Tutela delle lavoratrici madri
Re: Tutela delle lavoratrici madri
Adesso possiamo avere qualche speranza in più.
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diniego riposi giornalieri di cui all’art. 40 del T.U. n. 151/2001
1) - Il T.A.R., premesso che il diniego censurato è stato motivato dall’Amministrazione con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D. Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice, ha respinto il ricorso, ritenendo “che, essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di garantire al figlio, entro l’anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata, nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente”
IL CONSIGLIO DI STATO ha Accolto l'Appello del collega della PolStato.
2) - Il ricorso va accolto nei termini che seguono.
3) - La controversia riguarda la mancata concessione all’odierno appellante, dipendente del Ministero dell’Interno presso la Questura di Genova con mansioni di assistente di polizia, del diritto a fruire dei riposi giornalieri, di cui all’art. 40 del T.U. 151/2001.
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10/09/2014 201404618 Sentenza 3
N. 04618/2014REG.PROV.COLL.
N. 03752/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3752 del 2014, proposto da:
-OMISSIS-,
rappresentato e difeso dall’avv.to Emanuela Mazzola ed elettivamente domiciliato presso lo studio della stessa, in Roma, via Tacito, 50,
contro
- il MINISTERO dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza,
in persona del Ministro p.t.;
- la QUESTURA di Genova,
in persona del Questore p.t.,
costituitisi in giudizio, ex lege rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati presso gli uffici della stessa, in Roma, via dei Portoghesi, 12,
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LIGURIA - SEZIONE II n. 00222/2014, resa tra le parti, concernente diniego concessione riposi.
Visto il ricorso, con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione dell’Interno;
Visti gli atti tutti della causa;
Visto l'art. 52 del D. Lgs. 30.06.2003, n. 196, commi 1 e 2;
Data per letta, alla camera di consiglio del 19 giugno 2014, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace;
Uditi, alla stessa camera di consiglio, l’avv. Emanuela Mazzola per l’appellante e l’avv. Attilio Barbieri dello Stato per gli appellati;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. - Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria ed ivi rubricato al n. R.G. 448/2013, l’odierno appellante, assistente della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di Genova, ha chiesto:
- il riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del T.U. n. 151/2001 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio, previo annullamento del provvedimento del Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, Questura di Genova, Cat. 2.12/4117/AA.GG. del 12.12.2012, notificato il 15.1.2013, con il quale l’Amministrazione resistente ha respinto l’istanza volta al godimento dei riposi stessi;
- il pagamento delle somme corrispondenti alle ore di lavoro effettivamente prestate per mancata fruizione di detti riposi.
Il T.A.R., premesso che il diniego censurato è stato motivato dall’Amministrazione con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D. Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice, ha respinto il ricorso, ritenendo “che, essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di garantire al figlio, entro l’anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata, nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente” ( pag. 12 sent. ).
La sentenza è appellata dall’originario ricorrente, che ne contesta puntualmente le argomentazioni.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione dell’Interno, limitando la sua attività difensiva al deposito di documenti.
La causa, chiamata alla camera di consiglio del 19 giugno 2014 per la trattazione della domanda incidentale di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, è stata ivi trattenuta per la decisione in forma semplificata ex art. 60 c.p.a., previa audizione delle parti sul punto.
Il ricorso va accolto nei termini che seguono.
La controversia riguarda la mancata concessione all’odierno appellante, dipendente del Ministero dell’Interno presso la Questura di Genova con mansioni di assistente di polizia, del diritto a fruire dei riposi giornalieri, di cui all’art. 40 del T.U. 151/2001.
Le norme di riferimento, ossia gli artt. 39 e 40 del citato T.U., così dispongono:
« Art.39. Riposi giornalieri della madre: 1 - Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l'orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore. 2 - I periodi di riposo di cui al comma 1 hanno la durata di un'ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall'azienda. 3 - I periodi di riposo sono di mezz'ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell'asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell'unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.
« Art. 40. Riposi giornalieri del padre: 1. I periodi di riposo di cui all'articolo 39 sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) in caso di morte o di grave infermità della madre».
Ritiene il Collegio che, alla stregua di detto apparato normativo ed alla luce del principio espresso nella sentenza del C.d.S. n. 4293 del 9.9.2008 ( che, esaminando la medesima problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice autonoma bensì casalinga, si è pronunciato nel senso della piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente ), l’opposto diniego si riveli illegittimo.
Ha rilevato infatti tale pronuncia che, trattandosi di una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall'art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività ( nella fattispecie, quella di “casalinga” ), che la distolgano dalla cura del neonato.
A sostegno della condivibisibilità di tale interpretazione va richiamata Cass. n. 20324 del 20.10.2005, che, esaminando la questione della risarcibilità del danno da perdita della capacità di lavoro, assimila l'attività domestica ad attività lavorativa, richiamando i principii di cui agli artt. 4, 36 e 37 della Costituzione.
E’ pur vero che in senso diametralmente opposto si è espresso il Consiglio di Stato in sede consultiva: "In merito all'interpretazione dell'art. 40 D.Lg.vo. n. 151 del 2001, nella parte in cui (comma 1, lett. c) riconosce al padre lavoratore il diritto di fruire, nel primo anno di vita del figlio, del riposo giornaliero di due ore nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, deve smentirsi l'interpretazione fornita dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. VI n. 4293 del 2008), secondo cui con l'espressione non. lavoratrice dipendente il legislatore ha inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti una attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa; ciò perché la madre casalinga non può farsi rientrare nella menzionata ipotesi che ha riguardo ai casi in cui la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio" (C.d.S, Sez. I, 22.10.2009, n. 2732).
Ritiene tuttavia il Collegio di dovere aderire al primo orientamento, perché aderente alla non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al padre, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. Tale formulazione, secondo il significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente: dunque quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un’attività non retribuita da terzi (se a quest’ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga). Altro si direbbe se il legislatore avesse usato la formula “nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente”. La tecnica di redazione dell’art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia volutamente tassativa.
Anche dal punto di vista della ratio, tale orientamento appare più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all'educazione della prole, che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.
Né può condividersi l'assunto secondo cui "la considerazione dell'attività domestica, come vera e propria attività lavorativa prestata a favore del nucleo familiare, non esclude, ma al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali"(così il citato parere del C.d.S., Sez. I, 22.10.2009, n. 2732), poiché esso oblitera l'innegabile circostanza, che costituisce il fondamento dell'istituto dei permessi giornalieri, della estrema difficoltà di cura della prole da parte anche della madre casalinga, specie laddove si ponga mente alle complesse esigenze di accudimento dei figli nel primo anno di vita (nel corso del quale spettano i permessi de quibus).
Del resto, proprio perché i compiti esercitati dalla casalinga risultano di maggiore ampiezza, intensità e responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d'opera dipendente (Cass. civ., Sez. 3, n. 17977 del 24 agosto 2007; idem, 20 luglio 2010 n. 16896; da ultimo, Cass. civ., III, 13 dicembre 2012, n. 22909) è del tutto incongruo dedurne, coma ha fatto il Giudice di primo grado, “l’oggettiva possibilità, nel caso della lavoratrice casalinga, di conciliare la delicate e impegnative attività di cura del figlio con le mansioni del lavoro domestico” ( pag. 12 sent. ); laddove, invece, è dato di comune esperienza che l’attività dalla stessa esercitata in àmbito familiare spesso necessita, alla nascita di un figlio, di aiuti esterni ( collaboratore/rice familiare e/o baby-sitter ), utilmente surrogabili, nel caso delle famiglie mono-reddito, proprio mediante ricorso al godimento dei permessi di cui all’art. 40 cit. da parte dell’altro genitore lavoratore dipendente.
Ancora, i riposi giornalieri, una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del bambino, hanno la funzione di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità ( Corte cost., 1 aprile 2003, n. 104 ); ed in tale prospettiva sarebbe del tutto irragionevole ritenere che l’ònere di soddisfacimento degli stessi debba ricadere sul solo genitore che viva la già peculiare situazione di lavoro casalingo.
Proprio, in conclusione, lo spostamento dell'asse della ratio normativa sulla tutela del minore impone, invero, di ritenere che il beneficio, di cui uno dei due genitori può fruire, costituisca il punto di bilanciamento tra gli obblighi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro (con riferimento al rispetto dell'orario di servizio) e gli obblighi discendenti dal diritto di famiglia paritario, che gli impone comunque la cura del minore pure in presenza dell'altro genitore eventualmente non lavoratore ( T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 10 maggio 2012, n. 332 ).
Tale beneficio sostanzialmente grava sul datore di lavoro dell'uno o dell'altro genitore ( ed in tal senso è da intendersi il principio dell'alternatività richiamato dal T.A.R. ), ma, allorché uno dei due genitori per una ragione qualsiasi non se ne avvalga (perché “non lavoratore dipendente” e dunque anche non lavoratore “tout court” ), ben può essere richiesto e fruito dall'altro.
2. – Il ricorso va dunque accolto nel suo petitum di riconoscimento del diritto e di annullamento dell’atto in primo grado impugnato.
Non può invece accogliersi la domanda risarcitoria, atteso che, in sede di risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, ai fini della ammissibilità della relativa domanda, non è sufficiente il mero annullamento del provvedimento lesivo, ma è necessario che sia fornita la prova, oltre che del danno subito, anche della sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa.
Secondo la giurisprudenza, la colpa dell'Amministrazione è configurabile quando l'esecuzione dell'atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento, quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza ( Consiglio Stato, sez. V, 18 novembre 2010, n. 8091; da ultimo, sez. V, 8 aprile 2014, n. 1644 ).
Nella fattispecie, i contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma e l’adesione dell’Amministrazione all’indirizzo scaturito dal parere del Consiglio di Stato del 22 ottobre 2009 dimostrano sufficientemente la scusabilità della perpetrata violazione delle regole dell’azione amministrativa.
3. – L’appello va dunque accolto nei limiti di cui sopra.
Le spese del doppio grado di giudizio, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono, come di regola, la soccombenza.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado quanto al riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del T.U. n. 151/2001 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio ed all’annullamento del provvedimento del Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, Questura di Genova, Cat. 2.12/4117/AA.GG. del 12.12.2012, notificato il 15.1.2013.
Condanna l’Amministrazione dell’Interno alla rifusione di spese ed onorarii del doppio grado di giudizio in favore dell’appellante, liquidandoli in complessivi euro 4.000,00=, oltre agli accessori dovuti per legge, fra i quali il rimborso del contributo unificato, se versato.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, del D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi dell’appellante, manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini ivi indicati.
Così deciso in Roma, addì 19 giugno 2014, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Terza – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei seguenti Magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Carlo Deodato, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere, Estensore
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Vittorio Stelo, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/09/2014
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diniego riposi giornalieri di cui all’art. 40 del T.U. n. 151/2001
1) - Il T.A.R., premesso che il diniego censurato è stato motivato dall’Amministrazione con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D. Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice, ha respinto il ricorso, ritenendo “che, essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di garantire al figlio, entro l’anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata, nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente”
IL CONSIGLIO DI STATO ha Accolto l'Appello del collega della PolStato.
2) - Il ricorso va accolto nei termini che seguono.
3) - La controversia riguarda la mancata concessione all’odierno appellante, dipendente del Ministero dell’Interno presso la Questura di Genova con mansioni di assistente di polizia, del diritto a fruire dei riposi giornalieri, di cui all’art. 40 del T.U. 151/2001.
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10/09/2014 201404618 Sentenza 3
N. 04618/2014REG.PROV.COLL.
N. 03752/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3752 del 2014, proposto da:
-OMISSIS-,
rappresentato e difeso dall’avv.to Emanuela Mazzola ed elettivamente domiciliato presso lo studio della stessa, in Roma, via Tacito, 50,
contro
- il MINISTERO dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza,
in persona del Ministro p.t.;
- la QUESTURA di Genova,
in persona del Questore p.t.,
costituitisi in giudizio, ex lege rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati presso gli uffici della stessa, in Roma, via dei Portoghesi, 12,
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LIGURIA - SEZIONE II n. 00222/2014, resa tra le parti, concernente diniego concessione riposi.
Visto il ricorso, con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione dell’Interno;
Visti gli atti tutti della causa;
Visto l'art. 52 del D. Lgs. 30.06.2003, n. 196, commi 1 e 2;
Data per letta, alla camera di consiglio del 19 giugno 2014, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace;
Uditi, alla stessa camera di consiglio, l’avv. Emanuela Mazzola per l’appellante e l’avv. Attilio Barbieri dello Stato per gli appellati;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO e DIRITTO
1. - Con ricorso proposto dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria ed ivi rubricato al n. R.G. 448/2013, l’odierno appellante, assistente della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di Genova, ha chiesto:
- il riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del T.U. n. 151/2001 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio, previo annullamento del provvedimento del Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, Questura di Genova, Cat. 2.12/4117/AA.GG. del 12.12.2012, notificato il 15.1.2013, con il quale l’Amministrazione resistente ha respinto l’istanza volta al godimento dei riposi stessi;
- il pagamento delle somme corrispondenti alle ore di lavoro effettivamente prestate per mancata fruizione di detti riposi.
Il T.A.R., premesso che il diniego censurato è stato motivato dall’Amministrazione con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D. Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice, ha respinto il ricorso, ritenendo “che, essendo i riposi giornalieri concessi al fine essenziale di garantire al figlio, entro l’anno di vita, la presenza alternativa di uno dei genitori, non sia giustificata, nel caso di madre casalinga, la concessione del beneficio al padre lavoratore dipendente” ( pag. 12 sent. ).
La sentenza è appellata dall’originario ricorrente, che ne contesta puntualmente le argomentazioni.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione dell’Interno, limitando la sua attività difensiva al deposito di documenti.
La causa, chiamata alla camera di consiglio del 19 giugno 2014 per la trattazione della domanda incidentale di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, è stata ivi trattenuta per la decisione in forma semplificata ex art. 60 c.p.a., previa audizione delle parti sul punto.
Il ricorso va accolto nei termini che seguono.
La controversia riguarda la mancata concessione all’odierno appellante, dipendente del Ministero dell’Interno presso la Questura di Genova con mansioni di assistente di polizia, del diritto a fruire dei riposi giornalieri, di cui all’art. 40 del T.U. 151/2001.
Le norme di riferimento, ossia gli artt. 39 e 40 del citato T.U., così dispongono:
« Art.39. Riposi giornalieri della madre: 1 - Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l'orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore. 2 - I periodi di riposo di cui al comma 1 hanno la durata di un'ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall'azienda. 3 - I periodi di riposo sono di mezz'ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell'asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell'unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.
« Art. 40. Riposi giornalieri del padre: 1. I periodi di riposo di cui all'articolo 39 sono riconosciuti al padre lavoratore: a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre; b) in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga; c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente; d) in caso di morte o di grave infermità della madre».
Ritiene il Collegio che, alla stregua di detto apparato normativo ed alla luce del principio espresso nella sentenza del C.d.S. n. 4293 del 9.9.2008 ( che, esaminando la medesima problematica oggetto di causa, di sostituzione del padre nella fruizione dei permessi qualora la madre sia non lavoratrice autonoma bensì casalinga, si è pronunciato nel senso della piena assimilazione della lavoratrice casalinga alla lavoratrice non dipendente ), l’opposto diniego si riveli illegittimo.
Ha rilevato infatti tale pronuncia che, trattandosi di una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall'art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività ( nella fattispecie, quella di “casalinga” ), che la distolgano dalla cura del neonato.
A sostegno della condivibisibilità di tale interpretazione va richiamata Cass. n. 20324 del 20.10.2005, che, esaminando la questione della risarcibilità del danno da perdita della capacità di lavoro, assimila l'attività domestica ad attività lavorativa, richiamando i principii di cui agli artt. 4, 36 e 37 della Costituzione.
E’ pur vero che in senso diametralmente opposto si è espresso il Consiglio di Stato in sede consultiva: "In merito all'interpretazione dell'art. 40 D.Lg.vo. n. 151 del 2001, nella parte in cui (comma 1, lett. c) riconosce al padre lavoratore il diritto di fruire, nel primo anno di vita del figlio, del riposo giornaliero di due ore nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, deve smentirsi l'interpretazione fornita dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. VI n. 4293 del 2008), secondo cui con l'espressione non. lavoratrice dipendente il legislatore ha inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti una attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa; ciò perché la madre casalinga non può farsi rientrare nella menzionata ipotesi che ha riguardo ai casi in cui la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio" (C.d.S, Sez. I, 22.10.2009, n. 2732).
Ritiene tuttavia il Collegio di dovere aderire al primo orientamento, perché aderente alla non equivoca formulazione letterale della norma, secondo la quale il beneficio spetta al padre, “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”. Tale formulazione, secondo il significato proprio delle parole, include tutte le ipotesi di inesistenza di un rapporto di lavoro dipendente: dunque quella della donna che svolga attività lavorativa autonoma, ma anche quella di una donna che non svolga alcuna attività lavorativa o comunque svolga un’attività non retribuita da terzi (se a quest’ultimo caso si vuol ricondurre la figura della casalinga). Altro si direbbe se il legislatore avesse usato la formula “nel caso in cui la madre sia lavoratrice non dipendente”. La tecnica di redazione dell’art. 40, con la sua meticolosa elencazione delle varie ipotesi nelle quali il beneficio è concesso al padre, lascia intendere che la formulazione di ciascuna di esse sia volutamente tassativa.
Anche dal punto di vista della ratio, tale orientamento appare più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all'educazione della prole, che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.
Né può condividersi l'assunto secondo cui "la considerazione dell'attività domestica, come vera e propria attività lavorativa prestata a favore del nucleo familiare, non esclude, ma al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali"(così il citato parere del C.d.S., Sez. I, 22.10.2009, n. 2732), poiché esso oblitera l'innegabile circostanza, che costituisce il fondamento dell'istituto dei permessi giornalieri, della estrema difficoltà di cura della prole da parte anche della madre casalinga, specie laddove si ponga mente alle complesse esigenze di accudimento dei figli nel primo anno di vita (nel corso del quale spettano i permessi de quibus).
Del resto, proprio perché i compiti esercitati dalla casalinga risultano di maggiore ampiezza, intensità e responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d'opera dipendente (Cass. civ., Sez. 3, n. 17977 del 24 agosto 2007; idem, 20 luglio 2010 n. 16896; da ultimo, Cass. civ., III, 13 dicembre 2012, n. 22909) è del tutto incongruo dedurne, coma ha fatto il Giudice di primo grado, “l’oggettiva possibilità, nel caso della lavoratrice casalinga, di conciliare la delicate e impegnative attività di cura del figlio con le mansioni del lavoro domestico” ( pag. 12 sent. ); laddove, invece, è dato di comune esperienza che l’attività dalla stessa esercitata in àmbito familiare spesso necessita, alla nascita di un figlio, di aiuti esterni ( collaboratore/rice familiare e/o baby-sitter ), utilmente surrogabili, nel caso delle famiglie mono-reddito, proprio mediante ricorso al godimento dei permessi di cui all’art. 40 cit. da parte dell’altro genitore lavoratore dipendente.
Ancora, i riposi giornalieri, una volta venuto meno il nesso esclusivo con le esigenze fisiologiche del bambino, hanno la funzione di soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità ( Corte cost., 1 aprile 2003, n. 104 ); ed in tale prospettiva sarebbe del tutto irragionevole ritenere che l’ònere di soddisfacimento degli stessi debba ricadere sul solo genitore che viva la già peculiare situazione di lavoro casalingo.
Proprio, in conclusione, lo spostamento dell'asse della ratio normativa sulla tutela del minore impone, invero, di ritenere che il beneficio, di cui uno dei due genitori può fruire, costituisca il punto di bilanciamento tra gli obblighi del lavoratore nei confronti del datore di lavoro (con riferimento al rispetto dell'orario di servizio) e gli obblighi discendenti dal diritto di famiglia paritario, che gli impone comunque la cura del minore pure in presenza dell'altro genitore eventualmente non lavoratore ( T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 10 maggio 2012, n. 332 ).
Tale beneficio sostanzialmente grava sul datore di lavoro dell'uno o dell'altro genitore ( ed in tal senso è da intendersi il principio dell'alternatività richiamato dal T.A.R. ), ma, allorché uno dei due genitori per una ragione qualsiasi non se ne avvalga (perché “non lavoratore dipendente” e dunque anche non lavoratore “tout court” ), ben può essere richiesto e fruito dall'altro.
2. – Il ricorso va dunque accolto nel suo petitum di riconoscimento del diritto e di annullamento dell’atto in primo grado impugnato.
Non può invece accogliersi la domanda risarcitoria, atteso che, in sede di risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, ai fini della ammissibilità della relativa domanda, non è sufficiente il mero annullamento del provvedimento lesivo, ma è necessario che sia fornita la prova, oltre che del danno subito, anche della sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa.
Secondo la giurisprudenza, la colpa dell'Amministrazione è configurabile quando l'esecuzione dell'atto illegittimo sia avvenuta in violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, desumibili sia dai principi costituzionali d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento, quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza ( Consiglio Stato, sez. V, 18 novembre 2010, n. 8091; da ultimo, sez. V, 8 aprile 2014, n. 1644 ).
Nella fattispecie, i contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione della norma e l’adesione dell’Amministrazione all’indirizzo scaturito dal parere del Consiglio di Stato del 22 ottobre 2009 dimostrano sufficientemente la scusabilità della perpetrata violazione delle regole dell’azione amministrativa.
3. – L’appello va dunque accolto nei limiti di cui sopra.
Le spese del doppio grado di giudizio, liquidate nella misura indicata in dispositivo, seguono, come di regola, la soccombenza.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado quanto al riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del T.U. n. 151/2001 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio ed all’annullamento del provvedimento del Ministero dell’interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, Questura di Genova, Cat. 2.12/4117/AA.GG. del 12.12.2012, notificato il 15.1.2013.
Condanna l’Amministrazione dell’Interno alla rifusione di spese ed onorarii del doppio grado di giudizio in favore dell’appellante, liquidandoli in complessivi euro 4.000,00=, oltre agli accessori dovuti per legge, fra i quali il rimborso del contributo unificato, se versato.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, del D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi dell’appellante, manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini ivi indicati.
Così deciso in Roma, addì 19 giugno 2014, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Terza – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei seguenti Magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente
Carlo Deodato, Consigliere
Salvatore Cacace, Consigliere, Estensore
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Vittorio Stelo, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/09/2014
Re: Tutela delle lavoratrici madri
La lista delle vittorie si allunga.
N.B.: questa sentenza richiama quella del CdS di cui sopra.
Ricorso ACCOLTO
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25/09/2014 201402427 Sentenza Breve 2
N. 02427/2014 REG.PROV.COLL.
N. 01884/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce - Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 1884 del 2014, proposto da:
Consigliera di Parità della Provincia di Lecce, rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Fina, con domicilio eletto presso Segreteria Tar in Lecce, via F. Rubichi 23;
contro
Ministero dell'Interno, Questura di Lecce, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata in Lecce, via Rubichi;
per l'annullamento
della nota 22.5.2014 , notificata al sig. -OMISSIS- in data 29.5.2014, con cui la Questura di Lecce, Ufficio del Personale, ha rigettato la richiesta di fruizione dei riposi giornalieri avanzata dal sig. -OMISSIS-;
nonchè, ove occorra, della nota 24.6.2014 con cui la Questura di Lecce ha respinto la diffida avanzata dalla Consigliera di Parità della Provincia di Lecce nonchè di ogni altro atto connesso, presupposto e/o consequenziale, ivi comprese la nota 8.11.2013 prot. n. 333_A/9807.F.6.2/7471-201;
nonchè per l'accertamento del sig. -OMISSIS- a fruire dei riposi richiesti e il risarcimento del danno dallo stesso patito a causa del diniego impugnato.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Questura di Lecce;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 52 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, commi 1 e 2;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 11 settembre 2014 il dott. Marco Rinaldi e uditi nei preliminari l’avv. F.sco Fina per la ricorrente e l’avv. dello Stato G. Pedone;
Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;
1. La Consigliera di Parità della Provincia di Lecce ha chiesto l’annullamento degli atti con cui la Questura di Lecce, Ufficio del Personale, ha rigettato la domanda di fruizione dei riposi giornalieri avanzata dall’Assistente Capo della Polizia di Stato, sig. -OMISSIS-, padre di un neonato e coniugato con una casalinga: ha, altresì, richiesto il risarcimento del danno.
2. L’Amministrazione ha contrastato le avverse pretese.
3. Il ricorso merita parziale accoglimento.
3.1. La più recente giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la lettera c) dell'art. 40 del D.Lgs. n. 151/2001, riferendosi alla "madre che non sia lavoratrice dipendente", si applica non solo alla lavoratrice "autonoma" ma, per la sua lata accezione letterale e in mancanza di esplicita esclusione, anche alla lavoratrice "casalinga" (cfr: Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10 settembre 2014 n. 4618; Consiglio di Stato, Sez. III, Ordinanza 30/08/13 n. 3386: Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4293/08).
Tale conclusione appare in sintonia con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che aveva precedentemente sottolineato come in numerosi ambiti ordinamentali la casalinga sia considerata come lavoratrice (Cass., sez. III, n. 20324 del 20 ottobre 2005), in quanto impegnata in attività che comunque la distolgono dalla cura del neonato.
La prospettata interpretazione estensiva della lettera c) dell'art. 40 citato è stata ritenuta maggiormente aderente alla ratio legis, volta a garantire al lavoratore padre la cura del bambino in tutte le ipotesi in cui l'altro genitore sia impegnato in attività lavorative che lo distolgano dall'assolvimento di tale compito (per Consiglio di Stato, Sez. III– sentenza 10 settembre 2014 n. 4618 “E’ illegittimo il provvedimento con il quale la P.A. ha respinto la domanda di un dipendente (nella specie si trattava di un assistente della Polizia di Stato) volta ad ottenere il riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del D.L.vo 26 marzo 2001 n. 151 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio, motivato con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D.Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice. Infatti, poiché l’art. 40 del T.U. 151/2001 costituisce una norma volta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall’art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività (nella fattispecie, quella di “casalinga”), che la distolgano dalla cura del neonato”).
Alla luce delle suesposte considerazioni va annullato il provvedimento impugnato nella parte in cui ha negato al sig. -OMISSIS- la fruizione dei permessi giornalieri ex art. 40 lett c) Dlgs 151/2001.
3.2. Non spetta, invece, l’invocato risarcimento del danno, difettando nella specie la colpa della P.A.: l’oscurità del dato normativo, che non disciplina espressamente l’ipotesi all’esame, e l’esistenza di contrasti giurisprudenziali in materia (es. T.A.R. Liguria, Sez. II, n. 222/2014, TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 21 luglio 2014, n. 395 e, in sede consultiva, Cons. Stato, Sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732 hanno negato i permessi in oggetto al padre lavoratore con moglie casalinga) inducono, infatti, a ritenere che l’Amministrazione sia incorsa in un errore scusabile.
4. Spese compensate in ragione della controvertibilità delle questioni trattate e dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali in materia.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Seconda definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi del sig. -OMISSIS- manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 11 settembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Ettore Manca, Presidente FF
Carlo Dibello, Consigliere
Marco Rinaldi, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/09/2014
N.B.: questa sentenza richiama quella del CdS di cui sopra.
Ricorso ACCOLTO
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25/09/2014 201402427 Sentenza Breve 2
N. 02427/2014 REG.PROV.COLL.
N. 01884/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce - Sezione Seconda
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 60 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 1884 del 2014, proposto da:
Consigliera di Parità della Provincia di Lecce, rappresentato e difeso dall'avv. Francesco Fina, con domicilio eletto presso Segreteria Tar in Lecce, via F. Rubichi 23;
contro
Ministero dell'Interno, Questura di Lecce, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Dello Stato, domiciliata in Lecce, via Rubichi;
per l'annullamento
della nota 22.5.2014 , notificata al sig. -OMISSIS- in data 29.5.2014, con cui la Questura di Lecce, Ufficio del Personale, ha rigettato la richiesta di fruizione dei riposi giornalieri avanzata dal sig. -OMISSIS-;
nonchè, ove occorra, della nota 24.6.2014 con cui la Questura di Lecce ha respinto la diffida avanzata dalla Consigliera di Parità della Provincia di Lecce nonchè di ogni altro atto connesso, presupposto e/o consequenziale, ivi comprese la nota 8.11.2013 prot. n. 333_A/9807.F.6.2/7471-201;
nonchè per l'accertamento del sig. -OMISSIS- a fruire dei riposi richiesti e il risarcimento del danno dallo stesso patito a causa del diniego impugnato.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno e di Questura di Lecce;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 52 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, commi 1 e 2;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 11 settembre 2014 il dott. Marco Rinaldi e uditi nei preliminari l’avv. F.sco Fina per la ricorrente e l’avv. dello Stato G. Pedone;
Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;
1. La Consigliera di Parità della Provincia di Lecce ha chiesto l’annullamento degli atti con cui la Questura di Lecce, Ufficio del Personale, ha rigettato la domanda di fruizione dei riposi giornalieri avanzata dall’Assistente Capo della Polizia di Stato, sig. -OMISSIS-, padre di un neonato e coniugato con una casalinga: ha, altresì, richiesto il risarcimento del danno.
2. L’Amministrazione ha contrastato le avverse pretese.
3. Il ricorso merita parziale accoglimento.
3.1. La più recente giurisprudenza amministrativa ha chiarito che la lettera c) dell'art. 40 del D.Lgs. n. 151/2001, riferendosi alla "madre che non sia lavoratrice dipendente", si applica non solo alla lavoratrice "autonoma" ma, per la sua lata accezione letterale e in mancanza di esplicita esclusione, anche alla lavoratrice "casalinga" (cfr: Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 10 settembre 2014 n. 4618; Consiglio di Stato, Sez. III, Ordinanza 30/08/13 n. 3386: Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 4293/08).
Tale conclusione appare in sintonia con il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che aveva precedentemente sottolineato come in numerosi ambiti ordinamentali la casalinga sia considerata come lavoratrice (Cass., sez. III, n. 20324 del 20 ottobre 2005), in quanto impegnata in attività che comunque la distolgono dalla cura del neonato.
La prospettata interpretazione estensiva della lettera c) dell'art. 40 citato è stata ritenuta maggiormente aderente alla ratio legis, volta a garantire al lavoratore padre la cura del bambino in tutte le ipotesi in cui l'altro genitore sia impegnato in attività lavorative che lo distolgano dall'assolvimento di tale compito (per Consiglio di Stato, Sez. III– sentenza 10 settembre 2014 n. 4618 “E’ illegittimo il provvedimento con il quale la P.A. ha respinto la domanda di un dipendente (nella specie si trattava di un assistente della Polizia di Stato) volta ad ottenere il riconoscimento del diritto a fruire dei riposi giornalieri di cui all’art. 40 del D.L.vo 26 marzo 2001 n. 151 con decorrenza dal giorno successivo al compimento del terzo mese di vita del figlio, motivato con il fatto che la moglie dell’istante è nella condizione di casalinga laddove le ipotesi contemplate dall’art. 40 del D.Lgs. 151/2001 prevedono la fruizione dei riposi in argomento da parte del padre nel caso di rinuncia della madre lavoratrice. Infatti, poiché l’art. 40 del T.U. 151/2001 costituisce una norma volta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità in attuazione delle finalità generali di tipo promozionale scolpite dall’art. 31 della Costituzione, non può che valorizzarsi, nella sua interpretazione, la ratio della stessa, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività (nella fattispecie, quella di “casalinga”), che la distolgano dalla cura del neonato”).
