irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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Sentenza della Corte Costituzionale n. 208/2014 del 16/07/2014
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art. 204 del dPR 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato)
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1) - dirigente superiore della Polizia di Stato collocato a riposo a far data dal 1° luglio 1995, aveva impugnato il decreto del Ministero dell’interno - Prefettura di Gorizia del 27 maggio 1999, n. 1274, registrato dalla Corte dei conti in data 22 febbraio 2001, con il quale era stato rideterminato, in senso peggiorativo, il trattamento pensionistico già attribuitogli in via definitiva con precedente decreto del 4 febbraio 1998, n. 1266, registrato dalla Corte dei conti il 3 agosto 1998.

2) - Sostenendo che il secondo decreto si fondava su una diversa interpretazione dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 29 giugno 1996, n. 341 (Disposizioni urgenti in materia di trattamento economico di ufficiali delle Forze armate e di polizia) – convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 agosto 1996, n. 427 – di cui non contestava la correttezza, aveva chiesto che fosse dichiarata l’irripetibilità delle somme percepite in eccesso rispetto alla liquidazione operata dal secondo decreto e l’annullamento dello stesso, atteso che l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 ammetterebbe la revoca o la modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza solo nei casi ivi previsti, tra cui non è annoverato l’errore di diritto.

Il resto leggetelo qui sotto.
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SENTENZA N. 208

ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Sabino CASSESE Presidente
- Giuseppe TESAURO Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 204 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), promosso dalla Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, nel procedimento vertente tra Pisani Giovanni, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), quale successore ex lege dell’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), ed altri, con ordinanza del 13 febbraio 2012, iscritta al n. 156 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 10 giugno 2014 il Giudice relatore Aldo Carosi;

uditi l’avvocato Filippo Mangiapane per l’INPS e l’avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 13 febbraio 2012 depositata il 20 aprile 2012, la Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 97 della Costituzione, nella parte in cui non consente la revoca o la modifica del provvedimento definitivo di liquidazione del trattamento pensionistico anche nel caso di errore di diritto.

1.1.– Il rimettente riferisce che l’appellante nel giudizio principale, dirigente superiore della Polizia di Stato collocato a riposo a far data dal 1° luglio 1995, aveva impugnato il decreto del Ministero dell’interno - Prefettura di Gorizia del 27 maggio 1999, n. 1274, registrato dalla Corte dei conti in data 22 febbraio 2001, con il quale era stato rideterminato, in senso peggiorativo, il trattamento pensionistico già attribuitogli in via definitiva con precedente decreto del 4 febbraio 1998, n. 1266, registrato dalla Corte dei conti il 3 agosto 1998. Sostenendo che il secondo decreto si fondava su una diversa interpretazione dell’art. 4, comma 1, del decreto-legge 29 giugno 1996, n. 341 (Disposizioni urgenti in materia di trattamento economico di ufficiali delle Forze armate e di polizia) – convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 agosto 1996, n. 427 – di cui non contestava la correttezza, aveva chiesto che fosse dichiarata l’irripetibilità delle somme percepite in eccesso rispetto alla liquidazione operata dal secondo decreto e l’annullamento dello stesso, atteso che l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 ammetterebbe la revoca o la modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza solo nei casi ivi previsti, tra cui non è annoverato l’errore di diritto. La sentenza impugnata aveva riconosciuto l’irripetibilità di quanto indebitamente percepito, ritenendo, tuttavia, legittimo il secondo decreto in virtù del generale potere della pubblica amministrazione di annullare d’ufficio i propri atti. In sede di impugnazione, nel ribadire la richiesta di annullamento l’appellante aveva lamentato l’erronea interpretazione dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973, in quanto inapplicabile al caso di errore di diritto, ed escluso che il decreto pensionistico n. 1274 del 1999 potesse essere qualificato come atto di annullamento d’ufficio. Si era costituito in giudizio l’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), non contestando che nella fattispecie si trattasse di errore di diritto, ma sostenendo il legittimo esercizio del generale potere di annullamento d’ufficio spettante all’amministrazione.

1.2.– Il rimettente sostiene che, come peraltro non contestato dalle parti, la rideterminazione del trattamento pensionistico sia dipesa da un precedente errore interpretativo dell’art. 4, comma 1, del d.l. n. 341 del 1996.

A suo avviso la disciplina dettata dagli artt. 203 e seguenti del d.P.R. n. 1092 del 1973 risponderebbe all’esigenza di trovare un punto di equilibrio tra la necessità, riconducibile ai principi espressi dall’art. 97 Cost., di porre rimedio all’attribuzione di un trattamento di quiescenza superiore a quello dovuto e quella di tutelare il pensionato, che destina le prestazioni pensionistiche, anche se parzialmente indebite, al soddisfacimento dei bisogni propri e della propria famiglia.

Tale disciplina, tuttavia, sarebbe il frutto di un’evoluzione normativa che originariamente attribuiva alla Corte dei conti la funzione «paragiurisdizionale» di liquidare il trattamento pensionistico – sulla base delle conclusioni del Procuratore generale e ad opera di una pronuncia collegiale in camera di consiglio – e, quindi, giustificava una disciplina della revocazione che escludesse l’errore di diritto. Tale esclusione, viceversa, rappresenterebbe una grave lacuna dal momento in cui la liquidazione del trattamento pensionistico è stata sottratta all’organo giurisdizionale ed attribuita all’amministrazione, il cui provvedimento ha continuato ad essere modificabile o revocabile solo in casi tassativamente indicati, tra cui non rientrerebbe l’errore di diritto.

Peraltro, il rimettente evidenzia che – al di fuori del caso in cui il provvedimento di liquidazione sia modificato in ragione dell’illegittimità rilevata dalla Corte dei conti nell’esercizio del controllo successivo – la giurisprudenza delle sezioni d’appello della Corte dei conti sarebbe univoca nell’escludere che il generale regime di annullamento d’ufficio degli atti amministrativi illegittimi sia applicabile a quello definitivo di liquidazione del trattamento di quiescenza – in ciò corroborata da una pronuncia della medesima Corte a sezioni riunite in funzione nomofilattica – in ragione del principio di prevalenza dell’interesse alla stabilità e certezza del rapporto pensionistico.

In simile contesto – nonostante sia consapevole del precedente rappresentato dalla sentenza di questa Corte n. 91 del 1984, che ha dichiarato non fondata una questione di legittimità costituzionale di analogo tenore – il giudice a quo ritiene di sollevarla nuovamente.

Preliminarmente, il rimettente sostiene di non poter dar luogo ad un’interpretazione dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 che elida i profili di illegittimità di cui lo stesso sarebbe affetto. Ciò, in particolare, potrebbe avvenire escludendo la tassatività dell’elencazione contenuta nella disposizione censurata. Essa, tuttavia, risulterebbe alla stregua del diritto vivente e del tenore letterale della disposizione censurata, che impedirebbero un’interpretazione adeguatrice, come indirettamente confermato dal precedente rappresentato dalla sentenza n. 91 del 1984.

Dunque, ad avviso del giudice a quo, il provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza potrebbe essere modificato o revocato solo per i motivi indicati dall’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973, che, in ragione della sua specialità, impedirebbe l’annullamento d’ufficio secondo il regime generale degli atti amministrativi.

Sulla base di tale premessa, il rimettente ritiene che la disposizione censurata differenzi ingiustificatamente – in violazione dell’art. 3 Cost. – la situazione in cui il provvedimento sia affetto da un errore di percezione di un dato di fatto della realtà o di calcolo da quella in cui esso sia caduto sulla norma da applicare o sulla sua interpretazione, posto che costituirebbe valore dell’ordinamento giuridico un’azione amministrativa non solo corretta e conforme al canone del buon andamento, ma anche e soprattutto conforme a legge. L’esigenza di una disciplina uniforme delle due situazioni deriverebbe anche dal fatto che l’art. 166 della legge 11 luglio 1980, n. 312 (Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato), ha assoggettato i provvedimenti definitivi sul trattamento di quiescenza non più al controllo preventivo della Corte dei conti, ma a quello successivo, facendo venir meno ogni ragione di assimilazione della modifica o revoca previste dall’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 alla revocazione delle pronunce giurisdizionali, per la quale l’errore di diritto non assumerebbe rilievo perché destinato ad essere dedotto nei vari gradi di giudizio, senza che si possano reintrodurre tematiche proprie del giudizio già svolto. D’altra parte, la tutela del pensionato sarebbe già sufficientemente assicurata dall’irripetibilità delle somme indebitamente percepite, sancita dall’art. 206 del d.P.R. n. 1092 del 1973, ormai presumibilmente impiegate per il soddisfacimento dei suoi bisogni e di quelli della sua famiglia, argomento che non potrebbe valere in proiezione futura per gli importi illegittimamente attribuiti ma non ancora percepiti.

Ad avviso del rimettente, inoltre, la norma censurata violerebbe anche l’art. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. in quanto il trattamento pensionistico del lavoratore, quale retribuzione differita, dovrebbe essere proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato mentre l’esclusione dell’errore di diritto dai motivi che consentono la modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza, sancendone la sostanziale intangibilità anche nel caso in cui sia illegittimo, altererebbe detto rapporto di adeguatezza e proporzionalità. Ciò, peraltro, non sarebbe coerente con i principi fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica espressi dalla legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), che ridefinirebbe il sistema previdenziale, commisurando il trattamento di quiescenza alla contribuzione e stabilizzando la spesa pensionistica in rapporto al prodotto interno lordo ed allo sviluppo del sistema previdenziale medesimo.

Infine, secondo il giudice a quo, l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 contrasterebbe con l’art. 97 Cost. Infatti, non consentendo di intervenire sul provvedimento definitivo di pensione illegittimo al fine di emendarlo dell’errore di diritto che lo affligge, ne impedirebbe la reductio ad legitimitatem con l’effetto di consolidare per il futuro ed in perpetuo l’indebito arricchimento del percipiente. Ciò in contrasto con il principio di buon andamento e legalità dell’azione amministrativa, cui dovrebbe adeguarsi anche la disciplina del trattamento pensionistico.

1.3.– Quanto alla rilevanza, il rimettente evidenzia che la mancata previsione dell’errore di diritto nel novero dei motivi di revoca o di modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza determinerebbe l’illegittimità del decreto del Ministero dell’interno – Prefettura di Gorizia del 27 maggio 1999, n. 1274, di rideterminazione della pensione, con conseguente accoglimento dell’appello e ripristino di quella originariamente liquidata.

2.– Con atto depositato il 18 settembre 2012 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

Richiamando un orientamento giurisprudenziale della Corte dei conti, l’intervenuto sostiene che l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 contribuirebbe a definire un sistema di garanzie a favore del pensionato, la cui ratio andrebbe individuata nell’intenzione del legislatore di attuare il principio della tendenziale immodificabilità della pensione al fine di favorire la stabilità e la certezza del rapporto pensionistico e di evitare i riflessi negativi che l’attribuzione di una potestà di annullamento dell’amministrazione senza limiti oggettivi e temporali avrebbe sulla vita sociale e di relazione del dipendente collocato a riposo, che, magari in ragione dell’importo non elevato, destina le somme percepite alla soddisfazione dei bisogni alimentari propri e della propria famiglia. In sostanza, l’esigenza perseguita corrisponderebbe a quella riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, che, in ragione della natura di retribuzione differita del trattamento di quiescenza, avrebbe affermato l’intangibilità relativa del diritto alla pensione che si sia acquisito ed il diritto del pensionato a vedersi assicurata un’esistenza libera e dignitosa ed alla sicurezza giuridica, pur nella discrezionalità del legislatore di stabilire modalità e criteri, anche quantitativi, della disciplina in materia.

Sulla base di tali considerazioni il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che la disciplina dettata dalla norma, di stretta interpretazione in quanto deroga alla tendenziale immodificabilità della pensione, corrisponderebbe ai principi costituzionali richiamati, con conseguente manifesta infondatezza – o, addirittura, inammissibilità – della questione sollevata, così come già ritenuto da questa Corte con riferimento a quella, analoga, decisa con la sentenza n. 91 del 1984.

3.– Con atto depositato il 23 luglio 2012 si è costituito in giudizio l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) – successore ex lege dell’INPDAP nel giudizio a quo – aderendo ai motivi di illegittimità costituzionale prospettati dal giudice rimettente.

Con memoria depositata il 19 maggio 2014, l’INPS ha evidenziato la possibilità di interpretare l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 nel senso che esso non impedisca all’amministrazione l’esercizio del potere di annullamento in autotutela del provvedimento pensionistico definitivo affetto da errore di diritto, così come riconosciuto da un orientamento giurisprudenziale espresso dalla Corte dei conti, oltre che in alcune pronunce di primo grado, anche, a suo dire, in sede d’appello. Ad avviso dell’intervenuto, tale conclusione priverebbe di rilevanza la questione di legittimità costituzionale prospettata dal rimettente.

In punto di non manifesta infondatezza, l’INPS riproduce sostanzialmente le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione, sottolineando la differenza tra la disposizione censurata e l’art. 162 del medesimo d.P.R. n. 1092 del 1973 – che disciplina la liquidazione provvisoria del trattamento di quiescenza, suscettibile di modifica o revoca da parte del provvedimento definitivo, con conseguente conguaglio a beneficio o a danno del pensionato – ed il rischio che l’amministrazione, per non commettere errori inemendabili, dilati i tempi di adozione dei provvedimenti interinali, con conseguente riverbero negativo su efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa.

Considerato in diritto

1.– La Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 97 della Costituzione, nella parte in cui non consente la revoca o la modifica del provvedimento definitivo di liquidazione del trattamento pensionistico anche nel caso di errore di diritto.

Secondo il giudice a quo, l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 – frutto di un’evoluzione normativa che originariamente attribuiva alla Corte dei conti la funzione «paragiurisdizionale» di liquidare la pensione e, quindi, giustificava una disciplina analoga a quella della revocazione – impedirebbe di modificare o revocare il provvedimento pensionistico definitivo in presenza di errore di diritto.

Sulla base di tale premessa, il rimettente ritiene che la disposizione censurata differenzi ingiustificatamente – in violazione dell’art. 3 Cost. – la situazione in cui il provvedimento sia affetto da un errore di percezione di un dato di fatto della realtà o di calcolo da quella in cui l’errore riguardi la norma da applicare o la sua interpretazione.

Ad avviso del giudice a quo, inoltre, la norma censurata violerebbe anche gli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto il trattamento di quiescenza del lavoratore, quale retribuzione differita, dovrebbe essere proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato, mentre l’esclusione dell’errore di diritto dai motivi che consentono la revoca o la modifica del provvedimento pensionistico definitivo, sancendone la sostanziale intangibilità anche nel caso in cui sia illegittimo, altererebbe il rapporto di adeguatezza e proporzionalità al lavoro prestato.

Infine, secondo il rimettente, l’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 contrasterebbe con l’art. 97 Cost., in quanto, non consentendo di intervenire sul provvedimento definitivo di pensione illegittimo al fine di emendarlo dell’errore di diritto che lo affligge, ne impedirebbe la reductio ad legitimitatem, con l’effetto di consolidare per il futuro l’indebito arricchimento del percipiente, in contrasto con il principio di buon andamento e legalità dell’azione amministrativa, cui dovrebbe adeguarsi anche la disciplina del trattamento pensionistico.

2.– L’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 dispone che la revoca o la modifica del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza da parte dell’ufficio che l’ha emesso «può aver luogo quando: a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti; b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo del riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennità o nell’applicazione delle tabelle che stabiliscono le aliquote o l’ammontare della pensione, assegno o indennità; c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l’emissione del provvedimento; d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi».

Il rimettente interpreta la disposizione nel senso che il provvedimento definitivo di pensione non possa essere modificato o revocato per errore di diritto, non ricompreso nell’elencazione tassativa contenuta nell’art. 204 né altrimenti rilevante in ragione del potere di annullamento d’ufficio dell’atto illegittimo spettante all’amministrazione in autotutela, in applicazione dell’art. 1, comma 136, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2005)», nonché, più in generale, dell’art. 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).

Il presupposto ermeneutico da cui muove il giudice a quo è conforme all’interpretazione delle sezioni riunite della Corte dei conti (sentenza n. 15/2011/QM), a cui si sono uniformate in modo costante le sezioni d’appello della medesima Corte. Tale interpretazione «costituisce, pertanto, “diritto vivente”, del quale si deve accertare la compatibilità con i parametri costituzionali evocati» (sentenza n. 338 del 2011).

3.– Ai fini della decisione è opportuno ricordare per sommi capi le modalità di determinazione del trattamento di quiescenza e la giurisprudenza della Corte dei conti in materia.

La liquidazione della pensione avviene attraverso due stadi, il primo provvisorio, secondo quanto disposto dall’art. 162 del d.P.R. n. 1092 del 1973, il secondo definitivo.

La liquidazione provvisoria consiste nella corresponsione al pensionato di un trattamento determinato in relazione ai servizi risultanti dalla documentazione prodotta ovvero in possesso dell’amministrazione, con riserva di conguaglio in caso di divergenza rispetto alla liquidazione definitiva. Quest’ultima, invece, conclude la fase interinale intercorrente tra il provvedimento provvisorio e quello definitivo finalizzata a conferire alla pensione speciali garanzie di certezza a tutela sia dell’Erario sia del dipendente cessato dal servizio. A seguito delle opportune verifiche degli elementi di fatto e di diritto viene consolidata, se del caso attraverso una rideterminazione, la spettanza e la misura della pensione in modo da assicurare una certezza rafforzata al rapporto vitalizio che ne deriva.

La duplice fase liquidatoria risponde all’esigenza di assicurare al pubblico dipendente collocato a riposo un reddito nel periodo immediatamente successivo alla cessazione della corresponsione dello stipendio ed, al contempo, di consentire una valutazione ponderata degli elementi di fatto e della portata della normativa da applicare per la liquidazione pensionistica. Necessitando quest’ultima valutazione di un congruo lasso temporale, la liquidazione provvisoria assicura la continuità nella percezione del reddito che, nel caso del pubblico dipendente, costituisce generalmente il solo o principale mezzo di sostentamento.

Chiamate a pronunciarsi su una questione di massima circa la possibilità di modificare in sede di liquidazione pensionistica definitiva l’interpretazione di diritto già data in occasione di quella provvisoria, le sezioni riunite della Corte dei conti (sentenza n. 7/2011/QM) hanno escluso che le garanzie del provvedimento definitivo predisposte dagli artt. 203 e seguenti del d.P.R. n. 1092 del 1973 – inclusa l’inibizione alla revoca per errore di diritto – operino fino all’adozione di quest’ultimo. In quella sede le sezioni riunite hanno affermato che la dialettica tra interessi contrapposti – quello alla certezza del diritto, su cui si fonda l’affidamento del pensionato, e quello alla correttezza e legittimità dell’azione amministrativa – deve essere risolta a favore del secondo, anche in considerazione del fatto che l’attribuzione pensionistica viene espressamente definita provvisoria dall’art. 162 del d.P.R. n. 1092 del 1973 e che l’amministrazione deve avere un congruo lasso temporale per individuare correttamente la normativa da applicare. Poiché la determinazione del trattamento pensionistico finale avviene attraverso il fisiologico passaggio per una fase interinale, «l’adozione del provvedimento definitivo di pensione, con connessa possibilità di variazioni e conguagli, segna il momento più significativo e valorizzabile dell’affidamento riposto dal dipendente collocato a riposo nella correttezza della procedura di determinazione della giusta pensione, essendo non solo ragionevole, ma anche del tutto attendibile ritenere che l’Amministrazione disponga, in tale occasione, di tutti gli elementi necessari per superare la fase di provvisorietà e per fissare […] le coordinate che identificano il trattamento di quiescenza» (Corte dei conti - sezioni riunite, sentenza n. 7/2007/QM).

Ai fini dello scrutinio delle questioni proposte è bene sottolineare come è solo nella fase di liquidazione definitiva che – secondo il diritto vivente precedentemente richiamato, formatosi anche sulla base della sentenza di questa Corte n. 91 del 1984 – opera il principio, espresso dalla norma della cui legittimità costituzionale dubita il rimettente, dell’intangibilità del trattamento pensionistico frutto di errore di diritto.

4.– È alla luce delle esposte premesse che si deve esaminare il merito della questione proposta dal giudice a quo.

4.1.– Anzitutto, essa non è fondata con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., profili di censura scrutinabili congiuntamente.

Nel sollevare la descritta questione di legittimità costituzionale, il rimettente richiama quale tertium comparationis la disciplina dell’errore di fatto e dell’errore di calcolo, per i quali lo stesso art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 prevede la possibilità di revoca o modifica del provvedimento pensionistico definitivo.

Le situazioni, tuttavia, non sono comparabili: mentre l’errore di fatto consiste nella falsa percezione, per equivoco o svista, di quanto emerge incontrovertibilmente dagli atti e quello di calcolo deriva dall’erronea applicazione delle regole matematiche sulla base di dati numerici certi, l’errore di diritto è concetto in ordine alla cui individuazione assumono un peso rilevante argomentazioni induttive ed indagini ermeneutiche. L’oggettività e l’immediatezza che caratterizzano la rilevazione degli errori di fatto e di calcolo differiscono in modo sostanziale dai connotati del giudizio che accompagna la valutazione della violazione, falsa applicazione o erronea interpretazione di una norma.

Secondo il costante orientamento di questa Corte «si ha violazione dell’art. 3 della Costituzione quando situazioni sostanzialmente identiche siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta tale contrasto quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non sostanzialmente identiche, essendo insindacabile in tali casi la discrezionalità del legislatore» (sentenze n. 340 del 2004 e, nello stesso senso, n. 108 del 2006).

A ben vedere, mentre i tertia comparationis richiamati dal rimettente non sono equiparabili alla fattispecie in esame, sussiste al contrario una sostanziale omogeneità tra l’ipotesi dell’errore di fatto e quella dell’errore di calcolo. Si tratta di situazioni che hanno in comune un tratto di semplice e concreta rilevabilità, tale da escludere o da rendere particolarmente difficile l’insorgere di affidamenti da parte dei destinatari del provvedimento che ne sia affetto.

Al contrario, la percezione dell’errore di diritto non gode della medesima immediatezza. In tal modo la revoca o la rettifica eventualmente adottate entrano più facilmente in contrasto con il convincimento indotto nel pensionato dalla già intervenuta applicazione, in senso diverso e per lui più favorevole, della norma oggetto di reinterpretazione. Peraltro, l’autorità preposta alla liquidazione provvisoria e definitiva dispone fin dall’origine degli elementi necessari a svolgere le operazioni attinenti all’applicazione della legge. Così, se la fase interinale – suscettibile di prolungarsi anche oltre i termini previsti dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990 o dai regolamenti attuativi di settore per l’adozione del decreto pensionistico definitivo – serve ad assicurare la continuità della prestazione retributiva, rimanendo impregiudicata la possibilità per l’amministrazione di correggere eventuali errori di qualsiasi genere in sede definitiva, quest’ultima possibilità, quanto all’errore di diritto, non trova giustificazione dopo la fine del periodo interinale che caratterizza funzionalmente l’articolazione del procedimento in un sistema binario.

Viene dunque in rilievo il principio dell’affidamento: non solo l’esclusione dell’errore di diritto dalle ipotesi di revoca non trasmoda in un regolamento irrazionale ed arbitrario delle correlate situazioni sostanziali dello Stato e del pensionato, ma essa è funzionale all’esigenza di garantire la sicurezza giuridica, con particolare riguardo alle aspettative del dipendente collocato a riposo.

Nella particolare ipotesi in esame, il fluire del tempo e la disponibilità di mezzi e spazi temporali adeguati ad assicurare la legittimità della prestazione pensionistica costituiscono idonei elementi diversificatori della fattispecie stessa, atteso che la demarcazione temporale consegue come effetto naturale alla struttura e all’articolazione complessiva del procedimento di liquidazione.

Dunque, la determinazione definitiva del trattamento di quiescenza costituisce il momento dal quale la tutela dell’affidamento del pensionato nella stabilità del vitalizio percepito assume prevalente rilevanza nell’ambito dei valori tutelati dall’ordinamento in subiecta materia.

D’altra parte, già in precedenza questa Corte, su analoga questione, aveva osservato che il «principio di eguaglianza, in questo come in ogni altro incontro, è colorito dalle disposizioni costituzionali operanti nel settore in cui quel principio è invocato e la violazione del medesimo è lamentata» (sentenza n. 91 del 1984).

Le considerazioni svolte servono altresì a scrutinare le censure formulate in riferimento all’art. 97 Cost.
Il mero ripristino della legalità dell’azione amministrativa – ancorché finalizzato a conseguire minori oneri finanziari per l’Erario – non può prevalere sulla tutela della situazione del pensionato con modalità temporali illimitate.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, infatti, «la violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione non può essere invocata se non per l’arbitrarietà e la manifesta irragionevolezza della disciplina denunciata, combinandosi, sotto questo profilo, con il riferimento all’art. 3 Cost. ed implicando lo svolgimento di un giudizio di ragionevolezza sulla legge censurata (sentenze n. 243 del 2005, n. 63 e n. 306 del 1995; n. 250 del 1993)» (ordinanze n. 100 e n. 47 del 2013).

L’esclusione della rilevanza dell’errore di diritto dai casi consentiti di modifica o revoca del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza non è irragionevole o arbitraria, essendo volta – come detto – a soddisfare esigenze di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento le quali, già cedevoli nella fase interinale precedente alla liquidazione definitiva, prevalgono successivamente, per effetto di un diverso bilanciamento con l’interesse antagonista del ripristino della legittimità dell’azione amministrativa. Ciò nell’esercizio del potere di scelta del legislatore nel regolare la dialettica di interessi parimenti meritevoli di protezione (sentenze n. 257 del 2010 e n. 34 del 1999; ordinanza n. 105 del 2010).

A tali considerazioni – ed al di là del fatto che l’esigenza di correggere l’errore di diritto viene già adeguatamente garantita nella precedente e non breve fase liquidatoria interinale – si deve aggiungere che il diritto alla pensione costituisce una situazione soggettiva di natura patrimoniale, imprescrittibile, assistita da speciali garanzie di certezza e stabilità e da una particolare tutela da parte dell’ordinamento (sentenza n. 116 del 2013), anche in ragione della condizione di oggettiva debolezza in cui il titolare viene a trovarsi, sia nell’ambito del rapporto obbligatorio che si instaura con l’amministrazione sia nella particolare fase della vita in cui l’uscita dall’attività lavorativa e l’età comportano un difficile adattamento al nuovo stato.

4.2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 non è fondata neppure in riferimento agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «il trattamento pensionistico ordinario ha natura di retribuzione differita» (sentenza n. 116 del 2013). Di conseguenza «dagli articoli 36 e 38 discende il principio che, al pari della retribuzione percepita in costanza del rapporto di lavoro, il trattamento di quiescenza, che della retribuzione costituisce il prolungamento a fini previdenziali, deve essere proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro prestato e deve, in ogni caso, assicurare al lavoratore e alla sua famiglia i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita. Tuttavia, i ricordati principi di proporzionalità e di adeguatezza […] lasciano alla discrezionalità del legislatore la possibilità di apportare correttivi di dettaglio che – senza intaccare i suddetti criteri con riferimento alla disciplina complessiva del trattamento pensionistico – siano giustificati da esigenze meritevoli di considerazione» (sentenza n. 441 del 1993), operando un «bilanciamento del complesso dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti, anche in relazione alle risorse finanziarie disponibili e ai mezzi necessari per far fronte agli impegni di spesa» (ordinanze n. 202 del 2006 e n. 531 del 2002).

La regola contenuta nell’art. 204 del d.P.R. n. 1092 del 1973 è espressione del potere di scelta esercitato dal legislatore in modo conforme ai principi testé ricordati.

Essa, infatti, non sottrae il calcolo pensionistico al criterio normativamente previsto, sia esso contributivo o retributivo, ma prevede – entro il perimetro delle soluzioni costituzionalmente consentite – un correttivo in nome dell’esigenza di salvaguardare maggiormente, una volta conclusa la fase di liquidazione interinale, la certezza del diritto e il legittimo affidamento che su di essa si fonda.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 204 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 97 della Costituzione, dalla Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2014.

F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2014.


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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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Ricorso ACCOLTO
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1) - recupero somma a titolo di presunto trattamento fine servizio indebitamente percepito.

2) - liquidato £. 143.771,88 a titolo di trattamento di fine servizio sulla base del prospetto di liquidazione elaborato dal Comando regionale dei Carabinieri del Lazio contenente un errore nella trascrizione dell’importo della retribuzione utile complessiva, indicata nella misura di €. 59.925,93 anziché €. 35.201,00.

3) - il ricorrente agisce in giudizio per contestare la procedura di recupero a suo carico delle somme non dovute – pari a € 74.174,78 - già corrisposte sul trattamento di fine servizio, chiedendo l’accertamento del diritto a trattenere le somme in questione e la condanna dell’Amministrazione alla restituzione delle somme eventualmente già recuperate (con interessi e rivalutazione monetaria).

4) - La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne la natura perentoria o meramente ordinataria del termine annuale prescritto dall’art. 30 del D.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032 per procedere alla rettifica della somma liquidata a titolo di indennità di buonuscita.

IL TAR LAZIO dichiara:

5) - Il ricorso va pertanto accolto con conseguente dichiarazione del diritto del ricorrente a trattenere le somme indebitamente percepite, il cui recupero è già stato sospeso con la richiamata pronuncia cautelare.

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SENTENZA ,sede di ROMA ,sezione SEZIONE 1B ,numero provv.: 201412251 2014-12-04


N. 12251/2014 REG.PROV.COLL.
N. 07941/2013 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7941 del 2013, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dagli avv. Jessica Quatrale, Alfredo Zaza D'Aulisio, con domicilio eletto presso Francesco Cardarelli in Roma, via G. Pierluigi Da Palestrina, 47;

contro
Ministero della Difesa, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Gen.Le Dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12; Istituto Nazionale Previdenza Sociale (Inps) - Gestione ex Inpdap, rappresentato e difeso dall'avv. Dario Marinuzzi, con domicilio eletto presso Dario Marinuzzi in Roma, via Cesare Beccaria,29; Inps - Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, Istituto Nazionale Previdenza Sociale (Inps) - ex Inpdap - Sede Provinciale di Latina;

per l'annullamento
della nota INPS del 20.5.2013, per il recupero somma a titolo di presunto trattamento fine servizio indebitamente percepito.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa e di Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri e di Istituto Nazionale Previdenza Sociale (Inps) - Gestione ex Inpdap;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 1 ottobre 2014 la dott.ssa Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Il Luogotenente dei Carabinieri ricorrente premette di essere stato collocato in congedo assoluto e che l’I.N.P.S., ex gestione l'I.N.P.D.A.P., con mandato del 24.8.2008 ha liquidato £. 143.771,88 a titolo di trattamento di fine servizio sulla base del prospetto di liquidazione elaborato dal Comando regionale dei Carabinieri del Lazio contenente un errore nella trascrizione dell’importo della retribuzione utile complessiva, indicata nella misura di €. 59.925,93 anziché €. 35.201,00.

Con il ricorso in esame, proposto anche come impugnazione della nota del 20.5.2013 con cui l’I.N.P.S. ha comunicato la rettifica del prospetto di liquidazione e del corrispondente mandato, il ricorrente agisce in giudizio per contestare la procedura di recupero a suo carico delle somme non dovute – pari a € 74.174,78 - già corrisposte sul trattamento di fine servizio, chiedendo l’accertamento del diritto a trattenere le somme in questione e la condanna dell’Amministrazione alla restituzione delle somme eventualmente già recuperate (con interessi e rivalutazione monetaria).

Il ricorso è affidato alle seguenti censure:

1) Violazione dell’art. 30 D.P.R. n. 1032 del 1973 - Eccesso di potere; 2) Violazione degli artt. 7 e 10 della L. n. 241 del 1990.

Si è costituita in giudizio, per resistere, l’Amministrazione della Difesa senza produrre scritti difensivi.

Si è costituita in giudizio l’INPS con memoria scritta.

Con ordinanza n. 3909 del 2.10.2013 è stata accolta l'istanza cautelare di sospensiva.

All'udienza pubblica del 1.10.2014 la causa è stata trattenuta in decisione.

La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne la natura perentoria o meramente ordinataria del termine annuale prescritto dall’art. 30 del D.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032 per procedere alla rettifica della somma liquidata a titolo di indennità di buonuscita.

Secondo un orientamento risalente tale termine avrebbe carattere perentorio in quanto “posto evidentemente nell'interesse dei percipienti le somme”, per esigenze di certezza e tutela di aspettative ingenerate dall'Amministrazione. In tale prospettiva, decorso il termine predetto, l'Amministrazione decade dal potere di revocare, modificare o rettificare i provvedimenti di liquidazione e, conseguentemente, dal potere di recuperare le somme erroneamente liquidate a causa dell'errore commesso (Cons. Stato, Sez. IV, 17 aprile 1998, n. 649; Sez. V, 4 aprile 2000, n. 1945; Sez. IV 27 dicembre 2006 n. 7925; T.A.R. Lazio, Sez. III, 27.10.2008 n. 9173; T.A.R. Liguria Sez. II, 20-02-2006, n. 153; T.A.R. Lombardia Brescia Sez. II, Sent., 28-10-2010, n. 4467; Da tale orientamento si scosta solo una decisione più recente del giudice d’appello (Cons. Stato, sez. VI 26 giugno 2012 n. 3748) e, in assenza di un mutamento di giurisprudenza, non vale all’INPS invocare che la corrente interpretazione dell’art. 30 D.P.R. n. 1032 del 1973 finisca per configgere con i principi generali in materia di recupero dell’indebito, con il regime temporale generale della prescrizione, oltre che con il principio di ragionevolezza e di uguaglianza sancito dall’art. 3 dato che finirebbe per attribuire ad una determinata categoria di pubblici dipendenti un privilegio ingiustificato rispetto alle restante categorie lavorative, che si trovano in identiche condizioni, e con un aggravio enorme per la generalità dei cittadini dato l'Amministrazione perderebbe il potere di recuperare emolumenti anche per fatto ad essa imputabile, compreso il mero errore materiale, anche in caso di enormi differenza nel quantum (si pensi al caso dell’aggiunta di uno zero alla cifra dovuta).

L’interpretazione tradizionale della disposizione in contestazione è infatti stata ribadita, anche di recente, da numerose pronunce, sicchè il Collegio ritiene di non potersi discostare, anche al fine di evitare disparità di trattamento giurisdizionale, dal pacifico orientamento in materia (vedi, da ultimo, T.A.R. Lazio Sez. III ter, 07-07-2014, n. 7171; T.A.R. Piemonte Sez. II, 06-06-2014, n. 1010; Cons. Stato Sez. VI, 30-05-2014, n. 2812).

Il ricorso va pertanto accolto con conseguente dichiarazione del diritto del ricorrente a trattenere le somme indebitamente percepite, il cui recupero è già stato sospeso con la richiamata pronuncia cautelare.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis) accoglie il ricorso in epigrafe.
Condanna le Amministrazioni resistenti a rifondere al ricorrente le spese di giudizio nella misura complessiva di Euro 2.000 di cui 1000 a carico dell’INPS e 1000 a carico del Ministero della Difesa.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 1 ottobre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Silvio Ignazio Silvestri, Presidente
Floriana Rizzetto, Consigliere, Estensore
Domenico Landi, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/12/2014
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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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1) - Con decreto n. 267/A/PO del 10.9.2009 è stato conferito al sig. O.. il trattamento pensionistico ordinario definitivo.

2) - A seguito dell'applicazione del predetto decreto, effettuato il conguaglio con quanto corrisposto in via provvisoria, l'INPDAP di Roma 2 ha accertato un debito pari ad € 13.680,29 per somme riscosse in eccedenza dal 21.4.1999 al 30.3.2010, procedendo al relativo recupero.

3) - L’adita Sezione giurisdizionale Lazio di questa Corte dei conti, con la sentenza n. 118/2013, ha accolto il ricorso, dichiarando l'irripetibilità delle somme in contestazione ed ha condannato il Ministero della difesa alla rifusione delle somme medesime all'Istituto previdenziale.

4) - Avverso la predetta sentenza il Ministero della difesa ha proposto appello, per i seguenti motivi:
1) Violazione e falsa applicazione art 8, comma 2 del D.P.R. n. 538/1986. Difetto di giurisdizione della Corte dei Conti in materia di azione rivalsa nei confronti di Amministrazione statale.

5) - Il sig. O.. si è costituito ......, chiedendo la conferma della sentenza di primo grado in relazione al capo che ha accertato e dichiarato l’irripetibilità dell’indebito a suo carico, con conseguente condanna dell’INPS alla restituzione delle somme già recuperate.

La CORTE DEI CONTI 1^ Sez. centrale d'Appello precisa:

6) - In via pregiudiziale, deve essere rigettata la doglianza attorea relativa al dedotto difetto di giurisdizione di questo Giudice contabile.

7) - Nel merito, l’appello proposto è infondato e deve essere respinto, con le precisazioni che tra poco verranno fornite: (OMISSIS - leggere in sentenza)

8) - Ciò posto, questo Giudice ritiene che la sentenza impugnata, sul punto, sia correttamente motivata e meriti conferma.

9) - Si pone, ora, il problema relativo alla possibilità per l’INPDAP (ora INPS), di rivalersi su un’amministrazione dello Stato per la medesima causale.

10) - La questione deve essere risolta positivamente, nel senso che tale rivalsa può essere esperita anche nei confronti di amministrazioni dello Stato, nel caso di specie del Ministero della difesa, secondo le argomentazioni esposte al punto 1, come prima ricordato.

La CORTE DEI CONTI conclude:

11) - Per le ragioni e motivazioni innanzi esposte, l’appello del Ministero della difesa può essere accolto solo parzialmente, nel senso che dovrà essere rimborsato all’INPS quanto indebitamente erogato al pensionato, con esclusione però delle somma che furono a suo tempo erogate direttamente dal Ministero, a carico del proprio bilancio. Sono confermate, per il resto, le impugnate statuizioni della sentenza di primo grado.

Per completezza leggete direttamente il tutto qui sotto.
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PRIMA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 330 20/05/2015
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
PRIMA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 330 2015 PENSIONI 20/05/2015


Sentenza n.330/2015 A


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
= ° =
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE PRIMA GIURISDIZIONALE CENTRALE

composta dai seguenti magistrati:
Dott. Nicola LEONE Presidente
Dott. Mauro OREFICE Consigliere
Dott.ssa Rita LORETO Consigliere
Dott. Piergiorgio DELLA VENTURA Consigliere relatore
Dott.ssa Cinzia BARISANO Consigliere
Ha pronunziato la seguente

S E N T E N Z A
sull’appello iscritto al n. 47 471 del registro di Segreteria, proposto dal Ministero della difesa, Direzione generale della Previdenza Militare e della Leva,

avverso
la sentenza 4.2.2013, n. 118 della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Lazio contro l’INPS, gestione INPDAP e nei confronti del sig. L. O., elettivamente domiciliato presso lo studio degli avv.ti Umberto Verdacchi e Cesare Verdacchi in Roma, Via Catalani, 31.

Visti gli atti e documenti tutti di causa;
UDITI, nella pubblica udienza del giorno 24 marzo 2015, il consigliere relatore dr. Piergiorgio Della Ventura, il dr. Michele Grisolia in rappresentanza del Ministero della difesa e la dr.ssa Maria Carmela Viola per l’INPS;

Ritenuto in

F A T T O

Il sig. O.., già ufficiale dell'Aeronautica militare , è cessato dal servizio permanente effettivo in data 21.4.1999 ed è stato collocato in posizione di riserva a domanda. La relativa partita pensionistica è stata dapprima amministrata dal Ministero della difesa e successivamente, con decorrenza 1.1.2000, è stata trasferita all'INPDAP di Roma 2.

Con decreto n. 267/A/PO del 10.9.2009 è stato conferito al sig. O.. il trattamento pensionistico ordinario definitivo.

A seguito dell'applicazione del predetto decreto, effettuato il conguaglio con quanto corrisposto in via provvisoria, l'INPDAP di Roma 2 ha accertato un debito pari ad € 13.680,29 per somme riscosse in eccedenza dal 21.4.1999 al 30.3.2010, procedendo al relativo recupero.

Con ricorso in primo grado, il militare in congedo ha impugnato il provvedimento dell'INPDAP ai fini della declaratoria di irripetibilità della somma richiesta.

L’adita Sezione giurisdizionale Lazio di questa Corte dei conti, con la sentenza n. 118/2013, ha accolto il ricorso, dichiarando l'irripetibilità delle somme in contestazione ed ha condannato il Ministero della difesa alla rifusione delle somme medesime all'Istituto previdenziale.

