Re: TERMINI DA OSSERVARE PER LA CONTESTAZIONE ADDEBITI
Inviato: mer feb 19, 2020 11:29 am
Pubblicato il 18/02/2020
N. 01233/2020REG.PROV.COLL.
N. 04815/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4815 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Agostini, Antonio Nicodemo e Andrea Altieri, con domicilio eletto presso lo studio Giovanni Agostini in Roma, via Silvio Pellico, 44;
contro
Ministero dell'interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 gennaio 2020 il consigliere Roberto Proietti e uditi per le parti l’avvocato Andrea Altieri e l'avvocato dello Stato Fabio Tortora;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. -OMISSIS-, all’epoca dei fatti ispettore superiore della Polizia di Stato, ha impugnato dinanzi al TAR per le Marche, con due distinti ricorsi, i provvedimenti del 15 febbraio 2015 n. 333-C-I/Sez,2^/17364 e del 7 marzo 2016 n. 333-C-I/Sez.2^/17364, entrambi emessi dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, con i quali, rispettivamente, è stata disposta la sua sospensione cautelativa dal servizio (ai sensi dell’art. 92 del d.P.R. n. 3/1957) e la sua destituzione (a norma dell’art. 7, comma 2, nn. 1, 2, 3 e 4 del d.P.R. n. 737/1981), in conseguenza di fatti ritenuti gravi e di rilevanza penale, comportanti anche grave nocumento al prestigio e all’immagine dell’Amministrazione.
1.1. L’istanza cautelare proposta nel giudizio avverso la sanzione disciplinare, inizialmente accolta dal giudice di primo grado con ordinanza n. -OMISSIS-, è stata successivamente respinta da questa Sezione con ordinanza n. -OMISSIS-, adeguatamente motivata, per mancanza di fumus boni iuris.
1.2. Successivamente, il TAR per le Marche, riuniti i ricorsi, li ha respinti con la sentenza oggetto del presente giudizio.
2. Avverso tale sentenza l’interessato ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato, deducendo l’erroneità della decisione impugnata per i seguenti motivi di ricorso:
a) omessa valutazione da parte del giudice di primo grado del primo motivo del ricorso proposto dinanzi al TAR per le Marche, inerente alla violazione dei termini del procedimento disciplinare;
b) omessa valutazione del secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto la violazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 737 del 1981 e la mancata sospensione del procedimento disciplinare, oltre al travisamento dei fatti e all’ingiustizia manifesta dei provvedimenti impugnati;
c) erronea valutazione del terzo e del quarto dei motivi di ricorso proposti in primo grado, inerenti alla violazione degli artt. 6 e 13 del d.P.R. n. 737 del 1981 e all’asserita violazione del principio di proporzionalità e dell’obbligo di motivazione ed istruttoria.
2.1. Il Ministero dell’Interno si è costituito nel giudizio di secondo grado chiedendo il rigetto del ricorso.
2.2. All’udienza del 30 gennaio 2020 la causa è stata trattenuta per la decisione.
3. Il Collegio, preliminarmente, rileva che il ricorrente non ha contestato il capo della sentenza impugnata con il quale è stata respinta la domanda di annullamento del provvedimento di sospensione cautelare (n.r.g.-OMISSIS-) e, quindi, tale statuizione deve ritenersi coperta dalla forza del giudicato interno.
4. Sempre in via preliminare, si osserva che, successivamente alla proposizione dei due ricorsi di primo grado, con sentenza penale del Tribunale di Pesaro del 25 settembre 2017 - confermata con sentenza penale della Corte d’Appello di Ancona del 21 maggio 2019 - in ordine ai fatti oggetto di causa, -OMISSIS- è stato condannato per i reati di furto aggravato della chiave dal cassetto della scrivania di un collega e della cocaina custodita in un armadio blindato.
5. Ciò premesso, si osserva che, con il primo motivo d’appello, il ricorrente deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di primo grado ha ritenuto insussistente la violazione dei termini per la conclusione del procedimento disciplinare.
Al riguardo, è stato osservato che, nel caso di specie, sono trascorsi duecentosettantanove giorni tra la notifica dell’avvio del procedimento e l’adozione del decreto di destituzione, in asserita violazione dell’articolo 9 della legge n. 19 del 1990, il quale stabilisce in duecentosettanta giorni (dall’avvio del procedimento) il termine massimo per l’emanazione di un provvedimento disciplinare.