Alla luce delle suesposte considerazioni va annullato il provvedimento impugnato nella parte in cui ha negato al sig. -OMISSIS- la fruizione dei permessi giornalieri ex art. 40 lett c) Dlgs 151/2001.
3.2. Non spetta, invece, l’invocato risarcimento del danno, difettando nella specie la colpa della P.A.: l’oscurità del dato normativo, che non disciplina espressamente l’ipotesi all’esame, e l’esistenza di contrasti giurisprudenziali in materia (es. T.A.R. Liguria, Sez. II, n. 222/2014, TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 21 luglio 2014, n. 395 e, in sede consultiva, Cons. Stato, Sez. I, 22 ottobre 2009, n. 2732 hanno negato i permessi in oggetto al padre lavoratore con moglie casalinga) inducono, infatti, a ritenere che l’Amministrazione sia incorsa in un errore scusabile.
4. Spese compensate in ragione della controvertibilità delle questioni trattate e dell’esistenza di contrasti giurisprudenziali in materia.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Seconda definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi del sig. -OMISSIS- manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 11 settembre 2014 con l'intervento dei magistrati:
Ettore Manca, Presidente FF
Carlo Dibello, Consigliere
Marco Rinaldi, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/09/2014
Re: Tutela delle lavoratrici madri
Se può giovare a qualcuno.
Ricorso ACCOLTO.
Cmq. questa sentenza del Tar Lazio prende in esame tutta la materia del Congedo per la tutela della “maternità” e dei benefici economici connessi, pertanto, vi consiglio di leggerla lutta, anche se riguarda quattro ricorrenti, tutte Avvocati dello Stato, poichè potreste "trovare" qualche beneficio che vi spetta di diritto.
--------------------------------------------------------------------------
1) - evidenziavano di aver usufruito di periodi di astensione obbligatoria “per maternità”, ai sensi dell’art. 41 del d.p.r. n. 3/1957.
2) - normativa speciale a sostegno e tutela della maternità e paternità, riconducibile al d.lgs. n. 151/2001, il cui art. 1, nello specifico, prevede che il trattamento economico che compete alla donna in congedo obbligatorio per maternità è derogabile solo per effetto di norme di maggior favore, le ricorrenti affermavano che in tale trattamento doveva essere ricompreso l’art. 41 del T.U. n. 3/57, che assicura alla gestante “tutti gli assegni”, specie quando, come quello corrispondente al riparto in questione, hanno certamente natura retributiva, e ciò anche al fine di dare concreta attuazione al principio fondamentale di parità tra generi, ai sensi dell’art. 37 Cost. nonché delle disposizioni ultranazionali di cui all’art. 157 T.F.U.E, all’art. 23 della Carta dei Diritti Fondamentali U.E. e alla direttiva 2006/54/CE, al fine di assicurare alla lavoratrice gestante e madre una situazione di effettiva parità in materia di occupazione, lavoro e retribuzione.
3) - secondo la loro ricostruzione, era avvalorata anche dalla “ratio” della l. n. 53/2000, recante disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, come propugnata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Organo da cui dipende la stessa Avvocatura dello Stato, nella Circolare n. 14 del 16.11.2000, la quale - sul punto - precisa che: “le lavoratrici madri, durante tutto il periodo di astensione obbligatoria dall’impiego, in applicazione dei contratti collettivi, hanno diritto all’intera retribuzione fissa mensile, nonché al relativo trattamento accessorio.”
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SENTENZA ,sede di ROMA ,sezione SEZIONE 1 ,numero provv.: 201610048, - Public 2016-10-05 -
Pubblicato il 05/10/2016
N. 10048/2016 REG.PROV.COLL.
N. 13721/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 13721 del 2014, proposto da:
Lucrezia F., Verdiana F., Raffaella F., Wally F., rappresentate e difese dall'avvocato Costantino Ventura C.F. VNTCTN53A03A662M, con domicilio eletto presso Lucrezia Fiandaca in Roma, via San Liberio, 21;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Avvocatura dello Stato, rappresentati e difesi per legge dalla medesima Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti di
Marina R., non costituita in giudizio;
per ottenere
in favore di ciascuna delle ricorrenti, e nelle misure che saranno rispettivamente in appresso indicate, previa concessione delle misure cautelari e previa eventuale rimessione di atti e parti dinanzi alla Corte di Giustizia e/o la Corte Costituzionale, la corresponsione delle competenze spettanti ai sensi dell'art. 21 R.D. n. 1611/1933, maturate dalle ricorrenti a titolo di onorari di causa per i periodi di astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, oltre rivalutazione monetaria e interessi, e con vittoria di spese e rimborso del contributo unificato.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze e Avvocatura Generale dello Stato, con la relativa documentazione;
Vista l’ordinanza collegiale di questa Sezione n. 2182/2016 del 18.2.16;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 20 luglio 2016 il dott. Ivo Correale e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con gravame avanti a questo Tribunale, ritualmente notificato (anche a un soggetto controinteressato) e depositato, le quattro ricorrenti, tutte Avvocati dello Stato con diverse decorrenze e relative classi stipendiali ivi indicate, evidenziavano di aver usufruito di periodi di astensione obbligatoria “per maternità”, ai sensi dell’art. 41 del d.p.r. n. 3/1957, con godimento dell’intero trattamento economico, compresa l’indennità di cui all’art. 2 della L. 6.8.1984 n. 425, ma con esclusione dalla partecipazione al riparto delle competenze di cui all’art. 21 del R.D. 30.10.1933 n. 1611, pur risultando in detti periodi assegnatarie di numerosi affari, con significativo aumento del carico di lavoro complessivo.
Specificavano, inoltre, di aver conosciuto – tramite corrispondenza con l’Avvocatura Generale dello Stato – i compensi goduti dai colleghi in servizio nella medesima classe stipendiale, comprensivi del suddetto “riparto”, e di aver preso atto di nota del Segretario Generale in cui si specificava che la mancata elargizione era dovuta all’applicazione dell’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 in cui era stabilito che il diritto al riparto era escluso in tutti i casi di collocamento in aspettativa e in congedo straordinario, facendo salvi solo quelli ex art. 37, 2 co., T.U. n. 3/57 cit., tra i quali non era ricompresa la “maternità”.
Riportando la disposizione di cui all’art. 21 r.d. n. 1611/1933 cit., le ricorrenti proponevano nella sostanza una domanda di accertamento, previa adozione di misure cautelari, del loro diritto ad ottenere ugualmente l’integrale riparto, evidenziandone la piena natura “retributiva”, secondo la relativa nozione “onnicomprensiva” di cui all’art. 2099 c.c., come confermata espressamente anche dal legislatore con l’art. 9 d.l. n. 90/2014, conv. in l. n. 114/2014 e con l’art. 157 del T.F.U.E. - dei quali era riportato il testo per la parte di interesse - nonché ai sensi della Circolare I.N.P.S. n. 6 del 16.1.14, pure riportata.
Richiamando, poi, la normativa speciale a sostegno e tutela della maternità e paternità, riconducibile al d.lgs. n. 151/2001, il cui art. 1, nello specifico, prevede che il trattamento economico che compete alla donna in congedo obbligatorio per maternità è derogabile solo per effetto di norme di maggior favore, le ricorrenti affermavano che in tale trattamento doveva essere ricompreso l’art. 41 del T.U. n. 3/57, che assicura alla gestante “tutti gli assegni”, specie quando, come quello corrispondente al riparto in questione, hanno certamente natura retributiva, e ciò anche al fine di dare concreta attuazione al principio fondamentale di parità tra generi, ai sensi dell’art. 37 Cost. nonché delle disposizioni ultranazionali di cui all’art. 157 T.F.U.E, all’art. 23 della Carta dei Diritti Fondamentali U.E. e alla direttiva 2006/54/CE, al fine di assicurare alla lavoratrice gestante e madre una situazione di effettiva parità in materia di occupazione, lavoro e retribuzione.
La stessa direttiva in questione, poi, all’art. 9, indicava tra gli esempi di discriminazione proprio l’interrompere il mantenimento o l’acquisizione dei diritti durante i periodi di congedo per maternità.
Premesso ciò, le ricorrenti precisavano che l’omessa corresponsione del “riparto” in questione era quindi dipesa da una errata interpretazione dell’art. 12 del “Regolamento per la riscossione, da parte dell’Avvocatura dello Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa ripartizione” approvato con il richiamato d.p.c.m. del 29.2.1972, nella parte in cui prevedeva che “…Non si ha, inoltre, diritto a riparto per tutto il tempo trascorso in aspettativa, a disposizione, in disponibilità o in congedo straordinario, esclusi i casi previsti dall’art. 37, secondo comma del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3…”.
Per le ricorrenti, la situazione di congedo straordinario considerata dall’art. 12 quale causa di esclusione dal diritto a concorrere al riparto non poteva essere quella di astensione obbligatoria per maternità e puerperio, secondo i principi sopra richiamati, ma unicamente quella di congedo facoltativo, caratterizzato dall’essere fondato su “gravi motivi”, quindi non predeterminati dal legislatore, dall’essere assentibile “discrezionalmente” dall’Amministrazione, con conseguente posizione soggettiva di interesse legittimo dell’interessato e non di diritto soggettivo, dall’essere una forma di tutela “ulteriore” se chiesto dalla lavoratrice come misura ulteriore rispetto al congedo obbligatorio “per maternità”, dall’essere collegato a trattamento economico deteriore disposto dallo stesso legislatore, ai sensi dell’art. 40 T.U. cit.
Il congedo obbligatorio per gravidanza e puerperio, invece – illustravano le ricorrenti – “…a) è concesso solo in ipotesi di maternità e puerperio; b) costituisce un diritto irrinunciabile per la puerpera, sottratto a qualunque valutazione discrezionale da parte della P.A., alla quale è fatto espresso divieto di adibire la donna al lavoro; c) è concesso solo ‘una tantum’, in ragione dell’accertata sussistenza dei presupposti di legge e per un periodo minimo e massimo legislativamente predefinito (periodo compreso tra i due mesi antecedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi alla data del parto stesso); d) costituisce la tutela minima e irrinunciabile di ogni lavoratrice dipendente che si trovi in prossimità del parto; e) è soggetto pertanto a un trattamento economico di maggior favore rispetto a qualsivoglia forma di congedo, ivi compresa la malattia, competendo alla donna in congedo obbligatorio ‘tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario’ senza decurtazione alcuna”.
L’interpretazione dell’art. 12 come proposta dalle ricorrenti, secondo la loro ricostruzione, era avvalorata anche dalla “ratio” della l. n. 53/2000, recante disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, come propugnata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Organo da cui dipende la stessa Avvocatura dello Stato, nella Circolare n. 14 del 16.11.2000, la quale - sul punto - precisa che: “le lavoratrici madri, durante tutto il periodo di astensione obbligatoria dall’impiego, in applicazione dei contratti collettivi, hanno diritto all’intera retribuzione fissa mensile, nonché al relativo trattamento accessorio.”
Tali principi erano poi confermati nel richiamato d.lgs. n. 151/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), ai relativi artt. 2 e 23, comma 2, ove è presente il riferimento ai trattamenti “accessori” su precisa richiesta del Consiglio di Stato e della Commissione Lavoro pubblico e privato, trattamenti accessori tra cui devono essere ricompresi anche gli onorari e le competenze spettanti agli Avvocati e Procuratori dello Stato, che anche ai fini fiscali e contributivi vengono ritenuti redditi da lavoro dipendente.
Ogni diversa conclusione, pertanto, coincidente con l’interpretazione dell’art. 12 cit. richiamata dall’Avvocatura dello Stato, perverrebbe alla conseguenza di sanzionare, anziché tutelare, la gravidanza, parificandola illogicamente alle altre ipotesi di esclusione dal diritto a parte della retribuzione (abbandono dell’Ufficio senza giustificato motivo, destituzione, decadenza, dispensa dal servizio per scarso rendimento), certamente non assimilabili a quella in discussione.
E ciò con l’aggravante che tale esegesi tratterebbe in modo deteriore l’ipotesi di congedo obbligatorio per maternità, a cui la legge invece riserva un trattamento economico di maggior favore (“tutti gli assegni”, senza alcuna decurtazione), rispetto alle ipotesi di congedo per matrimonio o per esami, soggetti invece alla disciplina di cui all’art. 40 d.p.r. 3/57, cit. e alle relative decurtazioni.
Nel caso di specie, quindi, si profilerebbe un’ipotesi di contrasto del Regolamento, che esclude il diritto ad una parte della retribuzione durante la gravidanza, con la Legge, che invece tale diritto riconosce e assicura, differenziando e privilegiando l’ipotesi del congedo obbligatorio per maternità da ogni altra ipotesi di congedo e assenza, ivi compresa la malattia. Peraltro, aggiungevano le ricorrenti, l’interpretazione secondo la quale l’art. 12 del Regolamento si riferisce anche al congedo straordinario per gravidanza, ne comporterebbe l’inevitabile disapplicazione.
Il Regolamento, infatti, pur se avente natura “sostanzialmente” normativa, non può, per il principio di gerarchia delle fonti, porsi in contrasto con norme di rango superiore e la necessità di disapplicare la disposizione regolamentare in aperto contrasto con la norma primaria è peraltro senza alcun dubbio doverosa anche per il giudice amministrativo, vertendosi in materia di giurisdizione esclusiva, ed essendo la spettanza delle competenze per cui è causa un vero e proprio diritto soggettivo, secondo soluzioni assolutamente pacifiche e convincenti alle quali è pervenuta la giurisprudenza.
La contestata interpretazione, inoltre, si poneva anche in contrasto con il diritto comunitario, ai sensi della su richiamata direttiva 2006/54/CE (artt. 9, 14 e 15).
Le ricorrenti, in subordine, evidenziavano infatti che, ove si dovesse ritenere che il riferimento contenuto dall’art. 41 T.U. n. 3/57 a “tutti gli assegni” fosse da intendersi come a “tutti gli assegni escluse le competenze di cui all’art 21 del R.D. n. 1611/33”, e il disposto di cui all’art. 23 del t.u. della maternità come riferibile a tutti “i premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice”, ma con l’esclusione degli onorari di causa, si imponeva anche un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata delle prefate disposizioni, ovvero, in via gradata, la rimessione di tale questione alla Corte Costituzionale e/o alla Corte di Giustizia UE, per evidente contrasto, oltre che con il principio di ragionevolezza, con i puntuali riferimenti normativi e costituzionali prima richiamati.
Le ricorrenti precisavano ulteriormente che i compensi in questione non riguardavano prestazioni di lavoro straordinario, che ovviamente non avevano potuto compiere durante il periodo di astensione obbligatoria, sebbene destinatarie di assegnazioni che avevano incrementato il carico di lavoro rendendo non irrilevante, ai fini della prestazione lavorativa, l’assenza dal servizio (come invece avviene in ipotesi di collocamento “fuori ruolo”, in cui non solo non vengono assegnati nuovi affari, ma vengono riassegnati agli altri colleghi gli affari già in carico).
Anzi, il fatto che le ricorrenti potevano essere - ed erano state - destinatarie di assegnazioni anche durante tale periodo di congedo “obbligatorio”, dimostrava non solo la ingiustificata e illogica differenza rispetto al trattamento economico dei “fuori ruolo”, ma anche l’inesistenza di un nesso di corrispettività non solo tra gli onorari e il lavoro, ma anche tra gli onorari e le assegnazioni degli affari.
Infatti, quanto alle modalità di percezione, le ricorrenti precisavano che gli onorari sono liquidati avendo riguardo alle somme effettivamente recuperate dalle Amministrazioni (spese compensate) o dai privati (spese vinte), all’esito di un complesso procedimento che può essere attivato quadrimestralmente solo dopo che il titolo su cui si fonda il recupero è divenuto “irretrattabile” (art.5 d.p.c.m. cit.).
Ciò sta a significare che il compenso percepito non dipende dal lavoro svolto dai Procuratori e dagli Avvocati dello Stato “in servizio” durante il quadrimestre - il che potrebbe eventualmente giustificare un’esclusione dal riparto – né tantomeno dall’essere o meno destinatari di assegnazioni durante quel periodo (circostanza peraltro che si era concretamente verificata per le ricorrenti) ma che le somme incassate riguardano prestazioni professionali necessariamente rese in un momento antecedente, quindi anche dalle ricorrenti stesse. Con l’aggravante che è l’Avvocatura a decidere quali titoli azionare per prima, per cui le somme incassate in un determinato quadrimestre dipendono in parte dagli adempimenti delle controparti, e dunque dal caso, e in parte dalla solerzia dell’Avvocatura nell’azionare i crediti.
Rinviata la domanda cautelare alla trattazione del merito, si costituivano in giudizio le Amministrazioni in epigrafe, con documentazione e una memoria orientata a confutare le ragioni delle ricorrenti nonché, in virtù del carattere di “stabilità” reale del rapporto di pubblico impiego, ad eccepire la prescrizione dei crediti ultraquinquennali dalla notificazione del ricorso o da altro atto interruttivo documentato.
In prossimità della pubblica udienza del 10.2.2016 anche le parti ricorrenti depositavano rituali memorie (le ricorrenti anche “di replica”, ove osservavano che, ad ogni modo, per la sola ricorrente F.. era rinvenibile un breve periodo precedente al quinquennio anteriore alla relativa diffida del 18.9.2014 da considerarsi interruttiva del termine) ad ulteriore sostegno delle rispettive tesi.
Con l’ordinanza in epigrafe, questa Sezione disponeva incombenti istruttori, consistenti, per le ricorrenti, nell’integrazione del contraddittorio, anche mediante notificazione per pubblici proclami, nei confronti di tutti i Procuratori e Avvocati dello Stato nonché, per le parti pubbliche, nel deposito di un prospetto completo indicante con precisione, per il periodo in considerazione, la data di assegnazione di ciascun affare a ogni ricorrente, il tipo di affare e il relativo esito, con una dettagliata relazione sulle esatte modalità di ripartizione delle competenze di cui all’art. 21 r.d. cit. tra tutti i Procuratori e Avvocati dello Stato.
Dopo la rituale ottemperanza a tale disposizione per quanto di rispettiva incombenza, le parti depositavano ulteriori memorie in prossimità della successiva udienza pubblica (le ricorrenti anche “di replica”) e, alla data del 20.7.2016, la causa era trattenuta nuovamente in decisione.
DIRITTO
Ai fini di un chiaro approccio alla fattispecie, il Collegio ritiene opportuno richiamarne i fondamenti normativi e regolamentari.
Le norme di rango primario invocate dalle ricorrenti sono le seguenti:
a) l’art. 21, commi 1 e 2, r.d. 30.10.1933, n. 1611 (come sostituiti dall’art. 27 l. n. 103/1979 e poi modificati dall’art. 43, comma 1, n. 69/2009), secondo il quale: “L'avvocatura generale dello Stato e le avvocature distrettuali nei giudizi da esse rispettivamente trattati curano la esazione delle competenze di avvocato e di procuratore nei confronti delle controparti quando tali competenze siano poste a carico delle controparti stesse per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione.
Con l'osservanza delle disposizioni contenute nel titolo II della legge 25 novembre 1971, numero 1041, tutte le somme di cui al precedente comma e successivi vengono ripartite per sette decimi tra gli avvocati e procuratori di ciascun ufficio in base alle norme del regolamento e per tre decimi in misura uguale fra tutti gli avvocati e procuratori dello Stato. La ripartizione ha luogo dopo che i titoli, in base ai quali le somme sono state riscosse, siano divenuti irrevocabili: le sentenze per passaggio in giudicato, le rinunce per accettazione e le transazioni per approvazione…”;
b) l’art. 41 del d.p.r. 10.1.1957, n. 3, secondo cui: “All'impiegata che si trovi in stato di gravidanza o puerperio si applicano le norme per la tutela delle lavoratrici madri; essa ha diritto al pagamento di tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario.
Per i periodi anteriore e successivo al parto in cui, ai sensi delle norme richiamate nel precedente comma, l'impiegata ha diritto di astenersi dal lavoro, essa è considerata in congedo straordinario per maternità.
Alle ipotesi previste nel presente articolo, si applica la disposizione di cui all'ultimo comma dell'articolo 40”;
c) l’art. 1, comma 2, d.lgs. 26.3.2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), secondo il quale la disciplina di cui a tale Testo Unico si applica: “…fatte salve le condizioni di maggior favore stabilite da leggi, regolamenti, contratti collettivi, e da ogni altra disposizione.” nonché gli artt. 16 e 20 d.lgs. cit., per i quali – rispettivamente - è sancita l’obbligatorietà del congedo, con conseguente divieto per le donne di essere adibite al lavoro per i periodi ivi indicati al comma 1, lett. a)-d), e la flessibilità, laddove è prevista per le lavoratrici “…la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.”
A queste, devono aggiungersi le norme di ordine “generale” di cui all’art. 37 Cost. nonché all’art. 2099 c.c. (sulle modalità di retribuzione del prestatore di lavoro) e all’art. 37 d.p.r. n. 3/57 cit. (sul “congedo straordinario”), a cui affiancare quelle di rango “sovranazionale”, quali l’art. 157 del TFUE, l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali della U.E. e la direttiva 2006/54/CE, laddove orientata a sancire il principio di parità di trattamento e protezione della condizione biologica della donna durante la gravidanza e la maternità e il divieto di ogni discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso (art. 4) e, più specificamente, dell’interruzione del mantenimento o dell’acquisizione di diritti durante i periodi di congedo per maternità (art. 9, par. 1, lett. f).
Va detto che ne emerge la corrispettiva qualificazione in termini di “diritto soggettivo” della relativa posizione giuridica della “lavoratrice gestante/madre”, che non è peraltro contestata dalla difesa erariale, la quale, anzi, nell’eccepire la “prescrizione” – fermo quanto sarà in prosieguo specificato sul punto – si richiama ad un istituto proprio dei diritti soggettivi.
Tant’è che l’opposizione alla richiesta delle ricorrenti è stata fondata, secondo il contenuto di note identiche del Segretario Generale in seguito alla presentazione di esplicita diffida, non sull’impedimento riconducibile a norme di rango primario bensì unicamente sulla sussistenza del richiamo alla norma di rango secondario di cui all’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 (recante “Regolamento per la riscossione, da parte dell'Avvocatura dello Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa ripartizione”), che prevede – secondo la suddetta nota - il mancato “diritto” al riparto ”… tra gli altri, in tutti i casi di collocamento in aspettativa e in congedo straordinario, facendo salvi i casi di congedo straordinario ex art. 37, 2° co. del T.U. n. 3/57...” tra i quali “…non è ricompresa la maternità”.
Per completezza, la norma in questione prevede infatti che: “Non hanno diritto a partecipare al riparto, per il corrispondente periodo, coloro che sono collocati fuori ruolo. Colui che senza giustificato motivo abbandoni l'Ufficio e non ottemperi all'invito di ritornarvi, perde la quota quadrimestrale corrispondente al tempo dell'abusiva assenza. Non si ha, inoltre, diritto a riparto per tutto il tempo trascorso in aspettativa, a disposizione, in disponibilità o in congedo straordinario, esclusi i casi previsti dall'art. 37, secondo comma del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, nonché i casi dell'aspettativa per richiamo alle armi e per infermità per causa di servizio, di cui, rispettivamente, al II comma dell'art. 67 e al VII comma dell'art. 68 del testo unico predetto. Il diritto al riparto viene, altresì, meno per tutto il tempo durante il quale, per qualsiasi causa, non spetti o sia ridotto lo stipendio. Si perde il diritto di concorrere al riparto allorché sia stata comminata la destituzione o dichiarata la decadenza ovvero la dispensa per scarso rendimento; in tali casi la partecipazione al riparto predetto cessa dal momento in cui si è verificato il fatto risolutivo del rapporto d'impiego. Nel caso di collocamento a riposo, di accettazioni di dimissioni volontarie, di passaggio in altre Amministrazioni dello Stato, l'impiegato partecipa al riparto fino alla data di decorrenza del provvedimento”.
E’ senza dubbio corretta, quindi, la ricostruzione delle ricorrenti, secondo le quali l’esclusione dalla partecipazione al riparto richiesto è fondata esclusivamente sulla sussistenza di tale norma regolamentare la quale prevede comunque espressamente un’eccezione, per coloro che risultano collocati in congedo “straordinario”, tipo di congedo peraltro che compete “di diritto”, ai sensi dell’art. 37, comma 2, T.U. n. 3/57 (oltre a periodi di aspettativa per richiamo alle armi o per infermità per causa di servizio), ossia “…quando l'impiegato debba contrarre matrimonio o sostenere esami o, qualora trattisi di mutilato o invalido di guerra o per servizio, debba attendere alle cure richieste dallo stato di invalidità…”.
Il Collegio, quindi, non può fare a meno di osservare che l’ipotesi di deroga al divieto in questione opera allorquando il congedo straordinario sia definibile “di diritto”, vale a dire quando non è nella facoltà discrezionale dell’Amministrazione concederlo o meno (sul punto, già: TAR Lazio, Sez. I, 10.2.1987, n. 285, secondo cui il congedo straordinario per motivi diversi da quelli elencati nell'art. 37, comma 2, cit. inerisce alla sfera degli interessi legittimi dell'impiegato, essendo demandato dalla legge ad apprezzamenti discrezionali della p. a. e pertanto è legittimo che l'esercizio di tale potere sia ispirato al contemperamento fra le pretese del dipendente e le esigenze del servizio, con la conseguenza che il congedo di cui al comma 2 cit. esula dalla discrezionalità in questione).
Sotto tale profilo, però, al Collegio appare innegabile che anche il congedo straordinario per “maternità”, peraltro obbligatorio, rientri nelle ipotesi in cui spetta “di diritto”.
Sul punto, non può che richiamarsi il contenuto dell’art. 16 d.lgs. n. 151/01, secondo cui: E' vietato adibire al lavoro le donne:
a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto all'articolo 20;
b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;
c) durante i tre mesi dopo il parto, salvo quanto previsto all'art. 20;
d) durante i giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche qualora la somma dei periodi di cui alle lettere a) e c) superi il limite complessivo di cinque mesi
Per quanto riguarda già il T.U. n. 3/57, alla norma di cui al richiamato art. 37, deve, poi, accompagnarsi quanto previsto dai successivi artt. 40 e 41, secondo i quali “…Durante il periodo di congedo ordinario e straordinario, esclusi i giorni di cui al periodo precedente, spettano al pubblico dipendente tutti gli assegni escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale e per prestazioni di lavoro straordinario…I periodi di congedo straordinario sono utili a tutti gli altri effetti” (art. 40, comma 1 e comma 3) e “All'impiegata che si trovi in stato di gravidanza o puerperio si applicano le norme per la tutela delle lavoratrici madri; essa ha diritto al pagamento di tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario. Per i periodi anteriore e successivo al parto in cui, ai sensi delle norme richiamate nel precedente comma, l'impiegata ha diritto di astenersi dal lavoro, essa è considerata in congedo straordinario per maternità. Alle ipotesi previste nel presente articolo, si applica la disposizione di cui all'ultimo comma dell'articolo 40” (art. 41, commi 1, 2 e 3 rubricato: Congedo straordinario per gravidanza e puerperio).
In merito, valga richiamare che la Corte dei Conti aveva già nel 1988 precisato che l’art. 41, comma 2, equipara a tutti gli effetti l'astensione facoltativa dal lavoro per maternità al congedo straordinario (Sez. Contr., 14.4.1988, n. 1933).
In sostanza, una lettura costituzionalmente orientata delle norme, in relazione agli artt. 3, 37 e 97 Cost., impone di considerare che quella per gravidanza e puerperio è un’astensione obbligatoria, equiparabile a tutte quelle in cui è previsto un congedo straordinario “di diritto”, e per tale ragione deve essere riconosciuta parità di corresponsione di emolumenti, anche se in presenza di rapporto di lavoro pubblico “non contrattualizzato”, come nel caso di specie.
Per quanto dedotto, quindi, è condivisibile la ricostruzione delle ricorrenti che nel caso di specie individuano un’ipotesi di contrasto del “Regolamento”, che esclude il diritto ad una parte della retribuzione durante la gravidanza, con la “Legge”, che invece tale diritto riconosce e assicura, differenziando e privilegiando l’ipotesi del congedo obbligatorio per maternità da ogni altra ipotesi di congedo e assenza, ivi compresa la malattia, con la conseguenza che l’art. 12 del Regolamento, riferito anche al congedo straordinario per gravidanza e puerperio laddove esclude il riparto delle competenze di cui all’art. 21 r.d. cit., deve essere disapplicato in quanto vertente su diritti soggettivi valutabili in un quadro di giurisdizione esclusiva del g.a. (v. Cons. Stato, Sez. IV, 9.12.10, n. 8654; TAR Lazio, Sez. II bis, 9.5.07, n. 4984).
Le stesse fonti sovraordinate all’ordinamento nazionale, inoltre, muovono in tal senso laddove escludono la possibilità di dare luogo a discriminazioni relative al mantenimento o all’acquisizione di “diritti” nei confronti delle lavoratrici che usufruiscono di periodi di congedo per maternità (art. 9, par. 1, lett. f), direttiva 2006/54/CE), come invece accade nel caso di specie ove il “diritto” (così definito nell’art. 12 d.p.c.m. cit.) è escluso proprio in relazione alla fruizione di periodi di congedi per maternità.
Ne consegue che l’art. 12 d.p.c.m. cit., che limita la deroga all’esclusione del riparto previsto per i Procuratori e Avvocati dello Stato al solo caso di congedo “straordinario” di cui all’art. 37, comma 2, T.U. cit. senza prevedere tra questi anche il congedo per maternità, si pone in contrasto con tutte le richiamate norme, nazionali e sovraordinate.
Per una corretta ricostruzione del quadro esegetico di fondo, quindi, è altresì evidente, a rafforzamento di quanto ora precisato, la condivisibilità delle osservazioni delle ricorrenti, secondo le quali, il congedo “straordinario” cui dovrebbe fare riferimento l’art. 12 d.p.c.m. cit. per escludere il riparto in questione sarebbe il solo congedo da definirsi “facoltativo”, in quanto legato a generici “gravi motivi”, discrezionalmente concedibile dalla p.a., senza durata minima ma solo massima, sottoposto a trattamento economico deteriore rispetto a quello “per maternità” (v. art. 40 T.U. cit.), laddove – diversamente – quest’ultimo è invece fruibile per ipotesi “predeterminata”, è irrinunciabile, è concedibile “una tantum” e per un periodo minimo predefinito per legge ed è sottoposto a trattamento economico di favore rispetto ad altre forme di congedo (art. 41, comma 1, T.U. cit.).
Tale interpretazione è stata anche avallata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la cui circolare n. 14/2000 richiamata dalle ricorrenti, al punto 4.1. prevede la corresponsione per tutte le “lavoratrici-madri” e per il periodo di astensione obbligatoria il diritto all’intera retribuzione fissa mensile nonché al relativo trattamento “accessorio”. E’ vero che tale circolare riguarda le lavoratrici c.d “contrattualizzate”, secondo le osservazioni in merito della difesa erariale, ma ciò non toglie che il riferimento è utile per segnalare l’attenzione della P.C.M. verso il principio di “non discriminazione” ad esso sotteso, analogo a quello invocato dalle ricorrenti.
Sul punto, poi, valga il richiamo all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 151/2001, secondo cui: “Le indennità di cui al presente testo unico corrispondono, per le pubbliche amministrazioni, ai trattamenti economici previsti, ai sensi della legislazione vigente, da disposizioni normative e contrattuali. I trattamenti economici non possono essere inferiori alle predette indennità.” nonché ai successivi art. 3, per il quale: “È vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti.” e art. 23, commi 1 e 2, secondo cui: “Agli effetti della determinazione della misura dell'indennità, per retribuzione s'intende la retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo di maternità.