Avverso la predetta sentenza il Ministero della difesa ha proposto appello, per i seguenti motivi:

1) Violazione e falsa applicazione art 8, comma 2 del D.P.R. n. 538/1986. Difetto di giurisdizione della Corte dei Conti in materia di azione rivalsa nei confronti di Amministrazione statale.

In ordine al riconoscimento, in favore dell'INPS, del diritto di rivalsa nei confronti del Ministero della difesa, quale responsabile del ritardo nell'emanazione del provvedimento definitivo di pensione, è eccepito il difetto di giurisdizione della Corte dei conti, evidenziandosi come l'oggetto della pretesa afferisca ad obbligazioni di carattere finanziario che regolano il rapporto di provvista fra l'ordinatore primario e l'ordinatore secondario della spesa, materia da ritenersi devoluta alla cognizione del Giudice ordinario (cita Corte dei conti, Sezione III app., n. 175/2001, n. 62/2000, n. 198/2000; Sez. Lombardia n. 305/2012, Sez. Toscana n. 187/2011, Sez, Lazio n. 1699/2011).

Rileva il Ministero appellante che la vigente normativa che prevede l'esercizio dell'azione di rivalsa (art. 8 d.P.R. n. 538 del 1986) concerne i soli trattamenti di quiescenza a favore degli iscritti alle ex casse pensioni degli istituti di previdenza.

Nella fattispecie in esame, invece, essendo il Ministero della difesa un'amministrazione statale, non sarebbe previsto dall'ordinamento uno specifico obbligo di rifusione delle maggiori somme erogate per un suo errore, né una specifica successiva azione di rivalsa nei confronti del pensionato. E dunque, la relativa azione dell'INPS di rivalsa nei confronti dei Ministero della difesa in esito a declaratoria di irripetibilità dell'indebito, non essendo ammissibile un'applicazione analogica del citato art. 8, dovrebbe essere proposta davanti al giudice ordinario, trattandosi di pretesa intercorrente fra soggetti diversi rispetto al titolare del diritto a pensione in base a un titolo e a presupposti differenti (cita Corte dei conti, Sez. app. Sicilia, n. 92/2012; Sez. Piemonte n. 187/2012, n. 170/2012, n. 130/2012, n. 44/2012, n. 113/2011, n. 62/2011, n. 1839/2003; Sez. Lombardia n. 305/2012; etc.).

Da ciò si dovrebbe dedurre che il legislatore non ritenga tale normativa applicabile analogicamente, come preteso dall'INPS.

2) Violazione art. 2, comma 5 della L. n. 183/2011.

Nel caso in cui questa Corte dichiarasse rientrante nella propria giurisdizione la domanda di rivalsa proposta dall'Ente previdenziale, il Ministero appellante chiede che la stessa sia dichiarata inammissibile per carenza di interesse: l'art. 2, comma 5 della L. n. 183/2011 (legge di stabilità 2012) ha modificato l'art 2, comma 3 della L. n. 335/1995 in materia di gestione separata dei trattamenti pensionistici, inserendo l'espressa previsione secondo cui "al fine di garantire il pagamento dei trattamenti pensionistici è stabilito un apporto dello Stato" a favore della gestione separata in parola, apporto che è "erogato su base trimestrale, subordinatamente alla verifica delle effettive necessità finanziarie della citata gestione, riferite al singolo esercizio finanziario". Sulla base di tale disposizione normativa, prosegue l’appellante Ministro, eventuali squilibri della gestione separata dei trattamenti pensionistici dei dipendenti dello Stato vengono, infatti, trimestralmente ripianati dallo Stato stesso secondo una forma unitaria di regolazione periodica dei relativi rapporti. In tal modo è stata modificata rispetto al passato la cadenza dei ripianamenti degli oneri finanziari scaturenti dal rapporto tra INPS e Stato per la gestione dei pensionati statali, che prima venivano regolati con legge finanziaria annuale o con altri interventi finanziari estemporanei ed oggi, invece, con specifici apporti trimestrali. In particolare, oggi lo Stato si fa carico in ogni caso - quale che sia il motivo dello squilibrio finanziario nella gestione in argomento - di un complessivo ripiano trimestrale dello stesso, secondo l'effettiva esigenza finanziaria via via verificata in modo unitario e complessivo.

Quindi nell'unitaria gestione finanziaria Stato/INPS della Cassa trattamento pensioni dello Stato, il sistema non ammette singole azioni di credito/debito tra Istituto previdenziale e Stato, riguardante un singolo rapporto pensionistico trasferito.

Pertanto, sempre ad avviso del Ministero della difesa, la richiesta di rivalsa avanzata dall'INPS è da ritenersi inammissibile, poiché non sono possibili azioni di rivalsa individuale (riferite cioè alla singola posizione previdenziale e non alla gestione complessiva), da parte dell'INPS contro le amministrazioni dello Stato liquidatrici di pensione definitiva, essendo la materia disciplinata dal legislatore attraverso una regolamentazione periodica dei rapporti, con apporto trimestrale dello Stato di quanto necessario (cita Corte dei conti, Sezione giur. Abruzzo, nn. 412-386-385-342/2012; Sezione giur. Friuli Venezia Giulia, nn. 99-92-43-37/2013; Sezione giur. Toscana n. 369-307/2013; Sezione giur. Sardegna n. 11/2014).

In via subordinata, parte appellante evidenzia di avere disposto, nel caso di specie, dalla data di collocamento in congedo e fino al trasferimento della partita pensionistica (21.4.1999 – 31.12.1999) il pagamento diretto del. trattamento di quiescenza provvisorio, ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dall'art. 3, commi 5 e 6, della legge n. 468/1987 (con imputazione al capitolo n. 1392, articolo 1), quale anticipo di somme da recuperare in sede di liquidazione della pensione definitiva.

Pertanto, prosegue, non solo l'importo richiesto al Ministero medesimo a titolo di rivalsa andrebbe esattamente quantificato in quanto una quota dell'indebito è stata erogata dal Ministero della Difesa, ma dovrebbe tenersi “anche conto del fatto che le somme corrisposte direttamente dall'Amministrazione nel sopraindicato periodo (di importo superiore all'importo oggetto di rivalsa), non essendo mai state rimborsate, potrebbero compensare il residuo indebito” (cita Corte dei conti, Sez. giur. Friuli Venezia Giulia nn. 34-33/2013).

In conclusione, l'appellante amministrazione chiede l'annullamento della ricordata sentenza n. 118/2013, nella parte in cui riconosce il diritto di rivalsa dell'INPS, Gestione dipendenti pubblici, nei confronti del Ministero della difesa, in via pregiudiziale per difetto di giurisdizione del giudice contabile; in via subordinata per inammissibilità della domanda di rivalsa, sussistendo carenza di interesse ad agire; in via ulteriormente subordinata, è chiesto l'annullamento della sentenza ed il rinvio al giudice di primo grado per l'esatta quantificazione della quota di indebito imputabile al Ministero della difesa, nonché per la compensazione del residuo indebito con le somme erogate dall'amministrazione militare in quanto non rimborsate.

Il sig. O.. si è costituito con recente memoria degli avv.ti Umberto e Cesare Verdacchi, chiedendo la conferma della sentenza di primo grado in relazione al capo che ha accertato e dichiarato l’irripetibilità dell’indebito a suo carico, con conseguente condanna dell’INPS alla restituzione delle somme già recuperate.

Si è costituito anche l’INPS, chiedendo il rigetto dell’appello del Ministero. Precisa, in via preliminare, la piena sussistenza della giurisdizione di questa Corte dei conti, ai sensi dell’art. 8 del D.P.R. n. 538/1986, anche nei confronti dello Stato; cita giurisprudenza in proposito.

Nel merito, l’INPS evidenzia la propria autonomia gestionale e patrimoniale (artt. 1 R.D.L. n. 1827/1935, 16 L. n. 370/1974, 1 e 2 L. n. 88/1989 e 4 L. n. 479/1994), con conseguente necessità dell’Istituto medesimo di salvaguardare in ogni modo il proprio bilancio economico e finanziario. Ciò non rende possibile ritenere una mera partita di giro il ripianamento di eventuali erogazioni indebite, non coperte da contribuzione previdenziale; né il ripiano trimestrale di cui alla L. n. 183/2011 potrebbe considerarsi alla stregua di una compensazione ex lege del debito.

All’odierna udienza dibattimentale il dr. Grisolia, per il Ministero della difesa, si è richiamato all’atto d’appello e ne ha chiesto l’accoglimento. Fa presente che nel corso del giudizio di primo grado la questione della rivalsa non fu correttamente posta (cita Sez. I, n. 102/2015). Richiama anche la sentenza n. 14/2015 della sezione giurisdizionale Abruzzo, che afferma l’impossibilità dell’INPS di essere creditore dello Stato, in quanto quest’ultimo ripiana completamente il deficit dell’INPS.

La dr.ssa Viola, per l’INPS, ha chiesto invece il rigetto; il ripiano trimestrale non compensa il debito, poiché ogni ente ha piena autonomia finanziaria, che va tutelata e salvaguardata. Cita in proposito Corte dei conti, Sez. III app., n. 357/2013, Sez. I app., nn. 450-459/2014 e nn. 108-131/2013. Afferma poi che l’istanza di rivalsa fu proposta regolarmente e correttamente in primo grado.

D I R I T T O

1. In via pregiudiziale, deve essere rigettata la doglianza attorea relativa al dedotto difetto di giurisdizione di questo Giudice contabile.

Invero, come peraltro da tempo chiarito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex multis, Sezione I app., 11.2.2013, n. 108, 18.2.2013, n. 131 e 20.3.2014, n. 459), non può essere negata la giurisdizione contabile sull’azione di rivalsa connessa con indebiti pensionistici: siffatti giudizi sul riparto degli oneri, sia pure riferiti alla casistica relativa alla CPDEL, da sempre e pacificamente sono stati infatti attribuiti, dalla Corte di Cassazione, a questa Corte dei conti: cfr., ex multis, Cassazione, SS.UU., 16.11.2007, n. 23731, 21.12.1999, n. 920 e 27.12.2011, n. 28818.

Si ricorda poi, in proposito, che il D.P.R. 8 agosto 1986 n. 538 così recita all’art. 8, comma 2 (in tema, appunto, di “Revoca o modifica del provvedimento. Recupero di somme indebitamente corrisposte”): “Qualora, per errore contenuto nella comunicazione dell'ente di appartenenza del dipendente, venga indebitamente liquidato un trattamento pensionistico definitivo o provvisorio, diretto, indiretto o di riversibilità, ovvero un trattamento in misura superiore a quella dovuta e l'errore non sia da attribuire a fatto doloso dell'interessato, l'ente responsabile della comunicazione è tenuto a rifondere le somme indebitamente corrisposte, salvo rivalsa verso l'interessato medesimo”.

La norma in esame, la quale stabilisce l'obbligo dell'ente che ha liquidato il trattamento pensionistico errato (e poi materialmente corrisposto dall’INPS), di rifondere le spese in eccesso sostenute dall'erogatore secondario di spesa, deve ritenersi espressione di un principio di carattere generale, con la sola inversione dei tempi e delle modalità di recupero, per gli iscritti CPDEL, rispetto a quanto avviene per altre categorie di pensionati.

Tale generale obbligo di rifusione deve pertanto ritenersi operante anche nei confronti delle amministrazioni statali, non essendo certo ipotizzabile che per tale categoria non sussista alcuna possibilità di reintegro, da parte del medesimo INPDAP, nel caso di errori nella liquidazione del trattamento pensionistico da parte dell’amministrazione o ente ex datore di lavoro, anche perché l’art. 162 del T.U. n. 1092/1973 comunque prevede il recupero da parte dell’ente erogatore sul pensionato, ed è evidente che nel caso di mancato recupero (per qualsiasi motivo) a carico dell’indebito percettore non può, in astratto, ritenersi impedita l’azione di rivalsa nei confronti dell’ente responsabile di tale errata liquidazione; azione la cui giurisdizione – come si è appena visto - va attribuita a questo Giudice contabile.

Va pertanto respinta, sul punto, la doglianza del Ministero.

2. Ancora in rito, il Collegio è chiamato a delibare la questione, sollevata in udienza dal rappresentante del Ministero della difesa, il quale ha fatto presente che nel corso del giudizio di primo grado la questione della rivalsa non era stata correttamente posta.

La doglianza è inammissibile.

Ed invero, occorre precisare al riguardo che, se è vero che la domanda relativa alla rivalsa non risulta essere stata ritualmente proposta in primo grado dall’INPS, è altrettanto vero che su tale aspetto si è esplicitamente pronunziata – peraltro, in senso positivo per l’INPS - l’impugnata sentenza n. 118/2013.

La statuizione del primo Giudicante, pertanto, anche sotto tale profilo era suscettibile di impugnazione da parte del Ministero, che avrebbe dovuto espressamente contestarla in sede di appello; ed invece, nel proprio atto introduttivo dell’odierno gravame, depositato il 18 aprile u.s., parte ricorrente nulla ha dedotto in proposito, pur avendo avanzato doglianza, sotto altri aspetti, nei confronti della pronunzia di prime cure.

Pertanto, tale specifica deduzione, proposta solo ora, per la prima volta, in udienza, non può che essere giudicata inammissibile dal Collegio, secondo i principi generali (art. 345, comma 2, c.p.c.).

3. Nel merito, l’appello proposto è infondato e deve essere respinto, con le precisazioni che tra poco verranno fornite: non possono, infatti, essere accolte le argomentazioni dell’appellante Ministero in ordine alla presunta infondatezza della domanda di rivalsa dell’INPS/INPDAP, accolta in primo grado.

E’ appena il caso di precisare, con riferimento alla memoria prodotta dal ricorrente in prime cure sig. O.., che l’odierna delibazione del Collegio riguarda, solo ed unicamente, le doglianze del Ministero appellante in punto di rivalsa, nei suoi confronti, da parte dell’INPS; ogni altra questione è ormai passata in cosa giudicata.

Ciò posto, questo Giudice ritiene che la sentenza impugnata, sul punto, sia correttamente motivata e meriti conferma.

3.1. Occorre dare atto, come del resto già accennato innanzi (punto 1), che una norma esplicita sul diritto dell’ente erogatore della pensione (e liquidatore secondario di spesa) ad esercitare rivalsa, per le somme erogate indebitamente al pensionato, esiste solo con riferimento agli enti locali.

Si pone, ora, il problema relativo alla possibilità per l’INPDAP (ora INPS), di rivalersi su un’amministrazione dello Stato per la medesima causale.

La questione deve essere risolta positivamente, nel senso che tale rivalsa può essere esperita anche nei confronti di amministrazioni dello Stato, nel caso di specie del Ministero della difesa, secondo le argomentazioni esposte al punto 1, come prima ricordato.

3.2. Deve poi essere fatto riferimento, sempre a tale proposito, al principio dell’autonomia e reciproca indipendenza del bilancio dell’Istituto previdenziale, rispetto a quello dello Stato: v., sul tema, le sentenze di questa Sezione I d’appello n. 818/2012 e n. 131/2013.

Il su detto principio di autonomia gestionale e finanziaria dell’Istituto previdenziale, normativamente sancito (artt. 1 R.D.L. n. 1827/1935, 16 L. n. 370/1974 e 1 L. n. 88/1989), comporta che gli organi gestori devono tenere presenti (e ripianare) le indebite erogazioni, in quanto tali suscettibili di incidere sugli equilibri finanziari complessivi e sulle future disponibilità, nell’ottica complessiva della salvaguardia del proprio bilancio e della corretta gestione delle risorse disponibili per i fini istituzionali.

In tale quadro, il ripiano trimestrale previsto dalla legge n. 183/2011, invocata da parte appellante, non può in alcun modo valere a compensare gli indebiti originati da errori dell’ente ordinatore primario della spesa (cioè, in altri termini, operazioni gestionali non corrette e negligenti), ma solo squilibri di carattere strutturale.

Neppure può essere invocato l’argomento, che pure si rinviene in alcune sentenze, che l’azione di rivalsa nei confronti delle amministrazioni dello Stato non sarebbe esperibile, per l’unicità del sistema finanziario e che gli eventuali passivi dell’INPDAP saranno coperti a carico del bilancio statale: al contrario, l’attuale conformazione dell’ordinamento consente l’affermazione della piena autonomia finanziaria dei vari enti, i quali non devono pesare sul bilancio dello Stato e devono, quindi, raggiungere l’equilibrio di bilancio; tale equilibrio, a tutta evidenza, verrebbe meno se l’ente (nel caso di specie l’INPS), dovesse sopportare passivamente – e sperando nel ripiano da parte statale - il peso finanziario degli errori dell’amministrazione, quando questa opera come ordinatore primario di spesa.

E dunque, ogni spesa indebita e non recuperabile a carico del bilancio dell’ente previdenziale causa un deficit che, secondo i principi generali, deve necessariamente essere ripianato da parte dell’amministrazione che lo ha determinato: v., in terminis, Corte dei conti, Sezione III app., 31.5.2013, n. 357.

4. Per le ragioni e motivazioni innanzi esposte, l’appello del Ministero della difesa può essere accolto solo parzialmente, nel senso che dovrà essere rimborsato all’INPS quanto indebitamente erogato al pensionato, con esclusione però delle somma che furono a suo tempo erogate direttamente dal Ministero, a carico del proprio bilancio. Sono confermate, per il resto, le impugnate statuizioni della sentenza di primo grado.

Occorre, da ultimo, pervenire alla regolamentazione delle spese di causa relative al presente grado di giudizio.

Al riguardo, non è luogo a provvedere sulle spese di giustizia, in relazione al principio di gratuità posto, per le cause previdenziali, dall’art. 10 della legge 11 agosto 1973, n. 533; principio al quale la giurisprudenza di questa Corte attribuisce carattere di generalità: v., ex multis, Corte dei conti, Sezione I app., 6.3.2013, n. 187 e 23 novembre 2009, n. 648; Sezione III app., 1 ottobre 2007, n. 272.

Con riferimento invece alle spese legali, il Collegio ravvisa i presupposti per la condanna dell’amministrazione statale appellante, al ristoro delle spese legali in favore del resistente INPS (v. in proposito, ex plurimis, v. Sezione I app., 13.3.2013, n. 214 e 11.1.2013, n. 20; Sezione III app., 16.1.2013, n. 33 e 18.1.2013, n. 42).

In concreto, questo Giudice ritiene di poter liquidare dette spese nella somma di € 1.000,00 (euro mille/00).

P. Q. M.

La Corte dei conti – Sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, definitivamente pronunziando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette:

 ACCOGLIE PARZIALMENTE l'appello in epigrafe, nei sensi di cui in motivazione;

 CONDANNA l’appellante Ministero della difesa alla rifusione delle spese legali in favore del resistente INPS, quantificate in € 1.000,00= (euro mille/00).

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 24 marzo 2015.

IL RELATORE
(f.to Piergiorgio Della Ventura)
IL PRESIDENTE F.F.
(f.to Nicola Leone)


Depositata in Segreteria il 20 MAG.2015

Il Dirigente
f.to Massimo Biagi
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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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Ricorso Accolto ai sensi e nei limiti.
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1) - Espone l’odierno ricorrente, Generale di Brigata collocato in congedo il 28 dicembre 2006, che la intimata amministrazione ha continuato erroneamente a corrispondergli lo stipendio limitatamente al periodo 28 dicembre 2006 – 31 gennaio 2007, quindi adottando il 21 ottobre 2013 provvedimento con cui gli ingiunge il pagamento di euro 5.636,42 a titolo di recupero competenze corrisposte e non dovute per il detto periodo.

2) - l’amministrazione non può pretendere di ripetere, come avvenuto nel caso di specie, le somme al lordo, anche perché l’importo lordo non è mai pervenuto nella sfera patrimoniale del ricorrente.

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SENTENZA ,sede di ROMA ,sezione SEZIONE 1B ,numero provv.: 201600711, - Public 2016-01-21 -

N. 00711/2016 REG.PROV.COLL.
N. 00761/2015 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 761 del 2015, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
S. S., rappresentato e difeso dagli avv. Fabrizio Crea e Marco Valerio Santonocito, con domicilio eletto presso l’Avv. Fabrizio Crea in Roma, largo Don Giuseppe Morosini 2;

contro
Ministero della Difesa, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento
dell'ingiunzione di pagamento ex art. 3 R.D. n. 639/1910 del 21/10/2013 per euro 5.636,42, notificata il successivo 31/10/2013.


Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 novembre 2015 il dott. Salvatore Mezzacapo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Espone l’odierno ricorrente, Generale di Brigata collocato in congedo il 28 dicembre 2006, che la intimata amministrazione ha continuato erroneamente a corrispondergli lo stipendio limitatamente al periodo 28 dicembre 2006 – 31 gennaio 2007, quindi adottando il 21 ottobre 2013 provvedimento con cui gli ingiunge il pagamento di euro 5.636,42 a titolo di recupero competenze corrisposte e non dovute per il detto periodo.

Avverso la detta ingiunzione di pagamento è dunque proposto il presente ricorso a sostegno del quale, dopo aver premesso di aver percepito - per il periodo indicato - al netto euro 2.929,50 e non già la somma di euro 5,636,42, deduce il ricorrente la illegittimità della detta ingiunzione per contrasto con consolidamento orientamento giurisprudenziale a mente del quale l’amministrazione non può pretendere di ripetere, come avvenuto nel caso di specie, le somme al lordo, anche perché l’importo lordo non è mai pervenuto nella sfera patrimoniale del ricorrente.

Si è costituita in giudizio l’intimata amministrazione confutando la tesi di parte ricorrente, dunque concludendo per il rigetto del proposto ricorso.

Con ordinanza n. 1202 del 2015 la Sezione, “Considerato che, avuto riguardo ad una sollecita fissazione di udienza pubblica per la definizione della presente controversia, appare opportuno disporre la sospensione del gravato provvedimento di recupero limitatamente alla determinazione di disporre il detto recupero (della mensilità indebitamente erogata) al lordo delle ritenute IRPEF, restando dovuta la restituzione al netto della mensilità di stipendio di che trattasi”, ha sospeso l’ingiunzione avversata nei limiti ora ricordati.

Alla pubblica udienza del 25 novembre 2015 il ricorso viene ritenuto per la decisione.

Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.

Per come afferma costante e condivisibile giurisprudenza, il recupero di somme indebitamente erogate a un dipendente pubblico può avvenire soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito; con la conseguenza che deve ritenersi illegittimo il provvedimento di ripetizione disposto dall’Amministrazione al lordo delle ritenute fiscali, salva la possibilità per la medesima di chiedere, quale sostituto di imposta, il rimborso al Fisco delle somme trattenute per errore e versate in eccesso rispetto a quelle effettivamente dovute dall’interessato (cfr. T.A.R. Toscana, I Sezione, 11 aprile 2013 n. 565).

Non vi è dubbio e nella specie è incontestato che le somme indebitamente erogate sono soggette a recupero; ma ove l’amministrazione abbia già versato all’erario le somme trattenute per acconto d’imposta, la stessa non può di certo addossare al privato l’onere di un eventuale, correlativo, recupero dell’indebito tributario, per la cui attivazione e conseguimento è indispensabile la collaborazione attiva dell’amministrazione in quanto erogatrice del reddito soggetto a trattenuta (cfr. Cons. St., Sez. VI, 8.10.1998, n.1358; 20.5.1995 n.489; Parere Comm. Spec. 5.2.2001, n.478/2000).

Sotto tale profilo il contestato provvedimento di recupero deve ritenersi, nella parte considerata, illegittimo in quanto, in definitiva, il recupero al lordo delle somme erogate finirebbe per porre a carico del dipendente interessato anche il rimborso delle somme già versate dall’ente all’erario; comportando ciò, tra l’altro, arricchimento senza causa a favore dell’amministrazione procedente.

In definitiva, è affermazione pacifica, la cui logicità è di tutta evidenza, quella per cui la ripetizione dell’indebito va effettuata sulla base del netto percepito (cfr. Cons. Stato, sez. III^, n. 3982 del 4 luglio 2011 e sez. VI^, n. 1164 del 2 marzo 2009 e, più recentemente, IV Sezione, 20 settembre 2012 n. 5043 del 2012).

Non è invero infrequente la prassi che vede alcune amministrazioni procedere al recupero al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali, al fine di assicurare una corretta imputazione dei versamenti erariali e previdenziali stessi e tuttavia in detta evenienza ad ogni addebito al lordo di una rata del recupero corrisponde, nel medesimo cedolino, un corrispondente accredito a favore dell’interessato della somma derivante dal relativo conguaglio fiscale e previdenziale (trattandosi di importi per i quali dette trattenute sono già state operate) e, quindi, l’effettivo decremento dell’importo sul cedolino corrisponde esattamente alla voce “netta” del recupero stesso.

Di contro, nel caso di specie, si è illegittimamente proceduto solamente al recupero del lordo.
In definitiva, ribadite le svolte considerazioni, il Collegio accoglie il ricorso e per l’effetto annulla l’avversata ordinanza ingiunzione quanto al disposto recupero, di importo corrispondente a competenze corrisposte e non dovute, operato al lordo delle competenze medesime.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, ai sensi e nei limiti di cui in motivazione, annulla l’avversata ingiunzione di pagamento.

Condanna la resistente amministrazione al pagamento delle spese del presente giudizio in favore del ricorrente, che liquida in euro 1.500,00 (millecinquecento,00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 novembre 2015 con l'intervento dei magistrati:
Silvio Ignazio Silvestri, Presidente
Salvatore Mezzacapo, Consigliere, Estensore
Nicola D'Angelo, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 21/01/2016
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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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premio di congedamento.
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Il TAR Lazio precisa:

1) - Come già chiarito dalla giurisprudenza in materia, con orientamento ormai consolidato e condiviso dalla Sezione (vedi, da ultimo, Cons. St. IV n. 750/2015; TAR Lazio, I bis, n. 5413/2015 e già n. 4630/2012) l’Amministrazione non può recuperare le somme trattenute ai ricorrenti sul lordo corrispostogli, a costoro trattenute in qualità di sostituto d’imposta nonché a titolo di contributi previdenziali in quanto si tratta di somme che gli interessati non hanno mai percepito e, quindi, fuori dalla loro disponibilità.

2) - Deve perciò ritenersi illegittimo il provvedimento di ripetizione disposto dall’Amministrazione al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali, salva la possibilità per la medesima di chiedere, quale sostituto di imposta, il rimborso al Fisco delle somme trattenute per errore e versate in eccesso rispetto a quelle effettivamente dovute dall’interessato (cfr. T.A.R. Toscana, I Sezione, 11 aprile 2013 n. 565).

3) - Tale scelta non solo risulta illegittima alla stregua del consolidato orientamento sopra richiamato, in quanto, in definitiva, il recupero al lordo delle somme erogate finirebbe per porre a carico del dipendente interessato anche il rimborso delle somme già versate dall’ente all’erario - comportando ciò, tra l’altro, arricchimento senza causa a favore dell’amministrazione procedente – e da questi non fruite – violando il principio secondo cui la ripetizione dell’indebito va effettuata sulla base del netto percepito – ma risulta altresì illegittimo perché non sussiste nemmeno la possibilità del ricorrente di beneficiare delle detrazioni fiscali per le somme di cui si chiede il rimborso.
-----------------------------------------------------------------------------------------------

SENTENZA ,sede di ROMA ,sezione SEZIONE 1B ,numero provv.: 201602217, - Public 2016-02-19 -


N. 02217/2016 REG.PROV.COLL.
N. 01397/2015 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1397 del 2015, proposto da:
A. M., rappresentato e difeso dall'avv. Alfredo Mercadante, con domicilio eletto presso la Segreteria del Tar Lazio in Roma, Via Flaminia, 189;

contro
Ministero della Difesa, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento
dell'ingiunzione di pagamento n. 370 del 24/11/2014


Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 25.11.2015 la dott.ssa Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;


Il ricorrente agisce in giudizio avverso l’atto di recupero indicato in epigrafe con cui il Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, Centro Nazionale Amministrativo, gli ingiunge il pagamento di euro 12.466,53, di somme "indebitamente percepite" a titolo di premio di congedamento nonché, quale atto presupposto, il provvedimento nr. …../DS del 13/05/2011, con il quale Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri, Centro Nazionale Amministrativo, revocava il premio di congedamento ex art. 38 Legge 20/09/1980 n. 574, per l'ammontare di Euro 12.466,53 (cod. 745 cod. 805 del Mod. L/A aprile 2006), e disponeva, contestualmente, il recupero delle somme corrisposte a tale titolo con provvedimento n. 15744 datato 08/05/2006.

Il ricorso è affidato ai seguenti motivi di censura: violazione dell’art. 2033 cod. civile e dei principi in materia di recupero di indebito delle somme erogate al dipendente pubblico ribaditi dal consolidamento orientamento giurisprudenziale secondo cui l’amministrazione non può ripetere, come avvenuto nel caso di specie, le somme al lordo “anche perché l’importo lordo non è mai pervenuto nella sfera patrimoniale del ricorrente”.

Si è costituita in giudizio l’intimata amministrazione chiedendo il rigetto del proposto ricorso.

Con ordinanza n. 1449/ 2015 è stata accolta l’istanza di sospensione del gravato provvedimento di recupero limitatamente alla determinazione di disporre il detto recupero (della mensilità indebitamente erogata) al lordo delle ritenute IRPEF.

In vista della udienza per la trattazione del merito il ricorrente ha replicato alla memoria della resistente rappresentato l’impossibilità di “rivalersi” con l’Amministrazione fiscale dato che egli beneficia, in qualità di giovane professionista, del regime fiscale forfetario agevolato (c.d. de minimis) di tassazione del reddito, come, peraltro, espressamente rappresentato all’Amministrazione resistente con nota inviata via PEC in data 16.12.2014.

Alla pubblica udienza del 25.11.2015 il ricorso viene trattenuto in decisione.

Il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto.

Come già chiarito dalla giurisprudenza in materia, con orientamento ormai consolidato e condiviso dalla Sezione (vedi, da ultimo, Cons. St. IV n. 750/2015; TAR Lazio, I bis, n. 5413/2015 e già n. 4630/2012) l’Amministrazione non può recuperare le somme trattenute ai ricorrenti sul lordo corrispostogli, a costoro trattenute in qualità di sostituto d’imposta nonché a titolo di contributi previdenziali in quanto si tratta di somme che gli interessati non hanno mai percepito e, quindi, fuori dalla loro disponibilità. Deve perciò ritenersi illegittimo il provvedimento di ripetizione disposto dall’Amministrazione al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali, salva la possibilità per la medesima di chiedere, quale sostituto di imposta, il rimborso al Fisco delle somme trattenute per errore e versate in eccesso rispetto a quelle effettivamente dovute dall’interessato (cfr. T.A.R. Toscana, I Sezione, 11 aprile 2013 n. 565).

Tali principi trovano applicazione nel caso in esame in cui è incontestato che le somme indebitamente erogate sono soggette a recupero, ma si fa questione della legittimità della pretesa dell’amministrazione, che ha già versato all’erario le somme trattenute per acconto d’imposta, di recuperare al lordo di tali ritenute fiscali quanto già corrisposto al ricorrente in tal modo addossando allo stesso “l’onere di un eventuale, correlativo, recupero dell’indebito tributario, per la cui attivazione e conseguimento è indispensabile la collaborazione attiva dell’amministrazione in quanto erogatrice del reddito soggetto a trattenuta”.

Tale scelta non solo risulta illegittima alla stregua del consolidato orientamento sopra richiamato, in quanto, in definitiva, il recupero al lordo delle somme erogate finirebbe per porre a carico del dipendente interessato anche il rimborso delle somme già versate dall’ente all’erario - comportando ciò, tra l’altro, arricchimento senza causa a favore dell’amministrazione procedente – e da questi non fruite – violando il principio secondo cui la ripetizione dell’indebito va effettuata sulla base del netto percepito – ma risulta altresì illegittimo perché non sussiste nemmeno la possibilità del ricorrente di beneficiare delle detrazioni fiscali per le somme di cui si chiede il rimborso.

Al riguardo il ricorrente ribadisce anche in questa sede che non può beneficiare della deduzione dal reddito complessivo le somme in contestazione in quanto è assoggettato al cd. “regime fiscale dei minini” previsto per i giovani professionisti che, operando su un regime forfettario, non consente di poter dedurre dal reddito, ai fini della determinazione della base impunibile IRPEF, tra gli oneri deducibili le somme restituite a tiolo di indebito come previsto dall’art. 10 del DPR 917/1986.

Alla luce delle considerazioni soprasvolte il ricorso risulta fondato e va pertanto accolto, con conseguente annullamento dell’impugnata ordinanza ingiunzione nella parte in cui dispone il recupero delle somme erroneamente corrisposte e non dovute al ricorrente al lordo delle imposte anziché al netto.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis), accoglie il ricorso in epigrafe ai sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla, per quanto di ragione, l’atto impugnato.

Condanna la resistente amministrazione al pagamento delle spese del presente giudizio in favore del ricorrente, che liquida in euro 1.500,00 (millecinquecento,00).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 25.11.2015 con l'intervento dei magistrati:
Silvio Ignazio Silvestri, Presidente
Floriana Rizzetto, Consigliere, Estensore
Roberto Vitanza, Referendario


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 19/02/2016
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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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interessante sentenza Positiva verso il ricorrente (recupero somme).

1) - Il ricorrente, a fondamento del ricorso, deduceva che nel settore previdenziale, diversamente dalla generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell’indebito, troverebbe applicazione il diverso principio, proprio di tale sottosistema, che escluderebbe la ripetizione in presenza di una situazione di fatto avente quale minimo comune denominatore la non addebitabilità al percipiente, invocava i principi enunciati nella sentenza SS.RR. 07.08.2007 n°7, evidenziando che il D.M. 603/1993 (regolamento recante disposizioni di attuazione degli artt. 2 e 4 L. 241/1990 nell’ambito dell’Amministrazione della Difesa) aveva fissato in 330 gg. il termine entro il quale deve essere emesso il provvedimento definitivo di pensione, scaduto il quale l’Amministrazione non potrebbe più operare il recupero erariale, donde l’irripetibilità, nella specie, delle somme erogate in eccedenza al ricorrente.

Cmq. leggete il tutto meglio qui sotto.
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PUGLIA SENTENZA 28 27/01/2016


SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
PUGLIA SENTENZA 28 2016 PENSIONI 27/01/2016


Sent. 28/2016


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA PUGLIA
in composizione monocratica, nella persona del Giudice Unico
Consigliere dott. Pasquale Daddabbo

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 32334/PM del Registro di Segreteria, proposto dal sig. M. C., nato a OMISSIS e residente in OMISSIS (TA) alla via OMISSIS, elettivamente domiciliato in Taranto alla via Acclavio n. 2, presso lo studio legale dell’avv. Martino Margiotta che lo rappresenta e difende,

contro

Ministero della Difesa e
INPS (gestione ex I.N.P.D.A.P.), rappresentato e difeso dall’avv. Marcella Mattia, giusta procura ad lites per atto del notaio Palo Castellini, rep. n. 80974 del 21.7.2015, elettivamente domiciliata presso gli Uffici dell’Avvocatura INPS, in Bari alla via Putignani n. 108

avverso
il provvedimento prot. n°……/08 del 21.10.2008 dell’ I.N.P.D.A.P.– Ufficio Prov.le di Taranto, con il quale si comunica il recupero della somma di €. 35.095,66, sulla pensione n. ……..

Esaminati gli atti e i documenti tutti della causa;

Vista la legge n. 205/2000;

Uditi, nella pubblica udienza del 19 gennaio 2016, l’avv. Martino Margiotta per il ricorrente e l’avv. Marcella Mattia per l’INPS; non comparso il Ministero della Difesa.

FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato il 07-09.02.2009 e depositato in Segreteria il 09.03.2009, il sig. M. C., sottufficiale della Marina Militare collocato nella categoria dell’ausiliaria dal 29.12.1994, patrocinato dall’avv. Mariantonietta Belmonte, premettendo di aver percepito, dal mese di dicembre 1994, il trattamento pensionistico “senza ricevere, fino al mese di ottobre 2008, alcuna comunicazione in relazione ad eventuali variazioni del medesimo trattamento”, impugnava, innanzi a questa Sezione giurisdizionale regionale, l’atto prot. n° 24923/08 del 21.10.2008 dell’ I.N.P.D.A.P. – Ufficio Prov.le di Taranto, con il quale l’Istituto gli aveva comunicato di aver accertato a suo carico, sulla pensione iscrizione n°….., un debito di €.35.095,66, per maggiori somme corrisposte dal 29.12.1994 al 30.06.2001 derivante dal conguaglio tra la pensione definitiva, liquidata con Decreto n.209/2/M in data 27.6.2008, e quella provvisoria, e ne aveva disposto il recupero, in via cautelativa, mediante ritenuta mensile di €.408,09 sul suddetto trattamento pensionistico, dal 01.11.2008 al 30.12.2015.

Il ricorrente, a fondamento del ricorso, deduceva che nel settore previdenziale, diversamente dalla generale regola codicistica di incondizionata ripetibilità dell’indebito, troverebbe applicazione il diverso principio, proprio di tale sottosistema, che escluderebbe la ripetizione in presenza di una situazione di fatto avente quale minimo comune denominatore la non addebitabilità al percipiente, invocava i principi enunciati nella sentenza SS.RR. 07.08.2007 n°7, evidenziando che il D.M. 603/1993 (regolamento recante disposizioni di attuazione degli artt. 2 e 4 L. 241/1990 nell’ambito dell’Amministrazione della Difesa) aveva fissato in 330 gg. il termine entro il quale deve essere emesso il provvedimento definitivo di pensione, scaduto il quale l’Amministrazione non potrebbe più operare il recupero erariale, donde l’irripetibilità, nella specie, delle somme erogate in eccedenza al ricorrente; concludeva chiedendo che, previa sospensione dell’atto impugnato, la Sezione dichiarasse che nulla doveva il ricorrente a titolo di restituzione di indebito, per i motivi innanzi dedotti, e condannasse l’I.N.P.D.A.P. , in persona del suo legale rappresentante pro tempore, alla restituzione delle somme nelle more trattenute a detto titolo, in aggiunta alla rivalutazione monetaria ed agli interessi come per legge, con vittoria di spese e competenze, e con distrazione in favore del procuratore costituito dichiaratosi anticipatario.

L’I.N.P.D.A.P. - Direzione Provinciale di Taranto, costituito in giudizio con memoria del 30.04.2009, deduceva che il recupero nei confronti del pensionato delle somme indebitamente corrisposte costituiva atto vincolato per l’ amministrazione che difetterebbe, in tale ambito, di ogni margine di discrezionalità, per cui sarebbe applicabile il principio civilistico di cui all’art. 2033 cod.civ.; invocava la sentenza delle SS.RR. 1/1999 e, con riferimento alla sentenza SS.RR. n°7/2007, evidenziava l’intervenuta proroga, per effetto dell’art. 25 D.L. 248/2007 conv. in L. 31/2008, per l’anno 2008, e dell’art. 41, sesto comma, D.L. 207/2008, per gli anni successivi al 2008, del divieto di estensione, nei confronti di terzi estranei alla controversia, delle decisioni giurisdizionali aventi forza di giudicato o, comunque, divenute esecutive, di cui all’art. 1, comma 132 della L. 311/2004, e concludeva chiedendo il rigetto della domanda di sospensione e di merito.

Il Ministero della Difesa, costituito in giudizio con memoria del 07.05.2009, premesso che, con D.M. 209/2/M del 27.06.2008, già debitamente registrato dalla Corte dei Conti – Sezione di Controllo, in data 30.04.2009, con registro n°13 foglio 81, aveva liquidato il trattamento pensionistico definitivo e che era emerso un debito per differenze con il trattamento pensionistico provvisorio che l’I.N.P.D.A.P. stava provvedendo a recuperare, deduceva la mancanza dei requisiti del periculum in mora e del fumus boni iuris e, nel merito, evidenziava la doverosità dell’azione di recupero delle somme indebitamente percepite dall’accipiens sui ratei di trattamento provvisorio, ai sensi dell’art. 162 D.P.R. 1092/1973; formulava osservazioni critiche nei confronti della sentenza SS.RR. n°7/Q.M./2007 concludendo per il rigetto della domanda cautelare e della domanda di merito proposte dal ricorrente.

Con ordinanza n°103/2009 del 13.05 – 22.05.2009, la Sezione, in composizione collegiale, respingeva l’istanza incidentale di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato, proposta dal ricorrente con il ricorso introduttivo.