6. Il Collegio ritiene che tale censura sia infondata in quanto l’articolo 9 della citata legge n. 19 del 1990 (richiamata dal ricorrente a sostegno delle proprie posizioni), si riferisce esclusivamente ai casi in cui sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna. In particolare, il secondo comma del citato articolo 19 stabilisce che: “La destituzione può sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni (…)”.
In sostanza, l’appellante ha evocato una norma che non attiene al caso di specie e riguarda ipotesi in cui il procedimento disciplinare sia inscindibilmente legato all’esito del processo penale.
Nella fattispecie, la normativa di riferimento utile per delimitare temporalmente la durata del procedimento disciplinare è invece da rinvenire negli artt. 92, comma 3, e 120, d.P.R. n. 3/1957 (t.u. impiegati civili dello Stato) il cui rispetto non è stato contestato dall’interessato.
L’articolo 92, comma 2, del d.P.R. n. 3/1957 cit. stabilisce che: “La sospensione disposta prima dell'inizio del procedimento disciplinare è revocata e l'impiegato ha diritto alla riammissione in servizio ed alla corresponsione degli assegni non percepiti, escluse le indennità o compensi per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di carattere straordinario, se la contestazione degli addebiti, ai sensi del secondo comma dell'art. 103, non ha luogo entro quaranta giorni dalla data in cui è stato comunicato all'impiegato, nelle forme dell'art. 104, il provvedimento di sospensione”.
Tale disciplina prevede esclusivamente un termine per l’esercizio del potere disciplinare a seguito dell’adozione del provvedimento di sospensione, che risulta essere stato rispettato dall’Amministrazione, posto che il provvedimento di sospensione cautelare è stato adottato in data 15 maggio 2015, mentre il procedimento disciplinare è stato avviato il 10 giugno 2015, con la notifica dell’atto di contestazione degli addebiti.
Inoltre, è stato rispettato il termine infraprocedimentale stabilito dall’art. 120, comma 1 del medesimo t.u., secondo cui il procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto (circostanza questa che non ricorre nel caso di specie).
Nel consegue l’infondatezza del primo motivo di ricorso.
7. Con il secondo motivo d’appello, è stata dedotta l’erroneità della sentenza impugnata in quanto il giudice di primo grado avrebbe omesso di accertare che l’Amministrazione avrebbe dovuto sospendere il procedimento disciplinare in attesa della definizione del procedimento penale, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 11, del d.P.R. n. 737/1981 (recante “Sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti”).
8. Al riguardo, il Collegio osserva che il citato articolo 11 stabilisce che: “Quando l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza viene sottoposto, per gli stessi fatti, a procedimento disciplinare ed a procedimento penale, il primo deve essere sospeso fino alla definizione del procedimento penale con sentenza passata in giudicato.”.
La ratio della disposizione è rinvenibile nella volontà di prevenire ed evitare antinomie fra gli esiti del procedimento penale e di quello disciplinare, soprattutto in relazione all’accertamento dei fatti.
Alla luce di ciò, il Collegio ritiene che l’obbligo di sospensione del procedimento disciplinare debba riferirsi alle ipotesi in cui sia controversa l’esistenza dei fatti posti alla base delle decisioni da assumere e non anche ai casi, come quello in esame, in cui la sussistenza delle condotte contrarie a regole deontologiche sia pacifica (essendo stata in discussione solo la loro rilevanza penale in un processo iniziato dopo la conclusione di quello disciplinare).
Sul punto, va osservato che il Sig. -OMISSIS- è stato ripreso dalle microtelecamere, appositamente installate nel locale ove sono avvenuti i fatti deontologicamente rilevanti, nell’atto di aprire l’armadio per prendere un barattolo contenente la sostanza stupefacente in esso contenuta (cfr. doc. 4 dell’Amministrazione) e che lo stesso appellante ha dichiarato, sia in sede di spontanee dichiarazioni che di sommarie informazioni rese alla presenza del proprio legale - sia nell’ambito dell’interrogatorio dinanzi al Pubblico Ministero – di aver preso in due diverse circostanze la chiave dal cassetto della scrivania del collega senza alcuna motivazione di servizio né autorizzazione; di aver aperto l’armadio e di aver prelevato parte del reperto di cocaina ivi custodito, alterandolo e facendone uso (cfr. docc. 6, 6 bis e 16 dell’Amministrazione).