Al suddetto importo va aggiunto il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice.”.
Né in senso sostanziale contrario valgono le osservazioni difensive della stessa Avvocatura dello Stato.
Per quanto riguarda l’affermazione secondo cui la “ratio” della censurata disposizione di cui all’art. 12 d.p.c.m. cit. risponderebbe alla logica di riconoscere il riparto in questione ai soli legali pubblici presenti in ufficio, essa non regge a fronte dell’osservazione per la quale vi sono casi in cui è riconosciuto dal medesimo art. 12 cit. a dipendenti non presenti (che richiama le ipotesi di deroga su ricordate dell’art. 37, comma 2, T.U. cit.).
Inoltre risulta – e la circostanza è provata documentalmente dalle ricorrenti e non smentita dalla difesa erariale – che durante il periodo di astensione siano stati comunque assegnati “affari” a ciascuna di esse, con aggravio del lavoro, sia pure da espletare successivamente, e con la evidente conclusione che le stesse sono state considerate “in servizio”.
E’ vero che l’assegnazione di affari risulta, ad esempio, anche nei confronti dei Procuratori e Avvocati dello Stato durante la fruizione del loro periodo di “ferie” ma a ciò è accompagnato comunque il riparto delle c.d. “propine”, che invece è negato alle ricorrenti, con la conseguenza che il sistema alla base della corresponsione del trattamento economico appare illogico e discriminatorio anche sotto tale profilo, nei limiti di quanto lamentato nel ricorso.
A ciò si aggiunga che il riparto in questione non riguarda il lavoro straordinario – secondo una tesi pure rappresentata dalla difesa erariale – dato che lo stesso Segretario Generale, nel rispondere alle ricorrenti, lo richiama per distinguerlo dal riparto ex art. 12 d.p.c.m. cit. di cui alla fattispecie in esame (per tutte, v. nota del 9.5.12 depositata in giudizio).
Tale riparto è invece riconducibile alle elargizioni di natura “retributiva” e non accessoria, secondo quanto attestato ormai dall’art. 9 d.l. n. 90/2014, conv. in l. n. 114/2014, per il primo profilo, e dal punto 3 della circolare INPS n. 6 del 16.1.2014, anche per il secondo profilo.
Ne consegue che non può essere ritenuta condivisibile neanche la tesi della difesa erariale, secondo la quale le ricorrenti – in quanto dipendenti “non contrattualizzate” - comunque beneficerebbero del trattamento “di maggior favore” di cui all’art. 41 T.U. cit. e all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 151/2001 (retribuzione al 100% in luogo dell’80% come invece per le altre lavoratrici alle dipendenza della p.a.), in quanto vi è stata comunque una decurtazione - “retributiva” per quanto detto in precedenza – pari al 50% almeno fino all’entrata in vigore del richiamato art. 9 d.l. n. 90/14 cit.
Altra tesi su cui si è fondata l’Avvocatura dello Stato è quella legata al valore “sostanziale” di norma primaria riconoscibile all’art. 12 d.p.c.m. cit., in virtù dell’espressa indicazione – al fine di “farlo proprio” – del medesimo contenuta nell’art. 21 r.d. n. 1611/33 cit. che si riferisce al regolamento sull’esazione degli onorari di Procuratori e Avvocati dello Stato, con la conseguenza di definire l’art. 12 cit. quale norma speciale che prevale sulle norme invocate dalle ricorrenti, pur ammettendo la stessa difesa erariale che tale regolamento è “attuativo” in virtù del rinvio espresso.
Il Collegio osserva che la natura di regolamento “attuativo” riconosciuta al d.p.c.m. in questione conferma la sua subordinazione alle fonti primarie legislative (Cons. Stato, Sez. IV, 15.9.03, n. 5158), tra cui non possono che richiamarsi quelle sopra descritte a tutela della “maternità”.
A ciò si aggiunga che l’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 151/2001, quale norma speciale successiva, ha fatto salve solo le condizioni di maggior favore previste da leggi, regolamenti, contratti collettivi e ogni altra disposizione, tra cui non rientrano quelle di cui all’art. 12 d.p.c.m. cit., di certo non “di maggior favore” nei confronti delle dipendenti in questione in congedo per “maternità”.
Come condivisibilmente osservato anche dalle ricorrenti, infine, quand’anche fosse riconoscibile al d.p.c.m. in esame il rango di “fonte primaria”, esso sarebbe comunque in contrasto con la suddetta direttiva 2006/54/CE per quanto sopra precisato, con conseguente possibilità di disapplicazione “diretta” ad opera del Giudice nazionale (Cons. Stato, Sez. IV, 24.3.04, n. 1559).
Da ultimo, in relazione a giurisprudenza ritenuta contraria a quanto prospettato dalle ricorrenti, secondo il richiamo di cui alla memoria dell’Avvocatura dello Stato per l’ultima udienza pubblica, per quel che riguarda la sentenza TAR Campania, Na, Sez. IV, 15.4.16, n. 1874, il Collegio osserva che essa si riferiva alla ben diversa ipotesi di “esonero” dal servizio ai sensi dell’art. 72 d. l. n. 112/2008, conv. in l. n. 123/2008 (poi abrogato dall’art. 24, comma 14, d.l. n. 201/2011, conv. in l. n. 214/2011). Anzi – osserva il Collegio – tale richiamo conferma la tesi di fondo delle ricorrenti, in quanto l’assegnazione di affari nei loro confronti (ben cospicua secondo la documentazione acquisita in giudizio in seguito alla su ricordata ordinanza istruttoria), a differenza da chi era, appunto, “in esonero”, deve far ritenere che le stesse erano state invece considerate dall’Amministrazione a tutti gli effetti “in servizio” e quindi con rapporto di lavoro in atto.
La stessa sentenza del Tar partenopeo, infatti, rileva che la quota c.d. “variabile” del trattamento economico di Procuratori e Avvocati dello Stato postula, per il suo riconoscimento, il perdurante svolgimento dello stesso, trattandosi di prestazioni periodiche temporalmente correlate allo svolgimento del rapporto medesimo, e che ai fini del riconoscimento di tale quota variabile della retribuzione è dunque necessario che vi sia, a giustificazione della percezione di somme, lo svolgimento di attività lavorativa e, dunque, l’esistenza di un “rapporto di lavoro in atto”, mentre la sospensione del rapporto per collocamento “in esonero” determina in capo al dipendente il sorgere di un nuovo “status” giuridico, connotato dal mancato svolgimento del servizio e questa peculiarità impedisce la possibilità di computare emolumenti che trovano il loro necessario presupposto proprio ed esclusivamente nella prestazione dell’attività defensionale. Nel caso di specie tale attività per le ricorrenti vi è stata, in quanto hanno indubbiamente dovuto provvedere a seguire gli affari assegnati in costanza del periodo di “maternità”, senza mutamento di alcuno “status” giuridico, fermo restando che la ripartizione di parte dei proventi richiesti si riferiva anche a periodi precedenti, ove le stesse non avevano ancora fruito del relativo congedo.
Così pure non decisiva è l’ordinanza del TAR Calabria, Rc, 17.6.16, n. 706 – peraltro non avente alcun contenuto decisorio ma un’ampia motivazione sulla ritenuta non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 9, commi 3, 4 e 6, del d.l. n. 90/14 cit., conv. in l. n. 114/14 – in quanto non si riferisce allo specifico profilo della elargizione di compensi durante il congedo “per maternità” ma al generale intervento di cui alla norma suddetta in ordine alla rideterminazione dei compensi professionali degli Avvocati dello Stato. Inoltre, quel TAR ha affrontato la problematica alla sua attenzione in senso generale, evidenziando in un passaggio argomentativo che la componente retributiva “in senso proprio” è caratterizzata da “fissità” a differenza delle altre remunerazioni di prestazioni professionali generalmente rese nell’esercizio delle funzioni istituzionalmente rimesse ad Avvocati e Procuratori dello Stato, che non rientrerebbero nel concetto di “retribuzione in senso proprio”, atteso il carattere di variabilità che ne assiste la commisurazione.
Nel caso di specie all’esame del Collegio, però, non rileva l’individuazione della retribuzione “in senso proprio”, in quanto a fondamento vi è la normativa “speciale” su richiamata sulla tutela della maternità, tra cui in particolare l’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 151/01 cit. (da leggersi in correlazione con i successivo artt. 3 e 23), che fa riferimento in realtà a tutti i trattamenti economici previsti ai sensi della legislazione vigente e non alla “retribuzione in senso proprio” quale “quota fissa”, come individuabile ai sensi della normativa sul trattamento economico dei Procuratori e Avvocati dello Stato.
Alla luce di quanto illustrato, quindi, il ricorso deve trovare accoglimento, con conseguente disapplicazione dell’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 nella parte in cui prevede il mancato diritto al riparto considerando tra casi di congedo straordinario che lo esclude quello obbligatorio per “maternità”.
Deve quindi darsi luogo alla declaratoria del diritto delle ricorrenti a percepire tutte le competenze spettanti loro ai sensi dell’art. 12 in questione e maturate a titolo di onorari di causa durante i periodi di astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, secondo la normativa vigente “pro tempore”.
In riferimento al relativo ammontare, il Collegio rileva che la difesa erariale ha eccepito la prescrizione quinquennale del credito, in quanto riferito a pretese avanzate in costanza di rapporto di pubblico impiego dotato di “stabilità reale”
In merito, il Collegio rileva che le ricorrenti hanno osservato – senza contestazione da parte delle Amministrazioni costituite - che solo per l’avv. F.. eventualmente potrebbe rilevare tale eccezione per il breve periodo anteriore al quinquiennio precedente la notifica della diffida del 18.9.2014, quale atto interruttivo (dal 9.7.2009 al 17.9.2009), ma che comunque nel caso di specie non opererebbe l’art. 2948 c.c., in quanto la determinazione quantitativa del credito “da lavoro” è riconducibile interamente all’Amministrazione, previo accertamento delle condizioni necessarie per la relativa liquidazione (Cons. Stato, n. 2232/2007).
In effetti, nel caso di specie, in base alla stessa ricostruzione delle modalità di corresponsione del riparto per cui è causa - come illustrate nell’ultima memoria dell’Avvocatura dello Stato in ottemperanza all’ordinanza collegiale sopra richiamata - emerge che, pur in presenza di rapporto “stabile”, è la stessa Amministrazione a riconoscere e determinare quantitativamente il diritto vantato e con apposito atto formale, per cui nel caso di specie opera la prescrizione ordinaria decennale (Cons. Stato, Sez. V, 5.5.16, n. 1792 e Sez. IV 21.6.07 n. 3363).
Per quanto riguarda, infine, il cumulo tra rivalutazione e interessi, deve invece ritenersi condivisibile il richiamo della difesa erariale all’art. 22, comma 36, l. n. 724/1994 che tale cumulo esclude per i rapporti di lavoro “pubblico”, sia anche non contrattualizzato (Cons. Stato, Sez. IV, 1.7.15, n. 3254).
Ne consegue che deve essere considerata solo la maggior somma derivante, prendendo come riferimento la somma dovuta al netto delle ritenute contributive e fiscali (Cons. Stato, n. 3254/15 cit.).
Per quanto riguarda la specifica domanda di condanna al pagamento delle competenze singolarmente indicate dalle ricorrenti per ciascuna di esse, desumibile dal contenuto delle conclusioni del ricorso integrate nelle ultime memorie, il Collegio – per la complessità dei relativi calcoli da eseguire in conformità a quanto sopra precisato – ritiene di fare ricorso alla disposizione di cui all’art. 34, comma 4, c.p.a., demandando alle parti di pervenire alla definizione di quanto a ciascuna ricorrente spettante, salvi i rimedi di cui alla medesima disposizione in caso di mancato accordo.
Le spese di lite possono eccezionalmente compensarsi per la peculiarità e novità della fattispecie.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, previa disapplicazione dell’art. 12 d.p.c.m. 29.2.1972 nei limiti dell’interesse delle ricorrenti e per quanto dedotto in motivazione, dichiara il loro diritto a percepire tutte le competenze spettanti in virtù del riparto previsto nell’art. 12 cit. maturate a titolo di onorari di causa per i periodi in cui sono state collocate in astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, secondo la normativa vigente “pro tempore”, con la maggior somma tra rivalutazione e interessi legali da calcolare al netto delle ritenute contributive e fiscali.
Dispone che l’Avvocatura dello Stato provveda alla specifica liquidazione ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., entro trenta giorni dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 luglio 2016 con l'intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Ivo Correale, Consigliere, Estensore
Roberta Cicchese, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Ivo Correale Carmine Volpe
IL SEGRETARIO
Ricorso ACCOLTO.
Cmq. questa sentenza del Tar Lazio prende in esame tutta la materia del Congedo per la tutela della “maternità” e dei benefici economici connessi, pertanto, vi consiglio di leggerla lutta, anche se riguarda quattro ricorrenti, tutte Avvocati dello Stato, poichè potreste "trovare" qualche beneficio che vi spetta di diritto.
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1) - evidenziavano di aver usufruito di periodi di astensione obbligatoria “per maternità”, ai sensi dell’art. 41 del d.p.r. n. 3/1957.
2) - normativa speciale a sostegno e tutela della maternità e paternità, riconducibile al d.lgs. n. 151/2001, il cui art. 1, nello specifico, prevede che il trattamento economico che compete alla donna in congedo obbligatorio per maternità è derogabile solo per effetto di norme di maggior favore, le ricorrenti affermavano che in tale trattamento doveva essere ricompreso l’art. 41 del T.U. n. 3/57, che assicura alla gestante “tutti gli assegni”, specie quando, come quello corrispondente al riparto in questione, hanno certamente natura retributiva, e ciò anche al fine di dare concreta attuazione al principio fondamentale di parità tra generi, ai sensi dell’art. 37 Cost. nonché delle disposizioni ultranazionali di cui all’art. 157 T.F.U.E, all’art. 23 della Carta dei Diritti Fondamentali U.E. e alla direttiva 2006/54/CE, al fine di assicurare alla lavoratrice gestante e madre una situazione di effettiva parità in materia di occupazione, lavoro e retribuzione.
3) - secondo la loro ricostruzione, era avvalorata anche dalla “ratio” della l. n. 53/2000, recante disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, come propugnata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Organo da cui dipende la stessa Avvocatura dello Stato, nella Circolare n. 14 del 16.11.2000, la quale - sul punto - precisa che: “le lavoratrici madri, durante tutto il periodo di astensione obbligatoria dall’impiego, in applicazione dei contratti collettivi, hanno diritto all’intera retribuzione fissa mensile, nonché al relativo trattamento accessorio.”
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SENTENZA ,sede di ROMA ,sezione SEZIONE 1 ,numero provv.: 201610048, - Public 2016-10-05 -
Pubblicato il 05/10/2016
N. 10048/2016 REG.PROV.COLL.
N. 13721/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 13721 del 2014, proposto da:
Lucrezia F., Verdiana F., Raffaella F., Wally F., rappresentate e difese dall'avvocato Costantino Ventura C.F. VNTCTN53A03A662M, con domicilio eletto presso Lucrezia Fiandaca in Roma, via San Liberio, 21;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Avvocatura dello Stato, rappresentati e difesi per legge dalla medesima Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti di
Marina R., non costituita in giudizio;
per ottenere
in favore di ciascuna delle ricorrenti, e nelle misure che saranno rispettivamente in appresso indicate, previa concessione delle misure cautelari e previa eventuale rimessione di atti e parti dinanzi alla Corte di Giustizia e/o la Corte Costituzionale, la corresponsione delle competenze spettanti ai sensi dell'art. 21 R.D. n. 1611/1933, maturate dalle ricorrenti a titolo di onorari di causa per i periodi di astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, oltre rivalutazione monetaria e interessi, e con vittoria di spese e rimborso del contributo unificato.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze e Avvocatura Generale dello Stato, con la relativa documentazione;
Vista l’ordinanza collegiale di questa Sezione n. 2182/2016 del 18.2.16;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 20 luglio 2016 il dott. Ivo Correale e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Con gravame avanti a questo Tribunale, ritualmente notificato (anche a un soggetto controinteressato) e depositato, le quattro ricorrenti, tutte Avvocati dello Stato con diverse decorrenze e relative classi stipendiali ivi indicate, evidenziavano di aver usufruito di periodi di astensione obbligatoria “per maternità”, ai sensi dell’art. 41 del d.p.r. n. 3/1957, con godimento dell’intero trattamento economico, compresa l’indennità di cui all’art. 2 della L. 6.8.1984 n. 425, ma con esclusione dalla partecipazione al riparto delle competenze di cui all’art. 21 del R.D. 30.10.1933 n. 1611, pur risultando in detti periodi assegnatarie di numerosi affari, con significativo aumento del carico di lavoro complessivo.
Specificavano, inoltre, di aver conosciuto – tramite corrispondenza con l’Avvocatura Generale dello Stato – i compensi goduti dai colleghi in servizio nella medesima classe stipendiale, comprensivi del suddetto “riparto”, e di aver preso atto di nota del Segretario Generale in cui si specificava che la mancata elargizione era dovuta all’applicazione dell’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 in cui era stabilito che il diritto al riparto era escluso in tutti i casi di collocamento in aspettativa e in congedo straordinario, facendo salvi solo quelli ex art. 37, 2 co., T.U. n. 3/57 cit., tra i quali non era ricompresa la “maternità”.
Riportando la disposizione di cui all’art. 21 r.d. n. 1611/1933 cit., le ricorrenti proponevano nella sostanza una domanda di accertamento, previa adozione di misure cautelari, del loro diritto ad ottenere ugualmente l’integrale riparto, evidenziandone la piena natura “retributiva”, secondo la relativa nozione “onnicomprensiva” di cui all’art. 2099 c.c., come confermata espressamente anche dal legislatore con l’art. 9 d.l. n. 90/2014, conv. in l. n. 114/2014 e con l’art. 157 del T.F.U.E. - dei quali era riportato il testo per la parte di interesse - nonché ai sensi della Circolare I.N.P.S. n. 6 del 16.1.14, pure riportata.
Richiamando, poi, la normativa speciale a sostegno e tutela della maternità e paternità, riconducibile al d.lgs. n. 151/2001, il cui art. 1, nello specifico, prevede che il trattamento economico che compete alla donna in congedo obbligatorio per maternità è derogabile solo per effetto di norme di maggior favore, le ricorrenti affermavano che in tale trattamento doveva essere ricompreso l’art. 41 del T.U. n. 3/57, che assicura alla gestante “tutti gli assegni”, specie quando, come quello corrispondente al riparto in questione, hanno certamente natura retributiva, e ciò anche al fine di dare concreta attuazione al principio fondamentale di parità tra generi, ai sensi dell’art. 37 Cost. nonché delle disposizioni ultranazionali di cui all’art. 157 T.F.U.E, all’art. 23 della Carta dei Diritti Fondamentali U.E. e alla direttiva 2006/54/CE, al fine di assicurare alla lavoratrice gestante e madre una situazione di effettiva parità in materia di occupazione, lavoro e retribuzione.
La stessa direttiva in questione, poi, all’art. 9, indicava tra gli esempi di discriminazione proprio l’interrompere il mantenimento o l’acquisizione dei diritti durante i periodi di congedo per maternità.
Premesso ciò, le ricorrenti precisavano che l’omessa corresponsione del “riparto” in questione era quindi dipesa da una errata interpretazione dell’art. 12 del “Regolamento per la riscossione, da parte dell’Avvocatura dello Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa ripartizione” approvato con il richiamato d.p.c.m. del 29.2.1972, nella parte in cui prevedeva che “…Non si ha, inoltre, diritto a riparto per tutto il tempo trascorso in aspettativa, a disposizione, in disponibilità o in congedo straordinario, esclusi i casi previsti dall’art. 37, secondo comma del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3…”.
Per le ricorrenti, la situazione di congedo straordinario considerata dall’art. 12 quale causa di esclusione dal diritto a concorrere al riparto non poteva essere quella di astensione obbligatoria per maternità e puerperio, secondo i principi sopra richiamati, ma unicamente quella di congedo facoltativo, caratterizzato dall’essere fondato su “gravi motivi”, quindi non predeterminati dal legislatore, dall’essere assentibile “discrezionalmente” dall’Amministrazione, con conseguente posizione soggettiva di interesse legittimo dell’interessato e non di diritto soggettivo, dall’essere una forma di tutela “ulteriore” se chiesto dalla lavoratrice come misura ulteriore rispetto al congedo obbligatorio “per maternità”, dall’essere collegato a trattamento economico deteriore disposto dallo stesso legislatore, ai sensi dell’art. 40 T.U. cit.
Il congedo obbligatorio per gravidanza e puerperio, invece – illustravano le ricorrenti – “…a) è concesso solo in ipotesi di maternità e puerperio; b) costituisce un diritto irrinunciabile per la puerpera, sottratto a qualunque valutazione discrezionale da parte della P.A., alla quale è fatto espresso divieto di adibire la donna al lavoro; c) è concesso solo ‘una tantum’, in ragione dell’accertata sussistenza dei presupposti di legge e per un periodo minimo e massimo legislativamente predefinito (periodo compreso tra i due mesi antecedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi alla data del parto stesso); d) costituisce la tutela minima e irrinunciabile di ogni lavoratrice dipendente che si trovi in prossimità del parto; e) è soggetto pertanto a un trattamento economico di maggior favore rispetto a qualsivoglia forma di congedo, ivi compresa la malattia, competendo alla donna in congedo obbligatorio ‘tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario’ senza decurtazione alcuna”.
L’interpretazione dell’art. 12 come proposta dalle ricorrenti, secondo la loro ricostruzione, era avvalorata anche dalla “ratio” della l. n. 53/2000, recante disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, come propugnata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Organo da cui dipende la stessa Avvocatura dello Stato, nella Circolare n. 14 del 16.11.2000, la quale - sul punto - precisa che: “le lavoratrici madri, durante tutto il periodo di astensione obbligatoria dall’impiego, in applicazione dei contratti collettivi, hanno diritto all’intera retribuzione fissa mensile, nonché al relativo trattamento accessorio.”
Tali principi erano poi confermati nel richiamato d.lgs. n. 151/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), ai relativi artt. 2 e 23, comma 2, ove è presente il riferimento ai trattamenti “accessori” su precisa richiesta del Consiglio di Stato e della Commissione Lavoro pubblico e privato, trattamenti accessori tra cui devono essere ricompresi anche gli onorari e le competenze spettanti agli Avvocati e Procuratori dello Stato, che anche ai fini fiscali e contributivi vengono ritenuti redditi da lavoro dipendente.
Ogni diversa conclusione, pertanto, coincidente con l’interpretazione dell’art. 12 cit. richiamata dall’Avvocatura dello Stato, perverrebbe alla conseguenza di sanzionare, anziché tutelare, la gravidanza, parificandola illogicamente alle altre ipotesi di esclusione dal diritto a parte della retribuzione (abbandono dell’Ufficio senza giustificato motivo, destituzione, decadenza, dispensa dal servizio per scarso rendimento), certamente non assimilabili a quella in discussione.
E ciò con l’aggravante che tale esegesi tratterebbe in modo deteriore l’ipotesi di congedo obbligatorio per maternità, a cui la legge invece riserva un trattamento economico di maggior favore (“tutti gli assegni”, senza alcuna decurtazione), rispetto alle ipotesi di congedo per matrimonio o per esami, soggetti invece alla disciplina di cui all’art. 40 d.p.r. 3/57, cit. e alle relative decurtazioni.
Nel caso di specie, quindi, si profilerebbe un’ipotesi di contrasto del Regolamento, che esclude il diritto ad una parte della retribuzione durante la gravidanza, con la Legge, che invece tale diritto riconosce e assicura, differenziando e privilegiando l’ipotesi del congedo obbligatorio per maternità da ogni altra ipotesi di congedo e assenza, ivi compresa la malattia. Peraltro, aggiungevano le ricorrenti, l’interpretazione secondo la quale l’art. 12 del Regolamento si riferisce anche al congedo straordinario per gravidanza, ne comporterebbe l’inevitabile disapplicazione.
Il Regolamento, infatti, pur se avente natura “sostanzialmente” normativa, non può, per il principio di gerarchia delle fonti, porsi in contrasto con norme di rango superiore e la necessità di disapplicare la disposizione regolamentare in aperto contrasto con la norma primaria è peraltro senza alcun dubbio doverosa anche per il giudice amministrativo, vertendosi in materia di giurisdizione esclusiva, ed essendo la spettanza delle competenze per cui è causa un vero e proprio diritto soggettivo, secondo soluzioni assolutamente pacifiche e convincenti alle quali è pervenuta la giurisprudenza.
La contestata interpretazione, inoltre, si poneva anche in contrasto con il diritto comunitario, ai sensi della su richiamata direttiva 2006/54/CE (artt. 9, 14 e 15).
Le ricorrenti, in subordine, evidenziavano infatti che, ove si dovesse ritenere che il riferimento contenuto dall’art. 41 T.U. n. 3/57 a “tutti gli assegni” fosse da intendersi come a “tutti gli assegni escluse le competenze di cui all’art 21 del R.D. n. 1611/33”, e il disposto di cui all’art. 23 del t.u. della maternità come riferibile a tutti “i premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice”, ma con l’esclusione degli onorari di causa, si imponeva anche un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata delle prefate disposizioni, ovvero, in via gradata, la rimessione di tale questione alla Corte Costituzionale e/o alla Corte di Giustizia UE, per evidente contrasto, oltre che con il principio di ragionevolezza, con i puntuali riferimenti normativi e costituzionali prima richiamati.
Le ricorrenti precisavano ulteriormente che i compensi in questione non riguardavano prestazioni di lavoro straordinario, che ovviamente non avevano potuto compiere durante il periodo di astensione obbligatoria, sebbene destinatarie di assegnazioni che avevano incrementato il carico di lavoro rendendo non irrilevante, ai fini della prestazione lavorativa, l’assenza dal servizio (come invece avviene in ipotesi di collocamento “fuori ruolo”, in cui non solo non vengono assegnati nuovi affari, ma vengono riassegnati agli altri colleghi gli affari già in carico).
Anzi, il fatto che le ricorrenti potevano essere - ed erano state - destinatarie di assegnazioni anche durante tale periodo di congedo “obbligatorio”, dimostrava non solo la ingiustificata e illogica differenza rispetto al trattamento economico dei “fuori ruolo”, ma anche l’inesistenza di un nesso di corrispettività non solo tra gli onorari e il lavoro, ma anche tra gli onorari e le assegnazioni degli affari.
Infatti, quanto alle modalità di percezione, le ricorrenti precisavano che gli onorari sono liquidati avendo riguardo alle somme effettivamente recuperate dalle Amministrazioni (spese compensate) o dai privati (spese vinte), all’esito di un complesso procedimento che può essere attivato quadrimestralmente solo dopo che il titolo su cui si fonda il recupero è divenuto “irretrattabile” (art.5 d.p.c.m. cit.).
Ciò sta a significare che il compenso percepito non dipende dal lavoro svolto dai Procuratori e dagli Avvocati dello Stato “in servizio” durante il quadrimestre - il che potrebbe eventualmente giustificare un’esclusione dal riparto – né tantomeno dall’essere o meno destinatari di assegnazioni durante quel periodo (circostanza peraltro che si era concretamente verificata per le ricorrenti) ma che le somme incassate riguardano prestazioni professionali necessariamente rese in un momento antecedente, quindi anche dalle ricorrenti stesse. Con l’aggravante che è l’Avvocatura a decidere quali titoli azionare per prima, per cui le somme incassate in un determinato quadrimestre dipendono in parte dagli adempimenti delle controparti, e dunque dal caso, e in parte dalla solerzia dell’Avvocatura nell’azionare i crediti.
Rinviata la domanda cautelare alla trattazione del merito, si costituivano in giudizio le Amministrazioni in epigrafe, con documentazione e una memoria orientata a confutare le ragioni delle ricorrenti nonché, in virtù del carattere di “stabilità” reale del rapporto di pubblico impiego, ad eccepire la prescrizione dei crediti ultraquinquennali dalla notificazione del ricorso o da altro atto interruttivo documentato.
In prossimità della pubblica udienza del 10.2.2016 anche le parti ricorrenti depositavano rituali memorie (le ricorrenti anche “di replica”, ove osservavano che, ad ogni modo, per la sola ricorrente F.. era rinvenibile un breve periodo precedente al quinquennio anteriore alla relativa diffida del 18.9.2014 da considerarsi interruttiva del termine) ad ulteriore sostegno delle rispettive tesi.
Con l’ordinanza in epigrafe, questa Sezione disponeva incombenti istruttori, consistenti, per le ricorrenti, nell’integrazione del contraddittorio, anche mediante notificazione per pubblici proclami, nei confronti di tutti i Procuratori e Avvocati dello Stato nonché, per le parti pubbliche, nel deposito di un prospetto completo indicante con precisione, per il periodo in considerazione, la data di assegnazione di ciascun affare a ogni ricorrente, il tipo di affare e il relativo esito, con una dettagliata relazione sulle esatte modalità di ripartizione delle competenze di cui all’art. 21 r.d. cit. tra tutti i Procuratori e Avvocati dello Stato.
Dopo la rituale ottemperanza a tale disposizione per quanto di rispettiva incombenza, le parti depositavano ulteriori memorie in prossimità della successiva udienza pubblica (le ricorrenti anche “di replica”) e, alla data del 20.7.2016, la causa era trattenuta nuovamente in decisione.
DIRITTO
Ai fini di un chiaro approccio alla fattispecie, il Collegio ritiene opportuno richiamarne i fondamenti normativi e regolamentari.
Le norme di rango primario invocate dalle ricorrenti sono le seguenti:
a) l’art. 21, commi 1 e 2, r.d. 30.10.1933, n. 1611 (come sostituiti dall’art. 27 l. n. 103/1979 e poi modificati dall’art. 43, comma 1, n. 69/2009), secondo il quale: “L'avvocatura generale dello Stato e le avvocature distrettuali nei giudizi da esse rispettivamente trattati curano la esazione delle competenze di avvocato e di procuratore nei confronti delle controparti quando tali competenze siano poste a carico delle controparti stesse per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione.
Con l'osservanza delle disposizioni contenute nel titolo II della legge 25 novembre 1971, numero 1041, tutte le somme di cui al precedente comma e successivi vengono ripartite per sette decimi tra gli avvocati e procuratori di ciascun ufficio in base alle norme del regolamento e per tre decimi in misura uguale fra tutti gli avvocati e procuratori dello Stato. La ripartizione ha luogo dopo che i titoli, in base ai quali le somme sono state riscosse, siano divenuti irrevocabili: le sentenze per passaggio in giudicato, le rinunce per accettazione e le transazioni per approvazione…”;
b) l’art. 41 del d.p.r. 10.1.1957, n. 3, secondo cui: “All'impiegata che si trovi in stato di gravidanza o puerperio si applicano le norme per la tutela delle lavoratrici madri; essa ha diritto al pagamento di tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario.
Per i periodi anteriore e successivo al parto in cui, ai sensi delle norme richiamate nel precedente comma, l'impiegata ha diritto di astenersi dal lavoro, essa è considerata in congedo straordinario per maternità.
Alle ipotesi previste nel presente articolo, si applica la disposizione di cui all'ultimo comma dell'articolo 40”;
c) l’art. 1, comma 2, d.lgs. 26.3.2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), secondo il quale la disciplina di cui a tale Testo Unico si applica: “…fatte salve le condizioni di maggior favore stabilite da leggi, regolamenti, contratti collettivi, e da ogni altra disposizione.” nonché gli artt. 16 e 20 d.lgs. cit., per i quali – rispettivamente - è sancita l’obbligatorietà del congedo, con conseguente divieto per le donne di essere adibite al lavoro per i periodi ivi indicati al comma 1, lett. a)-d), e la flessibilità, laddove è prevista per le lavoratrici “…la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.”