Con sentenza n. 562/2010, depositata il 20 settembre 2010, questa Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione Puglia, in diversa composizione monocratica - constatato che con l’atto introduttivo del giudizio non era stato impugnato il provvedimento di liquidazione della pensione definitiva dal quale era scaturito l’indebito - ha estromesso il Ministero della Difesa e ha respinto il ricorso ritenendo applicabile alla vicenda in questione (indebito scaturente dal conguaglio del trattamento provvisorio con quello definitivo) la disposizione di cui all’art. 162 del d.P.R. n. 1092 del 1973 che - contrariamente a quanto previsto dall’art. 206 dello stesso Testo Unico per una diversa fattispecie – non contempla la rilevanza della buona fede soggettiva dell’interessato.

Il pensionato, sig. M. C., patrocinato dall’avv. Martino Margiotta, ha impugnato la predetta sentenza n. 562/2010 di questa Sezione e la Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello con sentenza n. 119/2015, depositata in data 9.3.2015, rilevato preliminarmente che il giudizio non riguarda il provvedimento di determinazione del trattamento pensionistico definitivo emesso dal Ministero della Difesa e dal quale è scaturito l’indebito per cui è causa, ed evidenziato che le Sezioni riunite, con la sentenza n. 2/QM del 2012, hanno riaffermato il principio (in verità da tempo presente nella giurisprudenza della Corte) in base al quale il potere-dovere dell’amministrazione di procedere al recupero, stabilito dalla legge, può essere attenuato dalla situazione di legittimo affidamento del privato, consolidatasi attraverso un lungo decorso del tempo, precisando però che si richiedono a tal fine:
a) il decorso del tempo;
b) la rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione (così, ad esempio, non sarà ravvisabile alcun affidamento nell’ipotesi in cui il rateo della pensione provvisoria sia addirittura maggiore rispetto al rateo dello stipendio che l’interessato percepiva in servizio);
c) l’individuazione delle ragioni che hanno giustificato la modifica del trattamento provvisorio e il momento di conoscenza, da parte dell’amministrazione, di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo, in modo tale che possa escludersi che l’amministrazione fosse già in possesso, ab origine, degli elementi necessari alla determinazione del trattamento pensionistico, ha ritenuto che il primo giudice non aveva svolto un tale accertamento sulla sussistenza dei presupposti del legittimo affidamento ed ha accolto in tal senso l’appello proposto dal M…. “disponendo il rinvio degli atti al primo giudice perché, in diversa composizione, provveda all’accertamento di fatto della sussistenza delle condizioni per l’affermazione del legittimo affidamento del percettore delle somme indebite delle quali si chiede la dichiarazione di irripetibilità”.

Il sig. M. C., sempre rappresentato e difeso dall’avv. Martino Margiotta, con ricorso notificato in data 4.6.2015 e depositato presso questa Sezione Giurisdizionale in data 5.6.2015, dopo aver ripercorso l’iter processuale che ha portato al rinvio della causa presso questo giudice di primo grado, ha dedotto la sussistenza nella specie dei presupposti del legittimo affidamento nella spettanza delle somme percepite a titolo di pensione provvisoria osservando che:
1) erano trascorsi ben 14 anni tra l’erogazione del trattamento provvisorio decorrente dal 29.12.1994 e la comunicazione della nota di contestazione dell’indebito nonché la notifica del decreto definitivo ministeriale n. 209/M dl 27.6.2008;
2) il trattamento provvisorio è stato determinato sulla base del calcolo pari all’80% dell’ultimo trattamento retributivo, sicché il percipiente, secondo i canoni dell’ordinaria diligenza, non aveva avuto contezza dell’indebito;
3) l’amministrazione già alla data della erogazione del trattamento provvisorio era in possesso di tutti gli elementi per determinare il trattamento pensionistico definitivo. Ritenendo, quindi, sussistenti i presupposti per l’irripetibilità dell’indebito, il ricorrente ha chiesto di dichiarare che le somme di cui l’INPDAP ha chiesto il recupero non dovevano essere richieste e trattenute con conseguente esclusione che l’INPS possa disporre ulteriori trattenute e condanna dell’Istituto di previdenza alla restituzione delle somme già trattenute con aggiunta di interessi e rivalutazione ed al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

L’Istituto di previdenza, costituito in questo grado di giudizio con memoria depositata in data 1.7.2015, dopo aver rappresentato che nel caso di specie l’Istituto aveva svolto soltanto il ruolo di ordinatore secondario di spesa dando applicazione ai successivi decreti del Ministero della Difesa, ha sostenuto ancora che il recupero dell’indebito di pecunia pubblica su stipendi e pensioni si caratterizza per la sua doverosità in termini assoluti ai sensi dell’art. 2033 c.c. e, nello specifico, a mente dell’art. 162, comma 8, del DPR 1092/1973, che lo stesso risulta del tutto legittimo poiché l’Amministrazione non decade dal dovere di provvedere sulla pensione definitiva anche scaduto il termine così detto regolamentare ai sensi della legge 241/1990, mancando in proposito una espressa normativa di sanzione di decadenza, ed ha, pertanto, chiesto il rigetto del ricorso con vittoria di spese.

In esecuzione dell’ordinanza istruttoria pronunciata all’udienza del 27.10.2015 la Direzione Generale della Previdenza Militare del Ministero della Difesa e l’INPS hanno depositato rispettivamente in data 23.12.2015 e 5.11.2015 la documentazione concernente la pensione provvisoria e definitiva del ricorrente e le varie comunicazioni intercorse tra amministrazione della Difesa, istituto di previdenza e ricorrente circa tali trattamenti.

All’esito dell’istruttoria e dagli atti di causa è emerso, quindi, che:
1) nel maggio del 1995 l’Ufficio Amministrativo del Distaccamento della Marina Militare di Venezia trasmetteva a Maricentro Taranto il prospetto della pensione provvisoria del ricorrente;
2) la pensione provvisoria è stata erogata dal 29.12.1994 al 31.12.1997 da enti soppressi facenti capo alla Direzione di Commissariato della Marina Militare di Taranto, dall’1.1.1998 al 30.6.2001 dalla Direzione di Commissariato di Roma che, con nota ricevuta dall’INPDAP in data 6.4.2001, ha trasferito a tale ente previdenziale il pagamento del trattamento provvisorio a partire dall’1.7.2001;
3) con decreto del Ministero della Difesa n. 209/2/M del 27.6.2008, trasmesso all’INPDAP in data 28.7.2008 è stata liquidata la pensione definitiva;
4) con nota del 6.8.2008 la Direzione di Commissariato della Marina Militare di Roma ha trasmesso all’INPDAP il prospetto delle somme erogate a titolo di pensione provvisoria nel periodo dal 1.11998 al 30.6.2001 e con nota del 12.9.2008 la Direzione di Commissariato della Marina Militare di Taranto ha trasmesso all’INPDAP il prospetto delle somme erogate a titolo di pensione provvisoria nel periodo dal 29.12.1994 al 31.12.1997;
5) non risultano comunicazioni al ricorrente circa l’erogazione del trattamento di pensione definitiva fino all’ ottobre del 2008 allorquando gli è stato trasmesso il provvedimento di recupero dell’INPDAP, oggetto di impugnazione, ed il decreto ministeriale n. 209/2/M del 27.6.2008.

All’udienza del 19 gennaio 2016, il difensore del ricorrente ed il legale dell’INPS hanno insistito per le argomentazioni e le conclusioni dei rispettivi atti scritti ed il giudizio è stato definito, come da dispositivo, letto nella stessa udienza, di seguito trascritto. Ai sensi dell’art. 429 cpc, è stato fissato il termine di 60 giorni per il deposito della sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il presente giudizio costituisce la prosecuzione di quello già instaurato con ricorso depositato il 9.3.2009, respinto con sentenza n. 562/2010 di questa Sezione, annullata con sentenza n. 119/2015 della Sezione Centrale Terza di appello, che ha disposto il rinvio a questo giudice in diversa composizione.

Il ricorrente, già sottufficiale della Marina Militare, cessato dal servizio a decorrere dal 29.12.1994, contesta la legittimità della nota dell’INPDAP in data 21.10.2008 (successivamente l’INPDAP ha emanato il provvedimento di pari contenuto prot. 24923 dell’11.11.2008) con cui è stato comunicato, a suo carico, un indebito pensionistico di €. 35.095,66 per somme in più corrisposte dal 29.12.1994 al 30.6.2001.

Richiamato quanto emerso dagli atti di causa, riportato nella parte in fatto, evidenziato altresì che dai tabulati contabili rappresentativi dell’indebito, forniti dall’INPDAP, emerge che, contrariamente a quanto indicato nella comunicazione di indebito, quest’ultimo si riferisce a tutto il periodo di percezione della pensione provvisoria e non soltanto a quello in cui tale pensione è stata amministrata dal Ministero della Difesa (29.12.1994-30.6.2001), e rilevato, infine, che la differenza tra trattamento provvisorio e quello definitivo è dovuta, come chiarito dal Ministero della Difesa, ad erronei computi di alcune indennità (assegno funzionale, indennità di ausiliaria ed operativa) ed alla circostanza che la pensione provvisoria è stata liquidata in unica quota mente per quella definitiva si è correttamente distinta la quota A dalla quota B, reputa questo giudice che la domanda del sig. M. C., tesa alla dichiarazione di irripetibilità del predetto indebito, sia fondata.

L’esame demandato a questo giudice dalla Sezione centrale, di verifica dei presupposti del legittimo affidamento del pensionato, non può che portare ad un esito positivo.

Nella sentenza n. 2 del 2 luglio 2012 le Sezioni Riunite hanno affermato che “lo spirare di termini regolamentari di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo non priva, ex se, l’Amministrazione del diritto-dovere di procedere al recupero delle somme indebitamente erogate a titolo provvisorio; sussiste, peraltro, un principio di affidamento del percettore in buona fede dell’indebito che matura e si consolida nel tempo, opponibile dall’interessato in sede amministrativa e giudiziaria”.

“Tale principio va individuato attraverso una serie di elementi quali il decorso del tempo, valutato anche con riferimento agli stessi termini procedimentali, e comunque al termine di tre anni ricavabile da norme riguardanti altre fattispecie pensionistiche, la rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione, le ragioni che hanno giustificato la modifica del trattamento provvisorio e il momento di conoscenza, da parte dell’Amministrazione, di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo”.

Nella specie, dall’esame della sequenza dei fatti come sopra ricostruiti, deve ritenersi che si sia di certo ingenerato un legittimo affidamento da parte del ricorrente nella percezione di somme a titolo di pensione provvisoria, consolidatosi negli anni.

Emerge, invero, che il ricorrente dal dicembre 1994 ha percepito un trattamento provvisorio, inferiore sì al trattamento di attività ma non molto superiore, su base annua e soprattutto mensile, a quello liquidato in via definitiva solo quattordici anni dopo. Il maggior importo si riferisce a differenti computi di varie indennità per le quali l’amministrazione aveva fin dall’inizio tutti gli elementi per operare correttamente.

Viceversa, trattandosi di importi singolarmente non significativi, non può ritenersi che l’interessato, usando l’ordinaria diligenza, potesse accorgersi degli errori di calcolo della pensione provvisoria.

In definitiva, considerato che non risultano comportamenti colposi imputabili al ricorrente circa l’erronea liquidazione della pensione provvisoria, che nel lungo intervallo di tempo testé indicato non è intervenuto alcun atto idoneo a ingenerare dubbi sulla correttezza della liquidazione della pensione provvisoria, che l’amministrazione era in possesso di tutti gli elementi necessari ad una corretta liquidazione della pensione già al momento di determinazione del trattamento provvisorio e che, infine, gli errori contenuti nel provvedimento di liquidazione provvisoria non apparivano facilmente riconoscibili dal pensionato stesso, non può che concludersi che nella specie si sia ingenerato il legittimo affidamento del ricorrente nella stabilità della pensione percepita fino all’avvenuta comunicazione del credito erariale.

Alla luce delle suesposte considerazioni l’indebito di €. 35.095,66 è da ritenersi irripetibile.

In adesione all’orientamento della giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis Sez. III centrale di appello sent. n. 000113 del 13/03/2001, Sez. I centrale di appello sent. n. 000376 del 30/10/2007, n. 251 del 14.5.2012) - secondo cui l’irripetibilità delle somme indebitamente corrisposte a soggetti in buona fede che non consegue ad inadempimento o a ritardato adempimento di un'obbligazione, non inerendo ad un debito, non può produrre interessi corrispettivi o moratori né, tanto meno, può essere suscettibile di rivalutazione - la somma già trattenuta dall’INPS in esecuzione della comunicazione di indebito impugnata deve essere restituita nel solo ammontare della sorte capitale.

Considerata la peculiarità della controversia e degli oscillamenti giurisprudenziali sul tema della ripetibilità dell’indebito pensionistico all’epoca della proposizione del ricorso originario, sussistono i presupposti per la compensazione delle spese di giudizio tra le parti.

PER QUESTI MOTIVI

la Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per la Regione Puglia, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso n. 32334 proposto dal sig. M. C. e per l’effetto dichiara l’irripetibilità della somma di €. 35.095,66, indebitamente erogata al ricorrente, oggetto del provvedimento di recupero dell’INPDAP di Taranto, prot. n. 24923 del 21.10.2008, con diritto alla restituzione di quanto è stato trattenuto a seguito del suddetto provvedimento, senza aggravio di interessi e rivalutazione monetaria.

Spese compensate.

Fissa il termine di 60 giorni per il deposito della sentenza.
Così deciso, in Bari, all'esito della pubblica udienza del 19 gennaio 2016.
IL GIUDICE
F.to (Pasquale Daddabbo)


Depositata in Segreteria il 27/01/2016

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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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illegittimità della modifica apportata al proprio trattamento di quiescenza definitivo.
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1) - irripetibilità della somma, richiesta in restituzione dall’INPS, con nota in data 22.12.2014, a titolo di preteso indebito formatosi sulla pensione in godimento

2) - Risulta in atti che a decorrere dal 4.6.2004, data di collocamento ... in congedo assoluto, il Ministero della Difesa – Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri provvedeva a conferire e liquidare al medesimo il trattamento provvisorio di quiescenza.

3) - Successivamente, con decreto di pensione ordinaria del 26 ottobre 2007 veniva conferito il trattamento ordinario definitivo di pensione di euro 15.060,86, a decorrere dal 4.6.2004 ....

4) - A seguito di ricorso giurisdizionale proposto dal signor … avanti a questa Sezione, conclusosi con sentenza n. 231/2009, il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri provvedeva, con decreto .. del 26 maggio 2009, a riliquidare la pensione secondo il sistema retributivo, riconoscendo al ricorrente, grazie alla ricongiunzione di periodi assicurativi ai sensi della legge n. 29/1979, un’ anzianità contributiva , al 31.12.1995, superiore a diciotto anni utili. La pensione ordinaria annua lorda veniva quindi commisurata nella somma di euro 17.625,74 a decorrere dal 4.6.2004, adeguata ad euro 17.681,38 a decorrere dal 1.1.2005.

5) - Successivamente lo stesso Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, con decreto ... del 24 gennaio 2014, modificava nuovamente l’ammontare della pensione del ricorrente, adducendo preteso errore nel computo riportato nel decreto n. 278 del 26 maggio 2009.

6) - In punto di diritto il ricorrente contesta, nell’ambito del primo motivo di ricorso, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 203, 204 e 205 D.P.R. n. 1092/1973

7) - Secondo la prospettazione attorea i provvedimenti oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi in quanto opererebbero una modifica del trattamento pensionistico definitivo al di fuori dei limiti tassativi posti dagli artt. 203 e ss. D.P.R. n. 1092/1973. ( tre anni il limite temporale )

8) - La stessa Corte Costituzionale ha inoltre espressamente escluso l'illegittimità costituzionale delle disposizioni degli artt. 203, 204 e 205 del D.P.R. n. 1092 del 1973 (Corte Costituzionale, sent. n. 91/1984) e, recentemente, è tornata a pronunciarsi, con la sentenza n. 208 del 16 luglio 2014, sulla questione di illegittimità costituzionale dell'art. 204 cit., laddove tale norma non contempla tra le ipotesi di revoca l'errore di diritto, ribadendo il principio di tassatività che caratterizza le ipotesi di revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione e ritenendone la conformità a Costituzione della predetta disposizione. (Corte costituzionale, Sent. n. 208 del 16 luglio 2014).

Cmq, leggete il tutto qui sotto.
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PIEMONTE SENTENZA 15 29/02/2016


SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
PIEMONTE SENTENZA 15 2016 PENSIONI 29/02/2016


SENT. N. 15/16


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE
PER LA REGIONE PIEMONTE

in composizione monocratica nella persona del magistrato dott.ssa Ilaria Annamaria Chesta, quale giudice unico ai sensi dell’art. 5 della legge 21 luglio 2000, n. 205, come modificato dall’articolo 42 della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19818 proposto da B. A. OMISSIS, rappresentato e difeso dagli avv.ti Alessandro Sciolla (C.F. SCLLSN66M31F351J), Sergio Viale (C.F. VLISRG66A15L219Q) e Chiara Forneris (C.F. FRNCHR87D50L219H) del Foro di Torino, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dei primi in Torino, Corso Montevecchio n. 68, come da procura a margine del ricorso

CONTRO
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE - con sede in Roma, via Ciro Il Grande n. 21 (C.F. 80078750587), in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dagli avv.ti Giorgio Ruta (RTU GRG 55C09 H501X) e Patrizia Sanguineti (SNG PRZ 69A66 D969D) dell’Avvocatura dell’Istituto, giusta Procura generale alle liti rilasciata per atto a ministero del notaio Paolo Castellini rep. 80974, Rogito 21569 del 21.7.2015 e con loro elettivamente domiciliato in Torino, via dell’Arcivescovado n. 9;

MINISTERO della DIFESA, in persona del Ministro, legale rappresentante pro-tempore;

ARMA DEI CARABINIERI, in persona del legale rappresentante pro-tempore

“per l’annullamento

- della nota in data 22/12/2014 dell’INPS – Direzione Provinciale di Cuneo, con cui è stata comunicata al ricorrente la sussistenza di un indebito generato sulla sua pensione pari ad euro 3.008,83 ed è stato disposto il recupero della somma mediante ritenuta mensile sulla pensione a decorrere dalla rata di febbraio 2015 (doc. 1);

- del Decreto n. 66 del 24/01/2014 dell’Ufficio Trattamento Economico di Quiescenza del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri con cui è stata modificata la liquidazione della pensione del ricorrente (doc. 2);

nonchè per l’accertamento

- dell’illegittimità della modifica apportata al trattamento pensionistico definitivo del ricorrente e del conseguente diritto dello stesso al mantenimento della liquidazione della propria pensione come individuata nel decreto n. 278 del 26/05/20009;

- dell’irripetibilità della somma di euro 3.008,83 percepita dal ricorrente a titolo di trattamento pensionistico e del conseguente diritto alla restituzione di quanto l’INPS ha già trattenuto sui ratei di pensione del ricorrente erogati dal mese di febbraio 2015;

nonchè infine per la condanna

dell’INPS all’erogazione al ricorrente della pensione annua lorda pari ad euro 17.681,38 ed alla restituzione delle somme trattenute mensilmente sulla pensione del ricorrente a far data dal febbraio 2015, maggiorate con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, e con ogni ulteriore e conseguenziale statuizione di legge”.

VISTI gli atti e i documenti di causa;
UDITI all’udienza del 28 gennaio 2016 l’avv. Alessandro Sciolla e l’avv. Chiara Forneris in rappresentanza e difesa del ricorrente e l’avv. Giorgio Ruta in rappresentanza e difesa dell’INPS;

RILEVATO in
FATTO

Con ricorso ritualmente notificato alle Amministrazioni convenute e depositato presso la Segreteria di questa Sezione in data 24 settembre 2015 il signor A. B., già Appuntato Scelto dell’Arma dei Carabinieri, collocato in congedo assoluto a decorrere dal 4 giugno 2004 e titolare della pensione iscrizione n. 10291853, chiede la declaratoria di illegittimità della modifica apportata al proprio trattamento di quiescenza definitivo con decreto n. 66 del 24.1.2014 dell’Ufficio Trattamento Economico di quiescenza del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, nonché la pronuncia di irripetibilità della somma di euro 3.000,83, richiesta in restituzione dall’INPS, con nota in data 22.12.2014, a titolo di preteso indebito formatosi sulla pensione in godimento;
invoca conseguentemente la condanna dell’INPS alla corresponsione a proprio favore della pensione annua lorda sulla base della precedente liquidazione di cui al decreto del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri n. 278 del 26 maggio 2009, pari ad euro 17.681,38, e alla restituzione delle somme trattenute mensilmente sulla pensione del ricorrente, a far data dal febbraio 2015, maggiorate di interessi e rivalutazione monetaria.

Risulta in atti che a decorrere dal 4.6.2004, data di collocamento del signor B… in congedo assoluto, il Ministero della Difesa – Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri provvedeva a conferire e liquidare al medesimo il trattamento provvisorio di quiescenza iscrizione n. 10291853.

Successivamente, con decreto di pensione ordinaria n. 664 del 26 ottobre 2007 veniva conferito il trattamento ordinario definitivo di pensione di euro 15.060,86, a decorrere dal 4.6.2004, adeguato ad euro 15.104,60 a decorrere dal 1.1.2005.

A seguito di ricorso giurisdizionale proposto dal signor B… avanti a questa Sezione, conclusosi con sentenza n. 231/2009, il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri provvedeva, con decreto n. 278 del 26 maggio 2009, a riliquidare la pensione secondo il sistema retributivo, riconoscendo al ricorrente, grazie alla ricongiunzione di periodi assicurativi ai sensi della legge n. 29/1979, un’ anzianità contributiva , al 31.12.1995, superiore a diciotto anni utili. La pensione ordinaria annua lorda veniva quindi commisurata nella somma di euro 17.625,74 a decorrere dal 4.6.2004, adeguata ad euro 17.681,38 a decorrere dal 1.1.2005.

Rileva il ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio che tale ultima riliquidazione veniva pienamente “recepita dalla sede I.N.P.D.A.P. di Cuneo, che ha rimborsato quanto trattenuto illegittimamente (docc. 6 e 7 – comunicazione del 22/09/2009 e del 28/06/2010)”; osserva altresì che il trattamento pensionistico definitivo sarebbe stato erogato per le annualità dal 2004 al 2015 sulla base della liquidazione effettuata, in via definitiva, con il decreto n. 278 del 26 maggio 2009.

Successivamente lo stesso Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, con decreto n. 66 del 24 gennaio 2014, modificava nuovamente l’ammontare della pensione del ricorrente, adducendo preteso errore nel computo riportato nel decreto n. 278 del 26 maggio 2009.

Con nota del 22.12.2014 la Direzione Provinciale INPS di Cuneo informava il ricorrente dell’intervenuta riliquidazione disponendo contestualmente il recupero della somma di euro 3.008,63 mediante ritenuta mensile imponibile di euro 334,31 sulla pensione in godimento.

In punto di diritto il ricorrente contesta, nell’ambito del primo motivo di ricorso, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 203, 204 e 205 D.P.R. n. 1092/1973 nonché dei principi di proporzionalità, ragionevolezza ed imparzialità oltre al travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti.

Secondo la prospettazione attorea i provvedimenti oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi in quanto opererebbero una modifica del trattamento pensionistico definitivo al di fuori dei limiti tassativi posti dagli artt. 203 e ss. D.P.R. n. 1092/1973.

Nell’ambito della citata disciplina il legislatore avrebbe individuato in tre anni il limite temporale entro il quale la Pubblica Amministrazione può modificare il provvedimento di liquidazione definitivo della pensione a seguito di proprio errore; possibilità che sarebbe preclusa una volta superato il predetto termine.

Nella fattispecie la riliquidazione definitiva della pensione del signor B… sarebbe avvenuta con decreto n. 278 del 26.5.2009, “registrato in data 01/09/2009”, mentre l’Arma dei Carabinieri avrebbe modificato la liquidazione definitiva pensionistica il 24.01.2014, ossia quattro anni e mezzo dopo la registrazione del provvedimento, asseritamente intervenuta in data 1.9.2009.

Tale tipologia di errore rientrerebbe esattamente tra quelle descritte dall’art. 204 lett. a) e b) del D.P.R. n. 1092/1973 in quanto sarebbe causato dalla mancata considerazione di elementi già risultanti dagli atti e riguarderebbe il calcolo e l’ammontare della pensione: la modifica dell’importo pensionistico sarebbe infatti giustificato dal preteso errore consistente nel non aver tenuto conto che l’interessato aveva meno di 15 anni utili di anzianità al 31.12.1992 ovvero di un elemento già riscontrato in precedenza.

Secondo la tesi difensiva del ricorrente, quindi, una volta rilevato il decorso del termine, andrebbe disposto “il necessario annullamento del decreto n. 66 ed il riconoscimento del diritto del ricorrente a veder disciplinato il proprio trattamento pensionistico, anche per il futuro, in base al solo decreto n. 278 del 26/05/2009, con una pensione annua, “da durare a vita”, pari a euro 17.681,38”, con conseguente richiesta di restituzione di quanto indebitamente trattenuto.

Con un secondo motivo di ricorso il signor B… rileva che, anche in relazione al merito del preteso errore addotto dall’Amministrazione, i provvedimenti impugnati sarebbero comunque illegittimi in quanto adottati in violazione dell’art. 40 D.P.R. n. 1092/1973, che prevede l’arrotondamento delle frazioni di anno e stabilisce espressamente che la frazione superiore a sei mesi debba essere computata come anno intero.

Precisa il ricorrente che, seppur la disposizione risulti implicitamente abrogata dall’art. 59 L. n. 449/1997, gli effetti debbano ritenersi operare esclusivamente per le anzianità contributive maturate a partire dal 1.1.1998 e non possa essere applicata al computo degli anni di anzianità fino al 31.12.1992: la disposizione non potrebbe quindi valere per il ricorrente, che avrebbe maturato anteriormente al 31.12.1992 un’ anzianità contributiva pari a 14 anni, 7 mesi e 2 giorni, con frazione del 14° anno superiore a sei mesi.

Sussisterebbe quindi pienamente il diritto del signor B… a vedersi riconosciuti 15 anni di anzianità contributiva al 31.12.1992.

Con un terzo motivo di ricorso il signor B… contesta una violazione dell’art. 206 D.P.R. n. 1092/1973 secondo il quale sarebbe possibile il recupero delle somme corrisposte indebitamente nella sola ipotesi, tassativa, di accertamento di un fatto doloso del pensionato che abbia cagionato la modifica del trattamento pensionistico; circostanza ritenuta insussistente nella fattispecie.

La difesa del ricorrente evidenzia altresì che l’irripetibilità della somma percepita dal ricorrente conseguirebbe, oltre che dalle norme sopra richiamate, anche dalla tutela del legittimo affidamento.

Richiama a tal fine la giurisprudenza contabile, con particolare riguardo ai principi enunciati dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti con la sentenza n. 2/QM/2012. Sarebbe infatti evidente la posizione di legittimo affidamento ingeneratosi nel ricorrente in merito all’ammontare della propria pensione, come individuata in via definitiva nel 2009.

In via di subordine, per la denegata ipotesi in cui dovessero considerarsi ripetibili le somme erogate al ricorrente, la difesa eccepisce la parziale prescrizione del credito vantato dall’INPS, con riguardo alle somme percepite in data anteriore al 31.12.2004 ovvero, in base all’atto di recupero, nel periodo 4.9.2004 -31.12.2004. In ultimo, il ricorrente contesta i conteggi effettuati dall’INPS in relazione alla quantificazione dell’indebito chiedendo che, in caso di mancato accoglimento delle doglianze relative all’illegittimità della modifica della liquidazione definitiva ed all’irripetibilità totale delle somme richieste, la condanna alla restituzione delle somme non dovute sia limitata- sulla base dei conteggi effettuati e depositati dallo stesso ricorrente- all’importo di euro 1.106,12, maggiorati con interessi legali e rivalutazione.

Con memoria difensiva depositata presso la Sezione in data 15 gennaio 2016 si è costituito in giudizio l’INPS chiedendo, in via principale, di rigettare integralmente il ricorso e, in subordine, in ipotesi di pronuncia di irripetibilità delle somme indebitamente percepite da parte ricorrente, di ritenere e dichiarare il diritto dell’Istituto previdenziale ad ottenerne la rifusione da parte del Ministero della Difesa – Arma dei Carabinieri, con conseguente condanna di quest’ultimo a corrispondere all’INPS la somma equivalente a quanto erogato dall’Istituto in eccedenza sul trattamento di quiescenza del ricorrente dal 1.1.2006.

In punto di diritto la difesa dell’INPS argomenta in ordine al preteso “diritto/dovere dell’Istituto di ripetere, ex art. 2033 c.c. e 162 del D.P.R. n. 1092/1973, le somme indebitamente percepite a titolo di trattamento provvisorio di quiescenza”.

Secondo la prospettazione difensiva dell’Istituto previdenziale, ai sensi dell’art. 162 citato, l’azione di ripetizione di quanto indebitamente percepito dal pensionato sul trattamento provvisorio di quiescenza, come accertato e determinato per effetto dell’avvenuta comunicazione, da parte dell’Amministrazione Statale ex datrice di lavoro, del provvedimento di liquidazione del trattamento definitivo, si configurerebbe come atto dovuto, con il limite rappresentato dalle sole modalità di detto recupero, che non dovrebbero essere eccessivamente gravose; l’INPS richiama a supporto della propria tesi la giurisprudenza contabile, con particolare riguardo alla pronuncia n. 2/QM/2012.

Rileva altresì la difesa dell’Istituto la circostanza che, in tutti i casi in cui il provvedimento di pensione sia stato emesso e riliquidato dall’Amministrazione ex datrice di lavoro, quest’ultima dovrebbe ritenersi il principale interlocutore processuale in quanto ordinatore primario della spesa, avendo proceduto direttamente al calcolo e alla quantificazione dell’ammontare del detto trattamento. Secondo tale prospettazione il fondamento normativo dell’azione di “rivalsa” che l’Istituto intende esperire nei confronti del Dicastero si rinverrebbe quindi nelle disposizioni che disciplinano il procedimento di liquidazione della pensione di cui al D.P.R. n. 1092/1973 e, ove necessario, richiamando in via analogica i principi espressi nell’art. 8, secondo comma, del D.P.R. n. 536/1986 e, prima ancora, nell’art. 30, comma 4, del D.L. 28.2.1983 n. 55, convertito nella Legge n. 131/1983.

Richiamando l’orientamento giurisprudenziale favorevole alla tesi sostenuta la difesa dell’INPS evidenzia inoltre che i principi derivanti da tali disposizioni, tenuto conto della sopravvenuta omogeneizzazione a livello legislativo dei sistemi pensionistici dei dipendenti pubblici, dovrebbero ritenersi avere valenza generale per cui dovrebbero ritenersi applicabili a tutta la gamma di pensioni amministrate dall’INPS (Gestione ex INPDAP). In ordine alla predetta domanda, anche in linea con il più recente orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, non dovrebbe quindi dubitarsi in ordine alla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti. L’INPS insiste quindi per l’accoglimento delle rassegnate conclusioni.

Con successiva memoria in data 15 gennaio 2016 il signor B… ha richiamato i contenuti dell’atto introduttivo ribandendo che la riliquidazione della pensione effettuata con il decreto n. 66 del 24.1.2014 si porrebbe in violazione degli artt. 203, 204 e 205 D.P.R. n. 1092/1973 in quanto giunta ben oltre il limite temporale entro il quale può essere revocato o modificato il trattamento pensionistico definitivo. Pertanto il signor B… vanterebbe il diritto alla reintegrazione della pensione annua lorda di euro 17.681,38, come individuata nel decreto n. 278 del 26.5.2009.

Il ricorrente ha rammentato altresì che nella denegata ipotesi in cui si ritenesse sussistente l’indebito generato sulla pensione il recupero delle somme sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 206 d.p.r. n. 1092/1973. Secondo la prospettazione difensiva l’indebito sarebbe irripetibile anche applicando i principi individuati dalla giurisprudenza per il recupero dei conguagli tra pensione provvisoria e definitiva; da ciò l’illegittimità della trattenuta effettuata dall’INPS e l’obbligo di restituzione maggiorato di interessi e rivalutazione.

All’udienza in data 28 gennaio 2016 sono comparsi l’avv. Alessandro Sciolla e l’avv. Chiara Forneris in rappresentanza e difesa del ricorrente e l’avv. Giorgio Ruta in rappresentanza e difesa dell’INPS. Nessuno è comparso per il Ministero della Difesa e per l’Arma dei Carabinieri.

L’Avv. Alessandro Sciolla ha illustrato i motivi di ricorso replicando alla memoria INPS e sottolineando che la fattispecie in esame riguarderebbe ipotesi di indebito derivante da riliquidazione di una pensione definitiva e non di indebito formatosi per differenza tra liquidazione di trattamento di quiescenza provvisorio e pensione definitiva. Ha altresì evidenziato che tale riliquidazione è dovuta ad errore nel computo o, comunque, ad errore di diritto e sarebbe avvenuta oltre il termine triennale non essendo imputabile a comportamento doloso del ricorrente. Ha infine rilevato che la riliquidazione effettuata nel 2014 è stata disposta d’ufficio e non su istanza del ricorrente insistendo per l’accoglimento delle conclusioni.

L’Avv. Giorgio Ruta, in rappresentanza dell’INPS, ha richiamato la memoria sottolineando che alcun errore sarebbe comunque imputabile all’Istituto previdenziale, il quale è organo esecutore delle determinazioni dell’Amministrazione datrice di lavoro. Ha inoltre depositato le ordinanze n. 41/2015 e n. 56/2015 della Sezione Giurisdizionale per la Regione Liguria in relazione alla domanda di rivalsa, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni.

Ritenuto in
DIRITTO

Il thema decidendum del presente giudizio concerne la valutazione di ammissibilità e legittimità della modifica in peius del trattamento pensionistico definitivo di quiescenza di titolarità del ricorrente, intervenuta con decreto n. 66 del 24.1.2014 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, in riforma del precedente decreto n. 278 del 26 maggio 2009 con il quale lo stesso Comando aveva già disposto una prima riliquidazione del trattamento ordinario definitivo di pensione del signor B… secondo il sistema retributivo nonchè l’accessoria domanda volta all’accertamento di pretesa irripetibilità della somma di euro 3.008,83, trattenuta a titolo di indebito pensionistico in forza dell’atto di recupero INPS del 22.12.2014.

Va preliminarmente rilevato che - secondo quanto chiarito da un consolidato orientamento della giurisprudenza contabile –il processo pensionistico pubblico celebrato dinanzi alla Corte dei conti, seppur introdotto mediante ricorso avverso atti o comportamenti della pubblica amministrazione, costituisce espressione di un giudizio sul rapporto anziché sull’atto; questa Corte non conosce, quindi, della legittimità di un atto al fine di eventualmente disporne l'annullamento, bensì valuta, in termini sostanziali, del concreto rapporto pensionistico dedotto in giudizio. Ne consegue che, ancorché il ricorso venga strutturato come impugnazione di atti del Ministero della Difesa e dell’INPS (peraltro di natura paritetica), lo stesso ha per oggetto il rapporto obbligatorio di quiescenza in essere tra le parti nella sua globalità e non il mero sindacato sulla legittimità degli atti posti a suo fondamento (in tal senso ex plurimis Corte dei conti, Sez. Giur. Puglia, n. 1596/2013; Corte dei conti, Sez. Giur. Liguria, n. 95/2014; Corte dei Conti, Sez. Giur. Trentino, n. 15/2014).

Nel merito, per quanto concerne la presente fattispecie, va in primo luogo rilevato che, antecedentemente alla modifica introdotta con il decreto n. 66/2014, la pensione di cui già beneficiava il signor B… era stata liquidata in via definitiva in forza del decreto n. 278 del 26.5.2009 non emergendo da quest’ultimo provvedimento alcun elemento da cui possa desumersi la natura provvisoria prospettata dalla difesa dell’Istituto previdenziale. Più precisamente, per quanto risultante agli atti, il predetto decreto definitivo di pensione n. 278/2009 era stato adottato dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri in modifica del precedente provvedimento di riconoscimento di pensione ordinaria n. 664/2007, a seguito di proposizione di un precedente ricorso giurisdizionale da parte dell’attuale ricorrente.

Deve ritenersi, pertanto, che i parametri normativi per la valutazione dell’azione amministrativa che ha dato luogo alla presente controversia vadano ricercati nell’alveo della disciplina della revoca e della modifica del provvedimento definitivo di quiescenza, di cui agli articoli 203, 204 e 205 del citato D.P.R. 1092 del 1973.

In particolare, l’articolo 203 prevede che “Il provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza può essere revocato o modificato dall'ufficio che lo ha emesso, secondo le norme contenute negli articoli seguenti”. Al successivo articolo 204 si legge che “La revoca o la modifica di cui all'articolo precedente può aver luogo quando:
a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti;
b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo del riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennità o nell'applicazione delle tabelle che stabiliscono le aliquote o l'ammontare della pensione, assegno o indennità;
c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l'emissione del provvedimento;
d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi”. Infine, ai sensi dell’articolo 205, primo comma, “Nei casi previsti nelle lett. a) e b) dell'art. 204 il provvedimento è revocato o modificato d'ufficio non oltre il termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso; nei casi di cui alle lett. c) e d) di detto articolo il termine è di sessanta giorni dal rinvenimento dei documenti nuovi dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità dei documenti”.

Sulla base del predetto quadro normativo questo Giudice è chiamato valutare se la fattispecie in esame rientri nelle ipotesi in cui sia assentita la modifica del trattamento di pensione definitivo, in virtù della disciplina contenuta nelle predette disposizioni di legge.

Al riguardo va richiamata la pronuncia n. 15/2011/QM con la quale le Sezioni riunite di questa Corte, nell’affrontare la questione della modificabilità del trattamento di quiescenza definitivo per la pensionistica di guerra, hanno preso in esame, incidentalmente ma puntualmente, la disciplina vigente per la pensionistica ordinaria, delineandone i profili di coincidenza e di differenziazione con quella oggetto di scrutinio diretto.

In tale occasione, le Sezioni Riunite hanno precisato che la normativa speciale, di cui agli artt. 203 e ss. del D.P.R. n. 1092 del 1973, ispirata ad un favor nei confronti del pensionato, delinea una casistica compiuta e chiusa dei casi nei quali il provvedimento pensionistico definitivo può essere annullato d'ufficio, dovendosi ritenere che, al di fuori di essa, non sia ammissibile alcuna altra forma di autotutela; secondo tale prospettiva la disciplina in esame è da considerare addirittura più favorevole rispetto a quella della pensionistica di guerra, in quanto, a differenza di quest'ultima, prevede termini precisi entro i quali la "revoca" della pensione può essere disposta.

La pronuncia delle Sezioni Riunite si pone in linea con un orientamento giurisprudenziale che può dirsi consolidato: in una pluralità di fattispecie il giudice contabile, in ordine a questioni del tutto analoghe, ha statuito che “l'annullamento totale o parziale dei provvedimenti definitivi di quiescenza può ritenersi consentito all'Amministrazione soltanto nelle ipotesi ed alle condizioni espressamente previste dall' art. 203 del D.P.R. n. 1092 del 1973, rimanendo quindi preclusa tale possibilità in presenza di un errore di diritto” (ex plurimis Corte dei conti, Sez. Sardegna, n. 51/2015; Sez. Giur. Reg. Friuli-Venezia Giulia, sent. n. 129 del 20 giugno 2001; Sez. Giur. Reg. Sic., sent. n. 2149 del 19 novembre 2002) pur ammettendosi la possibilità, comunque, di modifiche migliorative del trattamento pensionistico, essendovi facoltà in tali casi per l'Amministrazione di emendare i provvedimenti dai precedenti errori, senza però ridurre il trattamento pensionistico in atto attribuito, con preclusione della ripetizione delle maggiori somme eventualmente percepite dal pensionato.

La stessa Corte Costituzionale ha inoltre espressamente escluso l'illegittimità costituzionale delle disposizioni degli artt. 203, 204 e 205 del D.P.R. n. 1092 del 1973 (Corte Costituzionale, sent. n. 91/1984) e, recentemente, è tornata a pronunciarsi, con la sentenza n. 208 del 16 luglio 2014, sulla questione di illegittimità costituzionale dell'art. 204 cit., laddove tale norma non contempla tra le ipotesi di revoca l'errore di diritto, ribadendo il principio di tassatività che caratterizza le ipotesi di revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione e ritenendone la conformità a Costituzione della predetta disposizione.

Il Giudice delle Leggi ha posto in chiara evidenza come le diverse ragioni dell'amministrazione e del pensionato trovino equilibrato componimento nella normativa che disciplina la liquidazione della pensione, articolandola in una duplice fase, la prima di liquidazione provvisoria, la seconda di liquidazione definitiva.

