto di famiglia paritario, che gli impone, comunque, la cura del minore pure in presenza dell'altro genitore eventualmente non lavoratore. Tale beneficio sostanzialmente grava sul datore di lavoro dell'uno o dell'altro genitore, ma, allorché uno dei due, per una ragione qualsiasi, non se ne avvalga (perché “non lavoratore dipendente” e, dunque, anche non lavoratore “tout court” ), ben può essere richiesto e fruito dall'altro.

Si ritengono, infine, assorbite le richieste del ricorrente tese al ristoro dei pregiudizi patiti, peraltro inammissibili in sede di ricorso straordinario.

P.Q.M.

esprime il parere il ricorso debba essere accolto, nei sensi di cui in motivazione.



L'ESTENSORE IL PRESIDENTE F/F
Nicolo' Pollari Gerardo Mastrandrea




IL SEGRETARIO
Maria Grazia Nusca
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Re: ALLATTAMENTO DEL PADRE ANCHE QUANDO LA MADRE E' CASALING

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per notizia, il BTG "Puglia" CC. di Bari fa marcia indietro.

n.b. la parte OMISSIS l'ho messa io, in quanto non d'interesse per noi.
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Legislatura 17ª - 4ª Commissione permanente - Resoconto sommario n. 173 del 27/04/2016

DIFESA (4ª)

MERCOLEDÌ 27 APRILE 2016

173ª Seduta


Presidenza del Presidente
LATORRE

Interviene il sottosegretario di Stato per la difesa Rossi.


La seduta inizia alle ore 15,10.


SUI LAVORI DELLA COMMISSIONE

OMISSIS

PROCEDURE INFORMATIVE

Interrogazioni

Il sottosegretario ALFANO risponde quindi all'interrogazione n. 3-02744, a firma del senatore Marton e di altri e relativa alla presunta mancata applicazione della normativa di tutela della paternità in un caso in Puglia osservando che la disciplina dei riposi giornalieri della madre e del padre, prevista dagli articoli 39 e 40 del decreto legislativo n. 151 del 2001, impone al datore di lavoro di consentire alle lavoratrici e ai lavoratori due ore di riposo, anche cumulabili nella giornata, durante il primo anno di vita del bambino.

Tali disposizioni sono state peraltro oggetto di numerose pronunce del Consiglio di Stato, sia in sede giurisdizionale che consultiva, con cui è stato chiarito (tra le molte sentenza n. 4618 del 2014) che trattandosi di normativa rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall’articolo 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività (nella fattispecie, quella di casalinga), che la distolgano dalla cura del neonato.

Nel caso in esame, rileva quindi che il Comando dell’11° Battaglione carabinieri "Puglia" che in un primo tempo aveva negato al richiedente la fruizione del beneficio del riposo giornaliero, successivamente, sulla base dei principi interpretativi forniti dalla giurisprudenza amministrativa, ha provveduto all'annullamento in autotutela del provvedimento di diniego ed ha adottato un nuovo provvedimento autorizzatorio del beneficio in questione.

Replica nuovamente il senatore MARTON (M5S), osservando che l'applicazione delle normative in questione da parte dell'Amministrazione della Difesa appare connotata da eccessiva discrezionalità; sottolinea perciò l'opportunità che il tema sia oggetto di un apposito intervento interpretativo al fine di vincolare tutte le strutture del Ministero.

Si dichiara pertanto insoddisfatto dei chiarimenti forniti dal rappresentante del Governo.


Il PRESIDENTE dichiara quindi concluse le odierne procedure informative.

La seduta termina alle ore 15,30.
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Re: ALLATTAMENTO DEL PADRE ANCHE QUANDO LA MADRE E' CASALING

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N.B.: posto anche la parte iniziale dell’interrogazione in modo che i lettori hanno un quadro chiaro sulla questione verificatasi al BTG. “Puglia” CC. di Bari.
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Dal sito Senato della Repubblica
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Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-02744

Atto n. 3-02744 (in Commissione)

Pubblicato il 6 aprile 2016, nella seduta n. 604

MARTON , SANTANGELO , CRIMI , MORONESE , ENDRIZZI , DONNO , BERTOROTTA , AIROLA , MONTEVECCHI , PAGLINI , GIARRUSSO - Al Ministro della difesa. -