A queste, devono aggiungersi le norme di ordine “generale” di cui all’art. 37 Cost. nonché all’art. 2099 c.c. (sulle modalità di retribuzione del prestatore di lavoro) e all’art. 37 d.p.r. n. 3/57 cit. (sul “congedo straordinario”), a cui affiancare quelle di rango “sovranazionale”, quali l’art. 157 del TFUE, l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali della U.E. e la direttiva 2006/54/CE, laddove orientata a sancire il principio di parità di trattamento e protezione della condizione biologica della donna durante la gravidanza e la maternità e il divieto di ogni discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso (art. 4) e, più specificamente, dell’interruzione del mantenimento o dell’acquisizione di diritti durante i periodi di congedo per maternità (art. 9, par. 1, lett. f).
Va detto che ne emerge la corrispettiva qualificazione in termini di “diritto soggettivo” della relativa posizione giuridica della “lavoratrice gestante/madre”, che non è peraltro contestata dalla difesa erariale, la quale, anzi, nell’eccepire la “prescrizione” – fermo quanto sarà in prosieguo specificato sul punto – si richiama ad un istituto proprio dei diritti soggettivi.
Tant’è che l’opposizione alla richiesta delle ricorrenti è stata fondata, secondo il contenuto di note identiche del Segretario Generale in seguito alla presentazione di esplicita diffida, non sull’impedimento riconducibile a norme di rango primario bensì unicamente sulla sussistenza del richiamo alla norma di rango secondario di cui all’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 (recante “Regolamento per la riscossione, da parte dell'Avvocatura dello Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa ripartizione”), che prevede – secondo la suddetta nota - il mancato “diritto” al riparto ”… tra gli altri, in tutti i casi di collocamento in aspettativa e in congedo straordinario, facendo salvi i casi di congedo straordinario ex art. 37, 2° co. del T.U. n. 3/57...” tra i quali “…non è ricompresa la maternità”.
Per completezza, la norma in questione prevede infatti che: “Non hanno diritto a partecipare al riparto, per il corrispondente periodo, coloro che sono collocati fuori ruolo. Colui che senza giustificato motivo abbandoni l'Ufficio e non ottemperi all'invito di ritornarvi, perde la quota quadrimestrale corrispondente al tempo dell'abusiva assenza. Non si ha, inoltre, diritto a riparto per tutto il tempo trascorso in aspettativa, a disposizione, in disponibilità o in congedo straordinario, esclusi i casi previsti dall'art. 37, secondo comma del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, nonché i casi dell'aspettativa per richiamo alle armi e per infermità per causa di servizio, di cui, rispettivamente, al II comma dell'art. 67 e al VII comma dell'art. 68 del testo unico predetto. Il diritto al riparto viene, altresì, meno per tutto il tempo durante il quale, per qualsiasi causa, non spetti o sia ridotto lo stipendio. Si perde il diritto di concorrere al riparto allorché sia stata comminata la destituzione o dichiarata la decadenza ovvero la dispensa per scarso rendimento; in tali casi la partecipazione al riparto predetto cessa dal momento in cui si è verificato il fatto risolutivo del rapporto d'impiego. Nel caso di collocamento a riposo, di accettazioni di dimissioni volontarie, di passaggio in altre Amministrazioni dello Stato, l'impiegato partecipa al riparto fino alla data di decorrenza del provvedimento”.
E’ senza dubbio corretta, quindi, la ricostruzione delle ricorrenti, secondo le quali l’esclusione dalla partecipazione al riparto richiesto è fondata esclusivamente sulla sussistenza di tale norma regolamentare la quale prevede comunque espressamente un’eccezione, per coloro che risultano collocati in congedo “straordinario”, tipo di congedo peraltro che compete “di diritto”, ai sensi dell’art. 37, comma 2, T.U. n. 3/57 (oltre a periodi di aspettativa per richiamo alle armi o per infermità per causa di servizio), ossia “…quando l'impiegato debba contrarre matrimonio o sostenere esami o, qualora trattisi di mutilato o invalido di guerra o per servizio, debba attendere alle cure richieste dallo stato di invalidità…”.
Il Collegio, quindi, non può fare a meno di osservare che l’ipotesi di deroga al divieto in questione opera allorquando il congedo straordinario sia definibile “di diritto”, vale a dire quando non è nella facoltà discrezionale dell’Amministrazione concederlo o meno (sul punto, già: TAR Lazio, Sez. I, 10.2.1987, n. 285, secondo cui il congedo straordinario per motivi diversi da quelli elencati nell'art. 37, comma 2, cit. inerisce alla sfera degli interessi legittimi dell'impiegato, essendo demandato dalla legge ad apprezzamenti discrezionali della p. a. e pertanto è legittimo che l'esercizio di tale potere sia ispirato al contemperamento fra le pretese del dipendente e le esigenze del servizio, con la conseguenza che il congedo di cui al comma 2 cit. esula dalla discrezionalità in questione).
Sotto tale profilo, però, al Collegio appare innegabile che anche il congedo straordinario per “maternità”, peraltro obbligatorio, rientri nelle ipotesi in cui spetta “di diritto”.
Sul punto, non può che richiamarsi il contenuto dell’art. 16 d.lgs. n. 151/01, secondo cui: E' vietato adibire al lavoro le donne:
a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto all'articolo 20;
b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;
c) durante i tre mesi dopo il parto, salvo quanto previsto all'art. 20;
d) durante i giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche qualora la somma dei periodi di cui alle lettere a) e c) superi il limite complessivo di cinque mesi
Per quanto riguarda già il T.U. n. 3/57, alla norma di cui al richiamato art. 37, deve, poi, accompagnarsi quanto previsto dai successivi artt. 40 e 41, secondo i quali “…Durante il periodo di congedo ordinario e straordinario, esclusi i giorni di cui al periodo precedente, spettano al pubblico dipendente tutti gli assegni escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale e per prestazioni di lavoro straordinario…I periodi di congedo straordinario sono utili a tutti gli altri effetti” (art. 40, comma 1 e comma 3) e “All'impiegata che si trovi in stato di gravidanza o puerperio si applicano le norme per la tutela delle lavoratrici madri; essa ha diritto al pagamento di tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario. Per i periodi anteriore e successivo al parto in cui, ai sensi delle norme richiamate nel precedente comma, l'impiegata ha diritto di astenersi dal lavoro, essa è considerata in congedo straordinario per maternità. Alle ipotesi previste nel presente articolo, si applica la disposizione di cui all'ultimo comma dell'articolo 40” (art. 41, commi 1, 2 e 3 rubricato: Congedo straordinario per gravidanza e puerperio).
In merito, valga richiamare che la Corte dei Conti aveva già nel 1988 precisato che l’art. 41, comma 2, equipara a tutti gli effetti l'astensione facoltativa dal lavoro per maternità al congedo straordinario (Sez. Contr., 14.4.1988, n. 1933).
In sostanza, una lettura costituzionalmente orientata delle norme, in relazione agli artt. 3, 37 e 97 Cost., impone di considerare che quella per gravidanza e puerperio è un’astensione obbligatoria, equiparabile a tutte quelle in cui è previsto un congedo straordinario “di diritto”, e per tale ragione deve essere riconosciuta parità di corresponsione di emolumenti, anche se in presenza di rapporto di lavoro pubblico “non contrattualizzato”, come nel caso di specie.
Per quanto dedotto, quindi, è condivisibile la ricostruzione delle ricorrenti che nel caso di specie individuano un’ipotesi di contrasto del “Regolamento”, che esclude il diritto ad una parte della retribuzione durante la gravidanza, con la “Legge”, che invece tale diritto riconosce e assicura, differenziando e privilegiando l’ipotesi del congedo obbligatorio per maternità da ogni altra ipotesi di congedo e assenza, ivi compresa la malattia, con la conseguenza che l’art. 12 del Regolamento, riferito anche al congedo straordinario per gravidanza e puerperio laddove esclude il riparto delle competenze di cui all’art. 21 r.d. cit., deve essere disapplicato in quanto vertente su diritti soggettivi valutabili in un quadro di giurisdizione esclusiva del g.a. (v. Cons. Stato, Sez. IV, 9.12.10, n. 8654; TAR Lazio, Sez. II bis, 9.5.07, n. 4984).
Le stesse fonti sovraordinate all’ordinamento nazionale, inoltre, muovono in tal senso laddove escludono la possibilità di dare luogo a discriminazioni relative al mantenimento o all’acquisizione di “diritti” nei confronti delle lavoratrici che usufruiscono di periodi di congedo per maternità (art. 9, par. 1, lett. f), direttiva 2006/54/CE), come invece accade nel caso di specie ove il “diritto” (così definito nell’art. 12 d.p.c.m. cit.) è escluso proprio in relazione alla fruizione di periodi di congedi per maternità.
Ne consegue che l’art. 12 d.p.c.m. cit., che limita la deroga all’esclusione del riparto previsto per i Procuratori e Avvocati dello Stato al solo caso di congedo “straordinario” di cui all’art. 37, comma 2, T.U. cit. senza prevedere tra questi anche il congedo per maternità, si pone in contrasto con tutte le richiamate norme, nazionali e sovraordinate.
Per una corretta ricostruzione del quadro esegetico di fondo, quindi, è altresì evidente, a rafforzamento di quanto ora precisato, la condivisibilità delle osservazioni delle ricorrenti, secondo le quali, il congedo “straordinario” cui dovrebbe fare riferimento l’art. 12 d.p.c.m. cit. per escludere il riparto in questione sarebbe il solo congedo da definirsi “facoltativo”, in quanto legato a generici “gravi motivi”, discrezionalmente concedibile dalla p.a., senza durata minima ma solo massima, sottoposto a trattamento economico deteriore rispetto a quello “per maternità” (v. art. 40 T.U. cit.), laddove – diversamente – quest’ultimo è invece fruibile per ipotesi “predeterminata”, è irrinunciabile, è concedibile “una tantum” e per un periodo minimo predefinito per legge ed è sottoposto a trattamento economico di favore rispetto ad altre forme di congedo (art. 41, comma 1, T.U. cit.).
Tale interpretazione è stata anche avallata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la cui circolare n. 14/2000 richiamata dalle ricorrenti, al punto 4.1. prevede la corresponsione per tutte le “lavoratrici-madri” e per il periodo di astensione obbligatoria il diritto all’intera retribuzione fissa mensile nonché al relativo trattamento “accessorio”. E’ vero che tale circolare riguarda le lavoratrici c.d “contrattualizzate”, secondo le osservazioni in merito della difesa erariale, ma ciò non toglie che il riferimento è utile per segnalare l’attenzione della P.C.M. verso il principio di “non discriminazione” ad esso sotteso, analogo a quello invocato dalle ricorrenti.
Sul punto, poi, valga il richiamo all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 151/2001, secondo cui: “Le indennità di cui al presente testo unico corrispondono, per le pubbliche amministrazioni, ai trattamenti economici previsti, ai sensi della legislazione vigente, da disposizioni normative e contrattuali. I trattamenti economici non possono essere inferiori alle predette indennità.” nonché ai successivi art. 3, per il quale: “È vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti.” e art. 23, commi 1 e 2, secondo cui: “Agli effetti della determinazione della misura dell'indennità, per retribuzione s'intende la retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo di maternità.
Al suddetto importo va aggiunto il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice.”.
Né in senso sostanziale contrario valgono le osservazioni difensive della stessa Avvocatura dello Stato.
Per quanto riguarda l’affermazione secondo cui la “ratio” della censurata disposizione di cui all’art. 12 d.p.c.m. cit. risponderebbe alla logica di riconoscere il riparto in questione ai soli legali pubblici presenti in ufficio, essa non regge a fronte dell’osservazione per la quale vi sono casi in cui è riconosciuto dal medesimo art. 12 cit. a dipendenti non presenti (che richiama le ipotesi di deroga su ricordate dell’art. 37, comma 2, T.U. cit.).
Inoltre risulta – e la circostanza è provata documentalmente dalle ricorrenti e non smentita dalla difesa erariale – che durante il periodo di astensione siano stati comunque assegnati “affari” a ciascuna di esse, con aggravio del lavoro, sia pure da espletare successivamente, e con la evidente conclusione che le stesse sono state considerate “in servizio”.
E’ vero che l’assegnazione di affari risulta, ad esempio, anche nei confronti dei Procuratori e Avvocati dello Stato durante la fruizione del loro periodo di “ferie” ma a ciò è accompagnato comunque il riparto delle c.d. “propine”, che invece è negato alle ricorrenti, con la conseguenza che il sistema alla base della corresponsione del trattamento economico appare illogico e discriminatorio anche sotto tale profilo, nei limiti di quanto lamentato nel ricorso.
A ciò si aggiunga che il riparto in questione non riguarda il lavoro straordinario – secondo una tesi pure rappresentata dalla difesa erariale – dato che lo stesso Segretario Generale, nel rispondere alle ricorrenti, lo richiama per distinguerlo dal riparto ex art. 12 d.p.c.m. cit. di cui alla fattispecie in esame (per tutte, v. nota del 9.5.12 depositata in giudizio).
Tale riparto è invece riconducibile alle elargizioni di natura “retributiva” e non accessoria, secondo quanto attestato ormai dall’art. 9 d.l. n. 90/2014, conv. in l. n. 114/2014, per il primo profilo, e dal punto 3 della circolare INPS n. 6 del 16.1.2014, anche per il secondo profilo.
Ne consegue che non può essere ritenuta condivisibile neanche la tesi della difesa erariale, secondo la quale le ricorrenti – in quanto dipendenti “non contrattualizzate” - comunque beneficerebbero del trattamento “di maggior favore” di cui all’art. 41 T.U. cit. e all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 151/2001 (retribuzione al 100% in luogo dell’80% come invece per le altre lavoratrici alle dipendenza della p.a.), in quanto vi è stata comunque una decurtazione - “retributiva” per quanto detto in precedenza – pari al 50% almeno fino all’entrata in vigore del richiamato art. 9 d.l. n. 90/14 cit.
Altra tesi su cui si è fondata l’Avvocatura dello Stato è quella legata al valore “sostanziale” di norma primaria riconoscibile all’art. 12 d.p.c.m. cit., in virtù dell’espressa indicazione – al fine di “farlo proprio” – del medesimo contenuta nell’art. 21 r.d. n. 1611/33 cit. che si riferisce al regolamento sull’esazione degli onorari di Procuratori e Avvocati dello Stato, con la conseguenza di definire l’art. 12 cit. quale norma speciale che prevale sulle norme invocate dalle ricorrenti, pur ammettendo la stessa difesa erariale che tale regolamento è “attuativo” in virtù del rinvio espresso.
Il Collegio osserva che la natura di regolamento “attuativo” riconosciuta al d.p.c.m. in questione conferma la sua subordinazione alle fonti primarie legislative (Cons. Stato, Sez. IV, 15.9.03, n. 5158), tra cui non possono che richiamarsi quelle sopra descritte a tutela della “maternità”.
A ciò si aggiunga che l’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 151/2001, quale norma speciale successiva, ha fatto salve solo le condizioni di maggior favore previste da leggi, regolamenti, contratti collettivi e ogni altra disposizione, tra cui non rientrano quelle di cui all’art. 12 d.p.c.m. cit., di certo non “di maggior favore” nei confronti delle dipendenti in questione in congedo per “maternità”.
Come condivisibilmente osservato anche dalle ricorrenti, infine, quand’anche fosse riconoscibile al d.p.c.m. in esame il rango di “fonte primaria”, esso sarebbe comunque in contrasto con la suddetta direttiva 2006/54/CE per quanto sopra precisato, con conseguente possibilità di disapplicazione “diretta” ad opera del Giudice nazionale (Cons. Stato, Sez. IV, 24.3.04, n. 1559).
Da ultimo, in relazione a giurisprudenza ritenuta contraria a quanto prospettato dalle ricorrenti, secondo il richiamo di cui alla memoria dell’Avvocatura dello Stato per l’ultima udienza pubblica, per quel che riguarda la sentenza TAR Campania, Na, Sez. IV, 15.4.16, n. 1874, il Collegio osserva che essa si riferiva alla ben diversa ipotesi di “esonero” dal servizio ai sensi dell’art. 72 d. l. n. 112/2008, conv. in l. n. 123/2008 (poi abrogato dall’art. 24, comma 14, d.l. n. 201/2011, conv. in l. n. 214/2011). Anzi – osserva il Collegio – tale richiamo conferma la tesi di fondo delle ricorrenti, in quanto l’assegnazione di affari nei loro confronti (ben cospicua secondo la documentazione acquisita in giudizio in seguito alla su ricordata ordinanza istruttoria), a differenza da chi era, appunto, “in esonero”, deve far ritenere che le stesse erano state invece considerate dall’Amministrazione a tutti gli effetti “in servizio” e quindi con rapporto di lavoro in atto.
La stessa sentenza del Tar partenopeo, infatti, rileva che la quota c.d. “variabile” del trattamento economico di Procuratori e Avvocati dello Stato postula, per il suo riconoscimento, il perdurante svolgimento dello stesso, trattandosi di prestazioni periodiche temporalmente correlate allo svolgimento del rapporto medesimo, e che ai fini del riconoscimento di tale quota variabile della retribuzione è dunque necessario che vi sia, a giustificazione della percezione di somme, lo svolgimento di attività lavorativa e, dunque, l’esistenza di un “rapporto di lavoro in atto”, mentre la sospensione del rapporto per collocamento “in esonero” determina in capo al dipendente il sorgere di un nuovo “status” giuridico, connotato dal mancato svolgimento del servizio e questa peculiarità impedisce la possibilità di computare emolumenti che trovano il loro necessario presupposto proprio ed esclusivamente nella prestazione dell’attività defensionale. Nel caso di specie tale attività per le ricorrenti vi è stata, in quanto hanno indubbiamente dovuto provvedere a seguire gli affari assegnati in costanza del periodo di “maternità”, senza mutamento di alcuno “status” giuridico, fermo restando che la ripartizione di parte dei proventi richiesti si riferiva anche a periodi precedenti, ove le stesse non avevano ancora fruito del relativo congedo.
Così pure non decisiva è l’ordinanza del TAR Calabria, Rc, 17.6.16, n. 706 – peraltro non avente alcun contenuto decisorio ma un’ampia motivazione sulla ritenuta non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 9, commi 3, 4 e 6, del d.l. n. 90/14 cit., conv. in l. n. 114/14 – in quanto non si riferisce allo specifico profilo della elargizione di compensi durante il congedo “per maternità” ma al generale intervento di cui alla norma suddetta in ordine alla rideterminazione dei compensi professionali degli Avvocati dello Stato. Inoltre, quel TAR ha affrontato la problematica alla sua attenzione in senso generale, evidenziando in un passaggio argomentativo che la componente retributiva “in senso proprio” è caratterizzata da “fissità” a differenza delle altre remunerazioni di prestazioni professionali generalmente rese nell’esercizio delle funzioni istituzionalmente rimesse ad Avvocati e Procuratori dello Stato, che non rientrerebbero nel concetto di “retribuzione in senso proprio”, atteso il carattere di variabilità che ne assiste la commisurazione.
Nel caso di specie all’esame del Collegio, però, non rileva l’individuazione della retribuzione “in senso proprio”, in quanto a fondamento vi è la normativa “speciale” su richiamata sulla tutela della maternità, tra cui in particolare l’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 151/01 cit. (da leggersi in correlazione con i successivo artt. 3 e 23), che fa riferimento in realtà a tutti i trattamenti economici previsti ai sensi della legislazione vigente e non alla “retribuzione in senso proprio” quale “quota fissa”, come individuabile ai sensi della normativa sul trattamento economico dei Procuratori e Avvocati dello Stato.
Alla luce di quanto illustrato, quindi, il ricorso deve trovare accoglimento, con conseguente disapplicazione dell’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 nella parte in cui prevede il mancato diritto al riparto considerando tra casi di congedo straordinario che lo esclude quello obbligatorio per “maternità”.
Deve quindi darsi luogo alla declaratoria del diritto delle ricorrenti a percepire tutte le competenze spettanti loro ai sensi dell’art. 12 in questione e maturate a titolo di onorari di causa durante i periodi di astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, secondo la normativa vigente “pro tempore”.
In riferimento al relativo ammontare, il Collegio rileva che la difesa erariale ha eccepito la prescrizione quinquennale del credito, in quanto riferito a pretese avanzate in costanza di rapporto di pubblico impiego dotato di “stabilità reale”
In merito, il Collegio rileva che le ricorrenti hanno osservato – senza contestazione da parte delle Amministrazioni costituite - che solo per l’avv. F.. eventualmente potrebbe rilevare tale eccezione per il breve periodo anteriore al quinquiennio precedente la notifica della diffida del 18.9.2014, quale atto interruttivo (dal 9.7.2009 al 17.9.2009), ma che comunque nel caso di specie non opererebbe l’art. 2948 c.c., in quanto la determinazione quantitativa del credito “da lavoro” è riconducibile interamente all’Amministrazione, previo accertamento delle condizioni necessarie per la relativa liquidazione (Cons. Stato, n. 2232/2007).
In effetti, nel caso di specie, in base alla stessa ricostruzione delle modalità di corresponsione del riparto per cui è causa - come illustrate nell’ultima memoria dell’Avvocatura dello Stato in ottemperanza all’ordinanza collegiale sopra richiamata - emerge che, pur in presenza di rapporto “stabile”, è la stessa Amministrazione a riconoscere e determinare quantitativamente il diritto vantato e con apposito atto formale, per cui nel caso di specie opera la prescrizione ordinaria decennale (Cons. Stato, Sez. V, 5.5.16, n. 1792 e Sez. IV 21.6.07 n. 3363).
Per quanto riguarda, infine, il cumulo tra rivalutazione e interessi, deve invece ritenersi condivisibile il richiamo della difesa erariale all’art. 22, comma 36, l. n. 724/1994 che tale cumulo esclude per i rapporti di lavoro “pubblico”, sia anche non contrattualizzato (Cons. Stato, Sez. IV, 1.7.15, n. 3254).
Ne consegue che deve essere considerata solo la maggior somma derivante, prendendo come riferimento la somma dovuta al netto delle ritenute contributive e fiscali (Cons. Stato, n. 3254/15 cit.).
Per quanto riguarda la specifica domanda di condanna al pagamento delle competenze singolarmente indicate dalle ricorrenti per ciascuna di esse, desumibile dal contenuto delle conclusioni del ricorso integrate nelle ultime memorie, il Collegio – per la complessità dei relativi calcoli da eseguire in conformità a quanto sopra precisato – ritiene di fare ricorso alla disposizione di cui all’art. 34, comma 4, c.p.a., demandando alle parti di pervenire alla definizione di quanto a ciascuna ricorrente spettante, salvi i rimedi di cui alla medesima disposizione in caso di mancato accordo.
Le spese di lite possono eccezionalmente compensarsi per la peculiarità e novità della fattispecie.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, previa disapplicazione dell’art. 12 d.p.c.m. 29.2.1972 nei limiti dell’interesse delle ricorrenti e per quanto dedotto in motivazione, dichiara il loro diritto a percepire tutte le competenze spettanti in virtù del riparto previsto nell’art. 12 cit. maturate a titolo di onorari di causa per i periodi in cui sono state collocate in astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, secondo la normativa vigente “pro tempore”, con la maggior somma tra rivalutazione e interessi legali da calcolare al netto delle ritenute contributive e fiscali.
Dispone che l’Avvocatura dello Stato provveda alla specifica liquidazione ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., entro trenta giorni dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 luglio 2016 con l'intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Ivo Correale, Consigliere, Estensore
Roberta Cicchese, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Ivo Correale Carmine Volpe
IL SEGRETARIO
Re: Tutela delle lavoratrici madri
Ricorso al PDR Accolto.
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stato di “puerpera”.
violazione della L. n. 1204/1971 e della violazione della L. n. 903/1977 in tema di parità di trattamento nel rapporto di lavoro.
Il CdS precisa:
1) - Osserva al riguardo, la Sezione, che in tema di tutela delle lavoratrici madri, la legge n. 1204/1971 – art 2 – stabilisce il divieto di licenziamento, da parte del datore di lavoro, di lavoratrici in stato di gravidanza, dall’inizio del periodo di gestazione e sino al termine del periodo d’interdizione obbligatoria dal lavoro – art. 4 -.
2) - Per giurisprudenza pacifica il divieto anzidetto si rende applicabile anche al personale con contratto, come nella specie, a tempo determinato ed opera anche qualora il periodo di astensione si prolunghi oltre la conclusione del rapporto di lavoro (Tar Lazio sez I n. 914/1999).
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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201602292 - Public 2016-11-03 -
Numero 02292/2016 e data 03/11/2016
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 22 giugno 2016
NUMERO AFFARE 00006/2015
OGGETTO:
Ministero della Salute -Dipartimento della Programmazione.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da Giuseppa S.., contro U.S.L. n.25 Regione Calabria, avverso provvedimento di annullamento di conferimento incarico di infermiere professionale;
LA SEZIONE
Vista la relazione n. 36954 del 22/12/2014 con la quale il Ministero della Salute - Dipartimento della Programmazione ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Sergio Fina;
Premesso e Considerato:
Con il presente ricorso, la sig.ra Giuseppa S.. impugna il provvedimento di annullamento dell’atto di conferimento d’incarico d’infermiere professionale di cui al relativo avviso pubblico, emesso dalla USL. n. 25 di Reggio Calabria.
La ricorrente contesta la legittimità del provvedimento, sotto il profilo della violazione della L. n. 1204/1971 e della violazione della L. n. 903/1977 in tema di parità di trattamento nel rapporto di lavoro.
Il Ministero della Salute con relazione del 9.01.2015 – inviata con grave e ingiustificabile ritardo di molti anni dalla proposizione del ricorso – ha riferito sulla vicenda, illustrandone i tratti essenziali e rilevando la fondatezza, nel merito, del ricorso.
Soggiunge, il Ministero, in ordine alle argomentazioni impugnatorie, che nella specie il rapporto di lavoro si era perfezionato e quindi l’Azienda sanitaria non poteva licenziare l’interessata in base al suo stato di “puerpera”, per effetto dell’art. 2 della legge n. 1204/1971 che attribuisce alla donna che versa in tale stato, una particolare tutela, disponendo la nullità degli atti posti in essere in spregio a tale divieto.
Osserva al riguardo, la Sezione, che in tema di tutela delle lavoratrici madri, la legge n. 1204/1971 – art 2 – stabilisce il divieto di licenziamento, da parte del datore di lavoro, di lavoratrici in stato di gravidanza, dall’inizio del periodo di gestazione e sino al termine del periodo d’interdizione obbligatoria dal lavoro – art. 4 -.
Per giurisprudenza pacifica il divieto anzidetto si rende applicabile anche al personale con contratto, come nella specie, a tempo determinato ed opera anche qualora il periodo di astensione si prolunghi oltre la conclusione del rapporto di lavoro (Tar Lazio sez I n. 914/1999).
Consegue a quanto appena esposto che il ricorso, siccome fondato, deve essere accolto.
Quanto alla connessa richiesta di pagamento delle retribuzioni, a titolo risarcitorio, si osserva che la domanda risarcitoria è inammissibile in sede di ricorso straordinario, potendo essere esperita, esclusivamente, in sede giurisdizionale.
Ne deriva che per questa parte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
La Sezione, nello stigmatizzare il grave e ingiustificabile ritardo con cui il Ministero ha riferito sul ricorso in oggetto, esprime il parere che il ricorso, nei limiti indicati in motivazione, debba essere accolto, dovendo, per la parte relativa alla domanda risarcitoria, essere dichiarato inammissibile.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Sergio Fina Luigi Carbone
IL SEGRETARIO
Roberto Mustafà
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stato di “puerpera”.
violazione della L. n. 1204/1971 e della violazione della L. n. 903/1977 in tema di parità di trattamento nel rapporto di lavoro.
Il CdS precisa:
1) - Osserva al riguardo, la Sezione, che in tema di tutela delle lavoratrici madri, la legge n. 1204/1971 – art 2 – stabilisce il divieto di licenziamento, da parte del datore di lavoro, di lavoratrici in stato di gravidanza, dall’inizio del periodo di gestazione e sino al termine del periodo d’interdizione obbligatoria dal lavoro – art. 4 -.
2) - Per giurisprudenza pacifica il divieto anzidetto si rende applicabile anche al personale con contratto, come nella specie, a tempo determinato ed opera anche qualora il periodo di astensione si prolunghi oltre la conclusione del rapporto di lavoro (Tar Lazio sez I n. 914/1999).
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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201602292 - Public 2016-11-03 -
Numero 02292/2016 e data 03/11/2016
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 22 giugno 2016
NUMERO AFFARE 00006/2015
OGGETTO:
Ministero della Salute -Dipartimento della Programmazione.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da Giuseppa S.., contro U.S.L. n.25 Regione Calabria, avverso provvedimento di annullamento di conferimento incarico di infermiere professionale;
LA SEZIONE
Vista la relazione n. 36954 del 22/12/2014 con la quale il Ministero della Salute - Dipartimento della Programmazione ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Sergio Fina;
Premesso e Considerato:
Con il presente ricorso, la sig.ra Giuseppa S.. impugna il provvedimento di annullamento dell’atto di conferimento d’incarico d’infermiere professionale di cui al relativo avviso pubblico, emesso dalla USL. n. 25 di Reggio Calabria.
La ricorrente contesta la legittimità del provvedimento, sotto il profilo della violazione della L. n. 1204/1971 e della violazione della L. n. 903/1977 in tema di parità di trattamento nel rapporto di lavoro.
Il Ministero della Salute con relazione del 9.01.2015 – inviata con grave e ingiustificabile ritardo di molti anni dalla proposizione del ricorso – ha riferito sulla vicenda, illustrandone i tratti essenziali e rilevando la fondatezza, nel merito, del ricorso.
Soggiunge, il Ministero, in ordine alle argomentazioni impugnatorie, che nella specie il rapporto di lavoro si era perfezionato e quindi l’Azienda sanitaria non poteva licenziare l’interessata in base al suo stato di “puerpera”, per effetto dell’art. 2 della legge n. 1204/1971 che attribuisce alla donna che versa in tale stato, una particolare tutela, disponendo la nullità degli atti posti in essere in spregio a tale divieto.
Osserva al riguardo, la Sezione, che in tema di tutela delle lavoratrici madri, la legge n. 1204/1971 – art 2 – stabilisce il divieto di licenziamento, da parte del datore di lavoro, di lavoratrici in stato di gravidanza, dall’inizio del periodo di gestazione e sino al termine del periodo d’interdizione obbligatoria dal lavoro – art. 4 -.
Per giurisprudenza pacifica il divieto anzidetto si rende applicabile anche al personale con contratto, come nella specie, a tempo determinato ed opera anche qualora il periodo di astensione si prolunghi oltre la conclusione del rapporto di lavoro (Tar Lazio sez I n. 914/1999).
Consegue a quanto appena esposto che il ricorso, siccome fondato, deve essere accolto.
Quanto alla connessa richiesta di pagamento delle retribuzioni, a titolo risarcitorio, si osserva che la domanda risarcitoria è inammissibile in sede di ricorso straordinario, potendo essere esperita, esclusivamente, in sede giurisdizionale.
Ne deriva che per questa parte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
P.Q.M.
La Sezione, nello stigmatizzare il grave e ingiustificabile ritardo con cui il Ministero ha riferito sul ricorso in oggetto, esprime il parere che il ricorso, nei limiti indicati in motivazione, debba essere accolto, dovendo, per la parte relativa alla domanda risarcitoria, essere dichiarato inammissibile.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Sergio Fina Luigi Carbone
IL SEGRETARIO
Roberto Mustafà
Re: Tutela delle lavoratrici madri
diritto ad ottenere l’accredito figurativo ai sensi dell’art. 25, secondo comma, del decreto legislativo 151 del 2001 per i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità.