Secondo la sentenza citata, tale duplice fase liquidatoria "risponde all'esigenza di assicurare al pubblico dipendente collocato a riposo un reddito nel periodo immediatamente successivo alla cessazione della corresponsione dello stipendio ed, al contempo, di consentire una valutazione ponderata degli elementi di fatto e della portata della normativa da applicare per la liquidazione pensionistica. Necessitando quest'ultima valutazione di un congruo lasso temporale, la liquidazione provvisoria assicura la continuità nella percezione del reddito che, nel caso del pubblico dipendente, costituisce generalmente il solo o principale mezzo di sostentamento" (Corte costituzionale, Sent. n. 208 del 16 luglio 2014).

In sostanza, secondo la Corte costituzionale, la fase interinale costituisce un passaggio fisiologico e necessario nel percorso verso la liquidazione definitiva, poiché essa "suscettibile di prolungarsi anche oltre i termini previsti dall' art. 2 della L. n. 241 del 1990 o dai regolamenti attuativi di settore per l'adozione del decreto pensionistico definitivo - serve ad assicurare la continuità della prestazione retributiva, rimanendo impregiudicata la possibilità per l'amministrazione di correggere eventuali errori di qualsiasi genere in sede definitiva"(Corte costituzionale, Sent. n. 208 del 16 luglio 2014).

La Consulta individua quindi una differenziazione netta tra la fase che intercorre tra la liquidazione provvisoria e l’emissione del provvedimento di riconoscimento di pensione definitiva– nell’ambito della quale l'amministrazione conserva ampi margini di revoca o modifica del trattamento pensionistico qualora lo riconosca affetto da errori di qualsiasi genere- e la fase successiva alla liquidazione definitiva, in cui la situazione cambia radicalmente, individuandosi tassativamente i limiti e i termini di modificabilità del provvedimento dettati dalla normativa di settore.

A questo riguardo, la Corte costituzionale ha anche esaminato le diverse ipotesi previste dall'art. 204 del D.P.R. n. 1092 del 1973, richiamate dal giudice rimettente quale tertium comparationis con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione; in tale contesto, nel valutare le ipotesi di revoca e/o modifica del provvedimento definitivo per errore di fatto e per errore di calcolo in rapporto all’errore di diritto, la Corte Costituzionale ha quindi precisato che le situazioni non sono comparabili poiché “mentre l’errore di fatto consiste nella falsa percezione, per equivoco o svista, di quanto emerge incontrovertibilmente dagli atti e quello di calcolo deriva dall’erronea applicazione delle regole matematiche sulla base di dati numerici certi, l’errore di diritto è concetto in ordine alla cui individuazione assumono un peso rilevante argomentazioni induttive ed indagini ermeneutiche. L’oggettività e l’immediatezza che caratterizzano la rilevazione degli errori di fatto e di calcolo differiscono in modo sostanziale dai connotati del giudizio che accompagna la valutazione della violazione, falsa applicazione o erronea interpretazione di una norma…” aggiungendo che, per quanto concerne l’errore di diritto, la sua percezione “… non gode della medesima immediatezza. In tal modo la revoca o la rettifica eventualmente adottate entrano più facilmente in contrasto con il convincimento indotto nel pensionato dalla già intervenuta applicazione, in senso diverso e per lui più favorevole, della norma oggetto di reinterpretazione” (Corte costituzionale, sent. n. 208 del 16 luglio 2014).

Poste tali premesse, occorre verificare la natura dell’errore che ha condotto l’Amministrazione a modificare il trattamento definitivo di cui al decreto n. 278/2009, in ordine al quale era peraltro già intervenuto il pronunciamento di questa stessa Sezione (sent. n. 231/2009) che, proprio a fronte dell’adozione del predetto atto, aveva dichiarato la parziale cessazione della materia del contendere in relazione al ricorso illo tempore proposto dal signor B…. Nell’atto introduttivo del giudizio il ricorrente afferma che la modifica in pejus del proprio trattamento dovrebbe rientrare nella ipotesi di cui ai capi a) e b) dell’art. 204 del T.U. n. 1092/1973 “sia perché è stato causato dalla mancata considerazione di elementi già risultanti dagli atti (il decreto n. 278 del 26/5/2009 riportava espressamente il computo dell’ anzianità al 31/12/1992 in 14 anni, 7 mesi e 2 giorni – cfr. pag. 1 doc. 5 tabella “serie dei servizi quota 2”) sia perché l’errore riguarda il calcolo e l’ammontare della pensione” (pag. 6 ricorso); secondo quanto precisato dalla difesa del ricorrente nel corso dell’udienza di discussione in data 28.1.2016 l’errore di cui trattasi potrebbe comunque qualificarsi come errore di diritto. In entrambe le ipotesi, secondo la tesi attorea, il decreto definitivo di pensione n. 278/2009 non sarebbe più stato modificabile, quantomeno per essere intervenuto oltre i termini di legge.

Orbene, nella vicenda in esame si osserva che la riliquidazione del trattamento pensionistico ordinario del ricorrente, avvenuta con il decreto n. 66 del 24 gennaio 2014 impugnato, appare determinata da una diversa interpretazione dell’art. 40 del d.p.r. n. 1092/1973 in relazione all’art. 59 c. 1 della l. n. 449/1997 con riferimento agli arrotondamenti di frazioni di anno ai fini della determinazione dell’ anzianità contributiva : nell’ambito della liquidazione della pensione ordinaria di cui al decreto n. 278 del 26 maggio 2009 l’ anzianità contributiva pari a 14 anni, 7 mesi e 2 giorni al 31.12.1992 (già riconosciuta nel prospetto riepilogativo dei servizi utili al trattamento di quiescenza emesso il 11.3.2004 del Comando Regionale Carabinieri di Piemonte e Valle d’Aosta) era stata oggetto di arrotondamento a 15 anni (in forza della disposizione di cui al citato art. 40) mentre nel successivo decreto n. 66/2014 è prevalsa l’interpretazione secondo la quale tale arrotondamento non potesse più ritenersi ammesso, dovendo considerarsi la norma implicitamente abrogata anche con riguardo ai servizi svolti antecedentemente all’entrata in vigore dell’art. 59 L. n. 449/1997.

Per quanto emergente dagli atti di causa l'intervento si appalesa quindi mirato a eliminare un preteso errore di diritto che, secondo costante giurisprudenza, non può ritenersi rientrare tra i casi che consentono interventi modificativi del trattamento pensionistico definitivo.

Ciò in quanto, secondo quanto affermato recentemente dalla Corte Costituzionale, "L'esclusione della rilevanza dell'errore di diritto dai casi consentiti di modifica o revoca del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza non è irragionevole o arbitraria, essendo volta - come detto - a soddisfare esigenze di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento le quali, già cedevoli nella fase interinale precedente alla liquidazione definitiva, prevalgono successivamente, per effetto di un diverso bilanciamento con l'interesse antagonista del ripristino della legittimità dell'azione amministrativa" (Corte Cost. sent. n. 208/2014).

Pertanto, poiché i provvedimenti definitivi di pensione non possono essere modificati o revocati esclusivamente in relazione a profili di nuova interpretazione e riconsiderazione, sul piano strettamente giuridico, di elementi già desumibili e verificati nei precedenti provvedimenti deve escludersi che il decreto di liquidazione della pensione ordinaria n. 276/2009 potesse subire la modificazione in peius introdotta con il successivo decreto n. 66/2014.

Peraltro, anche qualora la modifica del trattamento definitivo volesse ascriversi, come inizialmente prospettato dal ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito dell’errore di fatto ovvero nel computo dei servizi di cui alle lettere a) e b) dell’art. 204 d.p.r. n. 1092/1973, la rideterminazione di cui al decreto n. 66/2014 dovrebbe ritenersi comunque assunto in violazione dell’art. 205 del citato d.p.r. che prevede che "il provvedimento è revocato o modificato non oltre il termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso".

Termine che dovrebbe ritenersi, a fortiori, superato anche sul rilievo che “i provvedimenti pensionistici, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 20/94 non rientrano più tra quelli sottoposti a controllo preventivo e, pertanto, a maggior ragione il termine triennale previsto dai citati artt. 203 e seguenti del D.P.R. n.1092/1973 decorre dalla data della loro emanazione” (Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia n. 150/2010; Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia n. 78/2015).

Il decreto di riliquidazione della pensione ordinaria (n. 66/2014) è stato adottato ben oltre il termine triennale previsto dalla norma su richiamata e, pertanto, anche sotto questo aspetto, l'intervento modificativo non avrebbe potuto essere adottato; risulta infatti che il Decreto definitivo di pensione n. 276 sia stato adottato in data 26 maggio 2009, registrato presso la Ragioneria Provinciale dello Stato de L’Aquila in data 1 settembre 2009 e presso la Corte dei conti, Sezione Regionale di Controllo de L’Aquila, il 9 aprile 2010 (cfr. attestazione doc. 2 fascicolo amministrativo prodotto dall’INPS in data 16 ottobre 2015) mentre il decreto qui impugnato n. 66 risulta assunto in data 24.1.2014.

Atteso quanto sopra, ritenute assorbite le diverse censure prospettate da parte ricorrente, anche in forza del criterio della ragione più liquida (cfr. Cass., Sez. VI, n. 12002/2014), consegue che il signor B… ha diritto ad aver ripristinato l'originario trattamento pensionistico ordinario disposto con Decreto n. 278 del 26.5.2009. Sulle maggiori somme da corrispondere in relazione ai singoli ratei vanno riconosciuti interessi e rivalutazione secondo il criterio dell'assorbimento.

Va altresì restituita da parte dell’INPS al ricorrente la somma recuperata in seguito all’adozione della nota INPS- Direzione Provinciale di Cuneo del 22.12.2014, in applicazione del Decreto n. 66 del 24.1.2014 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri.

In considerazione della circostanza che, in ordine al predetto recupero, l'Amministrazione ha agito in carenza di potere perché in violazione del divieto di riforma del provvedimento di liquidazione definitivo oltre il termine triennale di cui all’art.205 d.p.r. n. 1092/1973 e, conseguentemente, la restituzione della somma non è dipesa da un indebito pensionistico, anche sulle somme restituite vanno corrisposti al ricorrente gli accessori di legge (cfr. Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia, n. 521/2015).

Non può invece ritenersi correttamente proposta né, quindi, esaminata nel merito la domanda di rivalsa avanzata dall'INPS - Gestione ex INPDAP nei confronti del Ministero della Difesa- Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, tesa alla rifusione della somma ritenuta irripetibile.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di affermare che, per il giudizio di rivalsa che l'Istituto intende promuovere nei confronti dell'Amministrazione, non si verta in ipotesi di litisconsorzio necessario con l'Amministrazione stessa, nell'ambito del giudizio sulla ripetibilità nei confronti del pensionato e che non sia, quindi, necessaria la contestualità, considerata l'autonomia delle due diverse pretese azionate e la conseguente autonomia dei relativi giudizi (ex plurimis Corte dei conti, Sez. Giur I d'Appello, sent. n. 459 del 20.3.2014, sent. n. 418 del 14.3.2014, sent. n. 340 del 28.2.2014).

E’ stato osservato, in proposito, che la domanda subordinata di rivalsa proposta dall'Ente previdenziale introduce una controversia diversa - sia per petitum, che per causa petendi - rispetto alla domanda di irripetibilità del pensionato, ben potendo la predetta domanda essere proposta anche in autonomo giudizio (ex plurimis Corte dei Conti, Prima Sezione Centrale d'Appello n. 764/2012, id. n. 766/2012; Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale del Veneto n. 42/2013, n. 47/2013).

E’ stato altresì rilevato che la trattazione congiunta alla domanda proposta dal ricorrente, della pretesa di rivalsa avanzata dall’INPS nei confronti del Ministero, ordinatore primario di spesa, espone a dilatare ingiustificatamente ed eccessivamente i tempi di durata e di definizione del processo da contenersi, invece, nei limiti del principio di ragionevolezza, presidiato da norma di rango costituzionale (art. 111, c. 2, Cost.) con conseguente rigetto della richiesta di integrazione del contraddittorio formulata dall'I.N.P.S nelle ipotesi in cui l’Amministrazione datrice di lavoro non sia stata contestualmente evocata in giudizio dallo stesso ricorrente.

Questa Sezione, sulla base di analoghe argomentazioni, ha escluso l’accoglibilità della predetta domanda anche nell’ipotesi in cui l’Amministrazione ordinatrice primaria di spesa risultasse già evocata in giudizio dal ricorrente, contestualmente all’INPS (Corte dei conti, Sez. Giur. Piemonte, sent. n. 36/2014; id. n. 142/2014).

La Sezione ha avuto modo di affermare, in proposito, che la domanda, avanzata dall’I.N.P.S. in subordine, di condanna diretta dell’Amministrazione datrice di lavoro, debba ritenersi esulare dal giudizio incardinato dal ricorrente con diverso petitum, facendo rilevare in proposito che “… le attribuzioni di ordinatore principale e secondario di spesa costituiscono una mera ripartizione di competenza di apparati della pubblica amministrazione comunque costituenti nel loro complesso la figura di obbligato passivo (v. C. conti, sez. III, 4 luglio 2001, n. 175/A). Né ai fini del giudizio rileva l’eventuale responsabilità di chi ha concretamente operato, trattandosi soltanto di accertare in questa sede se sussiste o meno il diritto vantato dal ricorrente” (Corte dei conti, Sez. Giur. Piemonte, sent. n. 36/2014).

Si richiama, sul punto l’orientamento espresso dalle Sezioni Centrali d’appello (I^ Sez. Giur. Centr. App. n. 767/2012/A e n. 109/2013) in cui è ribadito “il carattere organizzatorio ed interno della questione relativa all’incidenza finale degli oneri derivanti da una pronuncia di irripetibilità dell’indebito e ciò per la struttura sostanzialmente unitaria dell’Amministrazione e l’estraneità ad un giudizio a tal fine incardinato, della domanda relativa all’individuazione del soggetto cui devono essere addossati da ultimo gli oneri economici risultanti dalla corresponsione delle somme risultate non dovute (e dichiarate, come nella specie, anche se solo in parte, irripetibili) (Corte dei conti, Sez. Giur. Piemonte, n. 36/2014; Corte dei conti, Sez. Lazio, n. 331/2014).

In relazione alla medesima domanda di rivalsa appare peraltro dirimente e preliminare ad ogni considerazione di merito il mancato rispetto delle norme circa l’instaurazione del contraddittorio (cfr. Corte dei conti, Sez. I App. n. 449/2015; Corte dei conti, Sez. Lazio, n. 331/2014).

Come evidenziato dalla giurisprudenza contabile in fattispecie analoghe, la pretesa avanzata in via subordinata dall’INPS “non può configurarsi come domanda riconvenzionale, posto che essa non è stata proposta nei confronti dell’attore del presente giudizio, ma nei confronti di altro soggetto convenuto dall’attore e senza le forme che garantiscono il rispetto del principio del contraddittorio” (cfr. Corte dei conti, Sez. Lazio, n. 331/2014; Corte dei conti, Sez. I App. n. 449/2015).

Anche volendo ammettersi, quindi, la proponibilità di una domanda trasversale di rivalsa nell’ambito del processo pensionistico avanti alla Corte dei conti, come formulata nel caso di specie dall’Istituto Previdenziale, reputa questo Giudice che la stessa dovrebbe comunque soggiacere all'onere di garantire la corretta instaurazione del contraddittorio tra le parti convenute nelle ipotesi che le stesse spieghino reciprocamente autonome domande (sugli aspetti processuali si fa rinvio alla sentenza di questa Sezione n. 29/2013 che richiama le pronunce delle SS.RR. della Corte dei conti, nn. 2/QM/2002 e 4/QM/2004).

Si rileva appena che la preclusione all’esame nel merito della domanda riconvenzionale nel presente processo non esclude la proponibilità della stessa nell’ambito di un autonomo giudizio.

Quanto alla regolamentazione delle spese, si osserva preliminarmente che risulta applicabile, ratione temporis, alla fattispecie, la modificazione dell’art. 92 c.p.c. introdotta dall’art. 13 d.l. n. 132 in data 12.9.2014, convertito nella legge 10 novembre 2014, n. 162. Tenuto conto dei richiamati recenti interventi giurisprudenziali sulla questione concernente la “revoca”, per errore, della pensione definitiva si reputano sussistenti i presupposti per la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione Piemonte, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, respinta ogni diversa domanda, eccezione, deduzione
ACCOGLIE

il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, dichiara il diritto del signor B. A. a vedere ripristinato il trattamento pensionistico disposto con decreto n. 278 del 26 maggio 2009 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri nonché all’integrale restituzione al medesimo delle somme indebitamente trattenute in forza della nota INPS- Direzione Provinciale di cuneo in data 22.12.2014 ed alla corresponsione, su quanto dovuto in esecuzione della presente sentenza, della maggior somma tra interessi legali e rivalutazione monetaria, ai sensi dell’art. 429, c.3 c.p.c., tenuto conto dei principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte dei conti, n. 10/2002/QM del 18 ottobre 2002.

Spese compensate.

Ai sensi dell’art. 429 c.p.c. fissa in sessanta giorni il termine per il deposito della motivazione
Così deciso in Torino il 28 gennaio 2016.

Il GIUDICE
(F.to dott.ssa Ilaria Annamaria Chesta)


Depositata in Segreteria il 29 Febbraio 2016


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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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Il collega perde l'appello al CdS.

1) - recupero di somme stipendiali non dovute

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SENTENZA BREVE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201602634
- Public 2016-06-15 -


N. 02634/2016REG.PROV.COLL.
N. 02115/2016 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

ex artt. 38 e 60 c.p.a. sul ricorso n. 2115/2016 RG, proposto da OMISSIS, rappresentato e difeso dall'avv. Luigi Paccione, con domicilio eletto in Roma, via Cosseria n. 2, presso l’avv. Placidi,

contro
il Ministero della difesa, in persona del Ministro pro tempore ed il Comando generale dell'Arma dei Carabinieri, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12,

per la riforma
della sentenza del TAR Puglia – Bari, sez. I, n. 1087/2015, resa tra le parti e concernente il recupero di somme stipendiali non dovute;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle parti intimate;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore alla Camera di consiglio del 12 maggio 2016 il Cons. Silvestro Maria Russo e uditi altresì, per le parti, l'avv. Masini (su delega di Paccione) e l’Avvocato dello Stato Varrone;
Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 c.p.a.;


Ritenuto in fatto che il sig. OMISSIS, maresciallo capo dei CC, a causa di sue varie e gravi patologie in data 6 febbraio 2007, fu dichiarato «… cessa (to) dal servizio permanente per infermità… (e) … collocato in congedo assoluto…»;

Rilevato che tale soluzione provenne dalla valutazione con cui il sig. OMISSIS fu «… giudicato non idoneo permanentemente al servizio m. i. in modo assoluto… (e) reimpiegabile a domanda nelle corrispondenti aree funzionali del personale civile del Ministero della Difesa…», sicché l’8 marzo 2007 egli chiese a tal Ministero di transitare nei ruoli del personale civile, ai sensi dell’art. 14, c. 5 della l. 28 luglio 1999 n. 266;

Rilevato pure che, avendo il Ministero denegato quanto chiestogli dal sig. OMISSIS, contro detta statuizione egli insorse avanti al TAR Bari con il ricorso n. 1754/2007 RG, articolato in un gravame introduttivo ed in un atto per motivi aggiunti;

Rilevato altresì che l’adito TAR, con sentenza n. 1951 dell’8 agosto 2008, passata in giudicato, accolse la pretesa attorea ed annullò gli atti impugnati, poiché il citato art. 14, c. 5 vuol «… evitare che colui che… abbia subito una menomazione parziale della capacità lavorativa non possa continuare a prestare servizio per l’amministrazione nei limiti delle sue ridotte abilità ed in una qualifica funzionale che richieda minor impegno psico fisico…», ordinandone l’esecuzione ai fini del passaggio del sig. OMISSIS nei ruoli del personale civile;

Rilevato inoltre che, con decreto n. ….. del 20 febbraio 2012, l’Arma dei CC ha ingiunto al sig. OMISSIS la restituzione gli emolumenti stipendiali per il periodo 19 giugno 2006 / 28 febbraio 2010, per un importo pari a € (ingente somma), in quanto egli era stato collocato in aspettativa (non per causa di servizio) per 689 giorni dal 19 marzo 2005 al 5 febbraio 2007, nonché di ulteriori 36 giorni dal 25 ottobre al 29 novembre 2004;

Rilevato allora che il sig. OMISSIS è insorto contro tal provvedimento avanti al TAR Bari, con il ricorso n. 641/2012 RG, proponendo poi l’atto per motivi aggiunti avverso la rimodulazione in € (ingente somma) dell’importo dovuto;

Rilevato inoltre che, con sentenza n. 1087 del 28 luglio 2015, l’adito TAR ha integralmente respinto la pretesa attorea poiché, fermo l’importo non contestato di € (omissis), per la residua somma di € (ingente) il debito era sussistente appunto a causa della collocazione del sig. OMISSIS in aspettativa speciale ex l. 266/1999 per il periodo considerato, nel quale quest’ultimo non ebbe titolo ad alcuna retribuzione, donde ed in applicazione dell’art. 2, c. 7 del DM 18 aprile 2002 erronea ne fu a suo tempo l’attribuzione;

Rilevato quindi che il sig. OMISSIS appella con il ricorso in epigrafe, deducendo l’erroneità di tal sentenza per il mancato esame del primo motivo di primo grado sul suo diritto a percepire detti emolumenti non avendo mai cessato d’esser militare fino al passaggio nei ruoli civili, per non essere il suo un congedo efficace dall’Arma dei CC e per aver egli contestato innanzi al TAR l’ordine di restituzione degli emolumenti per il periodo 19 marzo 2006 / 5 febbraio 2007 e comunque fino a tutto il 28 febbraio 2010, per l’omessa indicazione del titolo della P.A. a non pagare le spettanze del periodo medesimo e per la violazione dell’art. 2, c. 7 del DM 18 aprile 2002;

Considerato in diritto che l’appello non può esser condiviso, anzitutto perché il giudicato scaturente dalla sentenza n. 1951/2008 affermò sì l’illegittimità del diniego del passaggio dell’appellante nei ruoli civili ed il di lui collocamento in congedo assoluto, ma ai soli fini giuridici, cioè ribadendo il diritto di questi al passaggio nei ruoli del personale civile ai sensi dell’art. 14, c. 5 della l. 266/1999;

Considerato quindi che tal giudicato non copre alcun aspetto retributivo, né altra questione e certo non per il periodo dal 6 febbraio 2007 fino a tutto il 28 febbraio 2010;

Considerato infatti che a quella prima data, quando, cioè, il sig. OMISSIS fu per la prima volta giudicato inidoneo al servizio militare (tanto da chiedere il transito nei ruoli civili), egli si trovava in aspettativa senza assegni, in base ad una statuizione da lui non contestata;

Considerato che gli si deve applicare, come ha detto il TAR, l’art. 2, c. 7 del citato DM — il quale regola il transito del personale militare e dei CC giudicato non idoneo al servizio militare nei ruoli del personale civile del Ministero della difesa, ai sensi del ripetuto art. 14, c. 5 della legge n. 266 —, in virtù del quale «… in attesa delle determinazioni dell'amministrazione in ordine alla domanda il personale è considerato in aspettativa, con il trattamento economico goduto all'atto del giudizio di non idoneità…»;

Considerato di conseguenza che, per il medesimo segmento temporale e con riguardo alla posizione personale dello stesso appellante, l’appellante soggiacque al regime di cui all’allora applicabile art. 26, I c. della l. 5 maggio 1976 n. 187, perché al personale militare in aspettativa «… lo stipendio e gli altri assegni di carattere fisso e continuativo per intero per i primi dodici mesi e ridotti alla metà per i successivi sei mesi…»;

Considerato che, avendo l’appellante fin dal 19 settembre 2006 superato il periodo massimo di comporto ex l. 187/1976, da quella data non ebbe più titolo a percepire alcun trattamento, proprio perché era sì in aspettativa, ma senza assegni ex lege, tant’è che la P.A. da giugno 2007 rettamente gli interruppe l'erogazione dello stipendio, a nulla rilevando che, in base alla nota n. 61206/1-7 del 23 ottobre 2007, a quanto consta quest’ultimo gli fu ripristinato e poi definitivamente interrotto nel marzo 2009;

Considerato al riguardo che lo scopo della disciplina ex art. 26, I c. è di contemperare le esigenze di vita del pubblico dipendente non in grado, in via definitiva o temporanea, di rendere la prestazione lavorativa con l'interesse pubblico a non dar luogo ad esborsi di denaro in assenza di sinallagma effettivo, sicché, una volta che il lungo periodo d’allontanamento del militare malato dal servizio evidenzia l’assenza d’ogni possibile riconducibilità di tal vicenda alla normalità del rapporto di servizio, torna a prevalere, rispetto al principio solidaristico tra i consociati, l'interesse pubblico alla sussistenza di una legittima causa alla corresponsione del denaro pubblico, per cui, passato il tempo reputato congruo dalla legge (365 gg., nella specie) senza che vi sia controprestazione lavorativa, l'obbligazione retributiva si riduce prima e cessa poi;

Considerato allora che, al di là d’ogni questione se il TAR abbia (come ha) pronunciato o non sul primo mezzo di gravame di primo grado o sul fatto che l’appellante sia rimasto carabiniere fino al momento del suo passaggio nei ruoli civili, non ebbe e non ha titolo a mantenere il trattamento stipendiale attribuitogli in pendenza di tal passaggio;

Considerato per vero che a ciò osta non solo il superamento del periodo massimo ex art. 26, I c. della legge n. 187 e che per legge e NON è nella libera disponibilità delle parti del rapporto di servizio, ma soprattutto la disciplina inderogabile dell’aspettativa ratione temporis dall’art. 30, c. 3 del DPR 11 settembre 2007 n. 170 e dall’art. 39, c. 3 del DPR 16 aprile 2009 n. 51, in base ai quali v’è il collocamento obbligatorio in aspettativa del militare nelle more del passaggio ex art. 14, c. 5 della l. 266/1999, donde la ripetibilità di tutte le somme corrisposte in tal ipotesi dal diciottesimo mese d’aspettativa in poi;

Considerato altresì che è inopponibile a tal assetto il giudicato di cui alla sentenza n. 1951/2007, in quanto, in disparte l’assenza di statuizioni specifiche in materia retributiva, quest’ultima è regolata da fonti non toccate dalla sentenza stessa, né oggetto di puntuale impugnazione in questa sede;

Considerato, infine, che l’appello va rigettato, pur se giusti motivi suggeriscono la compensazione integrale, tra le parti, delle spese del presente giudizio;

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sez. IV), definitivamente pronunciando sull’appello (ricorso n. 2115/2016 RG in epigrafe), lo respinge.

Spese compensate.

Ordina all’Autorità amministrativa d’eseguire la presente sentenza.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 12 maggio 2016, con l'intervento dei sigg. Magistrati:
Antonino Anastasi, Presidente
Raffaele Greco, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere, Estensore
Oberdan Forlenza, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 15/06/2016
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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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ottima Sentenza/Ordinanza in favore nostro (con riserva), poichè, l'INPDAP oggi INPS perdono l'Appello.

- ) - buona fede del percipiente
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1) - Con la sentenza impugnata è stato accolto parzialmente il ricorso proposto dal Sig. P.. Carmelo, volto a far valere l’irripetibilità dell’indebito.

2) - Il giudice monocratico ha dichiarato irripetibile l’indebito pagamento pensionistico, disponendo la restituzione delle somme già trattenute con gli interessi legali dalla data di proposizione della domanda giudiziale, compensando le spese del giudizio.

La Corte dei Conti d'Appello precisa:

3) - Ebbene nel caso in esame, la motivazione della sentenza impugnata, pur emessa anteriormente al nuovo orientamento espresso dalle Sezioni Riunite nel 2012, non appare carente in riferimento alla valutazione dell’esistenza dello stato di affidamento secondo i criteri ivi indicati, di talché non occorre, ad avviso del Collegio, nella specifica fattispecie, rinviare gli atti al primo giudice, non essendo necessario effettuare ulteriori accertamenti al riguardo (questa Sezione, n. 271 del 14.03.2016 e precedenti ivi richiamati).

4) - In tali premesse il giudice lombardo ha fondato l’accoglimento del ricorso sulla base della “tardività del provvedimento definitivo (dopo circa 5 anni dal collocamento in quiescenza) e del provvedimento d’ingiunzione emesso nel 2007” e della “buona fede dell’istante”, entrambe considerate pacifiche.

5) - Si perviene all’esame del motivo di appello proposto in via subordinata, con il quale l’INPS ha contestato il capo della sentenza che ha riconosciuto, sulle somme da restituire al sig. P.., gli interessi legali dalla data di proposizione della domanda giudiziale.

6) - Senonchè, essendo stata rimessa alle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale (questa Sezione, sentenza/ordinanza n. 24/2017) la decisione di analogo motivo d’appello dell’INPS, volto a negare che “spettino gli interessi legali sulle somme da restituire in esecuzione della sentenza impugnata”, con fissazione dell’udienza pubblica del 07 giugno 2017 (giudizio n.544/SR/MD), si reputa opportuno disporre un rinvio della discussione, in pendenza della pubblicazione della relativa decisione.

N.B.: leggete il tutto qui sotto e si fa riserva su quest'ultimo pezzo qui sopra.
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SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA\ORDINANZA 93 14/02/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA/ORDINANZA 93 2017 PENSIONI 14/02/2017


SENT-ORD 93/2017

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE SECONDA GIURISDIZIONALE CENTRALE

composta dai magistrati:
Dott. Stefano IMPERIALI Presidente
Dott. Angela SILVERI Consigliere
Dott. Piero Carlo FLOREANI Consigliere
Dott. Francesca PADULA Consigliere relatore
Dott. Marco SMIROLDO Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA - ORDINANZA

sull’appello, iscritto al n. 39710 del registro generale, proposto dall’INPDAP, cui è succeduto ex lege I’INPS, nella persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. Maria Passarelli, contro il Sig. P.. Carmelo, rappresentato e difeso dall’Avv. Antonio Fratini, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Nicola Caricaterra in Roma, via Costantino Morin n. 45 e nei confronti della Guardia di Finanza- Centro Informatico Amministrativo Nazionale - UCTE, rappresentata dal Col. T. ISSMI Mauro Lolli;

avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia n. 805/09 del 27.11.2009;

esaminati gli atti e i documenti di causa;

uditi nella pubblica udienza del 24 gennaio 2017 il relatore, Cons. Francesca Padula, l’Avv. Lidia Carcavallo per l’INPS ed il luogotenente Ignazio Romeo per l’appellata Guardia di Finanza, non comparso l’appellato P...

FATTO

Con la sentenza impugnata è stato accolto parzialmente il ricorso proposto dal Sig. P.. Carmelo, volto a far valere l’irripetibilità dell’indebito, per somme corrisposte in misura maggiore al dovuto, pari ad € 6.364,52, sulla pensione del ricorrente.

Come si apprende dalla sentenza, l’indebito era stato accertato nei confronti dell’appellato, ex sottufficiale della Guardia di Finanza collocato a riposo per dimissioni volontarie con decorrenza dal 21.09.1999, a seguito delle operazioni di conguaglio tra gli importi corrisposti in via provvisoria e quelli risultanti effettivamente dovuti sulla base del provvedimento definitivo di liquidazione del trattamento di quiescenza (decreto n. 4990 del 03.05.2004 emesso dalla Guardia di Finanza). L’INPDAP comunicava (provvedimento di addebito n. 118276 del 18.12.2007) l’accertamento dell’indebito a carico del P.. mediante ritenuta mensile di € 489,58 a far data da gennaio 2008 a tutto gennaio 2009 sulla pensione intestata al ricorrente.

Il giudice monocratico ha dichiarato irripetibile l’indebito pagamento pensionistico, disponendo la restituzione delle somme già trattenute con gli interessi legali dalla data di proposizione della domanda giudiziale, compensando le spese del giudizio.

Ha interposto appello, depositato il 19.01.2011, l’INPDAP, cui è succeduto ex lege l’INPS.

Ha dedotto:

- violazione e falsa applicazione degli artt. 162 e 206 del d.P.R. 1092/1973 nonché dell’art. 2033 c.c..

L’appellante ha evidenziato l’obbligo, che grava sull’Istituto, di effettuare i conguagli sul trattamento pensionistico definitivo.

Ha richiamato la sentenza delle Sezioni Riunite n. 1/QM/1999, alle cui motivazioni si è riportato, in particolare evidenziando i punti in cui si sostiene che l’esplicita natura provvisoria dell’iniziale trattamento erogato non consente l’ingenerarsi di un legittimo affidamento sull’entità del trattamento. La consapevolezza di dover restituire le somme indebite deriverebbe dalla riserva di conguaglio contenuta nel provvedimento concessivo del trattamento provvisorio.

L’appellante ha evidenziato che, sussistendo nell’ordinamento previdenziale pubblico puntuale disciplina (artt. 203 e ss. d.P.R. 1092/1073) dei casi di irripetibilità, non opererebbero i principi affermati dalla Corte costituzionale circa l’esclusione in materia pensionistica della regola codicistica dell’incondizionata ripetibilità dell’indebito.

La sentenza impugnata avrebbe anche contraddetto i principi generali civilistici in tema di indebito, fissati nell’art. 2033 c.c., operanti data la natura paritetica e privatistica del rapporto pensionistico ed in considerazione dell’interesse alla corretta gestione del pubblico denaro. Non spettano, ad avviso dell’INPDAP, al giudice interpretazioni di tipo equitativo con effetti abrogativi delle norme vigenti;

- violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 136, della legge n. 311/2004, legge finanziaria per l’anno 2005.

Ha affermato di non condividere la sentenza n. 7/QM/2007, perché in contrasto con l’art. 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004, che consente sempre, al fine di conseguire minori oneri finanziari, l’annullamento d’ufficio di provvedimenti illegittimi, anche se in corso di esecuzione, norma che riguarderebbe tutti gli atti amministrativi e non solo quelli provvedimentali. Inoltre l’art. 21 nonies della l. 241/1990, modificata dalla l. n. 15/2005, nel prevedere l’annullamento d’ufficio del provvedimento illegittimo per ragioni di interesse pubblico e tenendo conto degli interessi dei destinatari, non ha fissato un termine prestabilito.

L’INPDAP ha anche richiamato copiosa giurisprudenza che ha disatteso i principi affermati dalla sentenza n. 7/QM/2007;

- violazione e falsa applicazione dell’art. 429 c.p.c. e dell’art. 2033 c.c. sul diritto agli accessori sulle somme da restituire a seguito dell’accoglimento del ricorso.

L’appellante ha rilevato che non possono computarsi sulle somme da restituire gli accessori di legge, in quanto trattasi di somme non dovute ab origine. Ha richiamato giurisprudenza.

L’appellante ha conclusivamente chiesto: - in via principale l’annullamento/riforma della impugnata sentenza, ritenendosi corretta e dovuta l’azione restitutoria, dichiarandosi che nulla è dovuto a titolo di restituzione di indebito; in via subordinata l’annullamento/riforma della impugnata sentenza nella parte in cui ha disposto la restituzione della somma, ponendo a carico dell’INPDAP anche gli interessi legali, ritenendo dovuta l’eventuale restituzione del solo importo recuperato, con declaratoria del diritto di ripetere quanto eventualmente versato in conseguenza della provvisoria esecutività della sentenza di primo grado, con il favore delle spese o in subordine, nell’ipotesi di soccombenza dell’Istituto, con compensazione delle stesse (per la difformità tra l’orientamento giurisprudenziale e la norma impositiva).

Con atto depositato il 28.10.2011 si è costituito in giudizio il Sig. P.. Carmelo, il quale ha evidenziato la correttezza della motivazione della sentenza impugnata, richiamando ampia giurisprudenza sul principio di tutela dell’affidamento ingenerato nel privato in buona fede.

Ha sottolineato il lungo tempo intercorso tra la liquidazione della pensione provvisoria, il provvedimento definitivo (cinque anni) e il conguaglio da parte dell’INPDAP (ulteriori tre anni e tre mesi).

Ha chiesto il rigetto dell’appello in quanto infondato in fatto e in diritto e la conferma della sentenza con vittoria di spese, diritti ed onorari.

Con memoria pervenuta a mezzo PEC il 13.01.2016 si è costituita in giudizio la Guardia di Finanza – Centro Informatico Amministrativo nazionale- UCTE, chiedendo di essere estromessa dal giudizio “ in quanto l’Istituto previdenziale appellante non ha sollevato alcuna censura né richiesta nei confronti” della stessa Amministrazione “con il ricorso in appello in esame” e “atteso che la legittimazione attiva e passiva alla controversia appare competere ad altri soggetti”.

Nella pubblica udienza, l’Avv. Lidia Carcavallo ha insistito sulle conclusioni in atti. Ha precisato di aver notificato l’atto di appello all’amministrazione delle finanze unicamente per essere stata essa parte nel giudizio di primo grado. Il luogotenente Ignazio Romeo si è riportato alla memoria.

DIRITTO

Va pregiudizialmente respinta l’eccezione di difetto di legittimazione passiva sollevata dalla Guardia di Finanza, avendo l’INPDAP correttamente notificato ad essa l’appello, sussistendo un litisconsorzio necessario processuale ex art. 331 c.p.c., essendo l’Amministrazione suddetta parte costituita in primo grado, mediante deposito di una memoria in cui essa aveva chiesto il rigetto del ricorso in quanto infondato.

Con riferimento alla ripetizione dell’indebito in sede di conguaglio fra trattamento definitivo e provvisorio, nella sentenza n. 2/QM/2012 del 02.07.2012, le Sezioni Riunite di questa Corte, riconsiderando quanto ritenuto nella decisione n. 7/QM/2007 del 07.08.2007, hanno affermato che: “Lo spirare di termini regolamentari di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo non priva, ex se, l’Amministrazione del diritto–dovere di procedere al recupero delle somme indebitamente erogate a titolo provvisorio; sussiste, peraltro, un principio di affidamento del percettore in buona fede dell’indebito che matura e si consolida nel tempo, opponibile dall’interessato in sede amministrativa e giudiziaria”.

“Tale principio va individuato attraverso una serie di elementi quali il decorso del tempo, valutato anche con riferimento agli stessi termini procedimentali, e comunque al termine di tre anni ricavabile da norme riguardanti altre fattispecie pensionistiche, la rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione , le ragioni che hanno giustificato la modifica del trattamento provvisorio e il momento di conoscenza, da parte dell’Amministrazione, di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo”.

L’autorevole Collegio ha osservato che “nel rapporto Pubblica amministrazione-cittadino ( in specie: cittadino pensionato), alla situazione giuridica di potere dell’Amministrazione si contrappone, in capo al pensionato, la situazione giuridica di legittimo affidamento, fondato sull’assenza di dolo e sulla buona fede del percipiente, oltre che sul lungo decorso del tempo” e che pertanto “deve ritenersi che il diritto–dovere (recte: potere) dell’Amministrazione di procedere, in sede di conguaglio … al recupero delle somme indebitamente erogate a titolo provvisorio, anche dopo la scadenza dei termini regolamentari di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo, può essere attenuato dalla situazione di legittimo affidamento del privato consolidatasi attraverso un lungo decorso del tempo, e cioè, la plausibile convinzione, da parte del pensionato, di avere titolo ad un vantaggio conseguito in un arco di tempo tale da persuadere il beneficiario stesso della sua stabilità”.

Le Sezioni Riunite hanno osservato poi che “considerato … che … l’affidamento si configura e va identificato attraverso una serie di elementi …, qualora sulla ripetizione dell’indebito penda il giudizio in appello … sarà cura del giudice valutare se il sindacato può ricondursi a profili di diritto ovvero, nella ipotesi in cui concerne questioni di fatto, rinviare gli atti al primo giudice, non potendo il giudice di appello, ai sensi della suddetta disposizione di legge, conoscere questioni di fatto”.

Rileva quindi il Collegio che, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge n. 19 del 14.01.1994 (di conversione del d.l. n. 453 del 15.11.1993) come sostituito dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 543 del 23.10.1996 convertito in legge n. 639 del 20.12.1996, l’appello in materia pensionistica è consentito solo per motivi di diritto.