Del resto, in tali casi, una diversa interpretazione della norma richiamata condurrebbe all’irragionevole conseguenza di impedire all’Amministrazione di adottare tempestivamente un provvedimento sulla cui opportunità è già stata operata una valutazione positiva. In sostanza, in casi del genere, l’unico effetto concreto che si otterrebbe, sospendendo il procedimento disciplinare fino all’esito di quello penale, sarebbe quello di postergare la sanzione amministrativa senza alcun valido motivo.
Peraltro, sulla questione se il procedimento vada sospeso solo dopo l’esercizio dell’azione penale o anche in pendenza delle indagini preliminari si è già pronunciata l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con decisione n. 1/2009. In quella sede, dopo essere stato ribadito che il dovere di sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di quello penale trae origine dalla necessità di prevenire antinomie di giudizio (circostanza che, come detto, assume rilevanza allorquando sia contestata l’esistenza dei medesimi fatti alla base di entrambi i procedimenti), è stato espressamente affermato che tale dovere di sospensione sorge solamente dal momento in cui viene esercitata l’azione penale, mediante l’adozione dell’atto con cui il pubblico ministero, espletate le indagini preliminari, formula l’imputazione con cui inizia il processo penale
Poiché, nel caso di specie non era ancora stata esercitata l’azione penale al momento dell’adozione del contestato provvedimento disciplinare (posto che ancora erano in corso le indagini preliminari), deve ritenersi che l’Amministrazione abbia legittimamente proceduto all’irrogazione della sanzione destitutoria.
Del resto, dagli atti di causa e dal tenore del contestato provvedimento disciplinare di destituzione dal servizio, emerge che la sanzione disciplinare è stata irrogata prescindendo dalla rilevanza penale della condotta perpetrata dall’appellante, avendo assunto rilievo deontologico la contrarietà della condotta del militare rispetto al “senso dell’onore, della morale, violando i doveri assunti con il giuramento, abusando della fiducia in lui riposta dall’Amministrazione, con grave pregiudizio per la stessa”.
Alla luce di tutto ciò, anche il secondo motivo di ricorso risulta infondato.
9. Con il terzo motivo di ricorso, l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di primo grado ha ritenuto non censurabile (sotto i profili dell’irragionevolezza, dell’incongruenza, della sproporzione e dell’illogicità) la scelta dell’Amministrazione di destituire dal servizio il dipendente, asseritamente assunta omettendo di valutare (secondo l’appellante) la carenza dell’istruttoria in relazione agi elementi di valutazione forniti dall’incolpato.
In particolare, l’appellante afferma di aver presentato otto denunce-querele presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro ed una richiesta di avocazione delle indagini alla Procura Generale presso la Corte di Appello di Ancona; nonché, di aver già dimostrato la propria estraneità rispetto ai fatti contestati ex art. 73, co. 1, t.u. n. 309/90, ex art. 349, co. 1, c.p. ed ex art. 379 c.p. (imputazioni tutte archiviate).
Inoltre, in relazione ai capi di imputazione non archiviati, l’interessato asserisce che, per quanto concerne la presunta appropriazione indebita della chiave per accedere all’armadio dell’ufficio, la sua condotta non potrebbe costituire un comportamento in contrasto con il senso dell’onore e della morale, ovvero violativo dei doveri assunti con il giuramento; mentre, per quanto riguarda la presunta alterazione di reperti ed il presunto uso di sostanze stupefacenti, evidenzia come, allo stato, non via sia alcuna prova oggettiva di tali accuse.
10. Anche sotto questi profili, il Collegio ritiene la sentenza di primo grado immune dalle censure prospettate dall’appellante.
Anzitutto, va rilevato che le conseguenze penali delle condotte contestate all’appellante ai fini della sua destituzione non hanno avuto particolare rilievo in sede procedimentale, come confermato dal tenore della delibera del Consiglio di disciplina dell’11 febbraio 2016 ove si legge che tali fatti sono stati esaminati e valutati esclusivamente sotto il profilo amministrativo, sanzionando la contrarietà delle condotte contestate in relazione al ruolo di ispettore superiore di Polizia ricoperto dall’interessato, il quale, nell’espletamento del proprio servizio, deve necessariamente tenere un comportamento improntato al senso dell’onore e della morale, ed in linea con i doveri assunti con il giuramento prestato.