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SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 99 16/02/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 99 2017 PENSIONI 16/02/2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE SECONDA GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO
composta dai seguenti magistrati:
Luciano CALAMARO Presidente
Angela SILVERI Consigliere
Piero FLOREANI Consigliere relatore
Daniela ACANFORA Consigliere
Francesca PADULA Consigliere
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nel giudizio sull’appello iscritto al n. 37559 del registro di segreteria proposto dall'I.N.P.D.A.P., attualmente I.N.P.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Maria Passarelli, ed elettivamente domiciliato in Roma, Via Cesare Beccaria n. 29,
contro
Franca T.., non costituita,
avverso la decisione della Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia Giulia 19 febbraio 2009 n. 59;
Visto l’atto introduttivo del procedimento e gli altri atti e documenti di causa;
Uditi, all’udienza pubblica del 13 settembre 2016, il consigliere relatore Piero Floreani e l’avv. Maria Passarelli in rappresentanza dell’ente previdenziale.
Ritenuto in
FATTO
L’Amministrazione ha impugnato la sentenza a mezzo della quale è stato accolto il ricorso proposto da Franca T.., collocata a riposo dal 1° settembre 2001, e riconosciuto il suo diritto ad ottenere l’accredito figurativo ai sensi dell’art. 25, secondo comma, del decreto legislativo 151 del 2001 per i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità.
L’appellante deduce la violazione e falsa applicazione della citata disposizione in relazione all’articolo 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, sostenendo che la domanda era stata presentata in data 15 novembre 2006, quando erano decorsi oltre cinque anni dal collocamento a riposo; l’intempestività costituisce, a suo avviso, motivo di decadenza in ragione della ratio che informa la disciplina dei termini generali in materia pensionistica e richiama al riguardo gli articoli 147 e 145 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092. Conclude pertanto per l’annullamento della sentenza e la declaratoria che controparte non ha diritto al riconoscimento dei periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria per maternità.
Alla odierna udienza l’appellante ha ribadito le conclusioni di cui all’atto scritto.
Considerato in
DIRITTO
L’impugnazione mira all’accertamento negativo del diritto all’accredito figurativo, ai fini del trattamento di quiescenza, dei periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria per maternità.
L’appello è fondato per i seguenti motivi.
L’art. 25, secondo comma, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 prevede che in favore dei soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, i periodi corrispondenti al congedo di maternità di cui agli articoli 16 e 17, verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, siano considerati utili ai fini pensionistici, a condizione che il soggetto possa far valere, all'atto della domanda, almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro. La contribuzione figurativa viene accreditata secondo le disposizioni di cui all'articolo 8 della legge 23 aprile 1981, n. 155, con effetto dal periodo in cui si colloca l'evento.
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con decisione 14 luglio 2006 n. 7/QM avevano ritenuto la sussistenza del diritto che si considera, quantunque la domanda fosse stata presentata in epoca successiva al collocamento a riposo dell’interessata.
La questione è stata poi ridefinita dallo stesso legislatore con la disposizione di interpretazione autentica contenuta nell’art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, la quale, invero, prevede che le disposizioni degli articoli 25 e 35 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, si applicano agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e che sono fatti salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data della sua entrata in vigore. La Corte costituzionale, con sentenza n. 71 del 2010, ne ha confermato la natura interpretativa, ritenendo la disposizione conforme a Costituzione.
La disposizione che si considera, in sostanza, va interpretata nel senso che il beneficio deve essere riconosciuto in favore dei soli iscritti in servizio al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 che abbiano presentato tempestiva domanda. Essa prevede, dunque, in favore delle lavoratrici poste in astensione obbligatoria per maternità, la valorizzazione ai fini pensionistici del relativo periodo mediante l’accreditamento figurativo; il beneficio consiste nell’opportunità offerta alle dipendenti interessate di giovarsi del computo del periodo in questione. Va, tuttavia, tenuto presente che, in relazione ai servizi e periodi computabili a domanda, con o senza riscatto, la disposizione generale dell’art. 147 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 prevede che il dipendente statale che intenda farli valere possa presentare la domanda contestualmente alla dichiarazione di cui all'articolo 145, oppure successivamente, ma almeno due anni prima del raggiungimento del limite di età previsto per la cessazione dal servizio, pena la decadenza. Qualora la cessazione dal servizio abbia luogo prima che il predetto termine sia scaduto, la domanda deve essere presentata, a pena di decadenza, entro novanta giorni dalla comunicazione del provvedimento di cessazione. Analoga disciplina è prevista dall’art. 7 della legge 8 agosto 1991, n. 274 per gli iscritti alle Casse di previdenza già amministrate dal Ministero del Tesoro.
Nella fattispecie, l’interessata, ancorché fosse in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 151 del 2001, ha presentato l'istanza di accredito figurativo in data 15 novembre 2006, dopo la cessazione dal servizio - avvenuta il 1° settembre 2001 - e, pertanto, oltre il termine di novanta giorni dal suo collocamento a riposo.
Ne consegue che l’appello deve, in definitiva, essere accolto e negato il diritto dell’interessata alla riliquidazione del trattamento pensionistico in funzione dell’accredito figurativo ai sensi dell’art. 25, secondo comma, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.
Poiché la questione sottesa a questa causa è stata a lungo controversa, ed è stata risolta attraverso norme di interpretazione autentica, sussistono giusti motivi per compensare le spese di questo giudizio.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale accoglie l’appello n. 37559 e, per l’effetto, annulla la sentenza in epigrafe.
Spese compensate.
Manda alla Segreteria per gli adempimenti di competenza.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 settembre 2016.
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Piero Floreani f.to Luciano Calamaro
Depositata in Segreteria il 16 FEB. 2017
p. Il Dirigente
Sabina Rago
Il Funzionario Amministrativo
D.ssa Manuela ASOLE
f.to Manuela Asole
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SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 99 16/02/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE SECONDA GIURISDIZIONALE CENTRALE D’APPELLO
composta dai seguenti magistrati:
Luciano CALAMARO Presidente
Angela SILVERI Consigliere
Piero FLOREANI Consigliere relatore
Daniela ACANFORA Consigliere
Francesca PADULA Consigliere
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
nel giudizio sull’appello iscritto al n. 37559 del registro di segreteria proposto dall'I.N.P.D.A.P., attualmente I.N.P.S., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Maria Passarelli, ed elettivamente domiciliato in Roma, Via Cesare Beccaria n. 29,
contro
Franca T.., non costituita,
avverso la decisione della Sezione giurisdizionale per il Friuli Venezia Giulia 19 febbraio 2009 n. 59;
Visto l’atto introduttivo del procedimento e gli altri atti e documenti di causa;
Uditi, all’udienza pubblica del 13 settembre 2016, il consigliere relatore Piero Floreani e l’avv. Maria Passarelli in rappresentanza dell’ente previdenziale.
Ritenuto in
FATTO
L’Amministrazione ha impugnato la sentenza a mezzo della quale è stato accolto il ricorso proposto da Franca T.., collocata a riposo dal 1° settembre 2001, e riconosciuto il suo diritto ad ottenere l’accredito figurativo ai sensi dell’art. 25, secondo comma, del decreto legislativo 151 del 2001 per i periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità.
L’appellante deduce la violazione e falsa applicazione della citata disposizione in relazione all’articolo 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, sostenendo che la domanda era stata presentata in data 15 novembre 2006, quando erano decorsi oltre cinque anni dal collocamento a riposo; l’intempestività costituisce, a suo avviso, motivo di decadenza in ragione della ratio che informa la disciplina dei termini generali in materia pensionistica e richiama al riguardo gli articoli 147 e 145 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092. Conclude pertanto per l’annullamento della sentenza e la declaratoria che controparte non ha diritto al riconoscimento dei periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria per maternità.
Alla odierna udienza l’appellante ha ribadito le conclusioni di cui all’atto scritto.
Considerato in
DIRITTO
L’impugnazione mira all’accertamento negativo del diritto all’accredito figurativo, ai fini del trattamento di quiescenza, dei periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria per maternità.
L’appello è fondato per i seguenti motivi.
L’art. 25, secondo comma, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 prevede che in favore dei soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, i periodi corrispondenti al congedo di maternità di cui agli articoli 16 e 17, verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, siano considerati utili ai fini pensionistici, a condizione che il soggetto possa far valere, all'atto della domanda, almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro. La contribuzione figurativa viene accreditata secondo le disposizioni di cui all'articolo 8 della legge 23 aprile 1981, n. 155, con effetto dal periodo in cui si colloca l'evento.
Le Sezioni Riunite della Corte dei conti, con decisione 14 luglio 2006 n. 7/QM avevano ritenuto la sussistenza del diritto che si considera, quantunque la domanda fosse stata presentata in epoca successiva al collocamento a riposo dell’interessata.
La questione è stata poi ridefinita dallo stesso legislatore con la disposizione di interpretazione autentica contenuta nell’art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, la quale, invero, prevede che le disposizioni degli articoli 25 e 35 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, si applicano agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e che sono fatti salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data della sua entrata in vigore. La Corte costituzionale, con sentenza n. 71 del 2010, ne ha confermato la natura interpretativa, ritenendo la disposizione conforme a Costituzione.
La disposizione che si considera, in sostanza, va interpretata nel senso che il beneficio deve essere riconosciuto in favore dei soli iscritti in servizio al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 che abbiano presentato tempestiva domanda. Essa prevede, dunque, in favore delle lavoratrici poste in astensione obbligatoria per maternità, la valorizzazione ai fini pensionistici del relativo periodo mediante l’accreditamento figurativo; il beneficio consiste nell’opportunità offerta alle dipendenti interessate di giovarsi del computo del periodo in questione. Va, tuttavia, tenuto presente che, in relazione ai servizi e periodi computabili a domanda, con o senza riscatto, la disposizione generale dell’art. 147 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 prevede che il dipendente statale che intenda farli valere possa presentare la domanda contestualmente alla dichiarazione di cui all'articolo 145, oppure successivamente, ma almeno due anni prima del raggiungimento del limite di età previsto per la cessazione dal servizio, pena la decadenza. Qualora la cessazione dal servizio abbia luogo prima che il predetto termine sia scaduto, la domanda deve essere presentata, a pena di decadenza, entro novanta giorni dalla comunicazione del provvedimento di cessazione. Analoga disciplina è prevista dall’art. 7 della legge 8 agosto 1991, n. 274 per gli iscritti alle Casse di previdenza già amministrate dal Ministero del Tesoro.
Nella fattispecie, l’interessata, ancorché fosse in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 151 del 2001, ha presentato l'istanza di accredito figurativo in data 15 novembre 2006, dopo la cessazione dal servizio - avvenuta il 1° settembre 2001 - e, pertanto, oltre il termine di novanta giorni dal suo collocamento a riposo.
Ne consegue che l’appello deve, in definitiva, essere accolto e negato il diritto dell’interessata alla riliquidazione del trattamento pensionistico in funzione dell’accredito figurativo ai sensi dell’art. 25, secondo comma, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.
Poiché la questione sottesa a questa causa è stata a lungo controversa, ed è stata risolta attraverso norme di interpretazione autentica, sussistono giusti motivi per compensare le spese di questo giudizio.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale accoglie l’appello n. 37559 e, per l’effetto, annulla la sentenza in epigrafe.
Spese compensate.
Manda alla Segreteria per gli adempimenti di competenza.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 settembre 2016.
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
f.to Piero Floreani f.to Luciano Calamaro
Depositata in Segreteria il 16 FEB. 2017
p. Il Dirigente
Sabina Rago
Il Funzionario Amministrativo
D.ssa Manuela ASOLE
f.to Manuela Asole
Re: Tutela delle lavoratrici madri
1) - Per quanto detto, non v’è oramai alcun dubbio ermeneutico che il beneficio in questione debba essere riconosciuto in favore dei soli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, che abbiano presentato tempestiva domanda.
2) - In fattispecie la ricorrente, pur in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 151 del 2001, ha presentato l'istanza di accredito figurativo in data 24 novembre 2003,
- ) - dopo la cessazione dal servizio avvenuta il 1 settembre 2002 e oltre il termine sopra citato di 90 giorni dal collocamento a riposo.
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SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 81 09/02/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 81 2017 PENSIONI 09/02/2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE SECONDA GIURISDIZIONALE CENTRALE
composta dai magistrati:
Luciano CALAMARO Presidente
Angela SILVERI Consigliere
Piero Carlo FLOREANI Consigliere
Marco SMIROLDO Consigliere
Maria Teresa D’URSO Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
-sull’appello iscritto al n. 40603 del registro di segreteria proposto dall’INPDAP e proseguito dall’INPS in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Filippo Mangiapane, elettivamente domiciliato in Roma, alla Via C. Beccaria n. 29
contro
M.. Giuseppina
avverso
la sentenza della Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio n. 2481/2010 depositata il 9 marzo 2011.
Esaminati gli atti e i documenti di causa.
Uditi nella pubblica udienza del 7 febbraio 2017 il relatore, Presidente Luciano Calamaro e l’avvocato Maria Passarelli, per delega orale dell’avvocato Filippo Mangiapane, per l’INPS.
Ritenuto in
FATTO
L’impugnata sentenza ha accolto il ricorso proposto dalla odierna parte appellata e, per l’effetto, le ha riconosciuto il diritto al computo, a fini pensionistici, con conseguente riliquidazione della pensione, dei periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità.
Il diniego dell’Amministrazione si fondava sul fatto che la domanda volta ad ottenere il beneficio in questione era stata proposta non in costanza di attività lavorativa.
Alla decisione il primo giudice è pervenuto richiamando l’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.
La parte appellante ha contestato la valutazione del Giudice di primo grado con riferimento alla violazione e falsa applicazione degli articoli 16, 17 e 25 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 in relazione all’articolo 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e all’articolo 7 della legge 8 agosto 1991, n. 274.
Sostiene, in sintesi, che il beneficio in questione debba essere riconosciuto in favore dei soli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, che abbiano presentato tempestiva domanda, circostanza che non ricorre nel caso di specie, stante la disciplina recata dall’articolo 147 dPR n. 1092 del 1973.
Conclusivamente ha chiesto l’accoglimento dell’appello previa riforma della sentenza di primo grado.
La parte appellata si è costituita in giudizio con memoria depositata in data 27 gennaio 2017 confutando i motivi di appello nella considerazione che la sola condizione richiesta dalla legge consiste nel possesso di almeno cinque anni di contribuzione e richiamando i principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Riunite di questa Corte dei conti n.7/QM72006,
Alla odierna udienza l’avvocato Passarelli ha insistito per l’accoglimento dell’appello.
Considerato in
DIRITTO
1. L’appello è fondato.
La questione dedotta nel presente grado di giudizio è relativa alla sussistenza o meno del diritto all’accredito figurativo dei periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria per maternità, in caso di domanda proposta dopo il collocamento a riposo avvenuto nel regime previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.
Detto beneficio, dopo numerosi interventi normativi, per quanto in questa sede interessa, trova disciplina nel suddetto decreto legislativo, recante disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità.
L’art. 25, comma 2, a tal fine dispone che “In favore dei soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, i periodi corrispondenti al congedo di maternità di cui agli articoli 16 e 17, verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, sono considerati utili ai fini pensionistici, a condizione che il soggetto possa far valere, all'atto della domanda, almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro. La contribuzione figurativa viene accreditata secondo le disposizioni di cui all'articolo 8 della legge 23 aprile 1981, n. 155, con effetto dal periodo in cui si colloca l'evento”.
Dopo la sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 7/QM del 2006, che aveva ritenuto spettante il diritto in questione ancorché la domanda fosse stata presentata dopo il collocamento a riposo, è intervenuto il legislatore con norma d’interpretazione autentica.
L’art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), infatti, ha espressamente previsto che “Le disposizioni degli articoli 25 e 35 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, si applicano agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo”, con salvezza dei soli trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data della sua entrata in vigore.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 71 del 2010, ha confermato la natura interpretativa dell’intervenuta novella del 2007, ritenendola conforme a Costituzione e ritenendo manifestamente infondata, quindi, la sollevata questione di legittimità costituzionale.
Per quanto detto, non v’è oramai alcun dubbio ermeneutico che il beneficio in questione debba essere riconosciuto in favore dei soli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, che abbiano presentato tempestiva domanda.
A tal fine la giurisprudenza della Corte dei conti, ha enunciato il principio secondo cui l’espressione “iscritti in servizio si riferisce agli iscritti in servizio alla data dell’entrata in vigore del D.Lgs n. 151 del 2001 e solo, cioè, agli iscritti attivi al momento della domanda” (Sezione Terza Centrale di appello 24 aprile 2013, n. 260 ove è richiamata Cass. Civ. Sez. lav. n. 19147 del 20 settembre 2011).
Osserva in aggiunta il Collegio che l’articolo 147 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 “Servizi e periodi computabili a domanda “, dispone che: “Il dipendente statale che abbia da far valere servizi o periodi computabili a domanda, con o senza riscatto, può presentare la domanda contestualmente alla dichiarazione di cui all'articolo 145 oppure successivamente, ma almeno due anni prima del raggiungimento del limite di età previsto per la cessazione dal servizio, pena la decadenza.
Qualora la cessazione dal servizio abbia luogo prima che sia scaduto il termine di cui al primo comma, la domanda deve essere presentata, a pena di decadenza, entro novanta giorni dalla comunicazione del provvedimento di cessazione”.
La richiamata disciplina regola il procedimento, fissandone i termini, di tutte le richieste di valutazione di servizi a fini pensionistici computabili a domanda (omologa regola è recata dall’articolo 7 della legge 8 agosto 1991, n. 274).
Alla stregua della riportata normativa, la previsione contenuta nell'articolo 25 del decreto legislativo n. 151 del 2001 deve essere iscritta nell’alveo della disciplina generale delle valorizzazioni pensionistiche riconoscibili a domanda dell’interessato, con la conseguenza che l’istanza di riconoscimento dell'accredito figurativo per maternità al di fuori del rapporto di lavoro deve essere presentata durante il rapporto di impiego ovvero, al più, entro 90 giorni dalla data della cessazione dal servizio.
In fattispecie la ricorrente, pur in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 151 del 2001, ha presentato l'istanza di accredito figurativo in data 24 novembre 2003, dopo la cessazione dal servizio avvenuta il 1 settembre 2002 e oltre il termine sopra citato di 90 giorni dal collocamento a riposo.
L’appello deve quindi essere accolto in quanto giuridicamente fondato.
2. Trattandosi di questione controversa, risolta con norme di interpretazione autentica, sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio di entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale accoglie l’appello in epigrafe.
Spese compensate.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 7 febbraio 2017.
IL PRESIDENTE ESTENSORE
(Luciano CALAMARO)
\ f.to Luciano CALAMARO
Depositata in Segreteria il 09 FEB. 2017
IL DIRIGENTE
(dott.ssa Sabina Rago)
f.to Sabina Rago
2) - In fattispecie la ricorrente, pur in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 151 del 2001, ha presentato l'istanza di accredito figurativo in data 24 novembre 2003,
- ) - dopo la cessazione dal servizio avvenuta il 1 settembre 2002 e oltre il termine sopra citato di 90 giorni dal collocamento a riposo.
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SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 81 09/02/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
SECONDA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 81 2017 PENSIONI 09/02/2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE SECONDA GIURISDIZIONALE CENTRALE
composta dai magistrati:
Luciano CALAMARO Presidente
Angela SILVERI Consigliere
Piero Carlo FLOREANI Consigliere
Marco SMIROLDO Consigliere
Maria Teresa D’URSO Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
-sull’appello iscritto al n. 40603 del registro di segreteria proposto dall’INPDAP e proseguito dall’INPS in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Filippo Mangiapane, elettivamente domiciliato in Roma, alla Via C. Beccaria n. 29
contro
M.. Giuseppina
avverso
la sentenza della Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio n. 2481/2010 depositata il 9 marzo 2011.
Esaminati gli atti e i documenti di causa.
Uditi nella pubblica udienza del 7 febbraio 2017 il relatore, Presidente Luciano Calamaro e l’avvocato Maria Passarelli, per delega orale dell’avvocato Filippo Mangiapane, per l’INPS.
Ritenuto in
FATTO
L’impugnata sentenza ha accolto il ricorso proposto dalla odierna parte appellata e, per l’effetto, le ha riconosciuto il diritto al computo, a fini pensionistici, con conseguente riliquidazione della pensione, dei periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità.
Il diniego dell’Amministrazione si fondava sul fatto che la domanda volta ad ottenere il beneficio in questione era stata proposta non in costanza di attività lavorativa.
Alla decisione il primo giudice è pervenuto richiamando l’art. 25, comma 2, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.
La parte appellante ha contestato la valutazione del Giudice di primo grado con riferimento alla violazione e falsa applicazione degli articoli 16, 17 e 25 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 in relazione all’articolo 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 e all’articolo 7 della legge 8 agosto 1991, n. 274.
Sostiene, in sintesi, che il beneficio in questione debba essere riconosciuto in favore dei soli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, che abbiano presentato tempestiva domanda, circostanza che non ricorre nel caso di specie, stante la disciplina recata dall’articolo 147 dPR n. 1092 del 1973.
Conclusivamente ha chiesto l’accoglimento dell’appello previa riforma della sentenza di primo grado.
La parte appellata si è costituita in giudizio con memoria depositata in data 27 gennaio 2017 confutando i motivi di appello nella considerazione che la sola condizione richiesta dalla legge consiste nel possesso di almeno cinque anni di contribuzione e richiamando i principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Riunite di questa Corte dei conti n.7/QM72006,
Alla odierna udienza l’avvocato Passarelli ha insistito per l’accoglimento dell’appello.
Considerato in
DIRITTO
1. L’appello è fondato.
La questione dedotta nel presente grado di giudizio è relativa alla sussistenza o meno del diritto all’accredito figurativo dei periodi corrispondenti all’astensione obbligatoria per maternità, in caso di domanda proposta dopo il collocamento a riposo avvenuto nel regime previsto dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151.
Detto beneficio, dopo numerosi interventi normativi, per quanto in questa sede interessa, trova disciplina nel suddetto decreto legislativo, recante disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità.
L’art. 25, comma 2, a tal fine dispone che “In favore dei soggetti iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti, i periodi corrispondenti al congedo di maternità di cui agli articoli 16 e 17, verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, sono considerati utili ai fini pensionistici, a condizione che il soggetto possa far valere, all'atto della domanda, almeno cinque anni di contribuzione versata in costanza di rapporto di lavoro. La contribuzione figurativa viene accreditata secondo le disposizioni di cui all'articolo 8 della legge 23 aprile 1981, n. 155, con effetto dal periodo in cui si colloca l'evento”.
Dopo la sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 7/QM del 2006, che aveva ritenuto spettante il diritto in questione ancorché la domanda fosse stata presentata dopo il collocamento a riposo, è intervenuto il legislatore con norma d’interpretazione autentica.
L’art. 2, comma 504, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria per il 2008), infatti, ha espressamente previsto che “Le disposizioni degli articoli 25 e 35 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, si applicano agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo”, con salvezza dei soli trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data della sua entrata in vigore.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 71 del 2010, ha confermato la natura interpretativa dell’intervenuta novella del 2007, ritenendola conforme a Costituzione e ritenendo manifestamente infondata, quindi, la sollevata questione di legittimità costituzionale.
Per quanto detto, non v’è oramai alcun dubbio ermeneutico che il beneficio in questione debba essere riconosciuto in favore dei soli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, che abbiano presentato tempestiva domanda.
A tal fine la giurisprudenza della Corte dei conti, ha enunciato il principio secondo cui l’espressione “iscritti in servizio si riferisce agli iscritti in servizio alla data dell’entrata in vigore del D.Lgs n. 151 del 2001 e solo, cioè, agli iscritti attivi al momento della domanda” (Sezione Terza Centrale di appello 24 aprile 2013, n. 260 ove è richiamata Cass. Civ. Sez. lav. n. 19147 del 20 settembre 2011).
Osserva in aggiunta il Collegio che l’articolo 147 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 “Servizi e periodi computabili a domanda “, dispone che: “Il dipendente statale che abbia da far valere servizi o periodi computabili a domanda, con o senza riscatto, può presentare la domanda contestualmente alla dichiarazione di cui all'articolo 145 oppure successivamente, ma almeno due anni prima del raggiungimento del limite di età previsto per la cessazione dal servizio, pena la decadenza.
Qualora la cessazione dal servizio abbia luogo prima che sia scaduto il termine di cui al primo comma, la domanda deve essere presentata, a pena di decadenza, entro novanta giorni dalla comunicazione del provvedimento di cessazione”.
La richiamata disciplina regola il procedimento, fissandone i termini, di tutte le richieste di valutazione di servizi a fini pensionistici computabili a domanda (omologa regola è recata dall’articolo 7 della legge 8 agosto 1991, n. 274).
Alla stregua della riportata normativa, la previsione contenuta nell'articolo 25 del decreto legislativo n. 151 del 2001 deve essere iscritta nell’alveo della disciplina generale delle valorizzazioni pensionistiche riconoscibili a domanda dell’interessato, con la conseguenza che l’istanza di riconoscimento dell'accredito figurativo per maternità al di fuori del rapporto di lavoro deve essere presentata durante il rapporto di impiego ovvero, al più, entro 90 giorni dalla data della cessazione dal servizio.
In fattispecie la ricorrente, pur in servizio alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 151 del 2001, ha presentato l'istanza di accredito figurativo in data 24 novembre 2003, dopo la cessazione dal servizio avvenuta il 1 settembre 2002 e oltre il termine sopra citato di 90 giorni dal collocamento a riposo.
L’appello deve quindi essere accolto in quanto giuridicamente fondato.
2. Trattandosi di questione controversa, risolta con norme di interpretazione autentica, sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio di entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
la Corte dei conti, Sezione Seconda Giurisdizionale Centrale accoglie l’appello in epigrafe.
Spese compensate.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 7 febbraio 2017.
IL PRESIDENTE ESTENSORE
(Luciano CALAMARO)
\ f.to Luciano CALAMARO
Depositata in Segreteria il 09 FEB. 2017
IL DIRIGENTE
(dott.ssa Sabina Rago)
f.to Sabina Rago
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Re: Tutela delle lavoratrici madri
Messaggio da tonysorriso »
Buongiorno, vorrei un info sull'allattamento per la donna militare.
Durante il periodo previsto in cui si usufruisce del suddetto permesso, il comando può obbligarmi ad espletare dei servizi della durata di 5h oltre il normale orario lavorativo e soprattutto è vero che il sabato e la domenica se mi capita il turno di servizio (quindi turno di lavoro dalle 7.30 alle 20) non mi spetta l'allattamento in quanto festivo? Che assurdità è questa?
Grazie mille per eventuali suggerimenti e/o riferimenti normativi.
Durante il periodo previsto in cui si usufruisce del suddetto permesso, il comando può obbligarmi ad espletare dei servizi della durata di 5h oltre il normale orario lavorativo e soprattutto è vero che il sabato e la domenica se mi capita il turno di servizio (quindi turno di lavoro dalle 7.30 alle 20) non mi spetta l'allattamento in quanto festivo? Che assurdità è questa?
Grazie mille per eventuali suggerimenti e/o riferimenti normativi.
Re: Tutela delle lavoratrici madri
art. 25, comma 2, del D.lgs. 26.3.2001, n, 151
TERZA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 46 16/02/2016
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
TERZA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 46 2016 PENSIONI 16/02/2016
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
CORTE DEI CONTI
SEZIONE TERZA GIURISDIZIONALE CENTRALE d’APPELLO
Composta dai magistrati:
Dott.ssa Fausta Di Grazia Presidente
dott. Antonio Galeota Consigliere
dott.ssa Giuseppina Maio Consigliere
dott.ssa Maria Nicoletta Quarato Consigliere
dott.ssa Patrizia Ferrari Consigliere relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sull'appello iscritto al n. 43335 del registro di segreteria proposto da ISTITUTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE, con sede in Roma alla Via Ciro il Grande n. 21, quale successore ex lege dell'INPDAP, ai sensi dell'art. 21 comma I del D.L. 6 dicembre 2011 n. 201, conv. in L. n. 214/2011, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore Dott. Antonio MASTRAPASQUA, rappresentato e difeso nel presente giudizio dall'avv. Maria Morrone presso il quale è elettivamente domiciliato in Roma, alla Via Cesare Beccaria n. 29
CONTRO
CIRIGLIANO Rosina, residente in Policoro (MT), rappresentata e difesa, in I° grado, dall' Avv. Antonio Tulliani, con il quale è elettivamente domiciliata in Matera Largo Passarelli n. 1.
PER LA RIFORMA
della sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Basilicata n. 51/2011 depositata il 24.2.2011, non notificata.
VISTO l’atto d’appello;
VISTI tutti gli altri atti e documenti di causa;
UDITI, nell’udienza del 4 dicembre 2015, con l'assistenza della segretaria Gerarda Calabrese, il Giudice relatore, Cons. Patrizia Ferrari, l’Avv. Lidia Carcavallo, delegata dall’avvocato Morrone.
Considerato in
FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte regionale accoglieva il ricorso dell'odierna appellata riconoscendo in capo all'interessata il diritto ai fini pensionistici, dei periodi corrispondenti all'astensione obbligatoria dal lavoro per maternità, ai sensi dell'art. 25, comma 2, del D.lgs. 26.3.2001, n, 151 oltre accessori a decorrere dalla domanda, salva l'applicazione dei limiti al cumulo tra essi prevista dall’art. 16 L. 412/1991 secondo i criteri indicati nella sentenza delle SS.RR n. 10/QM/2002.
Avverso tale sentenza l’Istituto previdenziale ha interposto appello sostenendo l'erroneità della decisione. Ha rilevato al riguardo che ai sensi del D.Lgs. 26 marzo 2001 n. 151, i periodi corrispondenti al diritto di astensione obbligatoria per maternità relativi ad eventi verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, (fermo restando il requisito di contribuzione minima di cinque anni), sono riconoscibili a domanda limitatamente agli iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti. Ha affermato pertanto, che il riconoscimento nel caso di specie necessita dell'ulteriore requisito costituito dall'attualità dello stato di servizio.
Ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso, con conseguente declaratoria del diritto dell'Inps di ripetere quanto già versato nelle more del giudizio. Con rimborso delle spese di difesa o in subordine, compensazione delle stesse.
All’udienza pubblica, non presente la parte appellata, l’Avv. Lidia Carcavallo, su delega dell’avvocato Morrone, ha richiamato gli atti scritti, insistendo per l’accoglimento dell’appello.
La causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
La giurisprudenza di questa Corte dei conti (cfr. nn.327/2012; 224/2013 Sezione Terza di Appello ), da cui il Collegio non ritiene di doversi discostare, ha affermato il principio secondo il quale - ai sensi del comma 2 dell’art. 25 del D. Lgs.vo n. 151/2001 - i periodi corrispondenti al diritto di astensione obbligatoria per maternità relativi ad eventi verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, fermo restando il requisito di contribuzione minima di cinque anni, sono riconoscibili a domanda limitatamente agli iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti ed alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti. Oltre al requisito contributivo, il riconoscimento necessita dell’ulteriore requisito della attualità del servizio del dipendente che formula l’istanza.