Le Sezioni Riunite di questa Corte, con sentenza n. 10/QM/2000 del 24.10.2000, hanno puntualizzato i criteri per la distinzione tra motivi di diritto e motivi di fatto, precisando che: a) i motivi di diritto devono investire la portata dispositiva di una norma giuridica e/o il suo ambito applicativo a fattispecie astratte, dalle quali consegue in via immediata la regola di diritto applicabile alla fattispecie concreta; b) rientrano nei motivi di diritto i vizi che comportino la nullità della sentenza o del processo, trattandosi di violazione di regole giuridiche; c) il vizio di difetto di motivazione su questioni di fatto è deducibile in appello soltanto ove la sentenza impugnata manchi in modo assoluto di motivazione o abbia motivazione apparente.

Ebbene nel caso in esame, la motivazione della sentenza impugnata, pur emessa anteriormente al nuovo orientamento espresso dalle Sezioni Riunite nel 2012, non appare carente in riferimento alla valutazione dell’esistenza dello stato di affidamento secondo i criteri ivi indicati, di talché non occorre, ad avviso del Collegio, nella specifica fattispecie, rinviare gli atti al primo giudice, non essendo necessario effettuare ulteriori accertamenti al riguardo (questa Sezione, n. 271 del 14.03.2016 e precedenti ivi richiamati).

Infatti il primo giudice ha aderito alla “giurisprudenza antecedente alla pronuncia n. 7/2007/QM”, così sostanzialmente ritenendo sussistente l’esigenza di dare attuazione al concetto di “affidamento riposto nell’Amministrazione”, valorizzando “il consolidarsi nel tempo del provvedimento originariamente provvisorio” e la “situazione complessa composta dal decorso del tempo e dalla buona fede dell’interessato, che non è soltanto assenza di dolo, bensì è da intendersi come impossibilità di individuare o conoscere, usando la normale diligenza, l'errore commesso dalla p.a.”.

In tali premesse il giudice lombardo ha fondato l’accoglimento del ricorso sulla base della “tardività del provvedimento definitivo (dopo circa 5 anni dal collocamento in quiescenza) e del provvedimento d’ingiunzione emesso nel 2007” e della “buona fede dell’istante”, entrambe considerate pacifiche.

Si tratta di valutazioni sufficienti a manifestare l’iter logico giuridico del decisum e dunque non censurabili per i vizi sottoposti alla cognizione del Collegio, anche tenuto conto che l’appellante non ha proposto specifici argomenti, sulla base di elementi fattuali opposti nel primo grado di giudizio, atti a smentire l’assunto del decidente.

Il motivo principale è, pertanto, da respingere, restando confermate l’irripetibilità dell’indebito erariale accertato in sede di liquidazione della pensione definitiva e la disposta restituzione delle somme trattenute in via cautelare.

Si perviene all’esame del motivo di appello proposto in via subordinata, con il quale l’INPS ha contestato il capo della sentenza che ha riconosciuto, sulle somme da restituire al sig. P.., gli interessi legali dalla data di proposizione della domanda giudiziale.

La questione, deferita alle Sezioni Riunite di questa Corte dei conti, in sede di soluzione di questione di massima, è stata decisa con sentenza n. 11/QM/2015 del 24.03.2015, con la quale è stata data la seguente soluzione al quesito sollevato con l’ordinanza di rimessione:<< In caso di accertata irripetibilità di somme indebitamente corrisposte al pensionato e fatte oggetto di recupero, le stesse devono essere restituite all’interessato limitatamente alla sorte capitale senza aggiunta di alcuna somma accessoria >>.

Senonchè, essendo stata rimessa alle Sezioni Riunite in sede giurisdizionale (questa Sezione, sentenza/ordinanza n. 24/2017) la decisione di analogo motivo d’appello dell’INPS, volto a negare che “spettino gli interessi legali sulle somme da restituire in esecuzione della sentenza impugnata”, con fissazione dell’udienza pubblica del 07 giugno 2017 (giudizio n.544/SR/MD), si reputa opportuno disporre un rinvio della discussione, in pendenza della pubblicazione della relativa decisione.

La decisione in ordine alle spese del giudizio è rinviata alla sentenza definitiva.

P.Q.M.

la Corte dei conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale,

- RESPINGE il motivo principale e per l’effetto conferma il capo della sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Lombardia n. 805/09 del 27.11.2009 che ha affermato l’irripetibilità dell’indebito oggetto del provvedimento impugnato ed il conseguente diritto del sig. P.. Carmelo alla restituzione delle somme trattenute in via cautelare;

- RINVIA la discussione del motivo concernente la questione della spettanza degli interessi legali sulle somme da restituire all’appellato all’udienza del giorno 05.12.2017;

- RINVIA alla sentenza definitiva la pronuncia sulle spese del giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 24 gennaio 2017.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
(Francesca PADULA) (Stefano IMPERIALI)
F.to Francesca Padula F.to Stefano Imperiali

Depositata in Segreteria il 14/02/2017

IL DIRIGENTE
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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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L'I.N.P.S., perde il ricorso presso la "Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello".
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1) - recupero di indebito pensionistico, provvedimento intervenuto con ritardi di gran lunga eccedenti i termini previsti dalla legge n. 241 del 1990, dai Regolamenti procedimentali disciplinanti la materia, ma anche rispetto al termine di tre anni suggerito dalle Sezioni Riunite nella sentenza n. 2/2012/QM, quale parametro orientativo di riferimento ricavabile da altre disposizioni in materia pensionistica.

2) - in considerazione: della buona fede del ricorrente (l’indebito si è determinato per ragioni afferenti esclusivamente alla sfera organizzativa dell’Amministrazione), del lasso di tempo trascorso tra la liquidazione della pensione provvisoria e quella definitiva, superiore a quello previsto, della non rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione.

3) - rivalsa sulla Guardia di Finanza, già datore di lavoro del pensionato, che deve essere chiamata a rispondere nella sua qualità di liquidatore primario.

4) - spese di lite.

N.B.: leggete il tutto qui sotto.
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TERZA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 77 14/02/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
TERZA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 77 2017 PENSIONI 14/02/2017



Repubblica Italiana
In Nome del Popolo Italiano
La Corte dei Conti
Sezione Terza Giurisdizionale Centrale d’Appello

Composta dai Sigg.ri magistrati:
Dott.ssa Fausta Di Grazia Presidente
Dott. Antonio Galeota Consigliere
Dott.ssa Giuseppa Maneggio Consigliere
Dott.ssa Patrizia Ferrari Consigliere
Dott. Giovanni Comite Consigliere relatore
ha pronunciato la seguente

Sentenza

sul ricorso in appello, iscritto al n. 47.668 del registro di Segreteria, proposto dall’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.) – Gestione dipendenti pubblici, rappresentato e difeso, giusta procura speciale a margine dello stesso, dall’Avv. Urso Edoardo (C.F. RSU DRD 61L27 H501L), con il quale elettivamente domicilia a Roma (RM), in via Cesare Beccaria n. 29, presso gli uffici dell’Avvocatura Centrale dell’Istituto: ricorrente in appello,

Contro
il sig. L.. Calogero (C.F. OMISSIS) rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce a comparsa di costituzione e risposta in atti al 1° agosto 2014, tanto congiuntamente quanto disgiuntamente, dagli Avv.ti Mainetti Francesco (C.F. MNT FNC 69L01 H501Q), del Foro di Roma, e Fenoglio Andrea (C.F. FNG NDR 69T09 A571B), del Foro di Torino, elettivamente domiciliato presso lo studio del primo, a Roma (RM), Piazza Mazzini n. 27: resistente in appello,

Avverso e per l’annullamento/riforma

della sentenza n. 152/’13, della Corte dei conti – Sezione giurisdizionale regionale per il Piemonte, depositata in data 08 novembre 2013, non notificata presso il domicilio eletto dai difensori dall’I.N.P.S.

Visti: il ricorso in appello, gli scritti defensionali di parte resistente, gli atti tutti di causa;

uditi nella pubblica udienza in data 11 novembre 2016, con l’assistenza del segretario sig.ra Calabrese Gerarda, il Cons. relatore, dott. Comite Giovanni, l’Avv. Mangiapane Filippo, su delega orale, ex art. 14, comma 2, della legge 31 dicembre 2012, n. 247, dell’Avv. Urso Edoardo, per l’INPS appellante, l’Avv. Mainetti Francesco, per parte resistente.

Svolgimento del processo

1. Con l’impugnata sentenza la Sezione territoriale del Piemonte ha accolto, a spese di lite compensate, il ricorso, formulato dal sig. L.. Calogero, e ha dichiarato, per l’effetto, “…irripetibile l’indebito di € 7.341,82, maturato dal 23 febbraio 2007 al 31 ottobre 2012…”, con obbligo restitutorio di quanto eventualmente trattenuto, limitato alla sola sorte capitale. Il suddetto, Appuntato Scelto della Guardia di Finanza, è cessato dal servizio per infermità e collocato in congedo assoluto a far tempo dal 23 novembre 2006, con diritto a trattamento provvisorio di pensione, determinato dall’Ordinatore primario con il sistema misto. Il pagamento effettivo degli acconti veniva, tuttavia, differito al 23 febbraio 2007, in quanto all’interessato, a mente dell’art. 18 della legge n. 833 del 1961, erano attribuiti mesi tre di assegni interi di attività. A far data dal 1° ottobre 2007 la partita pensionistica era trasferita all’allora INPDAP a fini di pagamento. Con Decreto n. 44, del 25 marzo 2011, il reparto Tecnico Logistico Amministrativo Piemonte della Guardia di Finanza liquidava in beneficio del proprio ex dipendente il trattamento definitivo, ma con importo inferiore rispetto a quello corrisposto interinalmente, a causa, verosimilmente, dell’errato riporto delle retribuzioni pensionabili e di taluni emolumenti accessori. Dal conguaglio tra le due liquidazioni emergeva l’indebito di € 7.341,82, siccome costituitosi dal 23 febbraio 2007 al 31 ottobre 2012, ingiunto con nota del 13 dicembre seguente. La Corte territoriale, previo rigetto della pretesa integrazione del contraddittorio a fini di rivalsa, in quanto non ricorrente una ipotesi di litis consorzio necessario per evocare in causa, anche iussu iudicis, il Corpo della inducente, facendo applicazione dei principi enunciati nella sent. n. 2/2012/QM delle Sezioni Riunite, dichiarava l’inesigibilità dell’indebito di € 7.341,82, giacché sussistenti <<…tutti gli elementi per la piena operatività del principio del legittimo affidamento…, in considerazione: della buona fede della ricorrente (l’indebito si è determinato per ragioni afferenti esclusivamente alla sfera organizzativa dell’Amministrazione), del lasso di tempo trascorso tra la liquidazione della pensione provvisoria e quella definitiva, superiore a quello previsto, della non rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione>>. Inoltre, né nel decorso del tempo, potenzialmente idoneo a porre le condizioni per l’ingenerarsi di una situazione di affidamento, né nella conoscenza da parte dell’amministrazione di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo, potevano ravvisarsi elementi in favore dell’INPS.

2. La sentenza de qua è stata appellata dall’I.N.P.S. – Gestione dipendenti pubblici, con atto ritualmente notificato a parte resistente, recante le seguenti doglianze: “I) Violazione e falsa applicazione degli artt. 162, 206 del d.P.R. n. 1092 del 1973, art. 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004, art. 2033 c.c. e degli artt. 3, del R.D. n. 295/1939, e 406, del R.D. n. 827 del 1924”. Sosteneva, infatti, che nell’ipotesi di causa avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 162 del T.U. n. 1092 del 1973 e non il successivo art. 206, riguardante la diversa fattispecie di corresponsione indebita di somme ma all’esito dell’emissione di decreto definitivo di pensione. In specie, quindi, doveva trovare esecuzione l’art. 2033 c.c., prevedente i principi generali in materia di indebito oggettivo, avendo l’Amministrazione l’obbligo di recuperare quanto indebitamente corrisposto in più, a prescindere dal decorso del tempo, e non sussistendo alcun potere discrezionale a tal riguardo. Quanto alla violazione e falsa applicazione dell’art.1, comma 136, della legge n. 311 del 2004, e delle altre disposizioni dianzi richiamate, l’Ente osservava che tali discipline prevedevano un generale dovere di annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi illegittimi al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari. Conseguentemente, all’inadempimento di un termine procedimentale, come quello previsto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, non potevano ricollegarsi in via automatica effetti di tipo sostanziale. Quanto ai principi delineati nella sentenza n. 2/2012/QM, l’Ente previdenziale rilevava che “…è possibile ritenere che la sentenza di primo grado abbia fatto erronea applicazione degli stessi, dal momento che non si è tenuto conto, in primo luogo, del fatto che l’atto ingiuntivo scaturiva da un decreto, del competente Ministero, di determinazione della pensione definitiva, emesso solo molto di recente, mentre l’affidamento è stato dedotto in via generica e presuntiva richiamandosi alla precedente decisione delle Sezioni Riunite del 2007 e alla giurisprudenza che a quest’ultima si richiamava”. Quindi, unico responsabile del ritardo doveva ritenersi la Guardia di Finanza, già datore di lavoro del pensionato, che deve essere chiamata a rispondere nella sua qualità di liquidatore primario. Non potendo, quindi, dedurre, come fatto dal primo giudice, il venir meno del diritto al recupero delle somme a conguaglio dal solo superamento del termine procedimentale, la gravata sentenza era meritevole comunque di annullamento. L’Istituto era poi a denunciare:<< II. Violazione, falsa applicazione dei principi in materia di motivazione e conseguente nullità della sentenza e del suo procedimento…ex art. 360 n. 4 e n. 5 c.p.c.>>. In sintesi, il Giudice di primo grado “…ha omesso ogni valutazione ed esame delle circostanze in fatto che renderebbero inibito il recupero di indebito pensionistico che, si ricorda, è doveroso da parte dell’Ente previdenziale, ex art. 162 T.U. n. 1092 del 1973”. Da ultimo, opponeva: <<III Violazione o falsa applicazione degli art. 102, 106 c.p.c. e degli artt. 78 del R.D. 13 agosto 1933, n. 1038, e 62 del R.D. n. 1214 del 1934>>. L’INPS contestava la sentenza gravata nella parte in cui ha disatteso, a proprio dire erroneamente, la domanda di rivalsa nei confronti dell’ordinatore primario di spesa, in quanto unico responsabile del formarsi dell’indebito. Le conclusioni miravano all’annullamento della gravata sentenza, con declaratoria della legittimità dell’azione di recupero, ovvero con ritorno degli atti al primo giudice in diversa composizione, per una nuova valutazione dei fatti; in subordine, all’annullamento della sentenza, con rimessione degli atti al Giudice Unico per la pronuncia sulla trasversale di rivalsa, con ogni conseguenza in ordine alle spese e ai diritti e onorari di lite del grado.

3. Resisteva all’appello il sig. L.. Calogero, che nel breve scritto defensionale, versato in atti il 1° agosto 2014, instava per il rigetto dell’appello, in quanto inammissibile e/o improcedibile e/o comunque infondato, e per la conferma della gravata sentenza, col favore delle spese, di ambedue i gradi di giudizio.

4. Nella successiva memoria, prodotta agli atti il 31 ottobre 2016, parte resistente ribadiva le argomentazioni a supporto dell’inesigibilità dell’indebito, siccome poste in evidenza nella gravata sentenza.

Per ciò, rilevava come la protrazione dell’errata erogazione per oltre sei anni ha ingenerato nel pensionato il legittimo affidamento sulla definitività delle somme percepite. Di fatti, era evidente come il passaggio del tempo faccia inevitabilmente diminuire nel pensionato, fino ad annullarla, la percezione del carattere provvisorio del trattamento inizialmente liquidato. Evidente risultava, inoltre, come con l’ordinaria diligenza, l’odierno resistente mai avrebbe potuto rilevare l’errore commesso dall’amministrazione con riguardo alla maggior somma percepita, attesa la minima differenza tra i due trattamenti. Da ultimo, ai fini della rivalsa, la giurisprudenza degli appelli esclude in specie la ricorrenza di un litisconsorzio necessario inducente ad una integrazione del contraddittorio nei confronti del datore di lavoro. Instava, per ciò, per il rigetto del gravame, con conferma della epigrafata sentenza. Il tutto col favore delle spese, di cui allegava specifica notula per un complessivo importo di € 4.095,73, oltre I.V.A., C.P.A. e R.A. come per legge.

Nel corso dell’odierna pubblica udienza, le parti processuali concludevano come da verbale, ribadendo, per ciò, il contenuto del gravame e degli scritti a difesa, ai quali erano ad operare ogni ritenuto rinvio. Al termine della discussione la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi del decidere

[1] Il gravame va dichiarato inammissibile, nella parte tesa alla ripetibilità delle somme conferite in più, servendosi in questo di una diversa lettura dei fatti di causa, del tutto improponibile in questa sede, oltre, comunque, ad essere infondato, e quindi da rigettare, per avere adeguatamente motivato sul punto la sentenza di prime cure; di poi, è da rigettare anche in ordine alla pretesa integrazione del contraddittorio, finalizzata all’accoglimento della trasversale di rivalsa.

[2] In primis, la questione all’esame del Collegio flette la recuperabilità o non di somme erogate in eccedenza, sul trattamento provvisorio di pensione dell’appellato, ed emerse dal conguaglio operato, a mente dell’art. 162 del d.P.R. n. 1092 del 1973, dall’Istituto pagatore, a seguito della predisposizione del decreto definitivo da parte dell’Ordinatore primario di spesa, provvedimento intervenuto con ritardi di gran lunga eccedenti i termini previsti dalla legge n. 241 del 1990, dai Regolamenti procedimentali disciplinanti la materia, ma anche rispetto al termine di tre anni suggerito dalle Sezioni Riunite nella sentenza n. 2/2012/QM, quale parametro orientativo di riferimento ricavabile da altre disposizioni in materia pensionistica. Orbene, la disciplina di cui all’art. 162, afferente le obbligatorie operazioni di conguaglio e di recupero sul definitivo delle somme conferite in più, è stata sottoposta a scrutinio interpretativo dalle Sezioni Riunite di questa Corte, tra l’altro, con la sent. n. 7/2007/QM, del 07 agosto 2007, il cui orientamento è stato poi rivisto dalla decisione n. 2/2012/QM, del 02 luglio 2012. L’oggetto del contendere riguardava le fattispecie riconducibili a quelle eccezionali situazioni di affidamento incolpevole, correlate all’inerzia dell’Amministrazione, che la giurisprudenza della Corte dei conti, alla stregua dei principi affermati dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 431/1993, considerava e considera idonee a giustificare l’irripetibilità dell’indebito pensionistico. In breve, la sent. n. 7/2007/QM collegava in modo automatico alla scadenza del termine procedimentale, per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo, l’irripetibilità dell’indebito emerso in sede di conguaglio con il trattamento provvisorio, percepito nelle more dell’adozione del decreto definitivo di pensione; il nuovo indirizzo nomofilattico, di cui alla sent. n. 2/2012/QM, ha chiarito invece che, fermo il diritto – dovere dell’Amministrazione di procedere al recupero delle somme indebitamente erogate a titolo provvisorio, anche dopo lo spirare dei termini regolamentari di settore per l’adozione del provvedimento definitivo, la scadenza del termine costituisce non l’unico ma uno dei vari elementi che caratterizzano il protrarsi del tempo, attraverso il quale – in concorso con altri indicatori di fatto da valutarsi caso per caso – il legittimo affidamento, giuridicamente tutelato, può formarsi e consolidarsi. In tal modo, l’affidamento è integrato dalla concorrente ricorrenza di elementi oggettivi e soggettivi [aventi valenza di questioni di mero fatto rimesse in esclusiva alla conoscenza del Giudice di prime cure, come affermato da SS.RR. n. 2/2012/QM, id. Sez. 3^ d’app., sentt. n. 544 e n. 548, del 23 luglio 2012] <<...quali il decorso del tempo, valutato anche con riferimento agli stessi termini procedimentali, e comunque al termine di tre anni ricavabile da norme riguardanti altre fattispecie pensionistiche, la rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione, le ragioni che hanno giustificato la modifica del trattamento provvisorio e il momento di conoscenza, da parte dell’amministrazione, di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo>> (così Corte dei conti SS. RR. sent. n. 2/2012/QM, del 23 maggio – 02 luglio 2012). Volendo sintetizzare, il tempo è funzione dell’affidamento, inteso quale situazione giuridica protetta dal protrarsi di esso oltre ogni ragionevole limite d’incertezza (cfr. in senso conforme Consiglio di Stato, Sezione V, sent. n.1224, del 28 febbraio 2002, e Adunanza Plenaria, dec. n. 20, del 12 dicembre 1992). Per ciò, l’affidamento, quale valore fondamentale dello Stato di diritto, costituzionalmente protetto nel nostro Ordinamento (si veda al riguardo Corte Costituzionale, sent. n.39, del 10 febbraio 1993, e n. 155, del 04 aprile 1990) e in quello Comunitario, che ha accentuato le tutele dell’interesse privato nei confronti delle azioni normativa e amministrativa delle Istituzioni europee (cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 15 luglio 2004, causa C – 459/02), per essere definito legittimo e tutelabile deve collocarsi nel contesto di una condotta, quella del percettore di maggiori somme, caratterizzata dall’assenza di qualsiasi violazione dolosa del dovere di correttezza, come integrata dal decorso del termine procedimentale, previsto dalla legge n. 241 del 1990 e dai regolamenti attuativi di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo, e dal concorso di altri parametri <<…quali indicati, seppure a titolo esemplificativo e non tassativo ed esaustivo…>> dalle Sezioni Riunite (cfr. SS.RR. n.2/2012/QM, pag. 25). Un tanto chiarito, osserva il Collegio che nell’ipotesi di causa la sentenza gravata ha fatto buon governo dei principi affermati da tale ultimo indirizzo nomofilattico, per avere motivato sugli elementi costitutivi del legittimo affidamento, sulla mancata emersione di circostanze soggettive di mala fede riconducibili al percettore delle somme e sulla non ricorrenza di elementi dai quali potersi trarre che lo stesso, attraverso l’uso della normale diligenza, poteva avvedersi dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione, buona fede che, nel concreto esame delle circostanze operato dalla Corte territoriale, traspariva, in modo evidente, anche dalla stessa entità dell’importo di € 7.341,82, da rapportare al periodo di oltre cinque anni, pari ad un mensile lordo percepito in più (su 13 mensilità) di € 113,00, da non poter destare un ragionevole dubbio né dar corso ad alcuna palese sproporzione rispetto al rateo percepito. Cosicché, la valutazione delle questioni dell’affidamento e della buona fede, alla base della dichiarata inesigibilità, non è stata affidata, come denunciato dall’Istituto appellante, ad elementi presuntivi ma a concrete circostanze nelle quali, come ben evidenziato dalle Sezioni Riunite, era a rientrare anche l’anomalo decorso del tempo, in specie oltre cinque anni in regime di trattamento provvisorio, con condotte esageratamente dilatorie e pur nella disponibilità ab initio, giacché si trattava di un collocamento in congedo assoluto per infermità, di tutti gli elementi idonei a liquidare il trattamento da parte delle Amministrazioni intervenute nel relativo procedimento, che hanno ingiustamente mortificato il legittimo affidamento del pensionato. In breve, la motivazione fornita dava conto della ricorrenza di <<… tutti gli elementi per la piena operatività del principio del legittimo affidamento…, in considerazione: della buona fede del ricorrente (l’indebito si è determinato per ragioni afferenti esclusivamente alla sfera organizzativa dell’Amministrazione), del lasso di tempo trascorso tra la liquidazione della pensione provvisoria e quella definitiva, superiore a quello previsto, della non rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione>>. Inoltre, né nel decorso del tempo, potenzialmente idoneo a porre le condizioni per l’ingenerarsi di una situazione di affidamento, né nella conoscenza da parte dell’amministrazione di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo, potevano ravvisarsi elementi in favore dell’INPS. Di tal ché, le somme percepite in tale serio lasso temporale hanno determinato un affidamento particolarmente solido in capo al resistente, sfornito, per il tecnicismo intrinseco alle liquidazioni delle pensioni, delle necessarie capacità per avvedersi dell’errore che si annidava nel proprio trattamento interinale, che il tempo ha corroborato in termini di convincimento di giusta debenza. In conclusione, le norme disciplinanti la materia, siccome richiamate anche dall’INPS, <<...non sembrano, allo stato, delineare quell’affermata, illimitata (nel tempo e nello spazio) possibilità di autotutela da parte dell’Ente...con recupero “a man salva” a carico di un incolpevole pensionato...>> (cfr. Corte dei conti, Sez. 1^ d’app. sent. n.451/2011/A, del 07 ottobre 2011), mentre la consapevolezza del carattere provvisorio intrinseco del trattamento, da parte del pensionato stesso, può avere rilievo <<…solo fintanto che non subentri, proprio per l’anomalo perpetuarsi nel tempo della pensione provvisoria, la convinzione che quel trattamento abbia perso la connaturata connotazione di provvisorietà>> (così Corte dei conti, Sez. 2^ di app., 23 marzo 2012, n.176). Per ciò, può concordarsi con quanto affermato, in tempi risalenti ma con argomentare sempre attuale, da questa Sezione: <<Gli errori commessi nella liquidazione del trattamento pensionistico non debbono far carico, sempre e comunque, ai titolari del vitalizio, a fronte del vantaggio di ricevere tempestivamente gli acconti di pensione, tempestività che non può essere riguardata come un bene aggiuntivo dei pensionati ma come assetto normale e doveroso dei servizi erogati dalla P.A., anche se di faticosa realizzazione>> (così Corte dei conti, Sez. 3^, n.64.543, del 25 gennaio 1991). Alla luce di tale argomentare non può negarsi che, l’Istituto previdenziale, con il formulato gravame, miri ad una revisione nel merito della decisione tramite una diversa considerazione di circostanze già valutate. E poiché nei giudizi in materia di pensioni, l’appello è consentito per soli motivi di diritto (ex art. 1, comma 5, del d.l. n. 543/1993, SS.RR. n. 10/2000/QM) e che in specie la valutazione dell’irripetibilità dell’indebito per legittimo affidamento e buona fede del percettore delle somme non era a concretarsi in una questione di interpretazione ed applicazione di norme giuridiche, venendo ad integrare una questione di fatto, che potrebbe aver rilievo sotto il profilo della “motivazione omessa” o “apparente” della sentenza impugnata su un punto decisivo della controversia, in specie non ricorrente, a tanto non può che seguire l’inammissibilità dell’impugnativa. In ogni caso, attesa l’adeguata motivazione fornita sul punto, l’appello è comunque da rigettare e la sentenza epigrafata, per la parte afferente la inesigibilità delle somme corrisposte in più, da confermare.

[3] Quanto, poi, alle doglianze relative alla mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Ordinatore primario di spesa, in specie del Corpo della Guardia di Finanza, finalizzata all’esperimento dell’azione trasversale di rivalsa, la sentenza del primo Giudice merita di essere condivisa in quanto conforme all’ordinamento processuale e alla giurisprudenza consolidata di questa Corte. In breve, nell’ipotesi tratta a giudizio non ricorre una ipotesi di litisconsorzio necessario. Infatti, una tale fattispecie non può dirsi sussistente giacché la causa odierna sull’indebito, avente come “petitum” l’irripetibilità delle somme ingiunte all’appellato, non è comune al terzo “Guardia di Finanza”. E ciò perché, la regola che stabilisce chi deve partecipare al processo, ossia chi sono le giuste parti, è la regola della legittimazione ad agire, che vuole presenti nel processo coloro che nella domanda sono affermati come soggetto rispettivamente attivo e passivo del rapporto sostanziale (di indebito) che si fa valere. Per cui, la presenza di più parti nella causa non può che dipendere dal fatto che il suddetto rapporto sostanziale fatto valere abbia (o, più esattamente, sia affermato come avente) più di due soggetti. Tale principio è, pertanto, un corollario del fenomeno della legittimazione ad agire necessariamente congiunta, determinata dalla contitolarità (in questo caso affermata) del rapporto sostanziale che si fa valere. Nell’ipotesi di causa non si assiste, tuttavia, a tale contitolarità poiché costituisce una diversa controversia non collimante, perché diversa per petitum e causa petendi, con l’odierno giudizio, quella flettente l’accertamento in merito al riparto tra Enti o Amministrazioni degli oneri finanziari conseguenti all’irripetibilità di un indebito. Interpretazione, questa, validata dall’Appello dell’Istituto, in più casi perfettamente sovrapponibili a quello odierno, nei seguenti termini: <<Deve escludersi, pertanto, nel caso di specie la necessità di integrazione del contraddittorio – come richiesto dall’INPDAP – non sussistendo, nel presente giudizio, litisconsorzio necessario con l’Amministrazione, potendo la domanda di rivalsa essere proposta anche in autonomo giudizio, impregiudicata ogni pronuncia sulla giurisdizione in fase contenziosa>> (cfr. Corte dei conti, Sezione 3^ di app., n. 270/2015, del 28 aprile 2015, id. 341/2015, del 12 giugno 2015, Sez.1^, 04 dicembre 2012, n. 764/2012/A, id. n.229/2013/A e n. 380/2014/A). Di tal ché, in specie, l’azione di rivalsa può essere proposta in autonomo giudizio, chiaramente all’esito del definitivo accertamento dell’irripetibilità del debito nei confronti del pensionato (diversamente la predetta azione non risulterebbe assistita dall’interesse ad agire e a contraddire). In conclusione, la funzione dell’istituto del litisconsorzio necessario è quella di <<...tutelare chi ha proposto la domanda e non potrebbe in realtà, conseguire quanto richiesto se la sentenza non producesse effetti nei confronti di tutti i litisconsorti, e non invece quella di tutelare il diritto di difesa dei litisconsorti pretermessi, già sufficientemente protetti dall’inefficacia, nei loro confronti, di una pronuncia emessa a seguito di un giudizio cui essi siano rimasti estranei>> (così Corte di Cass., Sez.1, sent. 09 marzo 2004, n. 4714). Per ciò, le situazioni sostanziali oggetto dell’odierno giudizio (irripetibilità dell’indebito, invocata dall’attore ora appellato, e rivalsa verso l’ordinatore primario, invocata dall’ente resistente in primo grado, ora appellante) non devono necessariamente essere decise in maniera unitaria atteso che non si è in presenza di un rapporto plurisoggettivo unico ovvero della richiesta di adempimento di una prestazione inscindibilmente comune a più soggetti: onde la mancata integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Amministrazione attiva, Guardia di Finanza, non rende l’emananda sentenza inutiliter data, potendo l’Amministrazione previdenziale promuovere un autonomo giudizio nei confronti dell’Ordinatore primario avente ad oggetto la rivalsa, salvaguardandosi, in tal modo, anche l’effettività della garanzia della durata ragionevole del processo (come previsto dal 2° comma dell’art. 111 della Carta Fondamentale), principio che impone al Giudice (anche nella valutazione dell’estensione del contraddittorio) di evitare comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione della causa. A tanto consegue il rigetto della formulata doglianza.

Non luogo a provvedere per le spese di giustizia stante la loro sostanziale gratuità. Quanto alle spese di lite, parte appellata nelle conclusioni della prima memoria, prodotta in atti il 1° agosto 2014, instava per il rigetto del gravame e per la conferma della epigrafata sentenza, col favore <<…delle spese ed onorari tutti di giudizio e patrocinio, oltre I.V.A. e C.P.A. sugli importi imponibili, di entrambi i gradi di giudizio>>. Nella successiva memoria difensiva, versata in fascicolo il 31 ottobre 2016, era a ribadire le ragioni a supporto del rigetto dell’appello, <<…con vittoria di spese>>, per le quali allegava notula recante un totale liquidabile di € 4.095,73, “…oltre I.V.A., C.P.A. e R.A. come per legge”.

Rileva il Collegio, in principalità, di dover dichiarare inammissibile, la pretesa, formulata nelle sole conclusioni e volta alla liquidazione delle spese di prime cure, perché non motivata e non contenuta in uno specifico gravame incidentale relativo al capo sulle spese. In secondo luogo, di non potersi attenere all’elencazione dell’importo delle singole voci, siccome operata dai Procuratori in notula.

Mette conto rilevare che il compenso dell’Avvocato, rapportato alla natura, durata, complessità e importanza dell’opera prestata, e il rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15% sul totale della prestazione, deve avvenire secondo i parametri di cui al recente D.M. n. 55, del 10 marzo 2014 - in Gazzetta Ufficiale n. 77, del 2 aprile 2014 - (artt. 2 e 4), recante la specifica tabella n. 11 per le spese inerenti i giudizi dinanzi alla Corte dei conti (vigente dal 3 aprile 2014 e applicabile alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore), spese da rapportarsi allo scaglione in cui rientrava il valore della prestazione oggetto di causa. Quanto alla determinazione di quest’ultimo, si ha riguardo (ex art. 152 delle Disposizioni di attuazione del codice di rito civile), in ipotesi, alle somme indebite motivo del gravame, formulato dal pensionato in primo grado, e del successivo appello dell’Istituto previdenziale, a ragione della sua soccombenza: in specie il valore è pari ad € 7.341,82, somma da restituire al pensionato, al netto di oneri accessori, e sulla quale è stata, all’evidenza, parametrata ogni singola attività difensiva. Tale importo rientra nello scaglione recante il minimo di € 5.200,01 e il massimo di € 26.000,00: in specie il valore della causa era a tendere verso l’estremo inferiore della forbice dello scaglione. Di tal ché, ravvisa il Collegio che gli importi della fase di studio della controversia, pari al massimo di € 875,00, della fase introduttiva del giudizio, pari ad € 470,00, della fase istruttoria e/o di trattazione, pari ad € 540,00, e della fase decisionale, per € 1.010,00, possano ridursi del 50%, il primo, il secondo e il quarto, e del 70% il terzo, sia per l’assenza di questioni di fatto e di diritto di particolare difficoltà e complessità, in quanto la consolidata giurisprudenza, compresa quella nomofilattica, ha tracciato le linee da seguire in materia di indebiti, sia per il valore della prestazione, appiattito verso la parte più bassa dello scaglione. Conseguentemente, tenendo conto della natura, durata, complessità e importanza dell’opera prestata, il compenso dei patroni è così liquidato: € 437,50, per la fase di studio, € 235,00, per la fase introduttiva, € 162,00, per la fase istruttoria e/o di trattazione, ed € 505,00, per la fase decisionale, per un complessivo di € 1.339,50, importo da aumentare del 15% a titolo di spese forfetarie, pari ad € 200,93, per un complessivo imponibile di € 1.540,43. Per ciò, liquida a titolo si spese di lite e in favore di parte resistente, diversamente da quanto determinato in notula, l’importo onnicomprensivo di € 1.540,43, oltre C.P.A. e I.V.A., qualora dovuta, non risultando la ritenuta in acconto da parte del sostituto d’imposta questione rientrante in questa giurisdizione, e da porre a carico dell’INPS.

P.Q.M

La Corte dei conti, Sezione terza giurisdizionale centrale di appello, disattesa ogni contraria istanza, deduzione od eccezione, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso in appello, iscritto al n. 47.668 del registro di Segreteria, e, per l’effetto, conferma la epigrafata sentenza.

Nulla per le spese di giustizia.

Le spese di lite, da porre a carico dell’I.N.P.S. soccombente, si liquidano, in favore di parte appellata, nell’importo onnicomprensivo di € 1.540,43 (euro millecinquecentoquaranta/43), oltre C.P.A. e I.V.A. se dovuta.

Manda alla Segreteria della Sezione per il più a praticarsi.

Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio, all’esito della pubblica udienza in data 11 novembre 2016.
Il Consigliere Estensore Il Presidente
(F.to Dott. Giovanni Comite) (F.to Dott.ssa Fausta Di Grazia)


Depositata in Segreteria il 14 Febbraio 2017


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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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Ricorso ACCOLTO
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1) - nota in data 22/12/2014 dell’INPS – Direzione Provinciale di Cuneo, con cui è stata comunicata al ricorrente la sussistenza di un indebito generato sulla sua pensione pari ad euro 3.008,83 ed è stato disposto il recupero della somma mediante ritenuta mensile sulla pensione a decorrere dalla rata di febbraio 2015 (doc. 1);

2) - Decreto n. 66 del 24/01/2014 dell’Ufficio Trattamento Economico di Quiescenza del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri con cui è stata modificata la liquidazione della pensione del ricorrente (doc. 2);

3) - illegittimità della modifica apportata al trattamento pensionistico definitivo del ricorrente e del conseguente diritto dello stesso al mantenimento della liquidazione della propria pensione come individuata nel decreto n. 278 del 26/05/20009;

4) - irripetibilità della somma di euro 3.008,83 percepita dal ricorrente a titolo di trattamento pensionistico e del conseguente diritto alla restituzione di quanto l’INPS ha già trattenuto sui ratei di pensione del ricorrente erogati dal mese di febbraio 2015;

FATTO:

5) - Appuntato Scelto dell’Arma dei Carabinieri, collocato in congedo assoluto a decorrere dal 4 giugno 2004 ......, chiede la declaratoria di illegittimità della modifica apportata al proprio trattamento di quiescenza definitivo con decreto n. 66 del 24.1.2014 dell’Ufficio Trattamento Economico di quiescenza del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri,

6) - con decreto di pensione ordinaria n. 664 del 26 ottobre 2007 veniva conferito il trattamento ordinario definitivo di pensione

7) - A seguito di ricorso giurisdizionale proposto dal signor B.. avanti a questa Sezione, conclusosi con sentenza n. 231/2009, il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri provvedeva, con decreto n. 278 del 26 maggio 2009, a riliquidare la pensione secondo il sistema retributivo, riconoscendo al ricorrente, grazie alla ricongiunzione di periodi assicurativi ai sensi della legge n. 29/1979, un’anzianità contributiva, al 31.12.1995, superiore a diciotto anni utili.

8) - Rileva il ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio che tale ultima riliquidazione veniva pienamente “recepita dalla sede I.N.P.D.A.P. di Cuneo, che ha rimborsato quanto trattenuto illegittimamente (.....)”; osserva altresì che il trattamento pensionistico definitivo sarebbe stato erogato per le annualità dal 2004 al 2015 sulla base della liquidazione effettuata, in via definitiva, con il decreto n. 278 del 26 maggio 2009.

9) - Successivamente lo stesso Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, con decreto n. 66 del 24 gennaio 2014, modificava nuovamente l’ammontare della pensione del ricorrente, adducendo preteso errore nel computo riportato nel decreto n. 278 del 26 maggio 2009.

10) Con nota del 22.12.2014 la Direzione Provinciale INPS di Cuneo informava il ricorrente dell’intervenuta riliquidazione disponendo contestualmente il recupero della somma di euro 3.008,63 mediante ritenuta mensile imponibile di euro 334,31 sulla pensione in godimento.

11) - Secondo la prospettazione attorea i provvedimenti oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi in quanto opererebbero una modifica del trattamento pensionistico definitivo al di fuori dei limiti tassativi posti dagli artt. 203 e ss. D.P.R. n. 1092/1973.

12) - Nella fattispecie la riliquidazione definitiva della pensione del signor B.. sarebbe avvenuta con decreto n. 278 del 26.5.2009, “registrato in data 01/09/2009”, mentre l’Arma dei Carabinieri avrebbe modificato la liquidazione definitiva pensionistica il 24.01.2014, ossia quattro anni e mezzo dopo la registrazione del provvedimento, asseritamente intervenuta in data 1.9.2009.

13) - Con successiva memoria in data 15 gennaio 2016 il signor B.. ha richiamato i contenuti dell’atto introduttivo ribadendo che la riliquidazione della pensione effettuata con il decreto n. 66 del 24.1.2014 si porrebbe in violazione degli artt. 203, 204 e 205 D.P.R. n. 1092/1973 in quanto giunta ben oltre il limite temporale entro il quale può essere revocato o modificato il trattamento pensionistico definitivo.

DIRITTO:

14) - Il thema decidendum del presente giudizio concerne la valutazione di ammissibilità e legittimità della modifica in peius del trattamento pensionistico definitivo di quiescenza di titolarità del ricorrente, intervenuta con decreto n. 66 del 24.1.2014 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, in riforma del precedente decreto n. 278 del 26 maggio 2009 con il quale lo stesso Comando aveva già disposto una prima riliquidazione del trattamento ordinario definitivo di pensione del signor B.. secondo il sistema retributivo nonchè l’accessoria domanda volta all’accertamento di pretesa irripetibilità della somma di euro 3.008,83, trattenuta a titolo di indebito pensionistico in forza dell’atto di recupero INPS del 22.12.2014.

15) - Nel merito, per quanto concerne la presente fattispecie, va in primo luogo rilevato che, antecedentemente alla modifica introdotta con il decreto n. 66/2014, la pensione di cui già beneficiava il signor B.. era stata liquidata in via definitiva in forza del decreto n. 278 del 26.5.2009 non emergendo da quest’ultimo provvedimento alcun elemento da cui possa desumersi la natura provvisoria prospettata dalla difesa dell’Istituto previdenziale.
- ) - Più precisamente, per quanto risultante agli atti, il predetto decreto definitivo di pensione n. 278/2009 era stato adottato dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri in modifica del precedente provvedimento di riconoscimento di pensione ordinaria n. 664/2007, a seguito di proposizione di un precedente ricorso giurisdizionale da parte dell’attuale ricorrente.