Inoltre, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, l'apprezzamento compiuto dall'Amministrazione circa la gravità dei fatti addebitati, ai fini della scelta della sanzione applicabile, attiene alla sfera della discrezionalità amministrativa, non censurabile nel merito e soggetta solo ad una verifica estrinseca di congruenza e logicità.
Sotto questo profilo, le valutazioni eseguite e la scelta operata dall’Amministrazione risultano corrette, tenuto conto della gravità dei fatti addebitati all’appellante, a fronte della quale non assumono particolare rilievo dirimente i precedenti di carriera dell’interessato, che non inducono a considerare manifestamente sproporzionata o irragionevole la sanzione irrogata.
11. Alla luce delle considerazioni che precedono, il Collegio ritiene che l’appello sia infondato e debba essere respinto.
12. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
13. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55 e dell’art. 26, comma 1, c.p.a., ricorrendone i presupposti applicativi, anche in relazione ai profili di sinteticità e chiarezza, secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sostanzialmente recepita, sul punto in esame, dalla novella recata dal decreto-legge n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. [cfr. sez. IV, n. 5008 del 2018; sez. V, 9 luglio 2015, n. 3462; sez. V, 21 novembre 2014, n. 5757; sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1733; sez. V, 31 maggio 2011, n. 3252, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria conformemente, peraltro, ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. Sez. VI, n. 11939 del 2017; n. 22150 del 2016)].
14. La condanna dell’appellante, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a. rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, nr. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, così provvede:
a) respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata;
b) condanna l’appellante alla rifusione, in favore dell’Amministrazione resistente, delle spese del giudizio che liquida in euro 7.000,00 (settemila/00), anche ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a., oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%),
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla competente autorità amministrativa.
Manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare le generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2020 con l'intervento dei magistrati:
Vito Poli, Presidente
Luca Lamberti, Consigliere
Nicola D'Angelo, Consigliere
Silvia Martino, Consigliere
Roberto Proietti, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberto Proietti Vito Poli
IL SEGRETARIO
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
N. 01233/2020REG.PROV.COLL.
N. 04815/2017 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4815 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Giovanni Agostini, Antonio Nicodemo e Andrea Altieri, con domicilio eletto presso lo studio Giovanni Agostini in Roma, via Silvio Pellico, 44;
contro
Ministero dell'interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per le Marche (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 gennaio 2020 il consigliere Roberto Proietti e uditi per le parti l’avvocato Andrea Altieri e l'avvocato dello Stato Fabio Tortora;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. -OMISSIS-, all’epoca dei fatti ispettore superiore della Polizia di Stato, ha impugnato dinanzi al TAR per le Marche, con due distinti ricorsi, i provvedimenti del 15 febbraio 2015 n. 333-C-I/Sez,2^/17364 e del 7 marzo 2016 n. 333-C-I/Sez.2^/17364, entrambi emessi dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, con i quali, rispettivamente, è stata disposta la sua sospensione cautelativa dal servizio (ai sensi dell’art. 92 del d.P.R. n. 3/1957) e la sua destituzione (a norma dell’art. 7, comma 2, nn. 1, 2, 3 e 4 del d.P.R. n. 737/1981), in conseguenza di fatti ritenuti gravi e di rilevanza penale, comportanti anche grave nocumento al prestigio e all’immagine dell’Amministrazione.
1.1. L’istanza cautelare proposta nel giudizio avverso la sanzione disciplinare, inizialmente accolta dal giudice di primo grado con ordinanza n. -OMISSIS-, è stata successivamente respinta da questa Sezione con ordinanza n. -OMISSIS-, adeguatamente motivata, per mancanza di fumus boni iuris.
1.2. Successivamente, il TAR per le Marche, riuniti i ricorsi, li ha respinti con la sentenza oggetto del presente giudizio.