L’iscrizione al fondo pensioni lavoratori dipendenti, richiamato dall’art. 25 del d.lgvo citato, si riferisce a coloro che versano i contributi in quanto prestano attività lavorativa e non a coloro già collocati in pensione, poiché questi ultimi non possono considerarsi iscritti, bensì destinatari del trattamento pensionistico. Del resto, come più volte affermato da questo giudice di appello, "laddove il legislatore avesse voluto ricomprendere nella previsione normativa la categoria dei pensionati, avrebbe provveduto esplicitamente a menzionare tale categoria. Deve, piuttosto, ritenersi che la finalità perseguita dalla norma sia il riconoscimento del valore ai fini pensionistici dei periodi corrispondenti al congedo per maternità facilitando, in tal modo, per le lavoratrici madri, il raggiungimento del requisito contributivo del diritto a pensione." (cfr. n 224/2013 di questa Sezione di Appello).
Il Collegio non ignora quanto sostenuto dalle Sezioni Riunite di questa Corte con sentenza n. 7/QM/06 ; rileva, tuttavia che gli argomenti posti alla base della richiamata decisione devono ritenersi superati a seguito della entrata in vigore della legge finanziaria n. 244/2007 che all’art. 2, comma 504 recita testualmente: “le disposizioni degli articoli 25 e 35 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 si applicano agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo (…)”.
La norma ha portata chiaramente interpretativa, come è dato desumere dal tenore letterale della disposizione: in quanto tale essa ha, senz’altro, natura di norma retroattiva. Il Collegio ricorda, al riguardo, che le questioni di costituzionalità sull’art. 2, comma 504 della legge n. 244/2007 sono state decise con sentenza n. 71/201 della Corte costituzionale che ha ritenuto non fondata la sollevata questione di incostituzionalità della norma citata.
Alla luce delle considerazioni esposte l'appello deve ritenersi fondato con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Sussistono ragioni, quali la complessità del giudizio e la stessa necessità di intervento del legislatore, in materia, per compensare le spese di difesa.
Non vi è luogo a provvedere per le spese di giudizio, in considerazione del principio di gratuità che assiste il contenzioso pensionistico innanzi questa Corte.
PQM
La Corte dei conti, III Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello, definitivamente pronunciando, ogni avversa istanza eccezione e deduzione respinta, accoglie l’appello.
Nulla per le spese di giudizio. Spese compensate.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del 4.12.2015.
IL RELATORE IL PRESIDENTE
F.to dott.ssa Patrizia Ferrari F.to dott.ssa Fausta Di Grazia
Depositata in Segreteria il 16 Febbraio 2016
Il Dirigente
F.to Dott.ssa Patrizia Fiocca
TERZA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 46 16/02/2016
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
TERZA SEZIONE CENTRALE DI APPELLO SENTENZA 46 2016 PENSIONI 16/02/2016
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
CORTE DEI CONTI
SEZIONE TERZA GIURISDIZIONALE CENTRALE d’APPELLO
Composta dai magistrati:
Dott.ssa Fausta Di Grazia Presidente
dott. Antonio Galeota Consigliere
dott.ssa Giuseppina Maio Consigliere
dott.ssa Maria Nicoletta Quarato Consigliere
dott.ssa Patrizia Ferrari Consigliere relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sull'appello iscritto al n. 43335 del registro di segreteria proposto da ISTITUTO DELLA PREVIDENZA SOCIALE, con sede in Roma alla Via Ciro il Grande n. 21, quale successore ex lege dell'INPDAP, ai sensi dell'art. 21 comma I del D.L. 6 dicembre 2011 n. 201, conv. in L. n. 214/2011, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore Dott. Antonio MASTRAPASQUA, rappresentato e difeso nel presente giudizio dall'avv. Maria Morrone presso il quale è elettivamente domiciliato in Roma, alla Via Cesare Beccaria n. 29
CONTRO
CIRIGLIANO Rosina, residente in Policoro (MT), rappresentata e difesa, in I° grado, dall' Avv. Antonio Tulliani, con il quale è elettivamente domiciliata in Matera Largo Passarelli n. 1.
PER LA RIFORMA
della sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Basilicata n. 51/2011 depositata il 24.2.2011, non notificata.
VISTO l’atto d’appello;
VISTI tutti gli altri atti e documenti di causa;
UDITI, nell’udienza del 4 dicembre 2015, con l'assistenza della segretaria Gerarda Calabrese, il Giudice relatore, Cons. Patrizia Ferrari, l’Avv. Lidia Carcavallo, delegata dall’avvocato Morrone.
Considerato in
FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte regionale accoglieva il ricorso dell'odierna appellata riconoscendo in capo all'interessata il diritto ai fini pensionistici, dei periodi corrispondenti all'astensione obbligatoria dal lavoro per maternità, ai sensi dell'art. 25, comma 2, del D.lgs. 26.3.2001, n, 151 oltre accessori a decorrere dalla domanda, salva l'applicazione dei limiti al cumulo tra essi prevista dall’art. 16 L. 412/1991 secondo i criteri indicati nella sentenza delle SS.RR n. 10/QM/2002.
Avverso tale sentenza l’Istituto previdenziale ha interposto appello sostenendo l'erroneità della decisione. Ha rilevato al riguardo che ai sensi del D.Lgs. 26 marzo 2001 n. 151, i periodi corrispondenti al diritto di astensione obbligatoria per maternità relativi ad eventi verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, (fermo restando il requisito di contribuzione minima di cinque anni), sono riconoscibili a domanda limitatamente agli iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti e alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti. Ha affermato pertanto, che il riconoscimento nel caso di specie necessita dell'ulteriore requisito costituito dall'attualità dello stato di servizio.
Ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso, con conseguente declaratoria del diritto dell'Inps di ripetere quanto già versato nelle more del giudizio. Con rimborso delle spese di difesa o in subordine, compensazione delle stesse.
All’udienza pubblica, non presente la parte appellata, l’Avv. Lidia Carcavallo, su delega dell’avvocato Morrone, ha richiamato gli atti scritti, insistendo per l’accoglimento dell’appello.
La causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
La giurisprudenza di questa Corte dei conti (cfr. nn.327/2012; 224/2013 Sezione Terza di Appello ), da cui il Collegio non ritiene di doversi discostare, ha affermato il principio secondo il quale - ai sensi del comma 2 dell’art. 25 del D. Lgs.vo n. 151/2001 - i periodi corrispondenti al diritto di astensione obbligatoria per maternità relativi ad eventi verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, fermo restando il requisito di contribuzione minima di cinque anni, sono riconoscibili a domanda limitatamente agli iscritti al fondo pensioni lavoratori dipendenti ed alle forme di previdenza sostitutive ed esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti. Oltre al requisito contributivo, il riconoscimento necessita dell’ulteriore requisito della attualità del servizio del dipendente che formula l’istanza.
L’iscrizione al fondo pensioni lavoratori dipendenti, richiamato dall’art. 25 del d.lgvo citato, si riferisce a coloro che versano i contributi in quanto prestano attività lavorativa e non a coloro già collocati in pensione, poiché questi ultimi non possono considerarsi iscritti, bensì destinatari del trattamento pensionistico. Del resto, come più volte affermato da questo giudice di appello, "laddove il legislatore avesse voluto ricomprendere nella previsione normativa la categoria dei pensionati, avrebbe provveduto esplicitamente a menzionare tale categoria. Deve, piuttosto, ritenersi che la finalità perseguita dalla norma sia il riconoscimento del valore ai fini pensionistici dei periodi corrispondenti al congedo per maternità facilitando, in tal modo, per le lavoratrici madri, il raggiungimento del requisito contributivo del diritto a pensione." (cfr. n 224/2013 di questa Sezione di Appello).
Il Collegio non ignora quanto sostenuto dalle Sezioni Riunite di questa Corte con sentenza n. 7/QM/06 ; rileva, tuttavia che gli argomenti posti alla base della richiamata decisione devono ritenersi superati a seguito della entrata in vigore della legge finanziaria n. 244/2007 che all’art. 2, comma 504 recita testualmente: “le disposizioni degli articoli 25 e 35 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 si applicano agli iscritti in servizio alla data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo (…)”.
La norma ha portata chiaramente interpretativa, come è dato desumere dal tenore letterale della disposizione: in quanto tale essa ha, senz’altro, natura di norma retroattiva. Il Collegio ricorda, al riguardo, che le questioni di costituzionalità sull’art. 2, comma 504 della legge n. 244/2007 sono state decise con sentenza n. 71/201 della Corte costituzionale che ha ritenuto non fondata la sollevata questione di incostituzionalità della norma citata.
Alla luce delle considerazioni esposte l'appello deve ritenersi fondato con conseguente riforma della sentenza impugnata.
Sussistono ragioni, quali la complessità del giudizio e la stessa necessità di intervento del legislatore, in materia, per compensare le spese di difesa.
Non vi è luogo a provvedere per le spese di giudizio, in considerazione del principio di gratuità che assiste il contenzioso pensionistico innanzi questa Corte.
PQM
La Corte dei conti, III Sezione Giurisdizionale Centrale d’Appello, definitivamente pronunciando, ogni avversa istanza eccezione e deduzione respinta, accoglie l’appello.
Nulla per le spese di giudizio. Spese compensate.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del 4.12.2015.
IL RELATORE IL PRESIDENTE
F.to dott.ssa Patrizia Ferrari F.to dott.ssa Fausta Di Grazia
Depositata in Segreteria il 16 Febbraio 2016
Il Dirigente
F.to Dott.ssa Patrizia Fiocca
Re: Tutela delle lavoratrici madri
La norma.
26 GIUGNO 2015 - "TUTELA DELLA MATERNITA' / PATERNITA' "
Sono disponibili gli aggiornamenti apportati al Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 dal Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 80 recante "Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell'articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183" (pubblicato in S.O. n. 34 relativo alla Gazzetta Ufficiale - Serie Generale n. 144 del 24 giugno 2015).
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Testo in vigore dal: 10-2-2012
Art. 17 Estensione del divieto (legge 30 dicembre 1971, n. 1204, articoli 4, commi 2 e 3, 5, e 30, commi 6, 7, 9 e 10)
1. Il divieto è anticipato a tre mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all'avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli. Tali lavori sono determinati con propri decreti dal Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative. Fino all'emanazione del primo decreto ministeriale, l'anticipazione del divieto di lavoro è disposta dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio.
((2. La Direzione territoriale del lavoro e la ASL dispongono, secondo quanto previsto dai commi 3 e 4, l'interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza fino al periodo di astensione di cui alla lettera a), comma 1, dell'articolo 16 o fino ai periodi di astensione di cui all'articolo 7, comma 6, e all'articolo 12, comma 2, per uno o più periodi, la cui durata sarà determinata dalla Direzione territoriale del lavoro o dalla ASL per i seguenti motivi:
a) nel caso di gravi complicanze della gravidanza o di persistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza;
b) quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino;
c) quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, secondo quanto previsto dagli articoli 7 e 12.)) ((23))
3. L'astensione dal lavoro di cui alla lettera a) del comma 2 ((è disposta dall'azienda sanitaria locale, con modalità definite con Accordo sancito in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano,)), secondo le risultanze dell'accertamento medico ivi previsto. In ogni caso il provvedimento dovrà essere emanato entro sette giorni dalla ricezione dell'istanza della lavoratrice. ((23))
4. L'astensione dal lavoro di cui alle lettere b) e c) del comma 2 ((è disposta dalla Direzione territoriale del lavoro)), d'ufficio o su istanza della lavoratrice, qualora nel corso della propria attività di vigilanza ((emerga)) l'esistenza delle condizioni che danno luogo all'astensione medesima. ((23))
5. I provvedimenti ((. . .)) previsti dai presente articolo sono definitivi. ((23))
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AGGIORNAMENTO (23) Il D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 aprile 2012, n. 35, ha disposto (con l'art. 15, comma 1, alinea) che le modifiche di cui al presente articolo decorrono dal 1° aprile 2012.
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Ricorso Accolto
1) - rigetto della richiesta di interdizione dal lavoro fino a sette mesi di età del figlio, ai sensi dell'art. 17, comma 2, lettera b) e c), del decreto legislativo del 26 marzo 2001 n.151.
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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201701342 - Public 2017-06-08 -
Numero 01342/2017 e data 08/06/2017 Spedizione
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 24 maggio 2017
NUMERO AFFARE 00547/2016
OGGETTO:
Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione territoriale di Cremona.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla signora A. O. contro il Ministero del lavoro e delle politiche sociali avverso il provvedimento della Direzione territoriale del lavoro di Cremona, prot. n.10000, del 09 luglio 2015, di rigetto della richiesta di interdizione dal lavoro fino a sette mesi di età del figlio, ai sensi dell'art. 17, comma 2, lettera b) e c), del decreto legislativo del 26 marzo 2001 n.151.
LA SEZIONE
Vista la relazione n.000505.17 del 17 marzo 2016 con la quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Antonella Manzione.
Premesso e considerato:
La signora O., in servizio presso la casa circondariale di OMISSIS con funzioni di vice comandante, ha avanzato istanza di interdizione dal lavoro fino a sette mesi di età del figlio, nato il OMISSIS, ai sensi dell’art. 17, comma 2, lett. b) e c), del d.lgs. n. 151/2001. L’istruttoria di suddetta istanza, presentata il 25 marzo 2015, è correttamente avvenuta per il tramite dell’Amministrazione di appartenenza. Pertanto, in data 12 maggio 2015, il direttore dell’istituto, con provvedimento n. 11907, la inoltrava alla competente Direzione territoriale del lavoro di Cremona, specificando chiaramente, in particolare al punto 4 delle premesse, che “..non è possibile modificare temporaneamente l’orario di lavoro della lavoratrice, né spostare la stessa ad altre mansioni compatibili con il suo stato di allattamento, viste le funzioni di vice comandante di reparto attribuite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’impossibilità di sostituzione durante la reperibilità nelle ore notturne, in caso ricopra il ruolo di Comandante di Reparto in assenza del Titolare”.
Malgrado tale precisa indicazione sul potenziale danno per il neonato e per la puerpera, che costituisce la base motivazionale cui il d.lgs. 8 marzo 2001, n.151, “Testo Unico delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2001, n.53”, condiziona la fruizione di determinati istituti di tutela, la Direzione territoriale del lavoro rigettava l’istanza con l’atto oggi impugnato dalla O...
La ricorrente lamenta molteplici violazioni di legge tra le quali quelle degli artt. 1, 2 e 21-bis della l.241/1990; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 165/2001; violazione degli artt. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 16, 17 del d.lgs. n. 151/2001 in relazione agli artt. 23 del d.lgs. n. 626/1994 e 13 del d.lgs. n. 81/2008; violazione della circolare del Direttore generale del 6 luglio 1999, incompetenza assoluta.
La Sezione ritiene il ricorso fondato, valutando sufficienti, sintetiche ed esaustive le motivazioni di cui alla relazione dell’Amministrazione riferente, in quanto assorbenti di ogni altra doglianza.
Risulta chiaro, infatti, che non sussiste alcun vizio in ordine alla competenza, essendo stato il procedimento regolarmente incardinato presso il datore di lavoro della ricorrente, istruito sotto il profilo delle previste valutazioni di spettanza dello stesso e successivamente inoltrato alla Direzione del lavoro di Cremona, in ossequio al combinato disposto degli artt. 9 e 17 del d.lgs. n. 151/2001. Del tutto immotivatamente suddetta Direzione del lavoro non ha invece tenuto conto delle chiare indicazioni della Direzione del carcere e ha negato l’interdizione dal lavoro fino a 7 mesi dopo il parto, per contro spettante in attuazione di quanto previsto dall’art. 7, comma 6 e dall’articolo 17, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 151/2001.
Suddetto provvedimento, infatti, avrebbe dovuto basarsi de relato sulla valutazione tecnico-sanitaria favorevole effettuata dall’Amministrazione della pubblica sicurezza e tener conto dell’avvenuto inoltro della stessa unitamente alla richiesta di interdizione prolungata avanzata da suddetta Amministrazione nell’interesse della lavoratrice, preso atto della oggettiva impossibilità di adibirla a mansioni non implicanti turnazioni e reperibilità, anche notturne.
La Sezione ritiene pertanto le motivazioni del diniego all’interdizione dal lavoro palesemente carenti e comunque illegittime.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE F/F
Antonella Manzione Gabriele Carlotti
IL SEGRETARIO
Roberto Mustafà
26 GIUGNO 2015 - "TUTELA DELLA MATERNITA' / PATERNITA' "
Sono disponibili gli aggiornamenti apportati al Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 dal Decreto Legislativo 15 giugno 2015, n. 80 recante "Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell'articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183" (pubblicato in S.O. n. 34 relativo alla Gazzetta Ufficiale - Serie Generale n. 144 del 24 giugno 2015).
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Testo in vigore dal: 10-2-2012
Art. 17 Estensione del divieto (legge 30 dicembre 1971, n. 1204, articoli 4, commi 2 e 3, 5, e 30, commi 6, 7, 9 e 10)
1. Il divieto è anticipato a tre mesi dalla data presunta del parto quando le lavoratrici sono occupate in lavori che, in relazione all'avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli. Tali lavori sono determinati con propri decreti dal Ministro per il lavoro e la previdenza sociale, sentite le organizzazioni sindacali nazionali maggiormente rappresentative. Fino all'emanazione del primo decreto ministeriale, l'anticipazione del divieto di lavoro è disposta dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio.
((2. La Direzione territoriale del lavoro e la ASL dispongono, secondo quanto previsto dai commi 3 e 4, l'interdizione dal lavoro delle lavoratrici in stato di gravidanza fino al periodo di astensione di cui alla lettera a), comma 1, dell'articolo 16 o fino ai periodi di astensione di cui all'articolo 7, comma 6, e all'articolo 12, comma 2, per uno o più periodi, la cui durata sarà determinata dalla Direzione territoriale del lavoro o dalla ASL per i seguenti motivi:
a) nel caso di gravi complicanze della gravidanza o di persistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza;
b) quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino;
c) quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, secondo quanto previsto dagli articoli 7 e 12.)) ((23))
3. L'astensione dal lavoro di cui alla lettera a) del comma 2 ((è disposta dall'azienda sanitaria locale, con modalità definite con Accordo sancito in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano,)), secondo le risultanze dell'accertamento medico ivi previsto. In ogni caso il provvedimento dovrà essere emanato entro sette giorni dalla ricezione dell'istanza della lavoratrice. ((23))
4. L'astensione dal lavoro di cui alle lettere b) e c) del comma 2 ((è disposta dalla Direzione territoriale del lavoro)), d'ufficio o su istanza della lavoratrice, qualora nel corso della propria attività di vigilanza ((emerga)) l'esistenza delle condizioni che danno luogo all'astensione medesima. ((23))
5. I provvedimenti ((. . .)) previsti dai presente articolo sono definitivi. ((23))
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AGGIORNAMENTO (23) Il D.L. 9 febbraio 2012, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 aprile 2012, n. 35, ha disposto (con l'art. 15, comma 1, alinea) che le modifiche di cui al presente articolo decorrono dal 1° aprile 2012.
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Ricorso Accolto
1) - rigetto della richiesta di interdizione dal lavoro fino a sette mesi di età del figlio, ai sensi dell'art. 17, comma 2, lettera b) e c), del decreto legislativo del 26 marzo 2001 n.151.
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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201701342 - Public 2017-06-08 -
Numero 01342/2017 e data 08/06/2017 Spedizione
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 24 maggio 2017
NUMERO AFFARE 00547/2016
OGGETTO:
Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione territoriale di Cremona.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla signora A. O. contro il Ministero del lavoro e delle politiche sociali avverso il provvedimento della Direzione territoriale del lavoro di Cremona, prot. n.10000, del 09 luglio 2015, di rigetto della richiesta di interdizione dal lavoro fino a sette mesi di età del figlio, ai sensi dell'art. 17, comma 2, lettera b) e c), del decreto legislativo del 26 marzo 2001 n.151.
LA SEZIONE
Vista la relazione n.000505.17 del 17 marzo 2016 con la quale il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Antonella Manzione.
Premesso e considerato:
La signora O., in servizio presso la casa circondariale di OMISSIS con funzioni di vice comandante, ha avanzato istanza di interdizione dal lavoro fino a sette mesi di età del figlio, nato il OMISSIS, ai sensi dell’art. 17, comma 2, lett. b) e c), del d.lgs. n. 151/2001. L’istruttoria di suddetta istanza, presentata il 25 marzo 2015, è correttamente avvenuta per il tramite dell’Amministrazione di appartenenza. Pertanto, in data 12 maggio 2015, il direttore dell’istituto, con provvedimento n. 11907, la inoltrava alla competente Direzione territoriale del lavoro di Cremona, specificando chiaramente, in particolare al punto 4 delle premesse, che “..non è possibile modificare temporaneamente l’orario di lavoro della lavoratrice, né spostare la stessa ad altre mansioni compatibili con il suo stato di allattamento, viste le funzioni di vice comandante di reparto attribuite dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’impossibilità di sostituzione durante la reperibilità nelle ore notturne, in caso ricopra il ruolo di Comandante di Reparto in assenza del Titolare”.
Malgrado tale precisa indicazione sul potenziale danno per il neonato e per la puerpera, che costituisce la base motivazionale cui il d.lgs. 8 marzo 2001, n.151, “Testo Unico delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2001, n.53”, condiziona la fruizione di determinati istituti di tutela, la Direzione territoriale del lavoro rigettava l’istanza con l’atto oggi impugnato dalla O...
La ricorrente lamenta molteplici violazioni di legge tra le quali quelle degli artt. 1, 2 e 21-bis della l.241/1990; violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 165/2001; violazione degli artt. 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 16, 17 del d.lgs. n. 151/2001 in relazione agli artt. 23 del d.lgs. n. 626/1994 e 13 del d.lgs. n. 81/2008; violazione della circolare del Direttore generale del 6 luglio 1999, incompetenza assoluta.
La Sezione ritiene il ricorso fondato, valutando sufficienti, sintetiche ed esaustive le motivazioni di cui alla relazione dell’Amministrazione riferente, in quanto assorbenti di ogni altra doglianza.
Risulta chiaro, infatti, che non sussiste alcun vizio in ordine alla competenza, essendo stato il procedimento regolarmente incardinato presso il datore di lavoro della ricorrente, istruito sotto il profilo delle previste valutazioni di spettanza dello stesso e successivamente inoltrato alla Direzione del lavoro di Cremona, in ossequio al combinato disposto degli artt. 9 e 17 del d.lgs. n. 151/2001. Del tutto immotivatamente suddetta Direzione del lavoro non ha invece tenuto conto delle chiare indicazioni della Direzione del carcere e ha negato l’interdizione dal lavoro fino a 7 mesi dopo il parto, per contro spettante in attuazione di quanto previsto dall’art. 7, comma 6 e dall’articolo 17, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 151/2001.
Suddetto provvedimento, infatti, avrebbe dovuto basarsi de relato sulla valutazione tecnico-sanitaria favorevole effettuata dall’Amministrazione della pubblica sicurezza e tener conto dell’avvenuto inoltro della stessa unitamente alla richiesta di interdizione prolungata avanzata da suddetta Amministrazione nell’interesse della lavoratrice, preso atto della oggettiva impossibilità di adibirla a mansioni non implicanti turnazioni e reperibilità, anche notturne.
La Sezione ritiene pertanto le motivazioni del diniego all’interdizione dal lavoro palesemente carenti e comunque illegittime.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE F/F
Antonella Manzione Gabriele Carlotti
IL SEGRETARIO
Roberto Mustafà
Re: Tutela delle lavoratrici madri
Il CdS accoglie l'appello dell'Amministrazione e si sta andando in discesa.
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- ) - PolStato, coniugato con moglie casalinga.
- ) - sentenza in forma semplificata del T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia, sezione I, 2 agosto 2017, n. 269
Il CdS precisa:
1) - Pur dovendosi dando atto delle oscillazioni giurisprudenziali in materia, l’appello è fondato alla luce della recente sentenza della Sezione 30 ottobre 2017, n. 4993, resa proprio in sede di gravame sulla ricordata decisione del T.A.R. Trieste n. 323/ 2016.
2) - Nel riesaminare dettagliatamente la questione controversa, tale sentenza ha ritenuto che nessun congedo parentale spetti, in linea di principio, al padre coniugato con una casalinga.
3) - Questa, infatti, svolge attività domestiche che le consentono di prendersi cura del figlio, salvo che non vi possa attendere per specifiche, oggettive, concrete, attuali e ben documentate ragioni, fra le quali non rientra il mancato possesso della patente di guida.
N.B.: leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA BREVE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201800628
- Public 2018-01-30 -
Pubblicato il 30/01/2018
N. 00628/2018 REG. PROV. COLL.
N. 08831/2017 REG. RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex artt. 60 e 74 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 8831 del 2017, proposto dal Ministero dell'interno - Dipartimento della P.S., Direzione centrale per le risorse umane - Questura di Gorizia, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
-OMISSIS-, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza in forma semplificata del T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia, sezione I, 2 agosto 2017, n. 269.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 18 gennaio 2018 il consigliere Giuseppe Castiglia;
Dato atto che per le parti nessuno è comparso;
Il signor -OMISSIS-, sovrintendente P.S., ha chiesto di potere usufruire dei periodi di riposo accordati dall’art. 40, lett. c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, per la nascita del proprio figlio, specificando di essere coniugato con moglie casalinga.
Con provvedimento del Questore di Gorizia del 6 aprile 2017, la domanda è stata respinta.
Il signor -OMISSIS- ha impugnato il diniego mediante un ricorso che il T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia, sezione I, ha accolto con sentenza in forma semplificata 2 agosto 2017, n. 269, condannando l’Amministrazione al pagamento delle spese di lite. Nel motivare, il Tribunale territoriale ha richiamato la propria precedente decisione 24 giugno 2016, n. 323.
L’Amministrazione dell’interno ha impugnato la sentenza n. 269/2017, chiedendone anche la sospensione dell’efficacia esecutiva, ricordando il più recente orientamento di questo Consiglio di Stato.
L’originario ricorrente non si è costituito in giudizio per resistere all’appello.
Alla camera di consiglio del 18 gennaio 2018, nella quale nessuna delle parti è comparsa, la domanda cautelare è stata chiamata e trattenuta in decisione.
Nella sussistenza dei presupposti di legge, il Collegio è dell’avviso di poter definire l’incidente cautelare nel merito con una sentenza in forma semplificata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 60 e 74 c.p.a.
Pur dovendosi dando atto delle oscillazioni giurisprudenziali in materia, l’appello è fondato alla luce della recente sentenza della Sezione 30 ottobre 2017, n. 4993, resa proprio in sede di gravame sulla ricordata decisione del T.A.R. Trieste n. 323/ 2016. Nel riesaminare dettagliatamente la questione controversa, tale sentenza ha ritenuto che nessun congedo parentale spetti, in linea di principio, al padre coniugato con una casalinga. Questa, infatti, svolge attività domestiche che le consentono di prendersi cura del figlio, salvo che non vi possa attendere per specifiche, oggettive, concrete, attuali e ben documentate ragioni, fra le quali non rientra il mancato possesso della patente di guida.
A tale precedente il Collegio stima di conformarsi integralmente ai sensi e per gli effetti dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.
Di conseguenza - come detto - l’appello va accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Tenuto conto delle ricordate incertezze della giurisprudenza, solo di recente stabilizzatasi, le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate fra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, rigetta il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone citate nel presente provvedimento.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 gennaio 2018 con l'intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere
Giuseppe Castiglia, Consigliere, Estensore
Luca Lamberti, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Giuseppe Castiglia Filippo Patroni Griffi
IL SEGRETARIO
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
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- ) - PolStato, coniugato con moglie casalinga.
- ) - sentenza in forma semplificata del T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia, sezione I, 2 agosto 2017, n. 269
Il CdS precisa:
1) - Pur dovendosi dando atto delle oscillazioni giurisprudenziali in materia, l’appello è fondato alla luce della recente sentenza della Sezione 30 ottobre 2017, n. 4993, resa proprio in sede di gravame sulla ricordata decisione del T.A.R. Trieste n. 323/ 2016.
2) - Nel riesaminare dettagliatamente la questione controversa, tale sentenza ha ritenuto che nessun congedo parentale spetti, in linea di principio, al padre coniugato con una casalinga.
3) - Questa, infatti, svolge attività domestiche che le consentono di prendersi cura del figlio, salvo che non vi possa attendere per specifiche, oggettive, concrete, attuali e ben documentate ragioni, fra le quali non rientra il mancato possesso della patente di guida.
N.B.: leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA BREVE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201800628
- Public 2018-01-30 -
Pubblicato il 30/01/2018
N. 00628/2018 REG. PROV. COLL.
N. 08831/2017 REG. RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex artt. 60 e 74 cod. proc. amm.;
sul ricorso numero di registro generale 8831 del 2017, proposto dal Ministero dell'interno - Dipartimento della P.S., Direzione centrale per le risorse umane - Questura di Gorizia, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
-OMISSIS-, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza in forma semplificata del T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia, sezione I, 2 agosto 2017, n. 269.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 18 gennaio 2018 il consigliere Giuseppe Castiglia;
Dato atto che per le parti nessuno è comparso;
Il signor -OMISSIS-, sovrintendente P.S., ha chiesto di potere usufruire dei periodi di riposo accordati dall’art. 40, lett. c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, per la nascita del proprio figlio, specificando di essere coniugato con moglie casalinga.
Con provvedimento del Questore di Gorizia del 6 aprile 2017, la domanda è stata respinta.
Il signor -OMISSIS- ha impugnato il diniego mediante un ricorso che il T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia, sezione I, ha accolto con sentenza in forma semplificata 2 agosto 2017, n. 269, condannando l’Amministrazione al pagamento delle spese di lite. Nel motivare, il Tribunale territoriale ha richiamato la propria precedente decisione 24 giugno 2016, n. 323.
L’Amministrazione dell’interno ha impugnato la sentenza n. 269/2017, chiedendone anche la sospensione dell’efficacia esecutiva, ricordando il più recente orientamento di questo Consiglio di Stato.
L’originario ricorrente non si è costituito in giudizio per resistere all’appello.
Alla camera di consiglio del 18 gennaio 2018, nella quale nessuna delle parti è comparsa, la domanda cautelare è stata chiamata e trattenuta in decisione.
Nella sussistenza dei presupposti di legge, il Collegio è dell’avviso di poter definire l’incidente cautelare nel merito con una sentenza in forma semplificata, ai sensi del combinato disposto degli artt. 60 e 74 c.p.a.
Pur dovendosi dando atto delle oscillazioni giurisprudenziali in materia, l’appello è fondato alla luce della recente sentenza della Sezione 30 ottobre 2017, n. 4993, resa proprio in sede di gravame sulla ricordata decisione del T.A.R. Trieste n. 323/ 2016. Nel riesaminare dettagliatamente la questione controversa, tale sentenza ha ritenuto che nessun congedo parentale spetti, in linea di principio, al padre coniugato con una casalinga. Questa, infatti, svolge attività domestiche che le consentono di prendersi cura del figlio, salvo che non vi possa attendere per specifiche, oggettive, concrete, attuali e ben documentate ragioni, fra le quali non rientra il mancato possesso della patente di guida.
A tale precedente il Collegio stima di conformarsi integralmente ai sensi e per gli effetti dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.
Di conseguenza - come detto - l’appello va accolto, con conseguente riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Tenuto conto delle ricordate incertezze della giurisprudenza, solo di recente stabilizzatasi, le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate fra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, rigetta il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le persone citate nel presente provvedimento.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 gennaio 2018 con l'intervento dei magistrati:
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere
Giuseppe Castiglia, Consigliere, Estensore
Luca Lamberti, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Giuseppe Castiglia Filippo Patroni Griffi
IL SEGRETARIO
In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
Re: Tutela delle lavoratrici madri
1) - La legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 deve dunque essere scrutinata alla luce dei princìpi richiamati.