16) - Deve ritenersi, pertanto, che i parametri normativi per la valutazione dell’azione amministrativa che ha dato luogo alla presente controversia vadano ricercati nell’alveo della disciplina della revoca e della modifica del provvedimento definitivo di quiescenza, di cui agli articoli 203, 204 e 205 del citato D.P.R. 1092 del 1973.

17) - Al riguardo va richiamata la pronuncia n. 15/2011/QM con la quale le Sezioni riunite di questa Corte,.......

18) - La pronuncia delle Sezioni Riunite si pone in linea con un orientamento giurisprudenziale che può dirsi consolidato: in una pluralità di fattispecie il giudice contabile, in ordine a questioni del tutto analoghe, ha statuito che “l'annullamento totale o parziale dei provvedimenti definitivi di quiescenza può ritenersi consentito all'Amministrazione soltanto nelle ipotesi ed alle condizioni espressamente previste dall' art. 203 del D.P.R. n. 1092 del 1973, rimanendo quindi preclusa tale possibilità in presenza di un errore di diritto” (ex plurimis Corte dei conti, Sez. Sardegna, n. 51/2015; Sez. Giur. Reg. Friuli-Venezia Giulia, sent. n. 129 del 20 giugno 2001; Sez. Giur. Reg. Sic., sent. n. 2149 del 19 novembre 2002) pur ammettendosi la possibilità, comunque, di modifiche migliorative del trattamento pensionistico, essendovi facoltà in tali casi per l'Amministrazione di emendare i provvedimenti dai precedenti errori, senza però ridurre il trattamento pensionistico in atto attribuito, con preclusione della ripetizione delle maggiori somme eventualmente percepite dal pensionato.

19) - La stessa Corte Costituzionale ha inoltre espressamente escluso l'illegittimità costituzionale delle disposizioni degli artt. 203, 204 e 205 del D.P.R. n. 1092 del 1973 (Corte Costituzionale, sent. n. 91/1984) e, recentemente, è tornata a pronunciarsi, con la sentenza n. 208 del 16 luglio 2014, sulla questione di illegittimità costituzionale dell'art. 204 cit., laddove tale norma non contempla tra le ipotesi di revoca l'errore di diritto, ribadendo il principio di tassatività che caratterizza le ipotesi di revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione e ritenendone la conformità a Costituzione della predetta disposizione.

20) - Pertanto, poiché i provvedimenti definitivi di pensione non possono essere modificati o revocati esclusivamente in relazione a profili di nuova interpretazione e riconsiderazione, sul piano strettamente giuridico, di elementi già desumibili e verificati nei precedenti provvedimenti deve escludersi che il decreto di liquidazione della pensione ordinaria n. 276/2009 potesse subire la modificazione in peius introdotta con il successivo decreto n. 66/2014.

21) - Peraltro, anche qualora la modifica del trattamento definitivo volesse ascriversi, come inizialmente prospettato dal ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito dell’errore di fatto ovvero nel computo dei servizi di cui alle lettere a) e b) dell’art. 204 d.p.r. n. 1092/1973, la rideterminazione di cui al decreto n. 66/2014 dovrebbe ritenersi comunque assunto in violazione dell’art. 205 del citato d.p.r. che prevede che "il provvedimento è revocato o modificato non oltre il termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso".

22) - Termine che dovrebbe ritenersi, a fortiori, superato anche sul rilievo che “i provvedimenti pensionistici, a seguito dell’entrata in vigore della legge n.20/94 non rientrano più tra quelli sottoposti a controllo preventivo e, pertanto, a maggior ragione il termine triennale previsto dai citati artt.203 e seguenti del D.P.R. n.1092/1973 decorre dalla data della loro emanazione” (Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia n. 150/2010; Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia n. 78/2015).

23) - Il decreto di riliquidazione della pensione ordinaria (n. 66/2014) è stato adottato ben oltre il termine triennale previsto dalla norma su richiamata e, pertanto, anche sotto questo aspetto, l'intervento modificativo non avrebbe potuto essere adottato;
- ) - risulta infatti che il Decreto definitivo di pensione n. 276 sia stato adottato in data 26 maggio 2009, registrato presso la Ragioneria Provinciale dello Stato de L’Aquila in data 1 settembre 2009 e presso la Corte dei conti, Sezione Regionale di Controllo de L’Aquila, il 9 aprile 2010 (cfr. attestazione doc. 2 fascicolo amministrativo prodotto dall’INPS in data 16 ottobre 2015) mentre il decreto qui impugnato n. 66 risulta assunto in data 24.1.2014.


N.B.: rileggi sopra i n. 20, 22 e 23.

Per completezza dei fatti leggete il tutto qui sotto.
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PIEMONTE SENTENZA 15 29/02/2016
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
PIEMONTE SENTENZA 15 2016 PENSIONI 29/02/2016



SENT. N. 15/16

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE
PER LA REGIONE PIEMONTE
in composizione monocratica nella persona del magistrato dott.ssa Ilaria Annamaria Chesta, quale giudice unico ai sensi dell’art. 5 della legge 21 luglio 2000, n. 205, come modificato dall’articolo 42 della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 19818 proposto da B. Antonio, nato a OMISSIS e residente a OMISSIS (CN), via ………, rappresentato e difeso dagli avv.ti Alessandro Sciolla (C.F. SCLLSN66M31F351J), Sergio Viale (C.F. VLISRG66A15L219Q) e Chiara Forneris (C.F. FRNCHR87D50L219H) del Foro di Torino, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dei primi in Torino, Corso Montevecchio n. 68, come da procura a margine del ricorso

CONTRO

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE - con sede in Roma, via Ciro Il Grande n. 21 (C.F. 80078750587), in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso, anche disgiuntamente, dagli avv.ti Giorgio Ruta (RTU GRG 55C09 H501X) e Patrizia Sanguineti (SNG PRZ 69A66 D969D) dell’Avvocatura dell’Istituto, giusta Procura generale alle liti rilasciata per atto a ministero del notaio Paolo Castellini rep. 80974, Rogito 21569 del 21.7.2015 e con loro elettivamente domiciliato in Torino, via dell’Arcivescovado n. 9;

MINISTERO della DIFESA, in persona del Ministro, legale rappresentante pro-tempore;

ARMA DEI CARABINIERI, in persona del legale rappresentante pro-tempore

“per l’annullamento

- della nota in data 22/12/2014 dell’INPS – Direzione Provinciale di Cuneo, con cui è stata comunicata al ricorrente la sussistenza di un indebito generato sulla sua pensione pari ad euro 3.008,83 ed è stato disposto il recupero della somma mediante ritenuta mensile sulla pensione a decorrere dalla rata di febbraio 2015 (doc. 1);

- del Decreto n. 66 del 24/01/2014 dell’Ufficio Trattamento Economico di Quiescenza del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri con cui è stata modificata la liquidazione della pensione del ricorrente (doc. 2);

nonchè per l’accertamento

- dell’illegittimità della modifica apportata al trattamento pensionistico definitivo del ricorrente e del conseguente diritto dello stesso al mantenimento della liquidazione della propria pensione come individuata nel decreto n. 278 del 26/05/20009;

- dell’irripetibilità della somma di euro 3.008,83 percepita dal ricorrente a titolo di trattamento pensionistico e del conseguente diritto alla restituzione di quanto l’INPS ha già trattenuto sui ratei di pensione del ricorrente erogati dal mese di febbraio 2015;

nonchè infine per la condanna

dell’INPS all’erogazione al ricorrente della pensione annua lorda pari ad euro 17.681,38 ed alla restituzione delle somme trattenute mensilmente sulla pensione del ricorrente a far data dal febbraio 2015, maggiorate con gli interessi legali e la rivalutazione monetaria, e con ogni ulteriore e conseguenziale statuizione di legge”.

VISTI gli atti e i documenti di causa;

UDITI all’udienza del 28 gennaio 2016 l’avv. Alessandro Sciolla e l’avv. Chiara Forneris in rappresentanza e difesa del ricorrente e l’avv. Giorgio Ruta in rappresentanza e difesa dell’INPS;

RILEVATO in
FATTO

Con ricorso ritualmente notificato alle Amministrazioni convenute e depositato presso la Segreteria di questa Sezione in data 24 settembre 2015 il signor Antonio B., già Appuntato Scelto dell’Arma dei Carabinieri, collocato in congedo assoluto a decorrere dal 4 giugno 2004 e titolare della pensione iscrizione n. 10291853, chiede la declaratoria di illegittimità della modifica apportata al proprio trattamento di quiescenza definitivo con decreto n. 66 del 24.1.2014 dell’Ufficio Trattamento Economico di quiescenza del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, nonché la pronuncia di irripetibilità della somma di euro 3.000,83, richiesta in restituzione dall’INPS, con nota in data 22.12.2014, a titolo di preteso indebito formatosi sulla pensione in godimento; invoca conseguentemente la condanna dell’INPS alla corresponsione a proprio favore della pensione annua lorda sulla base della precedente liquidazione di cui al decreto del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri n. 278 del 26 maggio 2009, pari ad euro 17.681,38, e alla restituzione delle somme trattenute mensilmente sulla pensione del ricorrente, a far data dal febbraio 2015, maggiorate di interessi e rivalutazione monetaria.

Risulta in atti che a decorrere dal 4.6.2004, data di collocamento del signor B.. in congedo assoluto, il Ministero della Difesa – Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri provvedeva a conferire e liquidare al medesimo il trattamento provvisorio di quiescenza iscrizione n. 10291853.

Successivamente, con decreto di pensione ordinaria n. 664 del 26 ottobre 2007 veniva conferito il trattamento ordinario definitivo di pensione di euro 15.060,86, a decorrere dal 4.6.2004, adeguato ad euro 15.104,60 a decorrere dal 1.1.2005.

A seguito di ricorso giurisdizionale proposto dal signor B.. avanti a questa Sezione, conclusosi con sentenza n. 231/2009, il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri provvedeva, con decreto n. 278 del 26 maggio 2009, a riliquidare la pensione secondo il sistema retributivo, riconoscendo al ricorrente, grazie alla ricongiunzione di periodi assicurativi ai sensi della legge n. 29/1979, un’anzianità contributiva, al 31.12.1995, superiore a diciotto anni utili. La pensione ordinaria annua lorda veniva quindi commisurata nella somma di euro 17.625,74 a decorrere dal 4.6.2004, adeguata ad euro 17.681,38 a decorrere dal 1.1.2005.

Rileva il ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio che tale ultima riliquidazione veniva pienamente “recepita dalla sede I.N.P.D.A.P. di Cuneo, che ha rimborsato quanto trattenuto illegittimamente (docc. 6 e 7 – comunicazione del 22/09/2009 e del 28/06/2010)”; osserva altresì che il trattamento pensionistico definitivo sarebbe stato erogato per le annualità dal 2004 al 2015 sulla base della liquidazione effettuata, in via definitiva, con il decreto n. 278 del 26 maggio 2009.

Successivamente lo stesso Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, con decreto n. 66 del 24 gennaio 2014, modificava nuovamente l’ammontare della pensione del ricorrente, adducendo preteso errore nel computo riportato nel decreto n. 278 del 26 maggio 2009.

Con nota del 22.12.2014 la Direzione Provinciale INPS di Cuneo informava il ricorrente dell’intervenuta riliquidazione disponendo contestualmente il recupero della somma di euro 3.008,63 mediante ritenuta mensile imponibile di euro 334,31 sulla pensione in godimento.

In punto di diritto il ricorrente contesta, nell’ambito del primo motivo di ricorso, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 203, 204 e 205 D.P.R. n. 1092/1973 nonché dei principi di proporzionalità, ragionevolezza ed imparzialità oltre al travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti.

Secondo la prospettazione attorea i provvedimenti oggetto di impugnazione sarebbero illegittimi in quanto opererebbero una modifica del trattamento pensionistico definitivo al di fuori dei limiti tassativi posti dagli artt. 203 e ss. D.P.R. n. 1092/1973.

Nell’ambito della citata disciplina il legislatore avrebbe individuato in tre anni il limite temporale entro il quale la Pubblica Amministrazione può modificare il provvedimento di liquidazione definitivo della pensione a seguito di proprio errore; possibilità che sarebbe preclusa una volta superato il predetto termine.

Nella fattispecie la riliquidazione definitiva della pensione del signor B.. sarebbe avvenuta con decreto n. 278 del 26.5.2009, “registrato in data 01/09/2009”, mentre l’Arma dei Carabinieri avrebbe modificato la liquidazione definitiva pensionistica il 24.01.2014, ossia quattro anni e mezzo dopo la registrazione del provvedimento, asseritamente intervenuta in data 1.9.2009.

Tale tipologia di errore rientrerebbe esattamente tra quelle descritte dall’art. 204 lett. a) e b) del D.P.R. n. 1092/1973 in quanto sarebbe causato dalla mancata considerazione di elementi già risultanti dagli atti e riguarderebbe il calcolo e l’ammontare della pensione: la modifica dell’importo pensionistico sarebbe infatti giustificato dal preteso errore consistente nel non aver tenuto conto che l’interessato aveva meno di 15 anni utili di anzianità al 31.12.1992 ovvero di un elemento già riscontrato in precedenza.

Secondo la tesi difensiva del ricorrente, quindi, una volta rilevato il decorso del termine, andrebbe disposto “il necessario annullamento del decreto n. 66 ed il riconoscimento del diritto del ricorrente a veder disciplinato il proprio trattamento pensionistico, anche per il futuro, in base al solo decreto n. 278 del 26/05/2009, con una pensione annua, “da durare a vita”, pari a euro 17.681,38”, con conseguente richiesta di restituzione di quanto indebitamente trattenuto.

Con un secondo motivo di ricorso il signor B.. rileva che, anche in relazione al merito del preteso errore addotto dall’Amministrazione, i provvedimenti impugnati sarebbero comunque illegittimi in quanto adottati in violazione dell’art. 40 D.P.R. n. 1092/1973, che prevede l’ arrotondamento delle frazioni di anno e stabilisce espressamente che la frazione superiore a sei mesi debba essere computata come anno intero.

Precisa il ricorrente che, seppur la disposizione risulti implicitamente abrogata dall’art. 59 L. n. 449/1997, gli effetti debbano ritenersi operare esclusivamente per le anzianità contributive maturate a partire dal 1.1.1998 e non possa essere applicata al computo degli anni di anzianità fino al 31.12.1992: la disposizione non potrebbe quindi valere per il ricorrente, che avrebbe maturato anteriormente al 31.12.1992 un’anzianità contributiva pari a 14 anni, 7 mesi e 2 giorni, con frazione del 14° anno superiore a sei mesi.

Sussisterebbe quindi pienamente il diritto del signor B.. a vedersi riconosciuti 15 anni di anzianità contributiva al 31.12.1992.

Con un terzo motivo di ricorso il signor B.. contesta una violazione dell’art. 206 D.P.R. n. 1092/1973 secondo il quale sarebbe possibile il recupero delle somme corrisposte indebitamente nella sola ipotesi, tassativa, di accertamento di un fatto doloso del pensionato che abbia cagionato la modifica del trattamento pensionistico; circostanza ritenuta insussistente nella fattispecie.

La difesa del ricorrente evidenzia altresì che l’irripetibilità della somma percepita dal ricorrente conseguirebbe, oltre che dalle norme sopra richiamate, anche dalla tutela del legittimo affidamento.

Richiama a tal fine la giurisprudenza contabile, con particolare riguardo ai principi enunciati dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti con la sentenza n. 2/QM/2012. Sarebbe infatti evidente la posizione di legittimo affidamento ingeneratosi nel ricorrente in merito all’ammontare della propria pensione, come individuata in via definitiva nel 2009.

In via di subordine, per la denegata ipotesi in cui dovessero considerarsi ripetibili le somme erogate al ricorrente, la difesa eccepisce la parziale prescrizione del credito vantato dall’INPS, con riguardo alle somme percepite in data anteriore al 31.12.2004 ovvero, in base all’atto di recupero, nel periodo 4.9.2004 -31.12.2004. In ultimo, il ricorrente contesta i conteggi effettuati dall’INPS in relazione alla quantificazione dell’indebito chiedendo che, in caso di mancato accoglimento delle doglianze relative all’illegittimità della modifica della liquidazione definitiva ed all’irripetibilità totale delle somme richieste, la condanna alla restituzione delle somme non dovute sia limitata- sulla base dei conteggi effettuati e depositati dallo stesso ricorrente- all’importo di euro 1.106,12, maggiorati con interessi legali e rivalutazione.

Con memoria difensiva depositata presso la Sezione in data 15 gennaio 2016 si è costituito in giudizio l’INPS chiedendo, in via principale, di rigettare integralmente il ricorso e, in subordine, in ipotesi di pronuncia di irripetibilità delle somme indebitamente percepite da parte ricorrente, di ritenere e dichiarare il diritto dell’Istituto previdenziale ad ottenerne la rifusione da parte del Ministero della Difesa – Arma dei Carabinieri, con conseguente condanna di quest’ultimo a corrispondere all’INPS la somma equivalente a quanto erogato dall’Istituto in eccedenza sul trattamento di quiescenza del ricorrente dal 1.1.2006.
In punto di diritto la difesa dell’INPS argomenta in ordine al preteso “diritto/dovere dell’Istituto di ripetere, ex art. 2033 c.c. e 162 del D.P.R. n. 1092/1973, le somme indebitamente percepite a titolo di trattamento provvisorio di quiescenza”.

Secondo la prospettazione difensiva dell’Istituto previdenziale, ai sensi dell’art. 162 citato, l’azione di ripetizione di quanto indebitamente percepito dal pensionato sul trattamento provvisorio di quiescenza, come accertato e determinato per effetto dell’avvenuta comunicazione, da parte dell’Amministrazione Statale ex datrice di lavoro, del provvedimento di liquidazione del trattamento definitivo, si configurerebbe come atto dovuto, con il limite rappresentato dalle sole modalità di detto recupero, che non dovrebbero essere eccessivamente gravose; l’INPS richiama a supporto della propria tesi la giurisprudenza contabile, con particolare riguardo alla pronuncia n. 2/QM/2012.

Rileva altresì la difesa dell’Istituto la circostanza che, in tutti i casi in cui il provvedimento di pensione sia stato emesso e riliquidato dall’Amministrazione ex datrice di lavoro, quest’ultima dovrebbe ritenersi il principale interlocutore processuale in quanto ordinatore primario della spesa, avendo proceduto direttamente al calcolo e alla quantificazione dell’ammontare del detto trattamento. Secondo tale prospettazione il fondamento normativo dell’azione di “rivalsa” che l’Istituto intende esperire nei confronti del Dicastero si rinverrebbe quindi nelle disposizioni che disciplinano il procedimento di liquidazione della pensione di cui al D.P.R. n. 1092/1973 e, ove necessario, richiamando in via analogica i principi espressi nell’art. 8, secondo comma, del D.P.R. n. 536/1986 e, prima ancora, nell’art. 30, comma 4, del D.L. 28.2.1983 n. 55, convertito nella Legge n. 131/1983.

Richiamando l’orientamento giurisprudenziale favorevole alla tesi sostenuta la difesa dell’INPS evidenzia inoltre che i principi derivanti da tali disposizioni, tenuto conto della sopravvenuta omogeneizzazione a livello legislativo dei sistemi pensionistici dei dipendenti pubblici, dovrebbero ritenersi avere valenza generale per cui dovrebbero ritenersi applicabili a tutta la gamma di pensioni amministrate dall’INPS (Gestione ex INPDAP). In ordine alla predetta domanda, anche in linea con il più recente orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, non dovrebbe quindi dubitarsi in ordine alla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti. L’INPS insiste quindi per l’accoglimento delle rassegnate conclusioni.

Con successiva memoria in data 15 gennaio 2016 il signor B.. ha richiamato i contenuti dell’atto introduttivo ribadendo che la riliquidazione della pensione effettuata con il decreto n. 66 del 24.1.2014 si porrebbe in violazione degli artt. 203, 204 e 205 D.P.R. n. 1092/1973 in quanto giunta ben oltre il limite temporale entro il quale può essere revocato o modificato il trattamento pensionistico definitivo. Pertanto il signor B.. vanterebbe il diritto alla reintegrazione della pensione annua lorda di euro 17.681,38, come individuata nel decreto n. 278 del 26.5.2009.

Il ricorrente ha rammentato altresì che nella denegata ipotesi in cui si ritenesse sussistente l’indebito generato sulla pensione il recupero delle somme sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 206 d.p.r. n. 1092/1973. Secondo la prospettazione difensiva l’indebito sarebbe irripetibile anche applicando i principi individuati dalla giurisprudenza per il recupero dei conguagli tra pensione provvisoria e definitiva; da ciò l’illegittimità della trattenuta effettuata dall’INPS e l’obbligo di restituzione maggiorato di interessi e rivalutazione.

All’udienza in data 28 gennaio 2016 sono comparsi l’avv. Alessandro Sciolla e l’avv. Chiara Forneris in rappresentanza e difesa del ricorrente e l’avv. Giorgio Ruta in rappresentanza e difesa dell’INPS. Nessuno è comparso per il Ministero della Difesa e per l’Arma dei Carabinieri.

L’Avv. Alessandro Sciolla ha illustrato i motivi di ricorso replicando alla memoria INPS e sottolineando che la fattispecie in esame riguarderebbe ipotesi di indebito derivante da riliquidazione di una pensione definitiva e non di indebito formatosi per differenza tra liquidazione di trattamento di quiescenza provvisorio e pensione definitiva. Ha altresì evidenziato che tale riliquidazione è dovuta ad errore nel computo o, comunque, ad errore di diritto e sarebbe avvenuta oltre il termine triennale non essendo imputabile a comportamento doloso del ricorrente. Ha infine rilevato che la riliquidazione effettuata nel 2014 è stata disposta d’ufficio e non su istanza del ricorrente insistendo per l’accoglimento delle conclusioni.

L’Avv. Giorgio Ruta, in rappresentanza dell’INPS, ha richiamato la memoria sottolineando che alcun errore sarebbe comunque imputabile all’Istituto previdenziale, il quale è organo esecutore delle determinazioni dell’Amministrazione datrice di lavoro. Ha inoltre depositato le ordinanze n. 41/2015 e n. 56/2015 della Sezione Giurisdizionale per la Regione Liguria in relazione alla domanda di rivalsa, insistendo per l’accoglimento delle conclusioni.

Ritenuto in
DIRITTO

Il thema decidendum del presente giudizio concerne la valutazione di ammissibilità e legittimità della modifica in peius del trattamento pensionistico definitivo di quiescenza di titolarità del ricorrente, intervenuta con decreto n. 66 del 24.1.2014 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, in riforma del precedente decreto n. 278 del 26 maggio 2009 con il quale lo stesso Comando aveva già disposto una prima riliquidazione del trattamento ordinario definitivo di pensione del signor B.. secondo il sistema retributivo nonchè l’accessoria domanda volta all’accertamento di pretesa irripetibilità della somma di euro 3.008,83, trattenuta a titolo di indebito pensionistico in forza dell’atto di recupero INPS del 22.12.2014.

Va preliminarmente rilevato che - secondo quanto chiarito da un consolidato orientamento della giurisprudenza contabile –il processo pensionistico pubblico celebrato dinanzi alla Corte dei conti, seppur introdotto mediante ricorso avverso atti o comportamenti della pubblica amministrazione, costituisce espressione di un giudizio sul rapporto anziché sull’atto; questa Corte non conosce, quindi, della legittimità di un atto al fine di eventualmente disporne l'annullamento, bensì valuta, in termini sostanziali, del concreto rapporto pensionistico dedotto in giudizio. Ne consegue che, ancorché il ricorso venga strutturato come impugnazione di atti del Ministero della Difesa e dell’INPS (peraltro di natura paritetica), lo stesso ha per oggetto il rapporto obbligatorio di quiescenza in essere tra le parti nella sua globalità e non il mero sindacato sulla legittimità degli atti posti a suo fondamento (in tal senso ex plurimis Corte dei conti, Sez. Giur. Puglia, n. 1596/2013; Corte dei conti, Sez. Giur. Liguria, n. 95/2014; Corte dei Conti, Sez. Giur. Trentino, n. 15/2014).

Nel merito, per quanto concerne la presente fattispecie, va in primo luogo rilevato che, antecedentemente alla modifica introdotta con il decreto n. 66/2014, la pensione di cui già beneficiava il signor B.. era stata liquidata in via definitiva in forza del decreto n. 278 del 26.5.2009 non emergendo da quest’ultimo provvedimento alcun elemento da cui possa desumersi la natura provvisoria prospettata dalla difesa dell’Istituto previdenziale. Più precisamente, per quanto risultante agli atti, il predetto decreto definitivo di pensione n. 278/2009 era stato adottato dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri in modifica del precedente provvedimento di riconoscimento di pensione ordinaria n. 664/2007, a seguito di proposizione di un precedente ricorso giurisdizionale da parte dell’attuale ricorrente.

Deve ritenersi, pertanto, che i parametri normativi per la valutazione dell’azione amministrativa che ha dato luogo alla presente controversia vadano ricercati nell’alveo della disciplina della revoca e della modifica del provvedimento definitivo di quiescenza, di cui agli articoli 203, 204 e 205 del citato D.P.R. 1092 del 1973.

In particolare, l’articolo 203 prevede che “Il provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza può essere revocato o modificato dall'ufficio che lo ha emesso, secondo le norme contenute negli articoli seguenti”. Al successivo articolo 204 si legge che “La revoca o la modifica di cui all'articolo precedente può aver luogo quando: a) vi sia stato errore di fatto o sia stato omesso di tener conto di elementi risultanti dagli atti; b) vi sia stato errore nel computo dei servizi o nel calcolo del contributo del riscatto, nel calcolo della pensione, assegno o indennità o nell'applicazione delle tabelle che stabiliscono le aliquote o l'ammontare della pensione, assegno o indennità; c) siano stati rinvenuti documenti nuovi dopo l'emissione del provvedimento; d) il provvedimento sia stato emesso in base a documenti riconosciuti o dichiarati falsi”.

Infine, ai sensi dell’articolo 205, primo comma, “Nei casi previsti nelle lett. a) e b) dell'art. 204 il provvedimento è revocato o modificato d'ufficio non oltre il termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso; nei casi di cui alle lett. c) e d) di detto articolo il termine è di sessanta giorni dal rinvenimento dei documenti nuovi dalla notizia della riconosciuta o dichiarata falsità dei documenti”.

Sulla base del predetto quadro normativo questo Giudice è chiamato valutare se la fattispecie in esame rientri nelle ipotesi in cui sia assentita la modifica del trattamento di pensione definitivo, in virtù della disciplina contenuta nelle predette disposizioni di legge.

Al riguardo va richiamata la pronuncia n. 15/2011/QM con la quale le Sezioni riunite di questa Corte, nell’affrontare la questione della modificabilità del trattamento di quiescenza definitivo per la pensionistica di guerra, hanno preso in esame, incidentalmente ma puntualmente, la disciplina vigente per la pensionistica ordinaria, delineandone i profili di coincidenza e di differenziazione con quella oggetto di scrutinio diretto.

In tale occasione, le Sezioni Riunite hanno precisato che la normativa speciale, di cui agli artt. 203 e ss. del D.P.R. n. 1092 del 1973, ispirata ad un favor nei confronti del pensionato, delinea una casistica compiuta e chiusa dei casi nei quali il provvedimento pensionistico definitivo può essere annullato d'ufficio, dovendosi ritenere che, al di fuori di essa, non sia ammissibile alcuna altra forma di autotutela; secondo tale prospettiva la disciplina in esame è da considerare addirittura più favorevole rispetto a quella della pensionistica di guerra, in quanto, a differenza di quest'ultima, prevede termini precisi entro i quali la "revoca" della pensione può essere disposta.

La pronuncia delle Sezioni Riunite si pone in linea con un orientamento giurisprudenziale che può dirsi consolidato: in una pluralità di fattispecie il giudice contabile, in ordine a questioni del tutto analoghe, ha statuito che “l'annullamento totale o parziale dei provvedimenti definitivi di quiescenza può ritenersi consentito all'Amministrazione soltanto nelle ipotesi ed alle condizioni espressamente previste dall' art. 203 del D.P.R. n. 1092 del 1973, rimanendo quindi preclusa tale possibilità in presenza di un errore di diritto” (ex plurimis Corte dei conti, Sez. Sardegna, n. 51/2015; Sez. Giur. Reg. Friuli-Venezia Giulia, sent. n. 129 del 20 giugno 2001; Sez. Giur. Reg. Sic., sent. n. 2149 del 19 novembre 2002) pur ammettendosi la possibilità, comunque, di modifiche migliorative del trattamento pensionistico, essendovi facoltà in tali casi per l'Amministrazione di emendare i provvedimenti dai precedenti errori, senza però ridurre il trattamento pensionistico in atto attribuito, con preclusione della ripetizione delle maggiori somme eventualmente percepite dal pensionato.

La stessa Corte Costituzionale ha inoltre espressamente escluso l'illegittimità costituzionale delle disposizioni degli artt. 203, 204 e 205 del D.P.R. n. 1092 del 1973 (Corte Costituzionale, sent. n. 91/1984) e, recentemente, è tornata a pronunciarsi, con la sentenza n. 208 del 16 luglio 2014, sulla questione di illegittimità costituzionale dell'art. 204 cit., laddove tale norma non contempla tra le ipotesi di revoca l'errore di diritto, ribadendo il principio di tassatività che caratterizza le ipotesi di revoca o modifica del provvedimento definitivo di pensione e ritenendone la conformità a Costituzione della predetta disposizione.

Il Giudice delle Leggi ha posto in chiara evidenza come le diverse ragioni dell'amministrazione e del pensionato trovino equilibrato componimento nella normativa che disciplina la liquidazione della pensione, articolandola in una duplice fase, la prima di liquidazione provvisoria, la seconda di liquidazione definitiva.

Secondo la sentenza citata, tale duplice fase liquidatoria "risponde all'esigenza di assicurare al pubblico dipendente collocato a riposo un reddito nel periodo immediatamente successivo alla cessazione della corresponsione dello stipendio ed, al contempo, di consentire una valutazione ponderata degli elementi di fatto e della portata della normativa da applicare per la liquidazione pensionistica. Necessitando quest'ultima valutazione di un congruo lasso temporale, la liquidazione provvisoria assicura la continuità nella percezione del reddito che, nel caso del pubblico dipendente, costituisce generalmente il solo o principale mezzo di sostentamento" (Corte costituzionale, Sent. n. 208 del 16 luglio 2014).

In sostanza, secondo la Corte costituzionale, la fase interinale costituisce un passaggio fisiologico e necessario nel percorso verso la liquidazione definitiva, poiché essa "suscettibile di prolungarsi anche oltre i termini previsti dall' art. 2 della L. n. 241 del 1990 o dai regolamenti attuativi di settore per l'adozione del decreto pensionistico definitivo - serve ad assicurare la continuità della prestazione retributiva, rimanendo impregiudicata la possibilità per l'amministrazione di correggere eventuali errori di qualsiasi genere in sede definitiva"(Corte costituzionale, Sent. n. 208 del 16 luglio 2014).

La Consulta individua quindi una differenziazione netta tra la fase che intercorre tra la liquidazione provvisoria e l’emissione del provvedimento di riconoscimento di pensione definitiva– nell’ambito della quale l'amministrazione conserva ampi margini di revoca o modifica del trattamento pensionistico qualora lo riconosca affetto da errori di qualsiasi genere- e la fase successiva alla liquidazione definitiva, in cui la situazione cambia radicalmente, individuandosi tassativamente i limiti e i termini di modificabilità del provvedimento dettati dalla normativa di settore.

A questo riguardo, la Corte costituzionale ha anche esaminato le diverse ipotesi previste dall'art. 204 del D.P.R. n. 1092 del 1973, richiamate dal giudice rimettente quale tertium comparationis con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione; in tale contesto, nel valutare le ipotesi di revoca e/o modifica del provvedimento definitivo per errore di fatto e per errore di calcolo in rapporto all’errore di diritto, la Corte Costituzionale ha quindi precisato che le situazioni non sono comparabili poiché “mentre l’errore di fatto consiste nella falsa percezione, per equivoco o svista, di quanto emerge incontrovertibilmente dagli atti e quello di calcolo deriva dall’erronea applicazione delle regole matematiche sulla base di dati numerici certi, l’errore di diritto è concetto in ordine alla cui individuazione assumono un peso rilevante argomentazioni induttive ed indagini ermeneutiche. L’oggettività e l’immediatezza che caratterizzano la rilevazione degli errori di fatto e di calcolo differiscono in modo sostanziale dai connotati del giudizio che accompagna la valutazione della violazione, falsa applicazione o erronea interpretazione di una norma…” aggiungendo che, per quanto concerne l’errore di diritto, la sua percezione “… non gode della medesima immediatezza. In tal modo la revoca o la rettifica eventualmente adottate entrano più facilmente in contrasto con il convincimento indotto nel pensionato dalla già intervenuta applicazione, in senso diverso e per lui più favorevole, della norma oggetto di reinterpretazione” (Corte costituzionale, sent. n. 208 del 16 luglio 2014).

Poste tali premesse, occorre verificare la natura dell’errore che ha condotto l’Amministrazione a modificare il trattamento definitivo di cui al decreto n. 278/2009, in ordine al quale era peraltro già intervenuto il pronunciamento di questa stessa Sezione (sent. n. 231/2009) che, proprio a fronte dell’adozione del predetto atto, aveva dichiarato la parziale cessazione della materia del contendere in relazione al ricorso illo tempore proposto dal signor B... Nell’atto introduttivo del giudizio il ricorrente afferma che la modifica in pejus del proprio trattamento dovrebbe rientrare nella ipotesi di cui ai capi a) e b) dell’art. 204 del T.U. n. 1092/1973 “sia perché è stato causato dalla mancata considerazione di elementi già risultanti dagli atti (il decreto n. 278 del 26/5/2009 riportava espressamente il computo dell’anzianità al 31/12/1992 in 14 anni, 7 mesi e 2 giorni – cfr. pag. 1 doc. 5 tabella “serie dei servizi quota 2”) sia perché l’errore riguarda il calcolo e l’ammontare della pensione” (pag. 6 ricorso); secondo quanto precisato dalla difesa del ricorrente nel corso dell’udienza di discussione in data 28.1.2016 l’errore di cui trattasi potrebbe comunque qualificarsi come errore di diritto. In entrambe le ipotesi, secondo la tesi attorea, il decreto definitivo di pensione n. 278/2009 non sarebbe più stato modificabile, quantomeno per essere intervenuto oltre i termini di legge.

Orbene, nella vicenda in esame si osserva che la riliquidazione del trattamento pensionistico ordinario del ricorrente, avvenuta con il decreto n. 66 del 24 gennaio 2014 impugnato, appare determinata da una diversa interpretazione dell’art. 40 del d.p.r. n. 1092/1973 in relazione all’art. 59 c. 1 della l. n. 449/1997 con riferimento agli arrotondamenti di frazioni di anno ai fini della determinazione dell’anzianità contributiva: nell’ambito della liquidazione della pensione ordinaria di cui al decreto n. 278 del 26 maggio 2009 l’anzianità contributiva pari a 14 anni, 7 mesi e 2 giorni al 31.12.1992 (già riconosciuta nel prospetto riepilogativo dei servizi utili al trattamento di quiescenza emesso il 11.3.2004 del Comando Regionale Carabinieri di Piemonte e Valle d’Aosta) era stata oggetto di arrotondamento a 15 anni (in forza della disposizione di cui al citato art. 40) mentre nel successivo decreto n. 66/2014 è prevalsa l’interpretazione secondo la quale tale arrotondamento non potesse più ritenersi ammesso, dovendo considerarsi la norma implicitamente abrogata anche con riguardo ai servizi svolti antecedentemente all’entrata in vigore dell’art. 59 L. n. 449/1997.

Per quanto emergente dagli atti di causa l'intervento si appalesa quindi mirato a eliminare un preteso errore di diritto che, secondo costante giurisprudenza, non può ritenersi rientrare tra i casi che consentono interventi modificativi del trattamento pensionistico definitivo.

Ciò in quanto, secondo quanto affermato recentemente dalla Corte Costituzionale, "L'esclusione della rilevanza dell'errore di diritto dai casi consentiti di modifica o revoca del provvedimento definitivo sul trattamento di quiescenza non è irragionevole o arbitraria, essendo volta - come detto - a soddisfare esigenze di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento le quali, già cedevoli nella fase interinale precedente alla liquidazione definitiva, prevalgono successivamente, per effetto di un diverso bilanciamento con l'interesse antagonista del ripristino della legittimità dell'azione amministrativa" (Corte Cost. sent. n. 208/2014).

Pertanto, poiché i provvedimenti definitivi di pensione non possono essere modificati o revocati esclusivamente in relazione a profili di nuova interpretazione e riconsiderazione, sul piano strettamente giuridico, di elementi già desumibili e verificati nei precedenti provvedimenti deve escludersi che il decreto di liquidazione della pensione ordinaria n. 276/2009 potesse subire la modificazione in peius introdotta con il successivo decreto n. 66/2014.

Peraltro, anche qualora la modifica del trattamento definitivo volesse ascriversi, come inizialmente prospettato dal ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito dell’errore di fatto ovvero nel computo dei servizi di cui alle lettere a) e b) dell’art. 204 d.p.r. n. 1092/1973, la rideterminazione di cui al decreto n. 66/2014 dovrebbe ritenersi comunque assunto in violazione dell’art. 205 del citato d.p.r. che prevede che "il provvedimento è revocato o modificato non oltre il termine di tre anni dalla data di registrazione del provvedimento stesso".

Termine che dovrebbe ritenersi, a fortiori, superato anche sul rilievo che “i provvedimenti pensionistici, a seguito dell’entrata in vigore della legge n.20/94 non rientrano più tra quelli sottoposti a controllo preventivo e, pertanto, a maggior ragione il termine triennale previsto dai citati artt.203 e seguenti del D.P.R. n.1092/1973 decorre dalla data della loro emanazione” (Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia n. 150/2010; Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia n. 78/2015).

Il decreto di riliquidazione della pensione ordinaria (n. 66/2014) è stato adottato ben oltre il termine triennale previsto dalla norma su richiamata e, pertanto, anche sotto questo aspetto, l'intervento modificativo non avrebbe potuto essere adottato; risulta infatti che il Decreto definitivo di pensione n. 276 sia stato adottato in data 26 maggio 2009, registrato presso la Ragioneria Provinciale dello Stato de L’Aquila in data 1 settembre 2009 e presso la Corte dei conti, Sezione Regionale di Controllo de L’Aquila, il 9 aprile 2010 (cfr. attestazione doc. 2 fascicolo amministrativo prodotto dall’INPS in data 16 ottobre 2015) mentre il decreto qui impugnato n. 66 risulta assunto in data 24.1.2014.

Atteso quanto sopra, ritenute assorbite le diverse censure prospettate da parte ricorrente, anche in forza del criterio della ragione più liquida (cfr. Cass., Sez. VI, n. 12002/2014), consegue che il signor B.. ha diritto ad aver ripristinato l'originario trattamento pensionistico ordinario disposto con Decreto n. 278 del 26.5.2009.

Sulle maggiori somme da corrispondere in relazione ai singoli ratei vanno riconosciuti interessi e rivalutazione secondo il criterio dell'assorbimento.

Va altresì restituita da parte dell’INPS al ricorrente la somma recuperata in seguito all’adozione della nota INPS- Direzione Provinciale di Cuneo del 22.12.2014, in applicazione del Decreto n. 66 del 24.1.2014 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri.

In considerazione della circostanza che, in ordine al predetto recupero, l'Amministrazione ha agito in carenza di potere perché in violazione del divieto di riforma del provvedimento di liquidazione definitivo oltre il termine triennale di cui all’art.205 d.p.r. n. 1092/1973 e, conseguentemente, la restituzione della somma non è dipesa da un indebito pensionistico, anche sulle somme restituite vanno corrisposti al ricorrente gli accessori di legge (cfr. Corte dei conti, Sez. Giur. Sicilia, n. 521/2015).