2. Avverso tale sentenza l’interessato ha proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato, deducendo l’erroneità della decisione impugnata per i seguenti motivi di ricorso:
a) omessa valutazione da parte del giudice di primo grado del primo motivo del ricorso proposto dinanzi al TAR per le Marche, inerente alla violazione dei termini del procedimento disciplinare;
b) omessa valutazione del secondo motivo di ricorso, avente ad oggetto la violazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 737 del 1981 e la mancata sospensione del procedimento disciplinare, oltre al travisamento dei fatti e all’ingiustizia manifesta dei provvedimenti impugnati;
c) erronea valutazione del terzo e del quarto dei motivi di ricorso proposti in primo grado, inerenti alla violazione degli artt. 6 e 13 del d.P.R. n. 737 del 1981 e all’asserita violazione del principio di proporzionalità e dell’obbligo di motivazione ed istruttoria.
2.1. Il Ministero dell’Interno si è costituito nel giudizio di secondo grado chiedendo il rigetto del ricorso.
2.2. All’udienza del 30 gennaio 2020 la causa è stata trattenuta per la decisione.
3. Il Collegio, preliminarmente, rileva che il ricorrente non ha contestato il capo della sentenza impugnata con il quale è stata respinta la domanda di annullamento del provvedimento di sospensione cautelare (n.r.g.-OMISSIS-) e, quindi, tale statuizione deve ritenersi coperta dalla forza del giudicato interno.
4. Sempre in via preliminare, si osserva che, successivamente alla proposizione dei due ricorsi di primo grado, con sentenza penale del Tribunale di Pesaro del 25 settembre 2017 - confermata con sentenza penale della Corte d’Appello di Ancona del 21 maggio 2019 - in ordine ai fatti oggetto di causa, -OMISSIS- è stato condannato per i reati di furto aggravato della chiave dal cassetto della scrivania di un collega e della cocaina custodita in un armadio blindato.
5. Ciò premesso, si osserva che, con il primo motivo d’appello, il ricorrente deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di primo grado ha ritenuto insussistente la violazione dei termini per la conclusione del procedimento disciplinare.
Al riguardo, è stato osservato che, nel caso di specie, sono trascorsi duecentosettantanove giorni tra la notifica dell’avvio del procedimento e l’adozione del decreto di destituzione, in asserita violazione dell’articolo 9 della legge n. 19 del 1990, il quale stabilisce in duecentosettanta giorni (dall’avvio del procedimento) il termine massimo per l’emanazione di un provvedimento disciplinare.
6. Il Collegio ritiene che tale censura sia infondata in quanto l’articolo 9 della citata legge n. 19 del 1990 (richiamata dal ricorrente a sostegno delle proprie posizioni), si riferisce esclusivamente ai casi in cui sia stata pronunciata una sentenza irrevocabile di condanna. In particolare, il secondo comma del citato articolo 19 stabilisce che: “La destituzione può sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni (…)”.
In sostanza, l’appellante ha evocato una norma che non attiene al caso di specie e riguarda ipotesi in cui il procedimento disciplinare sia inscindibilmente legato all’esito del processo penale.
Nella fattispecie, la normativa di riferimento utile per delimitare temporalmente la durata del procedimento disciplinare è invece da rinvenire negli artt. 92, comma 3, e 120, d.P.R. n. 3/1957 (t.u. impiegati civili dello Stato) il cui rispetto non è stato contestato dall’interessato.
L’articolo 92, comma 2, del d.P.R. n. 3/1957 cit. stabilisce che: “La sospensione disposta prima dell'inizio del procedimento disciplinare è revocata e l'impiegato ha diritto alla riammissione in servizio ed alla corresponsione degli assegni non percepiti, escluse le indennità o compensi per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di carattere straordinario, se la contestazione degli addebiti, ai sensi del secondo comma dell'art. 103, non ha luogo entro quaranta giorni dalla data in cui è stato comunicato all'impiegato, nelle forme dell'art. 104, il provvedimento di sospensione”.
Tale disciplina prevede esclusivamente un termine per l’esercizio del potere disciplinare a seguito dell’adozione del provvedimento di sospensione, che risulta essere stato rispettato dall’Amministrazione, posto che il provvedimento di sospensione cautelare è stato adottato in data 15 maggio 2015, mentre il procedimento disciplinare è stato avviato il 10 giugno 2015, con la notifica dell’atto di contestazione degli addebiti.
Inoltre, è stato rispettato il termine infraprocedimentale stabilito dall’art. 120, comma 1 del medesimo t.u., secondo cui il procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto (circostanza questa che non ricorre nel caso di specie).
Nel consegue l’infondatezza del primo motivo di ricorso.