Premesso che il decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, recante "Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53", all'articolo 39 (Riposi giornalieri della madre) ha disposto: "1. Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l'orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore. 2. I periodi di riposo di cui al comma 1 hanno la durata di un'ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall'azienda. 3. I periodi di riposo sono di mezz'ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell'asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell'unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa», mentre all'articolo 40 (riposi giornalieri del padre) ha disposto: «I periodi di riposo di cui all'articolo 39 sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) in caso di morte o di grave infermità della madre";

considerato che:

in data 16 settembre 2015, il sottosegretario di Stato alla difesa, Alfano, rispondeva in 4ª Commissione permanente (Difesa) del Senato, ad un'interrogazione, presentata il 3 giugno 2015 (3-01954), relativamente ad una circolare ministeriale che appariva in contrasto con il dettato normativo del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, in particolare, l'articolo 40 "riposi giornalieri del padre". La circolare in questione della Direzione generale per il personale militare (prot. n. M_D GMIL 0080676 del 12 febbraio 2015) sembrava non riconoscere al padre i diritti dell'articolo 40, quando la madre fosse lavoratrice autonoma;

nella risposta orale, lo stesso sottosegretario Alfano rassicurava circa l'attuazione relativamente al personale militare di ogni parte della disposizione dell'articolo citato, riconoscendone la legittimità con il richiamo a 2 decisioni del Consiglio di Stato (decisioni n. 4293 del 6 giugno 2008, n. 4618 del 19 giugno 2014), che non lasciano dubbi circa l'estensione del beneficio del riposo al padre, nel caso in cui la madre sia lavoratrice autonoma;

risulta agli interroganti l'emanazione di un'altra circolare (prot. n. M_D GMIL 0431884 22-07-2015), che riconosce in maniera chiara, puntuale e manifesta il beneficio al padre militare dei riposi orari giornalieri, in conformità a quanto stabilito dall'art 40 della legge citata. Inoltre, la circolare, recependo l'ultimo orientamento giurisprudenziale, ribadisce che "il diritto ai riposi giornalieri compete al militare padre anche in tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente in capo alla madre: pertanto, non solo nel caso della madre che svolge attività lavorativa autonoma, ma anche in quello della madre che non svolge alcuna attività lavorativa o che, comunque, svolge un'attività non retribuita da terzi";

a parere degli interroganti, quest'ultima circolare, mette un punto fermo sul riconoscimento, anche in ambito militare, dei diritti genitoriali, in particolare della figura paterna che rispetto alla cura dei propri figli, gode degli stessi benefici di quella materna;

inoltre, risulta agli interroganti, che il parere del Consiglio di Stato (numero 00230/2016 del 3 febbraio 2016) ribadisce l'interpretazione della normativa nel senso di ritenere fruibili i benefici, anche nel caso in cui la moglie sia priva di impiego di qualsiasi natura;

è pervenuto, infine, all'attenzione del primo firmatario del presente atto di sindacato ispettivo, un estratto della pubblicazione "C-14" (Compendio normativo in materia di congedi, licenze e permessi del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri) che, al capitolo X, chiarisce ulteriormente nei dettagli le modalità e i requisiti di ottenimento del beneficio dei permessi giornalieri per il minore;

considerato inoltre che a quanto risulta agli interroganti:

in data 22 febbraio 2016 l'Ufficio Comando - Sezione Segreteria e Personale dell'11 Battaglione Carabinieri "Puglia", nella persona del comandante Tenente Colonnello Giuseppe Sportelli, avrebbe determinato il diniego della concessione dei riposi giornalieri del padre, ai sensi della normativa richiamata, richiesti mediante istanza formulata il 5 febbraio 2016 dal brigadiere Massimo Di Ceglie, adducendo a motivazione ragioni di prevalente carattere organizzativo, interpretando la normativa in esame autonomamente, nel senso di poter derogare ai diritti ivi sanciti, anche per il personale militare per ragioni contingenti, connesse alle specifiche circostanze operative di reparto, senza che sia possibile tuttavia rilevare le fonti normative di tale presunto potere di deroga,

si chiede di sapere:

se il Ministro in indirizzo sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa;

se non ritenga opportuno attivare le procedure ispettive e conoscitive di competenza al fine di prendere in considerazione ogni eventuale profilo di mancata conformità tra il provvedimento di diniego e la ratio della normativa richiamata, ed, eventualmente, provvedere ad avviare ogni azione di competenza idonea a prevenire situazioni analoghe, oltre a ripristinare, nel caso di specie, la corretta applicazione delle previsioni normative e il buon andamento dell'attività amministrativa.
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