Non può invece ritenersi correttamente proposta né, quindi, esaminata nel merito la domanda di rivalsa avanzata dall'INPS - Gestione ex INPDAP nei confronti del Ministero della Difesa- Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, tesa alla rifusione della somma ritenuta irripetibile.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di affermare che, per il giudizio di rivalsa che l'Istituto intende promuovere nei confronti dell'Amministrazione, non si verta in ipotesi di litisconsorzio necessario con l'Amministrazione stessa, nell'ambito del giudizio sulla ripetibilità nei confronti del pensionato e che non sia, quindi, necessaria la contestualità, considerata l'autonomia delle due diverse pretese azionate e la conseguente autonomia dei relativi giudizi (ex plurimis Corte dei conti, Sez. Giur I d'Appello, sent. n. 459 del 20.3.2014, sent. n. 418 del 14.3.2014, sent. n. 340 del 28.2.2014).

E’ stato osservato, in proposito, che la domanda subordinata di rivalsa proposta dall'Ente previdenziale introduce una controversia diversa - sia per petitum, che per causa petendi - rispetto alla domanda di irripetibilità del pensionato, ben potendo la predetta domanda essere proposta anche in autonomo giudizio (ex plurimis Corte dei Conti, Prima Sezione Centrale d'Appello n. 764/2012, id. n. 766/2012; Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale del Veneto n. 42/2013, n. 47/2013).

E’ stato altresì rilevato che la trattazione congiunta alla domanda proposta dal ricorrente, della pretesa di rivalsa avanzata dall’INPS nei confronti del Ministero, ordinatore primario di spesa, espone a dilatare ingiustificatamente ed eccessivamente i tempi di durata e di definizione del processo da contenersi, invece, nei limiti del principio di ragionevolezza, presidiato da norma di rango costituzionale (art. 111, c. 2, Cost.) con conseguente rigetto della richiesta di integrazione del contraddittorio formulata dall'I.N.P.S nelle ipotesi in cui l’Amministrazione datrice di lavoro non sia stata contestualmente evocata in giudizio dallo stesso ricorrente.

Questa Sezione, sulla base di analoghe argomentazioni, ha escluso l’accoglibilità della predetta domanda anche nell’ipotesi in cui l’Amministrazione ordinatrice primaria di spesa risultasse già evocata in giudizio dal ricorrente, contestualmente all’INPS (Corte dei conti, Sez. Giur. Piemonte, sent. n. 36/2014; id. n. 142/2014).

La Sezione ha avuto modo di affermare, in proposito, che la domanda, avanzata dall’I.N.P.S. in subordine, di condanna diretta dell’Amministrazione datrice di lavoro, debba ritenersi esulare dal giudizio incardinato dal ricorrente con diverso petitum, facendo rilevare in proposito che “… le attribuzioni di ordinatore principale e secondario di spesa costituiscono una mera ripartizione di competenza di apparati della pubblica amministrazione comunque costituenti nel loro complesso la figura di obbligato passivo (v. C. conti, sez. III, 4 luglio 2001, n. 175/A). Né ai fini del giudizio rileva l’eventuale responsabilità di chi ha concretamente operato, trattandosi soltanto di accertare in questa sede se sussiste o meno il diritto vantato dal ricorrente” (Corte dei conti, Sez. Giur. Piemonte, sent. n. 36/2014).

Si richiama, sul punto l’orientamento espresso dalle Sezioni Centrali d’appello (I^ Sez. Giur. Centr. App. n. 767/2012/A e n. 109/2013) in cui è ribadito “il carattere organizzatorio ed interno della questione relativa all’incidenza finale degli oneri derivanti da una pronuncia di irripetibilità dell’indebito e ciò per la struttura sostanzialmente unitaria dell’Amministrazione e l’estraneità ad un giudizio a tal fine incardinato, della domanda relativa all’individuazione del soggetto cui devono essere addossati da ultimo gli oneri economici risultanti dalla corresponsione delle somme risultate non dovute (e dichiarate, come nella specie, anche se solo in parte, irripetibili) (Corte dei conti, Sez. Giur. Piemonte, n. 36/2014; Corte dei conti, Sez. Lazio, n. 331/2014).

In relazione alla medesima domanda di rivalsa appare peraltro dirimente e preliminare ad ogni considerazione di merito il mancato rispetto delle norme circa l’instaurazione del contraddittorio (cfr. Corte dei conti, Sez. I App. n. 449/2015; Corte dei conti, Sez. Lazio, n. 331/2014).

Come evidenziato dalla giurisprudenza contabile in fattispecie analoghe, la pretesa avanzata in via subordinata dall’INPS “non può configurarsi come domanda riconvenzionale, posto che essa non è stata proposta nei confronti dell’attore del presente giudizio, ma nei confronti di altro soggetto convenuto dall’attore e senza le forme che garantiscono il rispetto del principio del contraddittorio” (cfr. Corte dei conti, Sez. Lazio, n. 331/2014; Corte dei conti, Sez. I App. n. 449/2015).

Anche volendo ammettersi, quindi, la proponibilità di una domanda trasversale di rivalsa nell’ambito del processo pensionistico avanti alla Corte dei conti, come formulata nel caso di specie dall’Istituto Previdenziale, reputa questo Giudice che la stessa dovrebbe comunque soggiacere all'onere di garantire la corretta instaurazione del contraddittorio tra le parti convenute nelle ipotesi che le stesse spieghino reciprocamente autonome domande (sugli aspetti processuali si fa rinvio alla sentenza di questa Sezione n. 29/2013 che richiama le pronunce delle SS.RR. della Corte dei conti, nn. 2/QM/2002 e 4/QM/2004).
Si rileva appena che la preclusione all’esame nel merito della domanda riconvenzionale nel presente processo non esclude la proponibilità della stessa nell’ambito di un autonomo giudizio.

Quanto alla regolamentazione delle spese, si osserva preliminarmente che risulta applicabile, ratione temporis, alla fattispecie, la modificazione dell’art. 92 c.p.c. introdotta dall’art. 13 d.l. n. 132 in data 12.9.2014, convertito nella legge 10 novembre 2014, n. 162. Tenuto conto dei richiamati recenti interventi giurisprudenziali sulla questione concernente la “revoca”, per errore, della pensione definitiva si reputano sussistenti i presupposti per la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la regione Piemonte, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, respinta ogni diversa domanda, eccezione, deduzione

ACCOGLIE

il ricorso in epigrafe e, per l’effetto, dichiara il diritto del signor B.. Antonio a vedere ripristinato il trattamento pensionistico disposto con decreto n. 278 del 26 maggio 2009 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri nonché all’integrale restituzione al medesimo delle somme indebitamente trattenute in forza della nota INPS- Direzione Provinciale di cuneo in data 22.12.2014 ed alla corresponsione, su quanto dovuto in esecuzione della presente sentenza, della maggior somma tra interessi legali e rivalutazione monetaria, ai sensi dell’art. 429, c.3 c.p.c., tenuto conto dei principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte dei conti, n. 10/2002/QM del 18 ottobre 2002.

Spese compensate.

Ai sensi dell’art. 429 c.p.c. fissa in sessanta giorni il termine per il deposito della motivazione

Così deciso in Torino il 28 gennaio 2016.

Il GIUDICE
(F.to dott.ssa Ilaria Annamaria Chesta)


Depositata in Segreteria il 29 Febbraio 2016


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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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revoca ed il contestuale recupero del premio di congedamento di cui all’art. 38 della legge n. 574 del 1980.
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Il CdS "rimprovera" l'Amministrazione per alcune cose.

1) - Secondo il ricorrente, infatti, 1'Amministrazione, a fronte di una somma netta corrisposta pari a 4.878,13 euro avrebbe proceduto a recuperare la maggiore somma lorda di 8.557,43 euro, senza considerare che una parte di tale somma non sarebbe entrata nella disponibilità del ricorrente, trattandosi di contributi previdenziali ed oneri fiscali e, dunque, di somme “che non possono essere richieste in restituzione al ricorrente”.

2) - Nella specie, infatti, il premio sarebbe stato accreditato al ricorrente nel mese di aprile 2006 mentre il provvedimento di recupero gli sarebbe stato comunicato solo in data 22 febbraio 2013.......

IL CdS precisa:

3) - Preliminarmente la Sezione osserva che la categoria degli Ufficiali in ferma prefissata - categoria cui è appartenuto il ricorrente - è stata istituita con il d. lgs. 8 maggio 2001, n. 215 e che gli artt. 24, comma 1 e 28, comma 4 del citato d. lgs. n. 215 del 2001, applicabili al caso di specie ratione temporis, hanno esteso ai suddetti Ufficiali le norme sullo stato giuridico e economico previste per gli Ufficiali di complemento.

4) - nota dell'Agenzia delle entrate del 23 maggio 2013 - depositata in atti e relativa ad un interpello concernente una fattispecie analoga a quella in esame - atteso che l’Agenzia delle entrate, tramite tale nota, si è espressa per la legittimità della richiesta di recupero dell’indebito al lordo delle ritenute di legge sulla base di quanto disposto dall’art. 10, comma 1, lett. d-bis) del d. P.R. n. 917 del 1986 (TUIR) e, dunque, sulla base di un articolo che statuisce la deducibilità dal reddito complessivo del contribuente di tutte le somme restituite in quanto indebitamente percepite e non le modalità concrete con cui detto recupero deve aver luogo.

5) - Il richiamo effettuato dall’Amministrazione al TUIR, dunque, non risulta adeguato a superare il consolidato orientamento più volte espresso dalla Corte di Cassazione e da questo Consiglio di Stato, in base al quale, come in precedenza esposto, “la ripetizione dell'indebito nei confronti del dipendente non può non avere ad oggetto le somme da quest'ultimo percepite in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente” (Cons. di Stato, Sez. VI, 2 marzo 2009, n. 1164).

N.B.: leggete per completezza il tutto qui sotto.
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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201700991 - Public 2017-05-08 -

Numero 00991/2017 e data 02/05/2017 Spedizione


REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda

Adunanza di Sezione del 5 aprile 2017

NUMERO AFFARE 03304/2013

OGGETTO:
Ministero della difesa.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal Tenente in congedo Corrado C., contro il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, avverso gli atti concernenti la revoca ed il contestuale recupero del premio di congedamento di cui all’art. 38 della legge n. 574 del 1980.

LA SEZIONE

Vista la nota del 4 ottobre 2013, prot. n. M_DGMIL2VDGVIV8SC10267045, di trasmissione della relazione del 9 agosto 2013, pervenuta alla segreteria della Sezione il 18 ottobre 2013, con la quale il Ministero della difesa ha chiesto il parere sull’affare in oggetto;

Vista la nota del 22 gennaio 2014, prot. n. M_DGMIL2VDGVIV8SC10015597, di trasmissione della relazione integrativa del 7 gennaio 2014, con cui il Ministero della difesa ha controdedotto a quanto rilevato dal ricorrente con la memoria del 6 novembre 2013;

Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Claudio Boccia.

Premesso e considerato.

1. Con il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in epigrafe il Tenente in congedo Corrado C. ha chiesto l’annullamento dell’atto, prot. n. 20309/DS del 5 ottobre 2012, con cui il Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri ha disposto la revoca dell’atto n. 14158 del 20 gennaio 2006 ed il contestuale recupero dell’emolumento erogato ai sensi dell’art. 38 della legge n. 574 del 1980, di importo lordo pari a 8.557,43 euro; della relativa nota di accompagnamento prot. n. 809614DS/44/103-1 del 13 novembre 2012; delle circolari prot. n. 98207 del 20 febbraio 2008, prot. n. 553454 del 17 novembre 2008 e prot. n. 64893 del 6 febbraio 2009; delle relative note di accompagnamento; nonché di ogni altro atto o provvedimento lesivo, inerente o connesso, preparatorio o conseguenziale.

2. Con la relazione istruttoria in epigrafe il Ministero riferente si è espresso per il rigetto nel merito del ricorso in esame.

Con la memoria del 6 novembre 2013 il ricorrente ha impugnato la nota prot. n. 809614DS/44/103-7-2012 del 9 settembre 2013 - con cui gli è stato comunicato “il riavvio del procedimento” di recupero, sospeso con la nota prot. n. 809614DS/44/103-2-2012 del 21 gennaio 2013 - ed ha ulteriormente articolato le censure di cui al ricorso in oggetto.

Con la relazione integrativa in epigrafe il Ministero riferente ha istruito le controdeduzioni formulate dal ricorrente e si è nuovamente espresso per il rigetto del ricorso in esame.

3. Ciò posto, la Sezione ritiene di essere in possesso di sufficienti elementi per procedere all’esame della controversia.

Con il primo motivo di gravame il ricorrente ha dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per erroneità del quantum richiesto.

Secondo il ricorrente, infatti, 1'Amministrazione, a fronte di una somma netta corrisposta pari a 4.878,13 euro avrebbe proceduto a recuperare la maggiore somma lorda di 8.557,43 euro, senza considerare che una parte di tale somma non sarebbe entrata nella disponibilità del ricorrente, trattandosi di contributi previdenziali ed oneri fiscali e, dunque, di somme “che non possono essere richieste in restituzione al ricorrente”.

Inoltre, il provvedimento impugnato farebbe riferimento ad “ulteriori somme a titolo di non meglio specificate competenze stipendiali e/o assegni, a detta dell’Amministrazione, non dovute al ricorrente ed erroneamente corrisposte” ma l’Amministrazione stessa, nel procedere al recupero di tali somme, non avrebbe esplicitato né “di quali retribuzioni trattasi” né “il criterio di calcolo adoperato dall’Amministrazione per il recupero”, con la conseguenza che i provvedimenti impugnati dovrebbero ritenersi, sotto questo profilo, illegittimi.

Con il secondo motivo di gravame il ricorrente ha dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione e falsa applicazione dell'art. 2948, comma 1, n. 5) del Codice Civile, atteso che, secondo il ricorrente, l’Amministrazione avrebbe disposto il recupero del premio di congedamento dopo il decorso del termine prescrizionale quinquennale di cui al succitato art. 2948 del Codice Civile. Nella specie, infatti, il premio sarebbe stato accreditato al ricorrente nel mese di aprile 2006 mentre il provvedimento di recupero gli sarebbe stato comunicato solo in data 22 febbraio 2013 e, dunque, “ben oltre il termine di prescrizione” in precedenza citato.

Con il terzo motivo di gravame il ricorrente ha dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione e falsa applicazione dell'art. 38 della legge n. 574 del 1980, degli artt. 24, comma 1 e 28, comma 4 del d. lgs. n. 215 del 2001 e dell'art. 2033 del Codice Civile nonché per “applicazione retroattiva di circolari”.

Secondo il ricorrente, infatti, 1’Amministrazione, nel disporre il recupero del premio in precedenza erogato, avrebbe pedissequamente applicato alla fattispecie in esame le norme che disciplinano il trattamento economico degli Ufficiali di complemento, senza tener conto delle sostanziali differenze tra questa categoria e quella degli Ufficiali in ferma prefissata.

Inoltre, attraverso le circolari anch’esse oggetto della presente impugnativa - tutte adottate in un momento successivo rispetto all’erogazione del premio - l’Amministrazione avrebbe innovato, con effetto retroattivo, l'ordinamento giuridico, prevedendo condizioni di attribuzione del beneficio economico non previste dalla normativa di settore che, sul punto, prevedrebbe esclusivamente che “agli Ufficiali in ferma prefissata si applica il trattamento (economico) previsto per gli Ufficiali di complemento” (art. 28, comma 4 del d. lgs. n. 215 del 2001).

All’epoca dell’attribuzione del premio di congedamento, dunque, non vi era alcuna norma che precludeva la concessione del premio al ricorrente, con la conseguenza che il recupero di detto emolumento da parte dell’Amministrazione non potrebbe che ritenersi illegittimo, essendosi basato fra l’altro su circolari dell’Amministrazione, prive di valore normativo e non applicabili retroattivamente.

Con il quarto motivo di gravame il ricorrente ha dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione e falsa applicazione degli artt. 21 quinquies, 21 nonies e 3, commi 1 e 3 della legge n. 241 del 1990, atteso che 1'Amministrazione avrebbe proceduto alla revoca del beneficio in questione senza evidenziare sopravvenute ragioni di pubblico interesse e senza motivare in ordine alla ragioni sottese al provvedimento impugnato.

Infine, con il quinto motivo di gravame il ricorrente ha dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990, non avendo l’Amministrazione assicurato le necessarie garanzie partecipative poiché gli avrebbe inviato la relativa comunicazione di avvio solo al termine della procedura di recupero.

4. Tanto premesso, la Sezione ritiene che il ricorso risulti fondato nei termini che seguono.

4.1 Preliminarmente la Sezione osserva che la categoria degli Ufficiali in ferma prefissata - categoria cui è appartenuto il ricorrente - è stata istituita con il d. lgs. 8 maggio 2001, n. 215 e che gli artt. 24, comma 1 e 28, comma 4 del citato d. lgs. n. 215 del 2001, applicabili al caso di specie ratione temporis, hanno esteso ai suddetti Ufficiali le norme sullo stato giuridico e economico previste per gli Ufficiali di complemento.
Inoltre, deve rilevarsi che il premio di fine ferma, all’epoca dei fatti controversi, era disciplinato, per gli Ufficiali di complemento, dall’art. 38 della legge 20 settembre 1980, n. 574, il quale prevedeva la concessione di tale beneficio agli Ufficiali di complemento soltanto nell’ipotesi in cui i medesimi fossero stati ammessi all’ulteriore “ferma volontaria di due anni”.

Dal descritto quadro normativo emerge, dunque, con sufficiente chiarezza che, anche per gli Ufficiali in ferma prolungata, la corresponsione del premio di fine ferma era subordinato, in base alla legislazione vigente all’epoca dei fatti, alla prestazione da parte dell’Ufficiale interessato di un ulteriore periodo di ferma.

Orbene, nel caso di specie, il ricorrente, arruolato nell’Arma dei Carabinieri in data 9 settembre 2004 e nominato Tenente in ferma prefissata il 22 novembre 2004, è stato collocato in congedo per fine ferma in data 23 marzo 2006, non essendo stato ammesso all’ulteriore periodo di ferma volontaria: ne deriva, quindi, che l’Amministrazione ha legittimamente proceduto a richiedere all’interessato la restituzione del succitato premio di fine ferma, erroneamente corrispostogli.

Ciò risulta, peraltro, conforme alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, dalla quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, secondo cui “il premio di fine ferma può (e deve essere) attribuito agli Ufficiali in ferma prefissata sempreché ricorrano le stesse condizioni e i medesimi presupposti che contrassegnano il riconoscimento di tale indennità per gli Ufficiali di complemento, dovendo, in particolare, sussistere la condizione per l'Ufficiale di aver contratto una ferma ulteriore e successiva rispetto a quella iniziale” (ex multis: Cons. di Stato, Sez. II, 24 ottobre 2012, n. 187/2013, Sez. IV, 16 giugno 2011, n. 3658 e Sez. III, 19 maggio 2009, n. 2820/09).

A quanto precede non può opporsi la circostanza che il recupero delle somme sarebbe avvenuto oltre il termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948, comma 1, n. 5) del Codice Civile, e ciò in quanto, in base alla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, “è consolidato il principio onde il diritto alla repetitio indebiti da parte della p.a., a norma dell'art. 2946 del codice civile, è soggetto a prescrizione ordinaria decennale il cui termine decorre dal giorno in cui le somme sono state materialmente erogate” (Cons. di Stato, Sez. IV, 17 settembre 2014, n. 4117), con la conseguenza che il provvedimento impugnato, adottato in data 5 ottobre 2012, deve ritenersi tempestivo rispetto al termine di prescrizione decennale di cui al citato art. 2946 del codice civile, avendo l’Amministrazione attribuito al ricorrente il premio con l’atto dispositivo prot. n. 14158 del 20 gennaio 2006,

4.2. La Sezione, tuttavia, non può esimersi dal rilevare che, in base alla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, dalla quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, “costituisce jus receptum che l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire detto recupero al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di ripetere le somme al lordo delle ritenute fiscali (e previdenziali e assistenziali) allorché le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente” (Cons. di Stato, Sez. IV, 3 novembre 2015, n. 5010).

Il medesimo orientamento, inoltre, risulta conforme a quello fatto proprio anche dalla Corte di Cassazione che, in proposito, ha evidenziato che “nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per eccesso. Ne consegue che, in tale evenienza, il datore di lavoro, salvi i rapporti col fisco, può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente” (Cass. Civ., Sez. Lav., 2 febbraio 2012, n. 1464).

Orbene, nel caso di specie, non risulta contestato in atti che l’Amministrazione abbia proceduto a chiedere al ricorrente la restituzione “dell'importo lordo di 8.557,43 euro”, comprensivo di imposte e contributi, con la conseguenza che, sotto il profilo in esame, la censura formulata dalla parte ricorrente con il primo motivo di gravame deve ritenersi fondata.

A quanto esposto non può, peraltro, opporsi il contenuto della nota dell'Agenzia delle entrate del 23 maggio 2013 - depositata in atti e relativa ad un interpello concernente una fattispecie analoga a quella in esame - atteso che l’Agenzia delle entrate, tramite tale nota, si è espressa per la legittimità della richiesta di recupero dell’indebito al lordo delle ritenute di legge sulla base di quanto disposto dall’art. 10, comma 1, lett. d-bis) del d. P.R. n. 917 del 1986 (TUIR) e, dunque, sulla base di un articolo che statuisce la deducibilità dal reddito complessivo del contribuente di tutte le somme restituite in quanto indebitamente percepite e non le modalità concrete con cui detto recupero deve aver luogo.

D’altronde ciò che rileva nella fattispecie non è il rapporto intercorrente tra l’interessato e l’Agenzia fiscale - regolato dal succitato art. 10, comma 1, lett. d-bis) del TUIR - ma quello fra il ricorrente e l’Amministrazione, nell’ambito del quale la seconda versa al primo gli emolumenti al netto delle ritenute fiscali (nonché previdenziali e assistenziali), con la conseguenza che non risulta logico chiedere all’interessato un adempimento che può essere posto in essere direttamente dall’Amministrazione stessa senza gravare sul soggetto interessato in maniera non utile ai fini del dovuto recupero delle somme erogate a titolo di imposte e contributi.

Il richiamo effettuato dall’Amministrazione al TUIR, dunque, non risulta adeguato a superare il consolidato orientamento più volte espresso dalla Corte di Cassazione e da questo Consiglio di Stato, in base al quale, come in precedenza esposto, “la ripetizione dell'indebito nei confronti del dipendente non può non avere ad oggetto le somme da quest'ultimo percepite in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente” (Cons. di Stato, Sez. VI, 2 marzo 2009, n. 1164).

8. Conclusivamente, alla stregua delle suesposte considerazioni, deve ritenersi fondato il primo motivo di ricorso, con la conseguenza che il ricorso stesso deve essere accolto, nei termini in precedenza esposti, con parziale assorbimento dei restanti motivi e con salvezza degli ulteriori atti che l'Amministrazione riterrà di adottare in relazione alla fattispecie in esame.

P.Q.M.

La Sezione ritiene che il ricorso debba essere accolto nei termini di cui in motivazione.



L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Claudio Boccia Gianpiero Paolo Cirillo




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Roberto Mustafà
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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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ricorso dell’INPDAP proseguito dall’INPS, perdono l'appello contro il collega CC.

- ) - recupero di somme indebitamente percepite a titolo di trattamento provvisorio.

- ) - la “restituzione delle somme erogate in eccesso” è stata chiesta “oltre 12 anni dopo la liquidazione del trattamento di quiescenza provvisorio”

Leggete il tutto qui sotto.
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SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 477 13/07/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 477 2017 PENSIONI 13/07/2017



REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SECONDA SEZIONE GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO

composta dai seguenti magistrati:
dott. Stefano Imperiali Presidente relatore
dott. Piero Floreani Consigliere
dott. Antonio Buccarelli Consigliere
dott.ssa Maria Nicoletta Quarato Consigliere
dott. Giovanni Comite Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio sull’appello n. 39956 del registro di segreteria, proposto dall’INPDAP e proseguito dall’INPS, rappresentato e difeso dall’avv. Edoardo Urso, contro il sig. Franco Cardarelli, rappresentato e difeso dall’avv. William Voarino, e nei confronti del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, per la riforma della sentenza della Sezione giurisdizionale per il Piemonte n. 160 dell’11.11.2010.

Visti gli atti del giudizio;

Uditi all’udienza dell’11.7.2017 il relatore e l’avv. Luigi Caliulo su delega per l’INPS; assente alla stessa udienza l’appellato;

Ritenuto in
FATTO

1. Con sentenza n. 160 dell’11.11.2010, notificata il 16.12.2010, la Sezione giurisdizionale per il Piemonte ha accolto un ricorso del sig. Franco Cardarelli avverso il recupero di somme indebitamente percepite a titolo di trattamento provvisorio. Ha pertanto dichiarato l’irripetibilità dell’indebito e l’obbligo dell’INPDAP di restituire gli importi già recuperati.

2. Con appello notificato il 1°.2.2011 e depositato il 23.2.2011, l’INPDAP ha chiesto la riforma della sentenza, lamentando la violazione e falsa applicazione degli artt. 162 e 206 del d.P.R. n. 1092/1973 e richiamando giurisprudenza di questa Corte (Sezioni Riunite n. 1/QM/1999 etc.) e del Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria n. 4/1984 etc.).

3. All’udienza del 17.1.2017, è stata disposta la rinnovazione della notificazione della fissazione di udienza.

L’ordinanza è stata eseguita.

Con memoria depositata il 28.6.2017, la difesa dell’appellato ha richiamato le sentenze delle Sezioni Riunite n. 7/QM/2007 e n. 2/QM/2012; ha evidenziato che la “restituzione delle somme erogate in eccesso” è stata chiesta “oltre 12 anni dopo la liquidazione del trattamento di quiescenza provvisorio” e che “la somma indebitamente percepita dall’appellato per ogni rateo mensile di pensione risulta pari a circa € 90,00”; ha anche osservato che gli indebiti pagamenti sono dipesi esclusivamente da un “errore” dell’INPDAP, senza alcuna “colpa dell’appellato”, e che comunque l’appellante “non ha in alcun modo contestato l’applicazione del principio del legittimo affidamento” da parte della Sezione territoriale. Ha chiesto in conclusione che l’appello sia respinto, con conferma della sentenza impugnata e rimborso delle spese di giudizio.

4. All’udienza dell’11.7.2017, l’avv. Luigi Caliulo ha insistito per l’accoglimento dell’appello, confermandone le argomentazioni scritte.

Considerato in
DIRITTO

1. Con sentenza n. 2/QM/2012 le Sezioni Riunite hanno precisato:

“Lo spirare di termini regolamentari di settore per l’adozione del provvedimento pensionistico definitivo non priva, ex se, l’amministrazione del diritto - dovere di procedere al recupero delle somme indebitamente erogate a titolo provvisorio; sussiste, peraltro, un principio di affidamento del percettore in buona fede dell’indebito che matura e si consolida nel tempo, opponibile dall’interessato in sede amministrativa e giudiziaria. Tale principio va individuato attraverso una serie di elementi quali il decorso del tempo, valutato anche con riferimento agli stessi termini procedimentali, e comunque al termine di tre anni ricavabile da norme riguardanti altre fattispecie pensionistiche, la rilevabilità in concreto, secondo l’ordinaria diligenza, dell’errore riferito alla maggior somma erogata sul rateo di pensione, le ragioni che hanno giustificato la modifica del trattamento provvisorio e il momento di conoscenza, da parte dell’amministrazione, di ogni altro elemento necessario per la liquidazione del trattamento definitivo”.

Va anche rilevato che l’accertamento dell’“affidamento del percettore in buona fede dell’indebito che matura e si consolida nel tempo”, ai fini previsti dalla sentenza n. 2/QM/2012, ha per oggetto una questione di fatto. Per l'art. 1, comma 5, del d.l. n. 453/1993, convertito nella legge n. 19/1994 e sostituito dall'art. 1 del d.l. n. 543/1996 convertito nella legge n. 639/1996, "nei giudizi in materia di pensione” l'appello invece è “consentito per soli motivi di diritto".

Peraltro, la sentenza delle Sezioni Riunite n. 10/QM/2000 ha precisato che questa limitazione dell’ambito dell’appello in materia pensionistica va coordinata con l’obbligo di motivare le sentenze (art. 21 del r.d. n. 1038/1933, art. 132 c.p.c., art. 111 della Costituzione). Costituiscono pertanto violazioni di legge sia la “radicale mancanza di motivazione”, che la presenza di una motivazione solo “apparente” in quanto costituita da argomentazioni inidonee a rivelare la ratio decidendi perché tra loro inconciliabili, perplesse e obiettivamente incomprensibili.

2. Nella fattispecie, con la sentenza n. 160/2010 la Sezione piemontese ha rilevato che “la richiesta di recupero delle somme indicate in premessa” è intervenuta “a distanza di oltre dodici anni dall’esordio della corresponsione del trattamento provvisorio di quiescenza, quasi tre anni dopo l’emissione del decreto di attribuzione della pensione definitiva” e pertanto “la buona fede del pensionato non può essere messa in discussione”. E’ una motivazione che chiarisce sufficientemente l’iter logico-giuridico della sentenza impugnata.

3. L’appello dell’INPDAP risulta in definitiva infondato e va pertanto respinto. Alcune incertezze giurisprudenziali sui recuperi di indebiti pensionistici inducono peraltro a compensare le spese di giudizio.

P. Q. M.

la Corte dei conti, Seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello,

respinge l’appello proposto dall’INPDAP, proseguito dall’INPS, e per l’effetto conferma la sentenza della Sezione giurisdizionale per il Piemonte n. 160 dell’11.11.2010. Spese compensate.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio dell’11 luglio 2017.

il Presidente
Stefano Imperiali
f.to Stefano Imperiali

Depositata in Segreteria il 13 LUG. 2017

p. Il Dirigente
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Dott.ssa Simonetta Desideri
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Re: irripetibilità delle somme percepite indebitamente

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Bella sentenze della Corte dei Conti a Sezioni Riunite, infatti affermano:

1) - Così rimeditata la questione di massima sottoposta a queste Sezioni riunite, a modifica di quanto affermato con la citata sentenza n. 11/QM/2015, va enunciato il seguente principio di diritto:

- ) - “Nel caso in cui, a seguito di conguaglio tra il trattamento provvisorio e quello definitivo di pensione , a debito del pensionato, siano state disposte dall’amministrazione, ai fini del recupero, ritenute sulla pensione , ma sia successivamente accertato l’affidamento dell’interessato e, per l’effetto, sia dichiarato il suo diritto alla restituzione, in tutto o in parte, di quanto in precedenza trattenuto, sulle somme in restituzione spettano gli interessi legali, dalla data della domanda giudiziale o, ove proposta, dalla data della precedente domanda amministrativa”.

- ) - Va da sé che, per le trattenute che l’amministrazione abbia continuato ad operare successivamente alla domanda (amministrativa o giudiziale), gli interessi legali spettano dalla data di ciascuna di esse.

N.B.:leggete il tutto qui sotto.
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SEZIONI RIUNITE SENTENZA 33 12/10/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
SEZIONI RIUNITE SENTENZA 33 2017 PENSIONI 12/10/2017
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Sentenza n. 33/2017/MD


R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONI RIUNITE
IN SEDE GIURISDIZIONALE

composta dai signori magistrati:
Alberto AVOLI Presidente
Antonio CIARAMELLA Consigliere
Pina Maria Adriana LA CAVA Consigliere
Maria Elisabetta LOCCI Consigliere
Giuseppina MAIO Consigliere
Francesca PADULA Consigliere
Gerardo de MARCO Consigliere relatore
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per riproposizione di questione di massima ex art. 117 cod. giust. cont., iscritto nel registro di segreteria al n. 544/SR/MD di queste Sezioni riunite

rimesso
dalla Sezione seconda giurisdizionale centrale di appello con sentenza-ordinanza n. 24 del 19 gennaio 2017, sull’appello già iscritto al n. 39920 del registro di segreteria della Sezione remittente,

proposto da
INPDAP – Istituto Nazionale di Previdenza per i Dipendenti dell’Amministrazione Pubblica (c.f. 97095380586), ente confluito ex lege, nelle more del giudizio, in I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (c.f. 80078750587) ai sensi dell’art. 21 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (convertito con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214), in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Luigi Caliulo (CLL LGU 54B09 H703F), Edoardo Urso (RSU DRD 61L27 H501L) e Filippo Mangiapane (MNG FPP 64T25 F158Q) della propria Avvocatura Centrale;

contro
Adriano ZOCCOLO (Omissis), rappresentato e difeso dall’Avv. Diego Modesti (MDS DGI 66H09 L144M)

per l’annullamento
della sentenza in materia pensionistica della Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia Giulia n. 119 del 9 giugno 2010.

Uditi alla pubblica udienza del 14 giugno 2017 il consigliere relatore Gerardo de Marco, l’avv. Luigi Caliulo per l’INPS ed il pubblico Ministero nella persona del vice Procuratore generale Antongiulio Martina.

F A T T O

1. Con sentenza n. 119 del 2010 la Sezione friulana accolse parzialmente il ricorso del signor Zoccolo, dichiarando la parziale irripetibilità dell’indebito pensionistico discendente dal conguaglio tra la liquidazione provvisoria e quella definitiva della pensione e disponendo che le somme nel frattempo trattenute dall’INPDAP (oggi INPS), per il recupero dell’indebito dichiarato irripetibile, fossero restituite al pensionato con maggiorazione degli interessi legali “da calcolarsi dalla notifica della domanda giudiziale per quel che concerne le somme recuperate antecedentemente a tale data, e dalle singole ritenute mensili per quelle recuperate successivamente”. Il Giudice di primo grado condannò, inoltre, l’INPDAP al pagamento delle spese di lite liquidate “nella somma complessiva di euro 1.200,00 oltre spese generali, C.P.A. ed I.V.A.”.

2. L’INPDAP (oggi INPS) interponeva appello contestando tanto la declaratoria di irripetibilità dell’indebito, quanto il riconoscimento degli interessi legali sulle somme da restituire al pensionato, nonché la condanna alle spese.

Resisteva il pensionato con memoria di costituzione, concludendo in via principale per la reiezione dell’appello o, in via subordinata, per la declaratoria di prescrizione parziale dell’indebito pensionistico formatosi e per l’irripetibilità di un quarto delle somme percepite prima del 1 gennaio 1996 (ex art. 1, comma 261, della legge 23 dicembre 1996, n. 662).

3. Con sentenza-ordinanza n. 24 del 19 gennaio 2017 la seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello, nel giudicare dell’impugnazione, respingeva il primo motivo di appello, confermando la sentenza di primo grado in punto di declaratoria dell’irripetibilità dell’indebito; ciò alla luce dei principi enunciati da queste Sezioni riunite con sentenza n. 2/QM/2012 del 2 luglio 2012.

Confermava, inoltre, la condanna dell’Istituto previdenziale al pagamento delle spese di lite del primo grado di giudizio, compensandole invece per il giudizio d’appello.

4. Quanto, invece, all’altro motivo d’appello, concernente la richiesta di restituire le somme al pensionato senza maggiorazione di interessi legali, le Sezione remittente riteneva di essere chiamata a fare applicazione del principio di diritto già enunciato da queste Sezioni riunite con sentenza n. 11/2015/QM del 24 marzo 2015, secondo cui “in caso di accertata irripetibilità di somme indebitamente corrisposte al pensionato e fatte oggetto di recupero, le stesse devono essere restituite all’interessato limitatamente alla sorte capitale senza aggiunta di alcuna somma accessoria”.

Quest’ultimo principio, in particolare, era stato affermato sulla base dei seguenti argomenti:

- “non si verte in ipotesi di omessa o tardiva erogazione di un credito pensionistico bensì si discute del recupero erariale di somme non dovute ma, comunque, percepite in buona fede e che, per inciso, spettano solo in virtù di una riconosciuta irripetibilità decretata dal Giudice”;

- “nella fattispecie manca una originaria obbligazione a carico della Amministrazione in quanto non esiste un effettivo credito previdenziale bensì solo un correttivo ‘ex lege’ alla doverosa azione di recupero erariale, correttivo introdotto da una specifica normativa di settore”, trattandosi “ovviamente della tutela della situazione giuridica di legittimo affidamento”;

- sussiste l’autonomia del “sottosistema pensionistico globalmente inteso”;

- “la disciplina del terzo comma dell’art. 429 c.p.c. (riconoscimento delle somme aggiuntive sui crediti di lavoro)”, applicabile al giudizio pensionistico in virtù del richiamo di cui all’art. 5 della legge 21 aprile 2000, n. 205, “opera solo a tutela dei crediti previdenziali ‘oggettivamente’ spettanti, situazione del tutto dissimile dal diritto alla restituzione di somme pensionistiche solo ‘soggettivamente’ spettanti in virtù di una (giudizialmente) riscontrata tutela dell’affidamento del percipiente”;

- “si tratta di somme indebitamente erogate e percepite, non legate ad un diritto soggettivo, non dipendenti da una preesistente obbligazione pecuniaria, non aventi natura previdenziale e/o pensionistica, somme cui non può accedere alcun importo risarcitorio indipendentemente o meno dalla relativa espressa richiesta”.

5. Il Collegio giudicante remittente ha ritenuto di non condividere il richiamato principio di diritto ed ha, quindi, rimesso a queste Sezioni riunite la decisione dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 117 del codice della giustizia contabile, approvato con decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174.

In particolare, la “riproposizione della questione” discende da un “motivato dissenso” così argomentato:

- “la richiesta di restituzione di un determinato importo pensionistico, a suo tempo percepito in buona fede e pertanto indebitamente recuperato dall’Amministrazione, ha per oggetto un debito di valuta”;

- l’art. 1224, comma 1, c.c. e l’art. 1219, comma 1, c.c. stabiliscono, rispettivamente, che “nelle obbligazioni che hanno per oggetto una somma di danaro, sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali” e che “il debitore è costituito in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto”;

- l’art. 1284 c.c. precisa che gli “interessi legali” decorrono “dal momento in cui è proposta domanda giudiziale”;

- “un noto e fondamentale principio di civiltà giuridica esige che la necessità e la durata del processo non si risolvano a danno della parte che ‘ha ragione’, la quale, esemplificando, non può ricevere alla fine del processo sempre lo stesso importo, se il processo è durato sei mesi e se è durato sei anni”;

- “un altrettanto noto e fondamentale principio generale, connesso al precedente”, comporta che “tutte le pronunce giudiziali retroagiscono normalmente al momento della domanda (ex aliis: Cass. n. 10600/2005, n. 147/1994, n. 6322/1983)”.

Ritiene, conclusivamente, la Sezione remittente che la negazione degli interessi legali dal giorno della domanda giudiziale sulle somme da restituire al pensionato costituisca una violazione del principio di pronuncia secondo diritto di cui all’art. 113 c.p.c. (oggi art. 95, comma 1, cod. giust. cont.), peraltro neppure potendosi considerare “equo”, ad esempio, riconoscere l’identico bene giuridico a chi ottiene la restituzione di quanto gli è stato indebitamente recuperato senza dover ricorrere a un giudizio, a chi la ottiene dopo un celere giudizio in un unico grado, a chi infine la ottiene dopo un lungo giudizio in più gradi.

Di qui la riproposizione della questione e la remissione a queste Sezioni riunite della decisione dell’impugnazione.

6. Con memoria del 30 maggio 2017, l’INPS, appellante, si è costituito (anche) dinanzi a queste Sezioni riunite, eccependo anzi tutto l’inammissibilità della riproposizione della questione.

In particolare, si osserva che le Sezioni riunite, con la citata sentenza n. 11/2015/QM, hanno già esaminato gli stessi argomenti oggi portati a sostegno del “motivato dissenso”; segnatamente, le Sezioni riunite avevano espressamente richiamato, tra i precedenti giurisprudenziali in contrasto, anche la sentenza n. 602 del 2013, pronunciata dalla stessa seconda Sezione giurisdizionale centrale d’appello, contenente le stesse ragioni di diritto oggi riproposte. Ne discenderebbe che “la mera riproposizione delle questioni già esaminate dalle Sezioni riunite, senza peraltro il corredo di una significativa critica alla diversa soluzione valorizzata nella sentenza del 2015, rende l’iniziativa assunta inammissibile”.

Osserva l’INPS che “in realtà detti importi dovrebbero essere recuperati dall’ente in omaggio al principio generale secondo cui chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere quanto indebitamente erogato per effetto dell’azione erariale sulla cui doverosità ha posto l’accento anche la sentenza n. 2/2012/QM delle stesse SS.RR. L’azione di recupero viene inibita solo a seguito del riconoscimento giudiziale dell’affidamento dell’assicurato maturato per il decorso del tempo e nella ricorrenza di una serie di circostanze elaborate dalla giurisprudenza contabile, che la stessa Corte deve volta per volta valutare”.