2) - I rimettenti, chiamati a decidere le controversie promosse da lavoratrici gestanti che prestavano assistenza l’una al coniuge e l’altra al figlio disabile, chiedono di ampliare il catalogo delle deroghe previste dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 a tali specifiche ipotesi.
3) - Per questi particolari vincoli di solidarietà, connessi alla cura del coniuge o del figlio disabili con handicap in condizione di gravità accertata, si impone l’estensione della deroga sancita dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001.
La Corte Costituzionale con sentenza 158/2018 ha concluso così:
4) - dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
-----------------------------
Deposito 13/07/2018 (dalla 158 alla 158)
S. 158/2018 del 23/05/2018
Udienza Pubblica del 22/05/2018, Presidente: LATTANZI, Redattore: SCIARRA
Norme impugnate: Art. 24 del decreto legislativo 26/03/2001, n. 151.
_________________________
Oggetto: Maternità e infanzia - Indennità giornaliera di maternità - Condizioni - Previsione che tra la sospensione del rapporto di lavoro e l'inizio del periodo di congedo di maternità non siano decorsi più di sessanta giorni - Mancata previsione, tra le ipotesi di deroga al computo dei sessanta giorni, dell'assenza per congedo straordinario per l'assistenza al coniuge con grave disabilità.
________________________
Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 130/2017; 47/2018
------------------------
SENTENZA N. 158
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 24 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promossi dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Trento, entrambi in funzione di giudice del lavoro, con ordinanze del 12 aprile e del 16 ottobre 2017, iscritte rispettivamente al n. 130 del registro ordinanze 2017 e al n. 47 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2017 e n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di costituzione di E.T.R. F.;
udito nella udienza pubblica del 22 maggio e nella camera di consiglio del 23 maggio 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
udito l’avvocato Margherita Giannico per E.T.R. F.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 aprile 2017, iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31, secondo comma, 37, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 2 e seguenti, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui non prevede che il trattamento di maternità sia erogato anche alla lavoratrice che abbia fruito di congedo ex art. 42, comma 5, d.lgs. 151/2001 e che al momento della richiesta non abbia ripreso a lavorare da più di 60 giorni».
1.1.– Il rimettente espone di dover decidere sul ricorso di una lavoratrice, beneficiaria da oltre un anno, a causa della necessità di assistere un coniuge gravemente disabile, del congedo straordinario retribuito previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, e interdetta in anticipo dal lavoro, a decorrere dal 1° luglio 2014, a causa di «gravi complicanze nella gestazione».
La ricorrente nel giudizio principale ha chiesto di condannare l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) a corrispondere «il trattamento economico di maternità per l’intera durata del congedo di maternità, compreso il periodo di interdizione anticipata, dal 1° luglio 2014 al 6 aprile 2015». Tale trattamento le sarebbe stato originariamente negato sul presupposto che l’interdizione anticipata del lavoro per gravidanza a rischio era «avvenuta senza effettiva ripresa dell’attività lavorativa da parte della ricorrente».
1.2.– In punto di rilevanza, il giudice a quo argomenta che la disposizione censurata impedisce di riconoscere l’indennità di maternità alla parte ricorrente, «in ragione della sua pregressa assenza dal lavoro per più di 60 giorni».
All’inizio della gravidanza la ricorrente beneficiava da più di sessanta giorni del congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001. Per questa specifica ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro la legge non prevede che sia comunque corrisposto il trattamento di maternità, come nelle altre fattispecie tassativamente previste dall’art. 24 d.lgs. n. 151 del 2001.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo muove dalla premessa che l’indennità di maternità miri a tutelare la salute della donna e del nascituro e a evitare che la lavoratrice possa essere pregiudicata a causa degli impegni connessi alla cura del bambino.
Per effetto della disposizione censurata, la lavoratrice in gravidanza sarebbe costretta a sacrificare l’assistenza del coniuge disabile per riprendere il rapporto di lavoro prima dell’inizio del periodo di astensione obbligatoria e rischierebbe di perdere il diritto all’indennità di maternità quando le «complicanze della gestazione non consentano la ripresa del servizio al termine di un congedo straordinario».
Tale disciplina sarebbe lesiva, per un verso, del «diritto del disabile di ricevere assistenza all’interno del proprio nucleo familiare» e, per altro verso, del «diritto della lavoratrice di prestare assistenza al proprio coniuge disabile», scegliendo liberamente il momento in cui diventare madre.
In particolare, nel negare l’indennità di maternità quando il rapporto di lavoro sia sospeso a causa della necessità di assistere il coniuge disabile, la disciplina censurata pregiudicherebbe la speciale protezione della maternità, sancita dagli artt. 31 e 37 Cost.
Il rimettente assume, inoltre, che la disposizione in esame contrasti con «il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.», in quanto nega l’indennità di maternità alla lavoratrice che non sia in servizio da oltre sessanta giorni per la necessità di assistere il coniuge disabile e determina una disparità di trattamento priva di «ogni giustificazione razionale» tra tale fattispecie, che non sarebbe «meritevole di una minor tutela», e le ipotesi di «assenze dovute a malattia, infortunio sul lavoro, congedo parentale o congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità o per accudire minori in affidamento, della mancata prestazione lavorativa in caso di contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, della collocazione in cassa integrazione». Nelle fattispecie da ultimo indicate, la legge prevede che l’indennità di maternità sia corrisposta anche alla lavoratrice assente dal servizio da più di sessanta giorni.
Il giudice a quo ravvisa anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 CDFUE, che enunciano «il principio di uguaglianza ed il divieto di discriminazioni e riconoscono il diritto ad un congedo di maternità retribuito ed il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale in caso di maternità». Il diniego dell’indennità di maternità, «dovuto alla duplice condizione della ricorrente, gestante con gravidanza a rischio e parente di un disabile bisognoso di cure», integrerebbe, difatti, una discriminazione a causa del sesso, «nella specifica declinazione della gravidanza/maternità come espressamente enunciato dall’art. 2, comma 2, lett. c della Direttiva 2006/54 e trasposto nell’ordinamento all’art. 2 bis del d.lgs. n. 198/06», e a causa della disabilità, in contrasto con le previsioni «della direttiva 2000/78, attuata col d.lgs. n. 216/03», e in particolare con «il divieto di discriminazione fondato sull’handicap», che si applica non solo al disabile, ma anche a chi gli presta assistenza.
Il rimettente, in ragione della tassatività delle ipotesi in cui il trattamento di maternità è corrisposto anche a prescindere da una sospensione del rapporto di lavoro per un periodo superiore a sessanta giorni, reputa impraticabile l’interpretazione adeguatrice e ravvisa la necessità di investire la Corte costituzionale per la soluzione del dubbio di costituzionalità.
Questa necessità non potrebbe dirsi superata dal fatto che il conflitto tra norme interne e norme dell’Unione europea di diretta applicazione possa essere risolto disapplicando la norma interna incompatibile. Ad avviso del rimettente, «il conflitto della norma interna con i principi della Costituzione riconosciuti anche dal diritto euro unitario può essere risolto solo attraverso un espresso sindacato di legittimità sull’atto legislativo ordinario da parte dell’Organo competente», e non già attraverso la disapplicazione delle norme di rango legislativo in ipotesi contrastanti con i precetti costituzionali.
2.– Con atto depositato il 24 ottobre 2017, si è costituita E.T.R. F., chiedendo di accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torino.
Il trattamento economico di maternità, al pari del congedo di maternità e del divieto di licenziamento, attuerebbe la speciale protezione che l’art. 37 Cost. assicura alla madre lavoratrice e al bambino, e il principio di eguaglianza sostanziale presidiato dall’art. 3, secondo comma, Cost.
Il sostegno economico alla lavoratrice madre perseguirebbe l’obiettivo di tutelare la salute della donna e del nascituro e di salvaguardare la libertà della lavoratrice di essere madre, senza limitazioni o condizionamenti derivanti dalla prospettiva della perdita del reddito lavorativo.
Il congedo straordinario regolato dall’art. 42 d.lgs. n. 151 del 2001 adempirebbe alla funzione di tutelare la salute psico-fisica del disabile e di promuoverne l’integrazione all’interno della famiglia, che svolge un fondamentale ruolo di assistenza. Tale fattispecie di congedo straordinario meriterebbe, ai fini del trattamento economico di maternità, la medesima tutela riconosciuta nelle altre ipotesi, in cui la legge concede l’indennità di maternità anche a lavoratrici che non siano in servizio da più di sessanta giorni.
La disposizione censurata, nel negare l’indennità di maternità alla madre lavoratrice che dapprima sia stata assente dal lavoro per assistere il coniuge disabile e poi sia stata collocata in interdizione anticipata dal lavoro a causa di gravi complicanze nella gestazione, vanificherebbe la speciale protezione accordata dagli artt. 31 e 37 Cost.
Tale disciplina sarebbe irragionevole e lesiva del principio di non discriminazione in ragione del sesso e della disabilità, enunciato dagli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 CDFUE.
3.– Con ordinanza del 16 ottobre 2017, iscritta al n. 47 del registro ordinanze 2018, il Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31 e 37, primo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001, «nella parte in cui […] non annovera anche il congedo straordinario ex art. 42 co. 5 e co. 5ter d.lgs. 151/2001 (spettante al genitore di soggetto affetto da handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4 co. 1 L. 5.2.1992, n. 104) tra le fattispecie di assenza o congedo o mancata prestazione lavorativa, di cui non si tiene conto ai fini del computo dell’intervallo, tra l’inizio dell’assenza o della sospensione o della disoccupazione e l’inizio del periodo di congedo di maternità, di sessanta giorni, il cui superamento preclude, ai sensi dell’art. 24 co. 2 d.lgs. 151/2001, l’attribuzione dell’indennità giornaliera di maternità ex art. 22 co. 1 d.lgs. 151/2001».
3.1.– Il rimettente riferisce di dover decidere sul ricorso di una lavoratrice che, dal 4 aprile 2016, fruisce di un congedo straordinario per l’assistenza di un figlio in condizione di disabilità grave e dal maggio 2016 ha iniziato una nuova gravidanza.
La domanda di indennità giornaliera di maternità è stata respinta dall’INPS, in quanto erano trascorsi più di sessanta giorni dall’inizio del congedo straordinario.
3.2.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che, in virtù della disposizione censurata, il ricorso dovrebbe essere rigettato, in quanto, all’inizio del periodo di congedo di maternità (23 agosto 2016), il rapporto di lavoro era sospeso da più di sessanta giorni. Già dal 4 aprile 2016 la parte ricorrente godeva del congedo straordinario per assistere il figlio minore gravemente disabile e, dal 23 agosto 2016, in forza di provvedimento dell’azienda sanitaria, ha dovuto astenersi in anticipo dal lavoro.
Il rimettente puntualizza, sulla scorta delle affermazioni della sentenza 24 marzo 2017, n. 7675, della Corte di cassazione, sezione lavoro, che i periodi di assenza volontaria dal lavoro a titolo di aspettativa, congedo o permesso senza retribuzione non sono esclusi dal computo dei sessanta giorni che precedono l’inizio del congedo di maternità.
3.3.– In merito alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo muove dal presupposto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il fondamento della protezione sia ricondotto alla maternità in quanto tale e non più allo svolgimento di un’attività lavorativa subordinata.
L’art. 24 d.lgs. n. 151 del 2011 prevede che non si debba tener conto, ai fini del computo dei sessanta giorni di sospensione del rapporto di lavoro, delle assenze dovute a malattia e a infortuni sul lavoro, del periodo di congedo parentale fruito per una precedente maternità, del congedo per la malattia del figlio, del periodo di assenza per accudire minori in affidamento, del periodo di mancata prestazione lavorativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.
Il legislatore ha dunque recepito le indicazioni della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, secondo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), nella parte in cui non escludeva dal computo dei sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro l’assenza facoltativa non retribuita per una precedente maternità (si menziona la sentenza n. 106 del 1980) e il periodo di assenza per accudire minori affidati in preadozione (il richiamo è alla sentenza n. 332 del 1988).
Per altro verso, il legislatore ha scelto di escludere dal computo dei sessanta giorni anche il congedo per la malattia del figlio e l’assenza prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.
Ad avviso del rimettente, l’assetto delineato dal legislatore si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, senza alcuna giustificazione ragionevole, pur trattandosi di situazioni «espressive di esigenze di tutela assai simili», annovera il congedo per la malattia del figlio ex art. 47 d.lgs. n. 151 del 2001 ed esclude, per contro, il congedo straordinario che spetta al genitore di un figlio con handicap in situazione di gravità accertata «tra le fattispecie di assenza o congedo o mancata prestazione lavorativa, di cui non si tiene conto ai fini del computo dell’intervallo, tra l’inizio della assenza o della sospensione o della disoccupazione e l’inizio del periodo del congedo di maternità, di sessanta giorni, il cui superamento preclude, ai sensi dell’art. 24 co. 2 d.lgs. 151/2001, l’attribuzione dell’indennità giornaliera di maternità ex art. 22 co. 1 d.lgs. 151/2001».
Sarebbero violati anche l’art. 31 e l’art. 37, primo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata, nell’escludere dal godimento dell’indennità di maternità la donna che da più di sessanta giorni benefici del congedo straordinario per assistere un figlio gravemente disabile, contrasterebbe con i princìpi di tutela della maternità e comprometterebbe la speciale protezione della madre e del bambino, che l’istituto dell’indennità di maternità concorre a garantire.
4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non ha spiegato intervento.
5.– All’udienza del 22 maggio 2018, E.T.R. F., unica parte costituita, ha ribadito le conclusioni rassegnate nell’atto di costituzione.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Torino e il Tribunale ordinario di Trento, entrambi in funzione di giudice del lavoro, dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 24 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non annovera il congedo previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 per l’assistenza, rispettivamente, al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), tra i periodi di cui non si tiene conto ai fini del computo di quell’arco temporale di sessanta giorni tra l’inizio della sospensione o dell’assenza e l’inizio del periodo di congedo di maternità, superato il quale l’attribuzione dell’indennità di maternità risulta preclusa.
Entrambi i rimettenti, dopo aver posto in risalto la specifica funzione dell’indennità di maternità, volta a tutelare la salute della donna e del nascituro e a evitare ogni pregiudizio connesso alla libera scelta della maternità, argomentano che il diniego dell’indennità di maternità, quando siano trascorsi più di sessanta giorni tra l’inizio della fruizione del congedo straordinario per l’assistenza al coniuge o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata, e l’inizio del periodo di congedo di maternità, vanifica la speciale protezione della maternità garantita dalla Carta fondamentale (artt. 31 e 37 della Costituzione).
Il Tribunale di Torino, in particolare, rileva che la disciplina censurata «pregiudica il diritto del disabile di ricevere assistenza all’interno del proprio nucleo familiare ed il diritto della lavoratrice di prestare assistenza al proprio coniuge disabile (laddove impone a quest’ultima, qualora insorga uno stato di gravidanza, di sacrificare anzitempo tale assistenza per riprendere il rapporto di lavoro prima dell’astensione obbligatoria)» e, in pari tempo, sacrifica «la libertà della lavoratrice di scegliere quando diventare madre», esponendola al rischio di perdere il diritto all’indennità di maternità quando le complicazioni della gestazione impediscano «la ripresa del servizio al termine del congedo straordinario».
La disciplina censurata sarebbe lesiva, altresì, dell’art. 3 Cost., in quanto, in difetto di ogni ragionevole giustificazione, riserverebbe un trattamento deteriore alla lavoratrice costretta ad assentarsi per assistere il coniuge o un figlio disabili.
Il Tribunale di Torino, in particolare, denuncia la violazione del «principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.». La lavoratrice che si dedica all’assistenza al coniuge disabile non sarebbe «meritevole di una minor tutela» rispetto alla lavoratrice assente per «malattia, infortunio sul lavoro, congedo parentale o congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità o per accudire minori in affidamento» o rispetto all’ipotesi «della mancata prestazione lavorativa in caso di contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, della collocazione in cassa integrazione».
Il Tribunale di Trento ravvisa il contrasto con il «principio di eguaglianza formale ex art. 3 co. 1 Cost.» e indica come specifico termine di raffronto la fattispecie «della lavoratrice madre che si trova in congedo ex art. 47 segg. d.lgs. 151/2001 per assistere il figlio ammalato» e perciò beneficia dell’esclusione di tale congedo dal computo dei sessanta giorni previsti dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151 del 2001.
Il Tribunale di Torino prospetta anche il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Il diniego dell’indennità di maternità, «dovuto alla duplice condizione della ricorrente, gestante con gravidanza a rischio e parente di un disabile bisognoso di cure», contravverrebbe al divieto di discriminazione con riguardo al sesso, «nella specifica declinazione della gravidanza/maternità», e alla disabilità, divieto che tutela anche chi presti al disabile la necessaria assistenza.
2.– Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni in larga parte coincidenti, relative alla disciplina del computo dei sessanta giorni tra l’inizio del congedo straordinario e l’inizio del periodo di congedo di maternità. I relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione.
3.– Le questioni sono fondate, nei termini e per i motivi di séguito esposti.
4.– Il testo unico del 2001 appresta una disciplina articolata delle diverse ipotesi di sospensione e di interruzione dell’attività lavorativa, anteriori all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, e delle fattispecie in cui l’indennità di maternità è concessa anche quando sia trascorso un periodo superiore a sessanta giorni tra l’assenza e la sospensione e l’inizio dell’astensione obbligatoria. Su tale disciplina, che è utile ripercorrere nella sua evoluzione diacronica, si è innestata la giurisprudenza di questa Corte, come si vedrà in seguito.
La legge, in particolare, accorda l’indennità giornaliera di maternità anche alle «lavoratrici gestanti che si trovino, all’inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero, disoccupate», purché «tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni» (art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151 del 2001).
L’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 esclude dal computo dei sessanta giorni le «assenze dovute a malattia o ad infortunio sul lavoro, accertate e riconosciute dagli enti gestori delle relative assicurazioni sociali», il «periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità», il «periodo di assenza fruito per accudire minori in affidamento» e il «periodo di mancata prestazione lavorativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale».
Una disciplina peculiare è dettata a favore della lavoratrice che, all’inizio del periodo di congedo di maternità, fruisca dell’indennità di disoccupazione (art. 24, commi 4 e 5, d.lgs. n. 151 del 2001), del trattamento di integrazione salariale a carico della cassa integrazione guadagni (art. 24, comma 6, d.lgs. n. 151 del 2001) o dell’indennità di mobilità (art. 24, comma 7, d.lgs. n. 151 del 2001).
La normativa vigente ha riprodotto le previsioni dell’art. 17 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), che già menzionava le assenze dovute a malattia e infortunio e disciplinava le fattispecie del godimento dell’indennità di disoccupazione e del trattamento di integrazione salariale a carico della cassa integrazione guadagni, recependo anche gli interventi di questa Corte, che hanno via via esteso l’àmbito applicativo del beneficio dell’indennità di maternità.
L’art. 17, secondo comma, legge n. 1204 del 1971 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dapprima nella parte in cui non escludeva – dal computo dei sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro – l’assenza facoltativa non retribuita di cui la lavoratrice gestante avesse goduto in séguito a una precedente maternità (sentenza n. 106 del 1980) e il periodo di assenza per accudire minori affidatile in preadozione (sentenza n. 332 del 1988).
La declaratoria di illegittimità costituzionale ha poi investito lo stesso art. 17, secondo comma, nella parte cui negava l’indennità giornaliera di maternità alle lavoratrici con contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale su base annua, anche in relazione ai previsti successivi periodi di ripresa dell’attività lavorativa, allorché il periodo di astensione obbligatoria avesse avuto inizio più di sessanta giorni dopo la cessazione della precedente fase di lavoro (sentenza n. 132 del 1991).
5.– La disciplina censurata si colloca, come già anticipato, nell’evoluzione normativa, ripercorsa nei suoi tratti salienti.
I giudici a quibus muovono dalla premessa che l’elencazione dell’art. 24 d.lgs. n. 151 del 2001 sia tassativa e non possa essere integrata attraverso un’interpretazione adeguatrice. La legge, in particolare, non contemplerebbe il congedo straordinario che l’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 prevede a favore del coniuge convivente e della madre per l’assistenza a «soggetto con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104».
I rimettenti, chiamati a decidere le controversie promosse da lavoratrici gestanti che prestavano assistenza l’una al coniuge e l’altra al figlio disabile, chiedono di ampliare il catalogo delle deroghe previste dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 a tali specifiche ipotesi. Queste precise richieste delimitano il tema del decidere devoluto all’esame di questa Corte.
Il dubbio di costituzionalità è originato da una plausibile premessa ermeneutica.
La giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’attribuire carattere tassativo alle deroghe delineate dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 14 luglio 2017, n. 17524 e 24 marzo 2017, n. 7675), in coerenza con l’orientamento di questa Corte, che riconduce alla valutazione discrezionale del legislatore l’individuazione delle particolari fattispecie in cui non rileva una cesura superiore a sessanta giorni tra l’assenza della lavoratrice e la sospensione del suo rapporto di lavoro, da un lato, e l’inizio del periodo di congedo di maternità, dall’altro (sentenza n. 106 del 1980, punto 5. del Considerato in diritto).
6.– Il legislatore, pur nell’àmbito di tali scelte discrezionali, si propone di apprestare una tutela effettiva e coerente con il dettato costituzionale, che conferisce alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo» (art. 31, secondo comma, Cost.), e prescrive «una speciale adeguata protezione» (art. 37, primo comma, Cost.) per la madre e il bambino, accomunati in una prospettiva di tutela unitaria, in armonia con l’unicità della relazione esistenziale che li lega (sentenza n. 205 del 2015, punto 4. del Considerato in diritto).
La Carta fondamentale impone di proteggere la salute fisica della donna e del bambino e tutto il complesso rapporto che si instaura tra madre e figlio, con le «esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino» (sentenze n. 61 del 1991, punto 4. del Considerato in diritto, e n. 1 del 1987, punto 6. del Considerato in diritto), e di «impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie» (sentenza n. 423 del 1995, punto 4. del Considerato in diritto).
Nel definire i presupposti dell’indennità di maternità, «crocevia di molteplici valori costituzionalmente rilevanti» (sentenza n. 205 del 2015, punto 4. del Considerato in diritto), le scelte legislative, pur diversamente modulate con riferimento alle peculiari situazioni considerate, devono salvaguardare il fondamento della tutela costituzionale della maternità, che risiede nella maternità in quanto tale (sentenza n. 361 del 2000, punto 4.1. del Considerato in diritto) e vieta «una ingiustificata esclusione di ogni forma di tutela» (sentenza n. 405 del 2001, punto 2.1. del Considerato in diritto)
7.– La legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 deve dunque essere scrutinata alla luce dei princìpi richiamati.
7.1.– La legge riconosce il diritto a percepire l’indennità di maternità se si può ritenere, in ragione della brevità del tempo trascorso «tra la cessazione del lavoro e l’inizio del periodo di astensione obbligatoria» o in ragione di altri specifici elementi, che la lavoratrice sia «ancora inserita nel circuito del lavoro allorquando il periodo di astensione obbligatoria ha avuto inizio» (sentenza n. 132 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto), o se ricorrano esigenze preminenti di tutela, connesse a una precedente maternità (sentenza n. 106 del 1980) o alla cura di un minore affidato in preadozione (sentenza n. 332 del 1988).
La disposizione censurata non annovera tra le esigenze preminenti di tutela la necessaria assistenza del coniuge o del figlio disabili, in forza di un congedo straordinario concesso ai sensi dell’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001.
7.2.– Questa omissione è posta al centro delle censure mosse dai rimettenti.
Nel negare l’indennità di maternità alla madre che, all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, benefici da più di sessanta giorni di un congedo straordinario per l’assistenza al coniuge o al figlio in condizioni di grave disabilità, la disposizione censurata sacrifica in maniera arbitraria la speciale adeguata protezione che l’art. 37, primo comma, Cost. accorda alla madre lavoratrice e al bambino. Quest’ultima previsione specifica e rafforza la tutela della maternità e dell’infanzia già sancita in termini generali dall’art. 31, secondo comma, Cost.
L’esclusione del congedo straordinario si rivela irragionevole anche alla luce delle speciali previsioni dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001, che non comprendono nel computo dei sessanta giorni tra l’inizio dell’assenza e l’inizio dell’astensione obbligatoria il «periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità». La deroga prevista per tali congedi si ispira a un’esigenza preminente di tutela, cosicché l’indennità di maternità è dovuta anche quando la discontinuità del rapporto di lavoro superi i sessanta giorni.
Nelle due ipotesi di congedo straordinario per assistere il coniuge o un figlio in condizioni di grave disabilità emergono esigenze di tutela egualmente rilevanti.
Si tratta, infatti, di congedo straordinario subordinato a presupposti oggettivi e temporali rigorosi, non equiparabile ad altre assenze, giustificate da motivi personali e di famiglia, che incidono sul computo dei sessanta giorni previsti dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151 del 2001.
La giurisprudenza di questa Corte ha contribuito a scandire l’evoluzione del beneficio in esame e ad ampliarne l’àmbito applicativo. Dapprima esteso ad uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di gravità accertata, i cui genitori siano totalmente inabili (sentenza n. 233 del 2005), il congedo straordinario ha successivamente riguardato, in via prioritaria, il coniuge convivente (sentenza n. 158 del 2007) e, in difetto di altri soggetti idonei, il figlio convivente (sentenza n. 19 del 2009) e il parente o l’affine entro il terzo grado convivente (sentenza n. 203 del 2013).
L’estensione dei beneficiari del congedo straordinario risponde all’esigenza di garantire la cura del disabile nell’àmbito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene, allo scopo di tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione.
L’assetto prefigurato dal legislatore pregiudica la madre che si faccia carico anche dell’assistenza al coniuge o al figlio disabili, e attua un bilanciamento irragionevole nei confronti di due princìpi di primario rilievo costituzionale, la tutela della maternità e la tutela del disabile. Con l’imporre una scelta tra l’assistenza al disabile e la ripresa dell’attività lavorativa per godere delle provvidenze legate alla maternità, la disciplina censurata determina l’indebito sacrificio dell’una o dell’altra tutela. In tal modo essa entra in contrasto con il disegno costituzionale che tende a ravvicinare le due sfere di tutela e a farle convergere, nell’alveo della solidarietà familiare, oltre che nelle altre formazioni sociali.
La tutela della maternità e la tutela del disabile, difatti, pur con le peculiarità che le contraddistinguono, non sono antitetiche, proprio perché perseguono l’obiettivo comune di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.). Per questi particolari vincoli di solidarietà, connessi alla cura del coniuge o del figlio disabili con handicap in condizione di gravità accertata, si impone l’estensione della deroga sancita dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001.
8.– Dalle considerazioni svolte, discende la fondatezza delle proposte questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 31 e 37 Cost.
Si deve, pertanto, dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non prevede che, ai fini del computo dei sessanta giorni previsti dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151 del 2001, non si tenga conto del periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, legge n. 104 del 1992.
Restano assorbite le ulteriori censure del Tribunale di Torino, incentrate sulla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 della CDFUE.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2018.
2) - I rimettenti, chiamati a decidere le controversie promosse da lavoratrici gestanti che prestavano assistenza l’una al coniuge e l’altra al figlio disabile, chiedono di ampliare il catalogo delle deroghe previste dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 a tali specifiche ipotesi.
3) - Per questi particolari vincoli di solidarietà, connessi alla cura del coniuge o del figlio disabili con handicap in condizione di gravità accertata, si impone l’estensione della deroga sancita dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001.
La Corte Costituzionale con sentenza 158/2018 ha concluso così:
4) - dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
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Deposito 13/07/2018 (dalla 158 alla 158)
S. 158/2018 del 23/05/2018
Udienza Pubblica del 22/05/2018, Presidente: LATTANZI, Redattore: SCIARRA
Norme impugnate: Art. 24 del decreto legislativo 26/03/2001, n. 151.
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Oggetto: Maternità e infanzia - Indennità giornaliera di maternità - Condizioni - Previsione che tra la sospensione del rapporto di lavoro e l'inizio del periodo di congedo di maternità non siano decorsi più di sessanta giorni - Mancata previsione, tra le ipotesi di deroga al computo dei sessanta giorni, dell'assenza per congedo straordinario per l'assistenza al coniuge con grave disabilità.
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Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 130/2017; 47/2018
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SENTENZA N. 158
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 24 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promossi dal Tribunale ordinario di Torino e dal Tribunale ordinario di Trento, entrambi in funzione di giudice del lavoro, con ordinanze del 12 aprile e del 16 ottobre 2017, iscritte rispettivamente al n. 130 del registro ordinanze 2017 e al n. 47 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2017 e n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di costituzione di E.T.R. F.;
udito nella udienza pubblica del 22 maggio e nella camera di consiglio del 23 maggio 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
udito l’avvocato Margherita Giannico per E.T.R. F.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 12 aprile 2017, iscritta al n. 130 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 31, secondo comma, 37, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 2 e seguenti, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui non prevede che il trattamento di maternità sia erogato anche alla lavoratrice che abbia fruito di congedo ex art. 42, comma 5, d.lgs. 151/2001 e che al momento della richiesta non abbia ripreso a lavorare da più di 60 giorni».
1.1.– Il rimettente espone di dover decidere sul ricorso di una lavoratrice, beneficiaria da oltre un anno, a causa della necessità di assistere un coniuge gravemente disabile, del congedo straordinario retribuito previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, e interdetta in anticipo dal lavoro, a decorrere dal 1° luglio 2014, a causa di «gravi complicanze nella gestazione».
La ricorrente nel giudizio principale ha chiesto di condannare l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) a corrispondere «il trattamento economico di maternità per l’intera durata del congedo di maternità, compreso il periodo di interdizione anticipata, dal 1° luglio 2014 al 6 aprile 2015». Tale trattamento le sarebbe stato originariamente negato sul presupposto che l’interdizione anticipata del lavoro per gravidanza a rischio era «avvenuta senza effettiva ripresa dell’attività lavorativa da parte della ricorrente».
1.2.– In punto di rilevanza, il giudice a quo argomenta che la disposizione censurata impedisce di riconoscere l’indennità di maternità alla parte ricorrente, «in ragione della sua pregressa assenza dal lavoro per più di 60 giorni».
All’inizio della gravidanza la ricorrente beneficiava da più di sessanta giorni del congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001. Per questa specifica ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro la legge non prevede che sia comunque corrisposto il trattamento di maternità, come nelle altre fattispecie tassativamente previste dall’art. 24 d.lgs. n. 151 del 2001.
1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo muove dalla premessa che l’indennità di maternità miri a tutelare la salute della donna e del nascituro e a evitare che la lavoratrice possa essere pregiudicata a causa degli impegni connessi alla cura del bambino.
Per effetto della disposizione censurata, la lavoratrice in gravidanza sarebbe costretta a sacrificare l’assistenza del coniuge disabile per riprendere il rapporto di lavoro prima dell’inizio del periodo di astensione obbligatoria e rischierebbe di perdere il diritto all’indennità di maternità quando le «complicanze della gestazione non consentano la ripresa del servizio al termine di un congedo straordinario».
Tale disciplina sarebbe lesiva, per un verso, del «diritto del disabile di ricevere assistenza all’interno del proprio nucleo familiare» e, per altro verso, del «diritto della lavoratrice di prestare assistenza al proprio coniuge disabile», scegliendo liberamente il momento in cui diventare madre.
In particolare, nel negare l’indennità di maternità quando il rapporto di lavoro sia sospeso a causa della necessità di assistere il coniuge disabile, la disciplina censurata pregiudicherebbe la speciale protezione della maternità, sancita dagli artt. 31 e 37 Cost.