7. Con il secondo motivo d’appello, è stata dedotta l’erroneità della sentenza impugnata in quanto il giudice di primo grado avrebbe omesso di accertare che l’Amministrazione avrebbe dovuto sospendere il procedimento disciplinare in attesa della definizione del procedimento penale, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 11, del d.P.R. n. 737/1981 (recante “Sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti”).
8. Al riguardo, il Collegio osserva che il citato articolo 11 stabilisce che: “Quando l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza viene sottoposto, per gli stessi fatti, a procedimento disciplinare ed a procedimento penale, il primo deve essere sospeso fino alla definizione del procedimento penale con sentenza passata in giudicato.”.
La ratio della disposizione è rinvenibile nella volontà di prevenire ed evitare antinomie fra gli esiti del procedimento penale e di quello disciplinare, soprattutto in relazione all’accertamento dei fatti.
Alla luce di ciò, il Collegio ritiene che l’obbligo di sospensione del procedimento disciplinare debba riferirsi alle ipotesi in cui sia controversa l’esistenza dei fatti posti alla base delle decisioni da assumere e non anche ai casi, come quello in esame, in cui la sussistenza delle condotte contrarie a regole deontologiche sia pacifica (essendo stata in discussione solo la loro rilevanza penale in un processo iniziato dopo la conclusione di quello disciplinare).
Sul punto, va osservato che il Sig. -OMISSIS- è stato ripreso dalle microtelecamere, appositamente installate nel locale ove sono avvenuti i fatti deontologicamente rilevanti, nell’atto di aprire l’armadio per prendere un barattolo contenente la sostanza stupefacente in esso contenuta (cfr. doc. 4 dell’Amministrazione) e che lo stesso appellante ha dichiarato, sia in sede di spontanee dichiarazioni che di sommarie informazioni rese alla presenza del proprio legale - sia nell’ambito dell’interrogatorio dinanzi al Pubblico Ministero – di aver preso in due diverse circostanze la chiave dal cassetto della scrivania del collega senza alcuna motivazione di servizio né autorizzazione; di aver aperto l’armadio e di aver prelevato parte del reperto di cocaina ivi custodito, alterandolo e facendone uso (cfr. docc. 6, 6 bis e 16 dell’Amministrazione).
Del resto, in tali casi, una diversa interpretazione della norma richiamata condurrebbe all’irragionevole conseguenza di impedire all’Amministrazione di adottare tempestivamente un provvedimento sulla cui opportunità è già stata operata una valutazione positiva. In sostanza, in casi del genere, l’unico effetto concreto che si otterrebbe, sospendendo il procedimento disciplinare fino all’esito di quello penale, sarebbe quello di postergare la sanzione amministrativa senza alcun valido motivo.
Peraltro, sulla questione se il procedimento vada sospeso solo dopo l’esercizio dell’azione penale o anche in pendenza delle indagini preliminari si è già pronunciata l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con decisione n. 1/2009. In quella sede, dopo essere stato ribadito che il dovere di sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di quello penale trae origine dalla necessità di prevenire antinomie di giudizio (circostanza che, come detto, assume rilevanza allorquando sia contestata l’esistenza dei medesimi fatti alla base di entrambi i procedimenti), è stato espressamente affermato che tale dovere di sospensione sorge solamente dal momento in cui viene esercitata l’azione penale, mediante l’adozione dell’atto con cui il pubblico ministero, espletate le indagini preliminari, formula l’imputazione con cui inizia il processo penale
Poiché, nel caso di specie non era ancora stata esercitata l’azione penale al momento dell’adozione del contestato provvedimento disciplinare (posto che ancora erano in corso le indagini preliminari), deve ritenersi che l’Amministrazione abbia legittimamente proceduto all’irrogazione della sanzione destitutoria.
Del resto, dagli atti di causa e dal tenore del contestato provvedimento disciplinare di destituzione dal servizio, emerge che la sanzione disciplinare è stata irrogata prescindendo dalla rilevanza penale della condotta perpetrata dall’appellante, avendo assunto rilievo deontologico la contrarietà della condotta del militare rispetto al “senso dell’onore, della morale, violando i doveri assunti con il giuramento, abusando della fiducia in lui riposta dall’Amministrazione, con grave pregiudizio per la stessa”.
Alla luce di tutto ciò, anche il secondo motivo di ricorso risulta infondato.