Inoltre, il ragionamento svolto nell’ordinanza di riproposizione della questione, nella parte in cui esclude la ricorrenza di un credito previdenziale del pensionato e di un’obbligazione a carico dell’amministrazione, sembra all’INPS non conciliarsi con le successive argomentazioni e, in particolare, con il richiamo agli artt. 1224 e 1219 c.c. che, al contrario, presuppongono la sussistenza di un’obbligazione.

L’INPS ha quindi concluso per la declaratoria di inammissibilità della riproposizione della questione o, comunque, per la conferma del principio di diritto già affermato con la sentenza n. 11/2015/QM, citata.

7. Con memoria del 1 giugno 2017 la Procura generale ha svolto le proprie considerazioni ed ha rassegnato le proprie conclusioni.

7.1. Preliminarmente, la Procura generale ha dedotto l’inammissibilità della riproposizione della questione.

Ciò discenderebbe dalla inapplicabilità dell’art. 117 del codice della giustizia contabile ai giudizi pensionistici, trattandosi di norma inserita nel capo I del Titolo IV della parte II (“giudizi di responsabilità”), non richiamata dalle disposizioni sul giudizio pensionistico.

Il corretto riferimento normativo sarebbe quindi, per i giudizi pensionistici, l’art. 1, comma 7, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19), non espressamente abrogato dal codice, che secondo l’insegnamento delle Sezioni riunite medesime (cfr. sent. 7/QM/2010) impedirebbe che la decisione di un motivo d’appello possa essere rimessa alle Sezioni riunite.

Ma anche a voler ritenere che il citato art. 117 sia applicabile all’appello in materia pensionistica, osserva la Procura generale che il motivato dissenso ex art. 117 potrebbe esercitarsi solo laddove il giudice d’appello “debba fare applicazione” di un principio di diritto per lui vincolante, in quanto già pronunciato su un previo motivato dissenso espresso dal medesimo giudice ex art. 42, secondo comma, ultima parte, della legge 18 giugno 2009, n. 69. L’ulteriore motivato dissenso di cui all’art. 117 del codice presupporrebbe, cioè, che il giudice d’appello abbia già precedentemente riproposto alle Sezioni riunite una questione di massima, nel corso dello stesso giudizio, ma che non intenda uniformarsi, quale giudice a quo, al principio di diritto confermato dalle Sezioni riunite, spogliandosi perciò della decisione della causa per investirne direttamente le Sezioni riunite medesime.

7.2. La questione sarebbe, comunque, inammissibile anche sotto un secondo profilo, stante la necessità che la rimessione della decisione dell’impugnazione sia totale, non potendo essere invece parziale (arg. ex art. 142 disp. att. c.p.c., richiamato dall’art. 25 disp. att. c.g.c.), come nel caso di specie (in cui la Sezione remittente ha trattenuto la decisione di un motivo d’appello per rimettere la decisione del solo secondo motivo).

Peraltro, la rimessione dell’impugnazione ex art. 117 c.g.c. andrebbe riqualificata, nella fattispecie, alla stregua di una rimessione ex art 42, comma 2, della citata legge n. 69 del 2009 o, comunque, quale “ordinario deferimento di questione di massima”, sicché gli atti andrebbero restituiti alla Sezione remittente “previo riesame, se del caso, alla luce delle argomentazioni addotte dalla Sezione centrale rimettente, del principio di diritto già enunciato”.

7.3. Ciò posto, ad avviso della Procura generale, la sentenza-ordinanza di rimessione, ancorché non valida quale “riproposizione di questione in caso di motivato dissenso” (ex art. 117 c.g.c.), proporrebbe comunque una “nuova, articolata interpretazione delle disposizioni normative già oggetto del vaglio delle Sezioni riunite, tali da poter, in astratto, indurre le Sezioni riunite (stesse) ad una rimeditazione della questione già decisa” (cfr. SS.RR., n. 6/QM/2010).

7.4. Venendo quindi ad affrontare la questione di massima riproposta, la Procura generale non condivide né le conclusioni cui è pervenuta la citata sentenza n. 11/2015/QM, né quelle prospettate nell’ordinanza di rimessione qui in discussione.

In particolare, il ragionamento del pubblico Ministero poggia sui seguenti fondamenti:

- l’irripetibilità deriva dalla legge, limitandosi il giudice ad accertarla;

- l’originaria natura indebita delle somme a suo tempo corrisposte al pensionato costituisce un “antefatto” privo di qualsiasi rilievo sulla questione che ne occupa;

- l’ordinamento non consente, infatti, il recupero da parte dell’ente previdenziale delle somme a suo tempo indebitamente corrisposte al pensionato;

- le trattenute effettuate da parte dell’ente previdenziale sulla pensione dell’interessato, per recuperare somme irripetibili, sono da considerare prive di titolo e si risolvono in un inadempimento parziale dell’obbligazione di corrispondere la pensione dovuta;

- in definitiva, la pronuncia che accerti che, per effetto dell’irripetibilità delle somme in precedenza erogate al pensionato, l’ente previdenziale non aveva titolo a recuperare le suddette somme con trattenute sulla pensione , si risolve, senza residui, nell’accertamento dell’inadempimento dell’ente previdenziale dell’obbligo di corrispondere i successivi ratei di pensione nella misura dovuta; accertamento cui non può non seguire la condanna dell’ente stesso, oltre che alla restituzione delle somme indebitamente trattenute (rectius: alla corresponsione dei maggiori importi dovuti a titolo di pensione che, in dipendenza del parziale inadempimento, non erano stati erogati a tempo debito), a corrispondere sulle stesse i relativi accessori ex art. 429 c.p.c. (cfr. SS.RR., sent. 10/2002/QM);

- alla declaratoria giudiziale dell’irripetibilità dell’indebito non può, infatti, essere attribuita efficacia costitutiva, ma deve attribuirsi efficacia meramente dichiarativa, non ricadendosi nei casi di cui all’art. 2908 c.c. e non essendo subordinata detta irripetibilità ad alcun accertamento giurisdizionale;

- deve escludersi che, in fattispecie, il giudice possa pronunciarsi secondo equità, dovendo invece decidere secondo diritto.

Tutto ciò premesso e considerato, la Procura generale osserva di non dover concludere nel merito dell’impugnazione, non configurandosi un interesse generale in relazione ad essa, ma di doversi limitare a prendere posizione sulla sola affermazione del principio di diritto; conclude quindi: 1) per l’inammissibilità della rimessione della decisione dell’impugnazione; 2) per il riesame e la modifica, nei termini dinanzi esposti, del principio di diritto già enunciato dalla citata sentenza n. 11/2015/QM.

8. Il signor Zoccolo, appellato, già costituito nel giudizio di appello dinanzi alla Sezione remittente, non ha presentato memorie dinanzi a queste Sezioni riunite.

9. All’udienza pubblica del 14 giugno 2017, udito il consigliere relatore, non comparso il difensore del pensionato, sono intervenuti l’Avv. Luigi Caliulo per l’INPS e il pubblico Ministero in persona del vice Procuratore generale Antongiulio Martina, come da verbale. Esaurita la discussione orale, la causa è stata trattenuta in camera di consiglio per la decisione.

D I R I T T O

I. In via preliminare, con riferimento alle conclusioni rassegnate dalla Procura generale, va affermata l’applicabilità dell’art. 117 del codice della giustizia contabile anche agli appelli in materia pensionistica, indipendentemente dalla collocazione del Titolo IV (giudizi innanzi le Sezioni riunite) nell’ambito della Parte II (giudizi di responsabilità) del codice. Si tratta di norme che trascendono l’ambito del solo giudizio di responsabilità e, nel combinato disposto con l’art. 11 dello stesso codice, sono suscettibili di applicazione a tutti i giudizi attribuiti alla cognizione delle Sezioni riunite medesime nelle materie sottoposte alla giurisdizione contabile.

Né residuano spazi per la, pur prospettata, ultravigenza dell’art. 1, comma 7, del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453 (convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19), come novellato dall’art. 42, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69: sebbene manchi una abrogazione espressa, non v’è dubbio che le nuove disposizioni codicistiche abbiano regolato, per quanto qui interessa, l’intera materia già disciplinata dalla legge anteriore (cfr. art. 20, comma 2, lettera n, della legge delega 7 agosto 2015, n. 124), comportandone l’abrogazione tacita ai sensi dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale (cfr. art. 20, comma 3, lettera b della legge delega stessa).

II. Viene ora in rilievo l’ulteriore profilo di inammissibilità, sollevato dalla Procura generale, incentrato sulla circostanza che la Sezione remittente ha già deciso il primo motivo d’appello, con sentenza parziale, rimettendo alle Sezioni riunite la decisione del solo secondo motivo d’appello; ciò comporterebbe la violazione del principio di devoluzione dell’impugnazione nella sua interezza, principio che il pubblico Ministero desume anche dall’art. 142 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, applicabile in forza del rinvio di cui all’art. 25 delle norme di attuazione del codice della giustizia contabile.

Al riguardo, si osserva che la scelta del giudice remittente di decidere subito il primo motivo d’appello (sulla irripetibilità dell’indebito) e di rimettere alle Sezioni riunite la decisione dell’impugnazione con riguardo al consequenziale secondo motivo (sulla spettanza o meno di accessori sulle somme da restituire al pensionato) è ragionevole e conforme al disposto dell’art. 117 del codice, nella parte in cui impone la rimessione della decisione alla “sezione giurisdizionale di appello che ritenga di non condividere un principio di diritto di cui debba fare applicazione, già enunciato dalle Sezioni riunite”.

L’inciso “di cui debba fare applicazione” riveste un duplice significato: sotto il profilo precettivo, esso rafforza la cogenza dei principi di diritto enunciati in sede nomofilattica, configurandone l’applicazione in termini di “dovere” per i giudici d’appello; sotto il profilo procedurale, concorre a definire il presupposto della rimessione, circoscrivendo i casi di “riproposizione di questione” per “motivato dissenso” ai soli principi di diritto che nel giudizio a quo assumono una rilevanza effettiva, concreta ed attuale, non solo astratta ed eventuale.

Nella fattispecie all’esame, è evidente che la doverosa applicazione del principio di diritto enunciato con la citata sentenza n. 11/QM/2015 (non condiviso dalla Sezione remittente), agli effetti del citato art. 117 del codice, viene in questione solo in conseguenza della decisione del primo motivo; pertanto, fino a che il primo motivo non fosse stato definito nel senso della declaratoria di irripetibilità dell’indebito pensionistico, non poteva configurarsi il presupposto del “dover fare applicazione”, da parte del giudice, del consequenziale principio di diritto in tema di corresponsione degli accessori sulle somme oggetto di restituzione al pensionato.

III. Quanto alla inammissibilità della riproposizione di questione per mancanza di motivi nuovi, eccepita dall’INPS, giova anzi tutto precisare che l’art. 117 del codice della giustizia contabile impone che il “dissenso” sia “motivato”. La norma non richiede, quindi, che sussistano necessariamente motivi nuovi da esaminare, essendo piuttosto sufficiente che il giudice remittente renda esplicite le ragioni per le quali “ritenga di non condividere” il principio di diritto già enunciato dalle Sezioni riunite, adeguatamente illustrando le argomentazioni che a suo avviso legittimano la richiesta di riesame del principio stesso; in linea di principio, non è esclusa la riproposizione di motivi già esaminati in precedenza, purché essi siano proposti secondo una diversa prospettazione o un migliore sviluppo argomentativo, anche solo esplicitando con maggior efficacia alcuni passaggi logico-giuridici, ritenuti non sufficientemente valorizzati; ciò che resta esclusa è invece la mera reiterazione, tal quali, degli stessi argomenti già precedentemente vagliati, al solo fine di spogliarsi della decisione della causa disponendo una mera traslazione del giudizio verso le Sezioni riunite (in tema, si vedano le sentenze nn. 6/QM/2010, 7/QM/2010, 8/QM/2010, 9/QM/2010, 2/QM/2011, 3/QM/2011, 4/QM/2011, 5/QM/2011).

In quest’ottica, “spetta al prudente apprezzamento delle Sezioni riunite la delibazione, in via preliminare, circa la sussistenza dei presupposti di ammissibilità della questione, nel caso concreto, onde garantire un ‘filtro’ all’accesso alla funzione nomofilattica che bilanci detto accesso con la contrapposta esigenza, parimenti meritevole di considerazione, di ricercare ed affinare le migliori soluzioni in diritto attraverso i fisiologici meccanismi dell’elaborazione giurisprudenziale” (SS.RR., sent. 19/QM/2016): segnatamente, essendo confermato nell’art. 117 del codice il peculiare vincolo “conformativo” dei principi di diritto enunciati su questioni di massima (vincolo già introdotto nel citato articolo 1, comma 7, del decreto-legge n. 453 del 1993, ad opera della legge n. 69 del 2009), la possibilità di “motivata riproposizione” (distinta dalla “mera reiterazione”) della questione costituisce un irrinunciabile contrappeso dell’ordinamento rispetto al dovere di “dare applicazione” ai principi di diritto enunciati in sede nomofilattica. Intanto può sussistere un dovere di conformazione ad un principio in quanto sia reso possibile, per i giudici chiamati a darvi applicazione, motivare il proprio dissenso per sottoporre allo stesso organo di nomofilachia il riesame della questione.

Venendo alla fattispecie concreta in giudizio, è vero che i motivi contenuti nell’odierna ordinanza di remissione erano già presenti, in nuce, nella giurisprudenza a suo tempo esaminata da queste Sezioni riunite; ma è parimenti vero che su quei motivi, all’epoca affrontati per la gran parte solo implicitamente e con fugaci richiami per relationem, è possibile oggi focalizzare maggiormente l’attenzione, alla luce del puntuale ragionamento logico-giuridico prospettato per esteso nell’ordinanza di remissione (a seguito della quale la stessa Sezione remittente ha rinviato la decisione di tutte le impugnazioni della specie: per tutte, v. sentenza-ordinanza n. 213 dell’11 aprile 2017). In tal senso si è espressa anche la Procura generale, ad avviso della quale la sentenza-ordinanza di rimessione propone una ammissibile “nuova, articolata interpretazione delle disposizioni normative già oggetto del vaglio delle Sezioni riunite, tali da poter, in astratto, indurre le Sezioni riunite (stesse) ad una rimeditazione della questione già decisa” (cfr. SS.RR., n. 6/QM/2010 e successive conformi).

La riproposizione della questione, frutto di un dissenso adeguatamente motivato, è quindi ammissibile.

IV. Passando ora ad affrontare il punto di diritto che forma l’oggetto specifico del motivato dissenso, è bene preliminarmente precisare che la fattispecie dedotta in giudizio riguarda l’ipotesi in cui il giudice accerti o dichiari, in virtù del principio di affidamento di cui alla nota sentenza n. 2/QM/2012, cit., l’irripetibilità dell’indebito pensionistico scaturente da conguaglio tra la liquidazione provvisoria e quella definitiva della pensione, disponendo la restituzione al pensionato delle somme medio tempore recuperate dall’ente previdenziale con trattenute sulla pensione. Esulano, quindi, dall’ambito della presente decisione (rendendo inopportuno esprimersi in proposito, quand’anche con obiter dicta), tutte le altre fattispecie, solo in parte similari e variamente affrontate in giurisprudenza, per cui sia invece accertata, ad esempio, l’insussistenza stessa dell’indebito (cfr. Sez. Prima Appello, sent. 129 del 20 aprile 2017) o in cui l’irripetibilità discenda direttamente da una previsione normativa, come nel caso della revoca o modifica del trattamento definitivo di pensione (cfr. Sez. seconda appello, sent. 411 del 18 aprile 2016); come pure esulano dall’ambito della presente decisione le questioni attinenti, a monte, il diritto stesso del pensionato alla restituzione delle trattenute, ad esempio ove esse siano già state interamente recuperate a suo carico precedentemente alla richiesta di restituzione (cfr. Sez. Abruzzo, sent. 383 del 5 novembre 2012), anche sulla base di dilazioni rateali in tutto o in parte esaurite, su istanza del pensionato medesimo (cfr. Sez. seconda appello, sent. 1083 del 25 ottobre 2016).

V. Fatta questa doverosa precisazione occorre, dunque, riesaminare il principio di diritto già enunciato, secondo cui “in caso di accertata irripetibilità di somme indebitamente corrisposte al pensionato e fatte oggetto di recupero, le stesse devono essere restituite all’interessato limitatamente alla sorte capitale senza aggiunta di alcuna somma accessoria”. Al riguardo, ritengono queste Sezioni riunite di non poter ulteriormente confermare il suesposto principio, che ha formato oggetto di rimeditazione anche da parte della stessa Procura generale.

In particolare, pur essendo evidenti le ragioni sottostanti la scelta giurisprudenziale di non riconoscere alcun accessorio sulle somme da restituire al pensionato, nell’intento di evitare, in qualche modo, che al vantaggio del capitale a suo tempo indebitamente erogatogli (e definitivamente acquisito al suo patrimonio) si aggiunga anche il vantaggio dei frutti sul predetto capitale, la soluzione pragmatica così adottata non appare soddisfacente e convincente, né sul piano del diritto, né sul piano dell’equità, come ha correttamente posto in risalto l’ordinanza di remissione.

VI. Sul piano logico-giuridico, pare a questo Collegio giudicante che vi sia una latente contraddizione nel riconoscere, da un lato, il diritto del pensionato alla restituzione delle somme in parola negando però, dall’altro lato, gli interessi legali sulle somme stesse, benché restituite a distanza di anni dalla trattenuta, dalla conseguente richiesta di restituzione e dall’eventuale introduzione del giudizio volto a far dichiarare l’irripetibilità. Il ragionamento fin qui accolto in giurisprudenza, secondo cui non sussisterebbe un’obbligazione pecuniaria in favore del pensionato, né un diritto soggettivo di questi, trattandosi di “somme non dovute ma, comunque, percepite in buona fede e che, per inciso, spettano solo in virtù di una riconosciuta irripetibilità decretata dal Giudice”, non spiega in base a quale titolo il giudice statuisca, in definitiva, la restituzione delle somme stesse al pensionato, con effetto ex nunc. Invero, se l’ente previdenziale è tenuto a restituire le trattenute a suo tempo forzosamente effettuate, un’obbligazione sottostante deve pur esservi, a meno che non si voglia ritenere che il diritto, in capo al pensionato, a trattenere le somme sorga solo per effetto della pronuncia giudiziale, avente natura costitutiva, alla stregua di un diritto potestativo (non di credito) azionabile soltanto in sede giurisdizionale.

Ma, a ben vedere, quest’ultima tesi presta il fianco ad almeno due ordini di obiezioni: in primo luogo, anche in presenza di sentenze aventi natura costitutiva non potrebbero negarsi gli interessi legali almeno dalla data della domanda, come correttamente argomentato dalla Sezione remittente; in secondo luogo, e in via assorbente, deve negarsi la natura costitutiva della sentenza che, in presenza dell’affidamento del pensionato, dichiari irripetibile l’indebito pensionistico, sussistendo il diritto del pensionato medesimo a far proprie le somme percepite a prescindere dalla relativa declaratoria giudiziale.

VII. Sotto il primo profilo, anche nel caso di sentenze aventi natura costitutiva la giurisprudenza di legittimità è orientata nel riconoscere quanto meno gli interessi legali dalla data della domanda giudiziale: è il caso, ad esempio, delle obbligazioni restitutorie derivanti dalla revocatoria fallimentare, che costituiscono debito di valuta (Cass., SS.UU., sent. 437 del 15.06.2000; Id., sent. 502 del 19.07.2000; Sez. 1, sent. 6369 del 08.05.2001; Id., sent. 7531 del 04.06.2001; Id. sent. 887 del 18.01.2006; Id., sent. 4709 del 03.03.2006; Id., sent. 12736 del 10.06.2011; Id., sent. 27084 del 15.12.2011; v. anche Sez. 1, sent. 13560 del 30.07.2012, che distingue tra “decorrenza” e “scadenza” degli interessi); non mancano, peraltro, pronunce che riconoscono addirittura la natura di debito di valore all’obbligazione restitutoria derivante dalla revocatoria e, per l’effetto, dispongono la spettanza anche della rivalutazione monetaria, sempre dalla data della domanda giudiziale (Cass., Sez. 1, sent. 13244 del 16.06.2011). Lo stesso è a dirsi nelle fattispecie di risoluzione del contratto, la cui pronuncia costitutiva produce effetti retroattivamente, dal momento della proposizione della domanda giudiziale, sicché gli interessi decorrono quanto meno dalla domanda stessa, tanto per l’obbligazione restitutoria (cfr. Cass., Sez. 1, sent. 17558 del 02.08.2006; Sez. 2, sent. 25847 del 27.10.2008; Sez. 1, sent. 2522 del 03.12.1970) quanto per quella risarcitoria (cfr. Cass., Sez. 2, sent. 3408 del 22.05.1986; Id., sent. 637 del 27.01.1996; Sez. 3, sent. 6545 del 05.04.2016).

Per regola generale, dunque, ancorché si trattasse di pronuncia giudiziale avente natura costitutiva, con efficacia ex nunc, comunque gli interessi legali spetterebbero almeno dalla domanda e non dalla sentenza.

VIII. Sotto il secondo profilo, valgano le seguenti ulteriori considerazioni, che assumono rilievo assorbente.

La giurisprudenza che nega la spettanza degli accessori sulle trattenute da restituire in esito al giudizio pare fondarsi su una più ampia costruzione sistematica secondo cui il diritto del pensionato alla restituzione delle trattenute non potrebbe sorgere che per effetto di una pronuncia giudiziale, avente natura costitutiva, erroneamente ritenuta essa solo idonea a superare il contrapposto “dovere” di ripetizione dell’indebito, gravante sull’ente di previdenza. Questa tesi postula, implicitamente, che il giudice contabile disponga di un potere, incidente sul rapporto pensionistico, di cui l’ente di previdenza sarebbe invece privo: quello di ravvisare il legittimo affidamento del pensionato e, conseguentemente, di soprassedere dal recupero dell’indebito.

Si finisce così, nella prassi, per obbligare l’ente di previdenza ad agire, sempre e comunque, per il recupero dell’indebito derivante da conguaglio tra liquidazione provvisoria e definitiva della pensione , a prescindere da qualsiasi valutazione sull’affidamento del pensionato; si onera, per riflesso, il pensionato ad agire in sede giurisdizionale, al fine di vedere tutelate le proprie ragioni; si grava quindi il giudice contabile del compito di accertare se sussista o meno un affidamento, alla luce dei parametri indicati da queste Sezioni riunite con la nota sentenza n. 2/2012/QM (valutazione che sarebbe, però, preclusa all’amministrazione); si ingenera, infine, il presupposto per la successiva eventuale restituzione delle somme che, nel frattempo, sono state trattenute tanto doverosamente quanto unilateralmente dall’amministrazione a valere sulla pensione dell’interessato.

Il descritto assetto, nel quale ogni fattispecie di indebito pensionistico è necessariamente destinata a trovare soluzione esclusivamente in sede giudiziaria, perché solo al giudice sarebbe concesso di assumere quel provvedimento (la declaratoria di irripetibilità) che l’amministrazione non potrebbe adottare autonomamente, non pare accettabile. La stessa sentenza n. 2/QM/2012 aveva espressamente chiarito in motivazione che il legittimo affidamento, individuabile attraverso una serie di elementi oggettivi e soggettivi, “è opponibile dall’interessato, a seconda delle singole fattispecie, sia in sede amministrativa che giudiziaria” (par. 11), ribadendo lo stesso concetto nell’enunciazione del principio di diritto (par. 14, ripetuto tal quale nel dispositivo).

Se il legittimo affidamento (che preclude la ripetizione dell’indebito) è opponibile dall’interessato (e quindi rilevabile dall’ente previdenziale) già in sede amministrativa, è evidente che non può attribuirsi alcuna efficacia costitutiva alla sentenza del giudice che, in caso di contestazioni sulla fondatezza dell’opposizione, si pronunci per dirimere la controversia. E’ altresì evidente che la determinazione assunta dall’amministrazione di procedere al recupero dell’indebito pensionistico, in caso di conguaglio tra il trattamento provvisorio e quello definitivo, non è affatto automatica e necessitata, ma dovrebbe rappresentare la risultante di una previa valutazione circa la sussistenza o meno dell’affidamento del pensionato, sulla base dei parametri indicati in giurisprudenza (decorso del tempo, rilevabilità dell’errore, importo del trattamento e ragioni della relativa modifica, ecc.). Il recupero dell’indebito pensionistico, dunque, è doveroso per l’amministrazione soltanto nella misura in cui essa, esaminata la fattispecie concreta alla luce del diritto vivente (quale desumibile dalla giurisprudenza), ritenga insussistente l’affidamento del pensionato e decida di procedere in tal senso; ove, all’opposto, sia ravvisabile un affidamento del pensionato, l’amministrazione è tenuta a darne atto e a non recuperare l’indebito.

Solo nel caso in cui insorga una controversia sul punto, esauriti se del caso i rimedi amministrativi, vi sarà ragione di adire il giudice, il quale non potrà che pronunciarsi con una sentenza di natura dichiarativa circa la ripetibilità o meno dell’indebito.

IX. Corollario di quanto fin qui esposto è che il pensionato, in presenza di legittimo affidamento, ha diritto fin dall’origine, quindi già in sede amministrativa, di opporre l’irripetibilità all’amministrazione stessa, quando essa gli intimi la restituzione di un indebito pensionistico in realtà non recuperabile ovvero, allo stesso fine, vada ad operare unilateralmente una trattenuta sulla sua pensione. Il diritto del pensionato a far proprie le somme in questione non necessita dunque, in quanto tale, di alcuna intermediazione giudiziale, ben potendo - e dovendo - essere riconosciuto dall’ente di previdenza già nella sede amministrativa. Ne discende ulteriormente che, in presenza di controversia, qualora le ragioni del pensionato si rivelino poi fondate in sede giurisdizionale, le trattenute effettuate sine titulo (quindi indebite) dovranno essere restituite al medesimo con maggiorazione degli interessi legali, a titolo compensativo, fin dalla data della domanda, cioè dal momento in cui questi abbia fatto valere, nei confronti dell’ente di previdenza, il suo diritto alla definitiva acquisizione al suo patrimonio di quelle somme.

In quest’ottica, la trattenuta effettuata per il recupero di un indebito irripetibile può essere qualificata, a sua volta, alla stregua di un indebito oggettivo: infatti, ove sussista l’affidamento del pensionato, il diritto di credito dell’ente di previdenza (per la ripetizione dell’indebito originario) viene meno, stante l’irripetibilità, con la conseguenza che le somme recuperate dall’ente di previdenza finiscono per costituire esse stesse un indebito, agli effetti dell’art. 2033 del codice civile.

Non può ignorarsi, al riguardo, che l’art. 2033 del codice civile, pur essendo formulato con riferimento all’ipotesi del pagamento "ab origine" indebito, è applicabile per analogia anche alle ipotesi di indebito oggettivo sopravvenuto per essere venuta meno, in dipendenza di qualsiasi ragione, in un momento successivo al pagamento, la "causa debendi", così legittimando la corresponsione degli interessi compensativi secondo i criteri ivi stabiliti (Cass., SS.UU., sent. 5624 del 9.3.2009).

Di qui la necessità di riconoscere senz’altro al solvens (cioè al pensionato) gli interessi legali dalla data della domanda, ove l’accipiens sia in buona fede; in tale condizione soggettiva si trova, di regola, l’Istituto di previdenza, dovendo trovare applicazione il principio per cui la buona fede si presume in difetto di specifiche prove contrarie e, in particolare, non restando essa esclusa per la sola circostanza che il solvens abbia effettuato il pagamento contestando di esservi tenuto e che l’accipiens sia stato consapevole di tali contestazioni, atteso che la buona fede di quest’ultimo sussiste anche in presenza di dubbio circa la debenza della somma corrisposta (cfr. Cass., nn. 8587/2004; 8486/1987; 1025/1982, richiamate in Cass. Sez. Lav., sent. 17848 del 31.07.2009).

Quanto alla nozione di “domanda”, la giurisprudenza ha fatto riferimento, a seconda dei casi, tanto alla domanda giudiziale (cfr. Cass., Sez. 3, sent. 4745 del 4.03.2005; Id., sent. 5520 del 29.02.2008; Sez. Lav., sent. 7830 del 15.04.2005; Sez. 6-3, ord. 13424 del 30.06.2015), quanto alla domanda di restituzione svolta in via extragiudiziale o amministrativa (cfr. Sez. Lav., sent. 7740 del 20.10.1987; Id., sent. 8587 del 5.05.2004; Id., sent. 17848 del 31.07.2009; Id., sent. 7586 del 1.04.2011; Cass., Sez. 1, sent. 22852 del 9.11.2015).

Alla tesi estensiva intendono aderire queste Sezioni Riunite, condividendo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini che qui interessano, la domanda amministrativa ha caratteristiche analoghe alla domanda giudiziale quanto alla certezza del "dies a quo" e all’idoneità dell’atto a rendere consapevole l’ “accipiens” dell’indebito (Cass., Sez. Lav., sent. 9399 del 6.9.1991), non esistendo del resto alcun elemento letterale o logico che possa indurre l’interprete a ritenere che per domanda debba intendersi esclusivamente la domanda giudiziale con esclusione di quella proposta in sede amministrativa (Cass., Sez. Lav., sent. 3692 del 25.3.1992); ciò, a maggior ragione, ove l’istanza amministrativa costituisca presupposto inderogabile per l’esercizio dell’azione giudiziaria, non potendo pregiudicare in nessun modo i diritti sostanziali della parte cui è imposto quell’onere (Cass., Sez. Lav., sent. 7769 del 24.6.1992; Id., sent. 596 del 22.1.1994). D’altra parte, un’interpretazione restrittiva del termine “domanda” susciterebbe seri dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 2033 c.c. in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., sì da imporre, anche in caso di dubbio, una interpretazione costituzionalmente conforme (Cass., SS.UU., sent. 7269 del 5.08.1994).

Gli stessi giudici di legittimità, più di recente, hanno ritenuto di dover “dare seguito all'indirizzo (inaugurato da Cass. n. 7586/2011 e seguito incidentalmente da Cass. n. 16657/2014) secondo il quale, in tema di ripetizione d'indebito oggettivo, l'espressione ‘domanda’ di cui all'art. 2033 c.c. non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale ma anche ad atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c.”; invero, “la ragione di decorrenza degli interessi, di cui all'art. 2033 c.c., dalla domanda stragiudiziale invece che da quella giudiziale è di carattere generale. Come ritenuto da Cass. n. 7586/2011, la riconduzione della formula letterale dell'art. 2033, che parla di ‘domanda’ senza aggettivi, alla domanda giudiziale ha un antico fondamento storico che (…) appare non più corrispondente all'attuale sistema del codice civile” (così Cass., SS.UU., sent. 22852 del 9.11.2015).

In definitiva, l’effetto ripristinatorio derivante dalla restituzione della trattenuta, in linea capitale, non può essere disgiunto, a meno di non cadere in parziale contraddizione, da quello compensativo consistente nel correlato riconoscimento degli interessi, dalla data della formale richiesta e fino alla retrocessione di essa al pensionato.

X. La soluzione qui accolta, secondo cui gli interessi legali spettano dalla data della domanda, sia essa amministrativa o giudiziale, ha anche il pregio oggettivo della certezza applicativa e della neutralità: il risultato finale, infatti, è invariante, indipendentemente dallo strumento giuridico utilizzato dal pensionato per far valere l’irripetibilità (se la domanda amministrativa o la domanda giudiziale), dalla posizione assunta nel giudizio (se parte ricorrente o convenuta), dal fondamento delle trattenute (ad esempio, se una sentenza di primo grado, provvisoriamente esecutiva, o un provvedimento unilaterale dell’amministrazione), dai tempi e dai modi di svolgimento del procedimento amministrativo e dell’eventuale giudizio.

Ciò in linea di continuità con quanto già a suo tempo affermato con la citata sentenza n. 2/QM/2012, secondo cui l’affidamento (e, con esso, l’irripetibilità dell’indebito) può essere fatto valere dal pensionato anche in sede amministrativa e non necessariamente in sede giudiziale.

XI. Così rimeditata la questione di massima sottoposta a queste Sezioni riunite, a modifica di quanto affermato con la citata sentenza n. 11/QM/2015, va enunciato il seguente principio di diritto:
“Nel caso in cui, a seguito di conguaglio tra il trattamento provvisorio e quello definitivo di pensione , a debito del pensionato, siano state disposte dall’amministrazione, ai fini del recupero, ritenute sulla pensione , ma sia successivamente accertato l’affidamento dell’interessato e, per l’effetto, sia dichiarato il suo diritto alla restituzione, in tutto o in parte, di quanto in precedenza trattenuto, sulle somme in restituzione spettano gli interessi legali, dalla data della domanda giudiziale o, ove proposta, dalla data della precedente domanda amministrativa”.

Va da sé che, per le trattenute che l’amministrazione abbia continuato ad operare successivamente alla domanda (amministrativa o giudiziale), gli interessi legali spettano dalla data di ciascuna di esse.

XII. Trattandosi del primo caso di “motivato dissenso” di cui all’art. 117 del codice di giustizia contabile, occorre ora soffermarsi sull’espressione legislativa secondo cui alle Sezioni riunite è rimessa “la decisione dell’impugnazione”.

Al riguardo, non si ignora che, con sentenza n. 7/QM/2010 del 30 settembre 2010, si era ritenuta solo apparente l’identità tra l’art. 374 del codice di procedura civile e il citato articolo 1, comma 7, del decreto-legge n. 453 del 1993, giungendo alla motivata conclusione secondo cui “le Sezioni riunite potrebbero, in caso di dissenso adeguatamente motivato, rivedere il principio di diritto affermato o dare una diversa soluzione alla questione di massima presentata rispetto a quanto in precedenza enunciato, rimettendo, poi, la definizione del merito della fattispecie agli organi giurisdizionali remittenti”; in particolare, in quella sede non si era ritenuto possibile, siccome contrastante con il quadro normativo e con princìpi costituzionali, che la “rimessione del giudizio debba essere intesa come spogliazione della causa di merito da parte della Sezione regionale o centrale a favore dell’Organo nomofilattico”.

Quest’ultima conclusione deve essere oggi rivisitata, in ragione del mutato contesto normativo, alla luce degli stessi criteri già a suo tempo valorizzati, a contrario, con la citata sentenza n. 7/QM/2010.
In particolare:

- la legge delega 7 agosto 2015, n. 124, all’articolo 20, comma 2, lettera n), nel delegare il governo a “ridefinire e riordinare le norme concernenti il deferimento di questioni di massima e di particolare importanza (…) proponibili alle Sezioni riunite della Corte dei conti in sede giurisdizionale” ha fatto espresso richiamo, tra l’altro, “alle disposizioni dell’articolo 374 del codice di procedura civile, in quanto compatibili”;

- le Sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei conti sono oggi configurate dal codice quale “articolazione interna della medesima Corte in sede d’appello” (art. 11);

- tanto il deferimento di questioni di massima di cui all’art. 114 quanto il motivato dissenso di cui all’art. 117 sono testualmente riferiti alle sole sezioni giurisdizionali d’appello;

- l’art. 117 fa oggi espresso ed inequivoco riferimento alla rimessione della “decisione dell’impugnazione”;

- sono stati positivamente sanciti i principi di “concentrazione” (art. 3) e di “ragionevole durata del processo” (art. 4).

Di qui l’inequivoca volontà legislativa di deferire alle Sezioni riunite, a fronte della “riproposizione di questione in caso di motivato dissenso” (art. 117), non soltanto la conferma del principio di diritto o l’enunciazione di un nuovo principio, bensì la decisione stessa dell’impugnazione, senza necessità di un ulteriore passaggio dinanzi al giudice a quo.

Alla predetta conclusione, tenuto anche a mente che la giurisdizione della Corte dei conti è esercitata secondo le norme del codice della giustizia contabile (art. 1, comma 3), non osta la pur residua, innegabile, diversità tra i giudizi per Cassazione (concernenti le sole questioni di diritto) e i giudizi d’appello dinanzi alla Corte dei conti (concernenti, in materia di responsabilità, anche questioni di fatto). Spetta, infatti, alle stesse Sezioni riunite in sede giurisdizionale (le quali “sono l’organo che assicura l’uniforme interpretazione e la corretta applicazione delle norme di contabilità pubblica” ex art. 11: sono quindi, precipuamente, giudice del diritto) fornire un’interpretazione sistematica dell’art. 117 e, così, farne buon governo nell’applicazione concreta, in coerenza con quegli stessi criteri generali che, nel diverso ambito del processo civile, hanno ad esempio ispirato gli articoli 384 c.p.c. e 142 delle relative disposizioni d’attuazione.

In particolare, spetta alle Sezioni Riunite, nell’affermare il principio di diritto sul quale si è incentrato il motivato dissenso, valutare se si debba, caso per caso, definire l’intero giudizio di impugnazione oppure decidere per tal via solo uno o più dei motivi d’impugnazione (di propria stretta competenza, in quanto vertenti su questioni di massima, in diritto), per poi rimettere alla sezione semplice la causa per la decisione degli ulteriori motivi (rientranti, in linea di principio, nella competenza delle sezioni semplici).

Ogni valutazione, in proposito, non potrà che essere condotta sulla base dell’analisi della fattispecie concreta, anche in considerazione del numero e della natura dei motivi d’impugnazione, degli accertamenti da svolgere, del numero e della posizione delle parti, della possibilità di definire agevolmente l’impugnazione mediante la soluzione delle questioni di diritto sottoposte all’organo di nomofilachia ovvero dell’opportunità di lasciare alla competenza delle sezioni semplici l’apprezzamento dei fatti di causa, ipotesi quest’ultima certamente residuale, che però non può almeno in astratto essere esclusa.

XIII. Nel caso di specie, è evidente che l’intera impugnazione, per la parte non già decisa con la citata sentenza parziale n. 24/2017 della seconda Sezione, può essere agevolmente definita direttamente da queste Sezioni riunite, mediante l’applicazione del principio di diritto dinanzi enunciato, non essendovi ulteriori motivi da esaminare e non essendovi alcuna ragione (alla luce dei richiamati principi di concentrazione, in senso lato, e ragionevole durata del processo) per rimettere le parti dinanzi al giudice a quo al solo fine di vedere applicato il principio affermato in questa sede, cui non può che conseguire il rigetto dell’appello dell’INPS e l’integrale conferma della sentenza della Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia Giulia n. 119 del 9 giugno 2010.

È appena il caso di rilevare, al riguardo, che la statuizione del giudice di prime cure, nella parte in cui aveva dichiarato il diritto del pensionato agli interessi legali solo dalla domanda giudiziale (e non dalla data della precedente domanda amministrativa, cioè del ricorso al Comitato di vigilanza), non aveva formato oggetto di impugnazione da parte del pensionato, sicché non potrebbe in ogni caso essere riformata in peius in esito all’appello del solo INPS (cfr. Cass., Sez. 2, sent. 25244 del 8.11.2013).

XIV. Le spese di lite, per la parte che non ha già formato oggetto di statuizione con la citata sentenza-ordinanza n. 24/2017, sono integralmente compensate per “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti” ex art. 31, comma 3, del codice della giustizia contabile.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte dei conti, a Sezioni riunite in sede giurisdizionale, pronunciando sulla riproposizione di questione di massima per motivato dissenso, rimessa ex art. 117 del codice della giustizia contabile dalla Sezione seconda giurisdizionale centrale d’appello con sentenza-ordinanza n. 24/2017,

AFFERMA

il seguente principio di diritto: “Nel caso in cui, a seguito di conguaglio tra il trattamento provvisorio e quello definitivo di pensione , a debito del pensionato, siano state disposte dall’amministrazione, ai fini del recupero, ritenute sulla pensione , ma sia successivamente accertato l’affidamento dell’interessato e, per l’effetto, sia dichiarato il suo diritto alla restituzione, in tutto o in parte, di quanto in precedenza trattenuto, sulle somme in restituzione spettano gli interessi legali, dalla data della domanda giudiziale o, ove proposta, dalla data della precedente domanda amministrativa”.

Per l’effetto, definitivamente pronunciando,

RESPINGE

l’appello proposto dall’INPDAP e proseguito dall’INPS avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia Giulia n. 119 del 9 giugno 2010, per la parte non già decisa con la sentenza-ordinanza della Sezione seconda giurisdizionale centrale d’appello n. 24 del 19 gennaio 2017.

Spese compensate.

Così deciso in Roma, nelle Camere di consiglio del 14 giugno e del 4 ottobre 2017.

L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Gerardo de Marco Alberto Avoli


Depositato in segreteria in data 12 ottobre 2017


Il Direttore della segreteria
Maria Laura Iorio
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