Il rimettente assume, inoltre, che la disposizione in esame contrasti con «il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.», in quanto nega l’indennità di maternità alla lavoratrice che non sia in servizio da oltre sessanta giorni per la necessità di assistere il coniuge disabile e determina una disparità di trattamento priva di «ogni giustificazione razionale» tra tale fattispecie, che non sarebbe «meritevole di una minor tutela», e le ipotesi di «assenze dovute a malattia, infortunio sul lavoro, congedo parentale o congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità o per accudire minori in affidamento, della mancata prestazione lavorativa in caso di contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, della collocazione in cassa integrazione». Nelle fattispecie da ultimo indicate, la legge prevede che l’indennità di maternità sia corrisposta anche alla lavoratrice assente dal servizio da più di sessanta giorni.
Il giudice a quo ravvisa anche la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 CDFUE, che enunciano «il principio di uguaglianza ed il divieto di discriminazioni e riconoscono il diritto ad un congedo di maternità retribuito ed il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale in caso di maternità». Il diniego dell’indennità di maternità, «dovuto alla duplice condizione della ricorrente, gestante con gravidanza a rischio e parente di un disabile bisognoso di cure», integrerebbe, difatti, una discriminazione a causa del sesso, «nella specifica declinazione della gravidanza/maternità come espressamente enunciato dall’art. 2, comma 2, lett. c della Direttiva 2006/54 e trasposto nell’ordinamento all’art. 2 bis del d.lgs. n. 198/06», e a causa della disabilità, in contrasto con le previsioni «della direttiva 2000/78, attuata col d.lgs. n. 216/03», e in particolare con «il divieto di discriminazione fondato sull’handicap», che si applica non solo al disabile, ma anche a chi gli presta assistenza.
Il rimettente, in ragione della tassatività delle ipotesi in cui il trattamento di maternità è corrisposto anche a prescindere da una sospensione del rapporto di lavoro per un periodo superiore a sessanta giorni, reputa impraticabile l’interpretazione adeguatrice e ravvisa la necessità di investire la Corte costituzionale per la soluzione del dubbio di costituzionalità.
Questa necessità non potrebbe dirsi superata dal fatto che il conflitto tra norme interne e norme dell’Unione europea di diretta applicazione possa essere risolto disapplicando la norma interna incompatibile. Ad avviso del rimettente, «il conflitto della norma interna con i principi della Costituzione riconosciuti anche dal diritto euro unitario può essere risolto solo attraverso un espresso sindacato di legittimità sull’atto legislativo ordinario da parte dell’Organo competente», e non già attraverso la disapplicazione delle norme di rango legislativo in ipotesi contrastanti con i precetti costituzionali.
2.– Con atto depositato il 24 ottobre 2017, si è costituita E.T.R. F., chiedendo di accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torino.
Il trattamento economico di maternità, al pari del congedo di maternità e del divieto di licenziamento, attuerebbe la speciale protezione che l’art. 37 Cost. assicura alla madre lavoratrice e al bambino, e il principio di eguaglianza sostanziale presidiato dall’art. 3, secondo comma, Cost.
Il sostegno economico alla lavoratrice madre perseguirebbe l’obiettivo di tutelare la salute della donna e del nascituro e di salvaguardare la libertà della lavoratrice di essere madre, senza limitazioni o condizionamenti derivanti dalla prospettiva della perdita del reddito lavorativo.
Il congedo straordinario regolato dall’art. 42 d.lgs. n. 151 del 2001 adempirebbe alla funzione di tutelare la salute psico-fisica del disabile e di promuoverne l’integrazione all’interno della famiglia, che svolge un fondamentale ruolo di assistenza. Tale fattispecie di congedo straordinario meriterebbe, ai fini del trattamento economico di maternità, la medesima tutela riconosciuta nelle altre ipotesi, in cui la legge concede l’indennità di maternità anche a lavoratrici che non siano in servizio da più di sessanta giorni.
La disposizione censurata, nel negare l’indennità di maternità alla madre lavoratrice che dapprima sia stata assente dal lavoro per assistere il coniuge disabile e poi sia stata collocata in interdizione anticipata dal lavoro a causa di gravi complicanze nella gestazione, vanificherebbe la speciale protezione accordata dagli artt. 31 e 37 Cost.
Tale disciplina sarebbe irragionevole e lesiva del principio di non discriminazione in ragione del sesso e della disabilità, enunciato dagli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 CDFUE.
3.– Con ordinanza del 16 ottobre 2017, iscritta al n. 47 del registro ordinanze 2018, il Tribunale ordinario di Trento, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 31 e 37, primo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001, «nella parte in cui […] non annovera anche il congedo straordinario ex art. 42 co. 5 e co. 5ter d.lgs. 151/2001 (spettante al genitore di soggetto affetto da handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4 co. 1 L. 5.2.1992, n. 104) tra le fattispecie di assenza o congedo o mancata prestazione lavorativa, di cui non si tiene conto ai fini del computo dell’intervallo, tra l’inizio dell’assenza o della sospensione o della disoccupazione e l’inizio del periodo di congedo di maternità, di sessanta giorni, il cui superamento preclude, ai sensi dell’art. 24 co. 2 d.lgs. 151/2001, l’attribuzione dell’indennità giornaliera di maternità ex art. 22 co. 1 d.lgs. 151/2001».
3.1.– Il rimettente riferisce di dover decidere sul ricorso di una lavoratrice che, dal 4 aprile 2016, fruisce di un congedo straordinario per l’assistenza di un figlio in condizione di disabilità grave e dal maggio 2016 ha iniziato una nuova gravidanza.
La domanda di indennità giornaliera di maternità è stata respinta dall’INPS, in quanto erano trascorsi più di sessanta giorni dall’inizio del congedo straordinario.
3.2.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che, in virtù della disposizione censurata, il ricorso dovrebbe essere rigettato, in quanto, all’inizio del periodo di congedo di maternità (23 agosto 2016), il rapporto di lavoro era sospeso da più di sessanta giorni. Già dal 4 aprile 2016 la parte ricorrente godeva del congedo straordinario per assistere il figlio minore gravemente disabile e, dal 23 agosto 2016, in forza di provvedimento dell’azienda sanitaria, ha dovuto astenersi in anticipo dal lavoro.
Il rimettente puntualizza, sulla scorta delle affermazioni della sentenza 24 marzo 2017, n. 7675, della Corte di cassazione, sezione lavoro, che i periodi di assenza volontaria dal lavoro a titolo di aspettativa, congedo o permesso senza retribuzione non sono esclusi dal computo dei sessanta giorni che precedono l’inizio del congedo di maternità.
3.3.– In merito alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, il giudice a quo muove dal presupposto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il fondamento della protezione sia ricondotto alla maternità in quanto tale e non più allo svolgimento di un’attività lavorativa subordinata.
L’art. 24 d.lgs. n. 151 del 2011 prevede che non si debba tener conto, ai fini del computo dei sessanta giorni di sospensione del rapporto di lavoro, delle assenze dovute a malattia e a infortuni sul lavoro, del periodo di congedo parentale fruito per una precedente maternità, del congedo per la malattia del figlio, del periodo di assenza per accudire minori in affidamento, del periodo di mancata prestazione lavorativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.
Il legislatore ha dunque recepito le indicazioni della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, secondo comma, della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), nella parte in cui non escludeva dal computo dei sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro l’assenza facoltativa non retribuita per una precedente maternità (si menziona la sentenza n. 106 del 1980) e il periodo di assenza per accudire minori affidati in preadozione (il richiamo è alla sentenza n. 332 del 1988).
Per altro verso, il legislatore ha scelto di escludere dal computo dei sessanta giorni anche il congedo per la malattia del figlio e l’assenza prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale.
Ad avviso del rimettente, l’assetto delineato dal legislatore si pone in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, senza alcuna giustificazione ragionevole, pur trattandosi di situazioni «espressive di esigenze di tutela assai simili», annovera il congedo per la malattia del figlio ex art. 47 d.lgs. n. 151 del 2001 ed esclude, per contro, il congedo straordinario che spetta al genitore di un figlio con handicap in situazione di gravità accertata «tra le fattispecie di assenza o congedo o mancata prestazione lavorativa, di cui non si tiene conto ai fini del computo dell’intervallo, tra l’inizio della assenza o della sospensione o della disoccupazione e l’inizio del periodo del congedo di maternità, di sessanta giorni, il cui superamento preclude, ai sensi dell’art. 24 co. 2 d.lgs. 151/2001, l’attribuzione dell’indennità giornaliera di maternità ex art. 22 co. 1 d.lgs. 151/2001».
Sarebbero violati anche l’art. 31 e l’art. 37, primo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata, nell’escludere dal godimento dell’indennità di maternità la donna che da più di sessanta giorni benefici del congedo straordinario per assistere un figlio gravemente disabile, contrasterebbe con i princìpi di tutela della maternità e comprometterebbe la speciale protezione della madre e del bambino, che l’istituto dell’indennità di maternità concorre a garantire.
4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non ha spiegato intervento.
5.– All’udienza del 22 maggio 2018, E.T.R. F., unica parte costituita, ha ribadito le conclusioni rassegnate nell’atto di costituzione.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Torino e il Tribunale ordinario di Trento, entrambi in funzione di giudice del lavoro, dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 24 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non annovera il congedo previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 per l’assistenza, rispettivamente, al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), tra i periodi di cui non si tiene conto ai fini del computo di quell’arco temporale di sessanta giorni tra l’inizio della sospensione o dell’assenza e l’inizio del periodo di congedo di maternità, superato il quale l’attribuzione dell’indennità di maternità risulta preclusa.
Entrambi i rimettenti, dopo aver posto in risalto la specifica funzione dell’indennità di maternità, volta a tutelare la salute della donna e del nascituro e a evitare ogni pregiudizio connesso alla libera scelta della maternità, argomentano che il diniego dell’indennità di maternità, quando siano trascorsi più di sessanta giorni tra l’inizio della fruizione del congedo straordinario per l’assistenza al coniuge o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata, e l’inizio del periodo di congedo di maternità, vanifica la speciale protezione della maternità garantita dalla Carta fondamentale (artt. 31 e 37 della Costituzione).
Il Tribunale di Torino, in particolare, rileva che la disciplina censurata «pregiudica il diritto del disabile di ricevere assistenza all’interno del proprio nucleo familiare ed il diritto della lavoratrice di prestare assistenza al proprio coniuge disabile (laddove impone a quest’ultima, qualora insorga uno stato di gravidanza, di sacrificare anzitempo tale assistenza per riprendere il rapporto di lavoro prima dell’astensione obbligatoria)» e, in pari tempo, sacrifica «la libertà della lavoratrice di scegliere quando diventare madre», esponendola al rischio di perdere il diritto all’indennità di maternità quando le complicazioni della gestazione impediscano «la ripresa del servizio al termine del congedo straordinario».
La disciplina censurata sarebbe lesiva, altresì, dell’art. 3 Cost., in quanto, in difetto di ogni ragionevole giustificazione, riserverebbe un trattamento deteriore alla lavoratrice costretta ad assentarsi per assistere il coniuge o un figlio disabili.
Il Tribunale di Torino, in particolare, denuncia la violazione del «principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.». La lavoratrice che si dedica all’assistenza al coniuge disabile non sarebbe «meritevole di una minor tutela» rispetto alla lavoratrice assente per «malattia, infortunio sul lavoro, congedo parentale o congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità o per accudire minori in affidamento» o rispetto all’ipotesi «della mancata prestazione lavorativa in caso di contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, della collocazione in cassa integrazione».
Il Tribunale di Trento ravvisa il contrasto con il «principio di eguaglianza formale ex art. 3 co. 1 Cost.» e indica come specifico termine di raffronto la fattispecie «della lavoratrice madre che si trova in congedo ex art. 47 segg. d.lgs. 151/2001 per assistere il figlio ammalato» e perciò beneficia dell’esclusione di tale congedo dal computo dei sessanta giorni previsti dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151 del 2001.
Il Tribunale di Torino prospetta anche il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007. Il diniego dell’indennità di maternità, «dovuto alla duplice condizione della ricorrente, gestante con gravidanza a rischio e parente di un disabile bisognoso di cure», contravverrebbe al divieto di discriminazione con riguardo al sesso, «nella specifica declinazione della gravidanza/maternità», e alla disabilità, divieto che tutela anche chi presti al disabile la necessaria assistenza.
2.– Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni in larga parte coincidenti, relative alla disciplina del computo dei sessanta giorni tra l’inizio del congedo straordinario e l’inizio del periodo di congedo di maternità. I relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione.
3.– Le questioni sono fondate, nei termini e per i motivi di séguito esposti.
4.– Il testo unico del 2001 appresta una disciplina articolata delle diverse ipotesi di sospensione e di interruzione dell’attività lavorativa, anteriori all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, e delle fattispecie in cui l’indennità di maternità è concessa anche quando sia trascorso un periodo superiore a sessanta giorni tra l’assenza e la sospensione e l’inizio dell’astensione obbligatoria. Su tale disciplina, che è utile ripercorrere nella sua evoluzione diacronica, si è innestata la giurisprudenza di questa Corte, come si vedrà in seguito.
La legge, in particolare, accorda l’indennità giornaliera di maternità anche alle «lavoratrici gestanti che si trovino, all’inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione, ovvero, disoccupate», purché «tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni» (art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151 del 2001).
L’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 esclude dal computo dei sessanta giorni le «assenze dovute a malattia o ad infortunio sul lavoro, accertate e riconosciute dagli enti gestori delle relative assicurazioni sociali», il «periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità», il «periodo di assenza fruito per accudire minori in affidamento» e il «periodo di mancata prestazione lavorativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale».
Una disciplina peculiare è dettata a favore della lavoratrice che, all’inizio del periodo di congedo di maternità, fruisca dell’indennità di disoccupazione (art. 24, commi 4 e 5, d.lgs. n. 151 del 2001), del trattamento di integrazione salariale a carico della cassa integrazione guadagni (art. 24, comma 6, d.lgs. n. 151 del 2001) o dell’indennità di mobilità (art. 24, comma 7, d.lgs. n. 151 del 2001).
La normativa vigente ha riprodotto le previsioni dell’art. 17 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), che già menzionava le assenze dovute a malattia e infortunio e disciplinava le fattispecie del godimento dell’indennità di disoccupazione e del trattamento di integrazione salariale a carico della cassa integrazione guadagni, recependo anche gli interventi di questa Corte, che hanno via via esteso l’àmbito applicativo del beneficio dell’indennità di maternità.
L’art. 17, secondo comma, legge n. 1204 del 1971 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dapprima nella parte in cui non escludeva – dal computo dei sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro – l’assenza facoltativa non retribuita di cui la lavoratrice gestante avesse goduto in séguito a una precedente maternità (sentenza n. 106 del 1980) e il periodo di assenza per accudire minori affidatile in preadozione (sentenza n. 332 del 1988).
La declaratoria di illegittimità costituzionale ha poi investito lo stesso art. 17, secondo comma, nella parte cui negava l’indennità giornaliera di maternità alle lavoratrici con contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale su base annua, anche in relazione ai previsti successivi periodi di ripresa dell’attività lavorativa, allorché il periodo di astensione obbligatoria avesse avuto inizio più di sessanta giorni dopo la cessazione della precedente fase di lavoro (sentenza n. 132 del 1991).
5.– La disciplina censurata si colloca, come già anticipato, nell’evoluzione normativa, ripercorsa nei suoi tratti salienti.
I giudici a quibus muovono dalla premessa che l’elencazione dell’art. 24 d.lgs. n. 151 del 2001 sia tassativa e non possa essere integrata attraverso un’interpretazione adeguatrice. La legge, in particolare, non contemplerebbe il congedo straordinario che l’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001 prevede a favore del coniuge convivente e della madre per l’assistenza a «soggetto con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104».
I rimettenti, chiamati a decidere le controversie promosse da lavoratrici gestanti che prestavano assistenza l’una al coniuge e l’altra al figlio disabile, chiedono di ampliare il catalogo delle deroghe previste dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 a tali specifiche ipotesi. Queste precise richieste delimitano il tema del decidere devoluto all’esame di questa Corte.
Il dubbio di costituzionalità è originato da una plausibile premessa ermeneutica.
La giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’attribuire carattere tassativo alle deroghe delineate dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenze 14 luglio 2017, n. 17524 e 24 marzo 2017, n. 7675), in coerenza con l’orientamento di questa Corte, che riconduce alla valutazione discrezionale del legislatore l’individuazione delle particolari fattispecie in cui non rileva una cesura superiore a sessanta giorni tra l’assenza della lavoratrice e la sospensione del suo rapporto di lavoro, da un lato, e l’inizio del periodo di congedo di maternità, dall’altro (sentenza n. 106 del 1980, punto 5. del Considerato in diritto).
6.– Il legislatore, pur nell’àmbito di tali scelte discrezionali, si propone di apprestare una tutela effettiva e coerente con il dettato costituzionale, che conferisce alla Repubblica il compito di proteggere la maternità e l’infanzia, «favorendo gli istituti necessari a tale scopo» (art. 31, secondo comma, Cost.), e prescrive «una speciale adeguata protezione» (art. 37, primo comma, Cost.) per la madre e il bambino, accomunati in una prospettiva di tutela unitaria, in armonia con l’unicità della relazione esistenziale che li lega (sentenza n. 205 del 2015, punto 4. del Considerato in diritto).
La Carta fondamentale impone di proteggere la salute fisica della donna e del bambino e tutto il complesso rapporto che si instaura tra madre e figlio, con le «esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino» (sentenze n. 61 del 1991, punto 4. del Considerato in diritto, e n. 1 del 1987, punto 6. del Considerato in diritto), e di «impedire che possano, dalla maternità e dagli impegni connessi alla cura del bambino, derivare conseguenze negative e discriminatorie» (sentenza n. 423 del 1995, punto 4. del Considerato in diritto).
Nel definire i presupposti dell’indennità di maternità, «crocevia di molteplici valori costituzionalmente rilevanti» (sentenza n. 205 del 2015, punto 4. del Considerato in diritto), le scelte legislative, pur diversamente modulate con riferimento alle peculiari situazioni considerate, devono salvaguardare il fondamento della tutela costituzionale della maternità, che risiede nella maternità in quanto tale (sentenza n. 361 del 2000, punto 4.1. del Considerato in diritto) e vieta «una ingiustificata esclusione di ogni forma di tutela» (sentenza n. 405 del 2001, punto 2.1. del Considerato in diritto)
7.– La legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001 deve dunque essere scrutinata alla luce dei princìpi richiamati.
7.1.– La legge riconosce il diritto a percepire l’indennità di maternità se si può ritenere, in ragione della brevità del tempo trascorso «tra la cessazione del lavoro e l’inizio del periodo di astensione obbligatoria» o in ragione di altri specifici elementi, che la lavoratrice sia «ancora inserita nel circuito del lavoro allorquando il periodo di astensione obbligatoria ha avuto inizio» (sentenza n. 132 del 1991, punto 2. del Considerato in diritto), o se ricorrano esigenze preminenti di tutela, connesse a una precedente maternità (sentenza n. 106 del 1980) o alla cura di un minore affidato in preadozione (sentenza n. 332 del 1988).
La disposizione censurata non annovera tra le esigenze preminenti di tutela la necessaria assistenza del coniuge o del figlio disabili, in forza di un congedo straordinario concesso ai sensi dell’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001.
7.2.– Questa omissione è posta al centro delle censure mosse dai rimettenti.
Nel negare l’indennità di maternità alla madre che, all’inizio del periodo di astensione obbligatoria, benefici da più di sessanta giorni di un congedo straordinario per l’assistenza al coniuge o al figlio in condizioni di grave disabilità, la disposizione censurata sacrifica in maniera arbitraria la speciale adeguata protezione che l’art. 37, primo comma, Cost. accorda alla madre lavoratrice e al bambino. Quest’ultima previsione specifica e rafforza la tutela della maternità e dell’infanzia già sancita in termini generali dall’art. 31, secondo comma, Cost.
L’esclusione del congedo straordinario si rivela irragionevole anche alla luce delle speciali previsioni dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001, che non comprendono nel computo dei sessanta giorni tra l’inizio dell’assenza e l’inizio dell’astensione obbligatoria il «periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità». La deroga prevista per tali congedi si ispira a un’esigenza preminente di tutela, cosicché l’indennità di maternità è dovuta anche quando la discontinuità del rapporto di lavoro superi i sessanta giorni.
Nelle due ipotesi di congedo straordinario per assistere il coniuge o un figlio in condizioni di grave disabilità emergono esigenze di tutela egualmente rilevanti.
Si tratta, infatti, di congedo straordinario subordinato a presupposti oggettivi e temporali rigorosi, non equiparabile ad altre assenze, giustificate da motivi personali e di famiglia, che incidono sul computo dei sessanta giorni previsti dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151 del 2001.
La giurisprudenza di questa Corte ha contribuito a scandire l’evoluzione del beneficio in esame e ad ampliarne l’àmbito applicativo. Dapprima esteso ad uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con soggetto con handicap in situazione di gravità accertata, i cui genitori siano totalmente inabili (sentenza n. 233 del 2005), il congedo straordinario ha successivamente riguardato, in via prioritaria, il coniuge convivente (sentenza n. 158 del 2007) e, in difetto di altri soggetti idonei, il figlio convivente (sentenza n. 19 del 2009) e il parente o l’affine entro il terzo grado convivente (sentenza n. 203 del 2013).
L’estensione dei beneficiari del congedo straordinario risponde all’esigenza di garantire la cura del disabile nell’àmbito della famiglia e della comunità di vita cui appartiene, allo scopo di tutelarne nel modo più efficace la salute, di preservarne la continuità delle relazioni e di promuoverne una piena integrazione.
L’assetto prefigurato dal legislatore pregiudica la madre che si faccia carico anche dell’assistenza al coniuge o al figlio disabili, e attua un bilanciamento irragionevole nei confronti di due princìpi di primario rilievo costituzionale, la tutela della maternità e la tutela del disabile. Con l’imporre una scelta tra l’assistenza al disabile e la ripresa dell’attività lavorativa per godere delle provvidenze legate alla maternità, la disciplina censurata determina l’indebito sacrificio dell’una o dell’altra tutela. In tal modo essa entra in contrasto con il disegno costituzionale che tende a ravvicinare le due sfere di tutela e a farle convergere, nell’alveo della solidarietà familiare, oltre che nelle altre formazioni sociali.
La tutela della maternità e la tutela del disabile, difatti, pur con le peculiarità che le contraddistinguono, non sono antitetiche, proprio perché perseguono l’obiettivo comune di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.). Per questi particolari vincoli di solidarietà, connessi alla cura del coniuge o del figlio disabili con handicap in condizione di gravità accertata, si impone l’estensione della deroga sancita dall’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001.
8.– Dalle considerazioni svolte, discende la fondatezza delle proposte questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 31 e 37 Cost.
Si deve, pertanto, dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non prevede che, ai fini del computo dei sessanta giorni previsti dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151 del 2001, non si tenga conto del periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, legge n. 104 del 1992.
Restano assorbite le ulteriori censure del Tribunale di Torino, incentrate sulla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 23, 33 e 34 della CDFUE.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151 del 2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 maggio 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2018.
Re: Tutela delle lavoratrici madri
Tutto bene ciò che finisce bene.
1) - è stata dimessa dal corso di formazione per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria
Il TAR Lazio precisa:
2) - Che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 6 marzo 2014, resa nella causa C-595/12, ha accertato che la normativa interna applicata si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea, determinando una violazione dei principi di pari opportunità e trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro;
3) - Che, nelle more della decisione di merito del ricorso, l’Amministrazione resistente, con provvedimento del 2 ottobre 2018, ha sciolto la riserva sulla riammissione in servizio della ricorrente, confermando, a titolo definitivo, l’assunzione in ruolo della stessa;
Cmq. leggete il tutto qui sotto.
-------------------------------------
SENTENZA sede di ROMA, sezione SEZIONE 1Q, numero provv.: 201904725 ,
Pubblicato il 10/04/2019
N. 04725/2019 REG. PROV. COLL.
N. 01412/2012 REG. RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Quater)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1412 del 2012, proposto da
Loredana N.., rappresentata e difesa dall'avvocato Ernesto Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, p.zza San Lorenzo in Lucina, 26;
contro
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del decreto in data 4 gennaio 2012 con cui il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria riconosceva alla ricorrente - già in astensione obbligatoria per maternità sino al 7 marzo 2012 – il diritto alla retribuzione solo fino al compimento del 30° giorno di assenza dal terzo corso di formazione per vice commissario del Corpo di Polizia Penitenziaria, preannunziando l'applicazione del disposto di cui all'art. 10 del D.lgs. 146/2000 e, con motivi aggiunti, per l’annullamento del decreto del Capo Dipartimento in data 9 marzo 2012 con il quale la stessa era stata dimessa dal suddetto corso di formazione ai sensi del citato art. 10, comma 2, del D.lgs. n. 146/2000;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 aprile 2019 il dott. Antonio Andolfi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Premesso che, con il ricorso introduttivo, l’interessata ha impugnato il decreto del 4 gennaio 2012 con cui le è stato riconosciuto il diritto alla retribuzione solo sino al compimento del 30º giorno di assenza dal corso di formazione per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria;
Che, con il ricorso per motivi aggiunti, l’interessata ha impugnato il successivo decreto del 9 marzo 2012 con cui è stata dimessa dal corso di formazione per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria, ai sensi dell’articolo 10, comma 2, del decreto legislativo numero 146 del 2000, avendo superato, essendo in astensione dal servizio per maternità, il periodo massimo di assenza dal corso;
Considerato che l’interessata è stata riammessa al corso in esecuzione dell’ordinanza cautelare numero 1450 del 20 aprile 2012;
Che, con ordinanza numero 256 del 7 dicembre 2012, il Tribunale amministrativo regionale ha disposto il rinvio pregiudiziale della causa alla Corte di giustizia dell’Unione europea, al fine di accertare la compatibilità della norma nazionale applicata dall’Amministrazione resistente con il diritto dell’Unione europea, con specifico riferimento alla direttiva 2006-54;
Che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 6 marzo 2014, resa nella causa C-595/12, ha accertato che la normativa interna applicata si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea, determinando una violazione dei principi di pari opportunità e trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro;
Che, nelle more della decisione di merito del ricorso, l’Amministrazione resistente, con provvedimento del 2 ottobre 2018, ha sciolto la riserva sulla riammissione in servizio della ricorrente, confermando, a titolo definitivo, l’assunzione in ruolo della stessa;
Rilevato che la difesa di parte ricorrente riconosce la cessazione della materia del contendere, insistendo per le spese processuali;
Ritenuta cessata la materia del contendere, essendo stata pienamente soddisfatta la pretesa dedotta in giudizio dalla ricorrente che ha ottenuto, mediante il provvedimento amministrativo del 2 ottobre 2018, la riammissione in servizio a pieno titolo;
Ritenuto, infine, di poter disporre la compensazione tra le parti delle spese processuali, tenuto conto della novità della questione giuridica dibattuta che ha richiesto la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea sulla incompatibilità con il diritto dell’Unione europea della norma nazionale applicata dall’Amministrazione resistente;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara cessata la materia del contendere.
Compensa le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 aprile 2019 con l'intervento dei magistrati:
Salvatore Mezzacapo, Presidente
Mariangela Caminiti, Consigliere
Antonio Andolfi, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Antonio Andolfi Salvatore Mezzacapo
IL SEGRETARIO
1) - è stata dimessa dal corso di formazione per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria
Il TAR Lazio precisa:
2) - Che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 6 marzo 2014, resa nella causa C-595/12, ha accertato che la normativa interna applicata si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea, determinando una violazione dei principi di pari opportunità e trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro;
3) - Che, nelle more della decisione di merito del ricorso, l’Amministrazione resistente, con provvedimento del 2 ottobre 2018, ha sciolto la riserva sulla riammissione in servizio della ricorrente, confermando, a titolo definitivo, l’assunzione in ruolo della stessa;
Cmq. leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA sede di ROMA, sezione SEZIONE 1Q, numero provv.: 201904725 ,
Pubblicato il 10/04/2019
N. 04725/2019 REG. PROV. COLL.
N. 01412/2012 REG. RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Quater)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1412 del 2012, proposto da
Loredana N.., rappresentata e difesa dall'avvocato Ernesto Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, p.zza San Lorenzo in Lucina, 26;
contro
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del decreto in data 4 gennaio 2012 con cui il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria riconosceva alla ricorrente - già in astensione obbligatoria per maternità sino al 7 marzo 2012 – il diritto alla retribuzione solo fino al compimento del 30° giorno di assenza dal terzo corso di formazione per vice commissario del Corpo di Polizia Penitenziaria, preannunziando l'applicazione del disposto di cui all'art. 10 del D.lgs. 146/2000 e, con motivi aggiunti, per l’annullamento del decreto del Capo Dipartimento in data 9 marzo 2012 con il quale la stessa era stata dimessa dal suddetto corso di formazione ai sensi del citato art. 10, comma 2, del D.lgs. n. 146/2000;
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 aprile 2019 il dott. Antonio Andolfi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Premesso che, con il ricorso introduttivo, l’interessata ha impugnato il decreto del 4 gennaio 2012 con cui le è stato riconosciuto il diritto alla retribuzione solo sino al compimento del 30º giorno di assenza dal corso di formazione per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria;
Che, con il ricorso per motivi aggiunti, l’interessata ha impugnato il successivo decreto del 9 marzo 2012 con cui è stata dimessa dal corso di formazione per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria, ai sensi dell’articolo 10, comma 2, del decreto legislativo numero 146 del 2000, avendo superato, essendo in astensione dal servizio per maternità, il periodo massimo di assenza dal corso;
Considerato che l’interessata è stata riammessa al corso in esecuzione dell’ordinanza cautelare numero 1450 del 20 aprile 2012;
Che, con ordinanza numero 256 del 7 dicembre 2012, il Tribunale amministrativo regionale ha disposto il rinvio pregiudiziale della causa alla Corte di giustizia dell’Unione europea, al fine di accertare la compatibilità della norma nazionale applicata dall’Amministrazione resistente con il diritto dell’Unione europea, con specifico riferimento alla direttiva 2006-54;
Che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 6 marzo 2014, resa nella causa C-595/12, ha accertato che la normativa interna applicata si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea, determinando una violazione dei principi di pari opportunità e trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro;
Che, nelle more della decisione di merito del ricorso, l’Amministrazione resistente, con provvedimento del 2 ottobre 2018, ha sciolto la riserva sulla riammissione in servizio della ricorrente, confermando, a titolo definitivo, l’assunzione in ruolo della stessa;
Rilevato che la difesa di parte ricorrente riconosce la cessazione della materia del contendere, insistendo per le spese processuali;
Ritenuta cessata la materia del contendere, essendo stata pienamente soddisfatta la pretesa dedotta in giudizio dalla ricorrente che ha ottenuto, mediante il provvedimento amministrativo del 2 ottobre 2018, la riammissione in servizio a pieno titolo;
Ritenuto, infine, di poter disporre la compensazione tra le parti delle spese processuali, tenuto conto della novità della questione giuridica dibattuta che ha richiesto la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea sulla incompatibilità con il diritto dell’Unione europea della norma nazionale applicata dall’Amministrazione resistente;
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara cessata la materia del contendere.
Compensa le spese.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 aprile 2019 con l'intervento dei magistrati:
Salvatore Mezzacapo, Presidente
Mariangela Caminiti, Consigliere
Antonio Andolfi, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Antonio Andolfi Salvatore Mezzacapo
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