9. Con il terzo motivo di ricorso, l’appellante ha dedotto l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di primo grado ha ritenuto non censurabile (sotto i profili dell’irragionevolezza, dell’incongruenza, della sproporzione e dell’illogicità) la scelta dell’Amministrazione di destituire dal servizio il dipendente, asseritamente assunta omettendo di valutare (secondo l’appellante) la carenza dell’istruttoria in relazione agi elementi di valutazione forniti dall’incolpato.
In particolare, l’appellante afferma di aver presentato otto denunce-querele presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro ed una richiesta di avocazione delle indagini alla Procura Generale presso la Corte di Appello di Ancona; nonché, di aver già dimostrato la propria estraneità rispetto ai fatti contestati ex art. 73, co. 1, t.u. n. 309/90, ex art. 349, co. 1, c.p. ed ex art. 379 c.p. (imputazioni tutte archiviate).
Inoltre, in relazione ai capi di imputazione non archiviati, l’interessato asserisce che, per quanto concerne la presunta appropriazione indebita della chiave per accedere all’armadio dell’ufficio, la sua condotta non potrebbe costituire un comportamento in contrasto con il senso dell’onore e della morale, ovvero violativo dei doveri assunti con il giuramento; mentre, per quanto riguarda la presunta alterazione di reperti ed il presunto uso di sostanze stupefacenti, evidenzia come, allo stato, non via sia alcuna prova oggettiva di tali accuse.
10. Anche sotto questi profili, il Collegio ritiene la sentenza di primo grado immune dalle censure prospettate dall’appellante.
Anzitutto, va rilevato che le conseguenze penali delle condotte contestate all’appellante ai fini della sua destituzione non hanno avuto particolare rilievo in sede procedimentale, come confermato dal tenore della delibera del Consiglio di disciplina dell’11 febbraio 2016 ove si legge che tali fatti sono stati esaminati e valutati esclusivamente sotto il profilo amministrativo, sanzionando la contrarietà delle condotte contestate in relazione al ruolo di ispettore superiore di Polizia ricoperto dall’interessato, il quale, nell’espletamento del proprio servizio, deve necessariamente tenere un comportamento improntato al senso dell’onore e della morale, ed in linea con i doveri assunti con il giuramento prestato.
Inoltre, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, l'apprezzamento compiuto dall'Amministrazione circa la gravità dei fatti addebitati, ai fini della scelta della sanzione applicabile, attiene alla sfera della discrezionalità amministrativa, non censurabile nel merito e soggetta solo ad una verifica estrinseca di congruenza e logicità.
Sotto questo profilo, le valutazioni eseguite e la scelta operata dall’Amministrazione risultano corrette, tenuto conto della gravità dei fatti addebitati all’appellante, a fronte della quale non assumono particolare rilievo dirimente i precedenti di carriera dell’interessato, che non inducono a considerare manifestamente sproporzionata o irragionevole la sanzione irrogata.
11. Alla luce delle considerazioni che precedono, il Collegio ritiene che l’appello sia infondato e debba essere respinto.
12. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
13. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55 e dell’art. 26, comma 1, c.p.a., ricorrendone i presupposti applicativi, anche in relazione ai profili di sinteticità e chiarezza, secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sostanzialmente recepita, sul punto in esame, dalla novella recata dal decreto-legge n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. [cfr. sez. IV, n. 5008 del 2018; sez. V, 9 luglio 2015, n. 3462; sez. V, 21 novembre 2014, n. 5757; sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210; sez. V, 26 marzo 2012, n. 1733; sez. V, 31 maggio 2011, n. 3252, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria conformemente, peraltro, ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. Sez. VI, n. 11939 del 2017; n. 22150 del 2016)].
14. La condanna dell’appellante, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a. rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, nr. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, così provvede:
a) respinge l’appello e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata;
b) condanna l’appellante alla rifusione, in favore dell’Amministrazione resistente, delle spese del giudizio che liquida in euro 7.000,00 (settemila/00), anche ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a., oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e rimborso spese generali al 15%),
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla competente autorità amministrativa.
Manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare le generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellante.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 gennaio 2020 con l'intervento dei magistrati:
Vito Poli, Presidente
Luca Lamberti, Consigliere
Nicola D'Angelo, Consigliere
Silvia Martino, Consigliere
Roberto Proietti, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberto Proietti Vito Poli
IL SEGRETARIO
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.