Scuola, i Prof di relig. potranno contrib. al credito

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Scuola, i Prof di relig. potranno contrib. al credito

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Anche i docenti di religione potranno attribuire un credito scolastico agli studenti. Lo ha stabilito il Consiglio di Stato, che ha così accolto il ricorso del ministero dell’Istruzione.
Secondo il Consiglio di Stato, se l’alunno decide di avvalersi di questo insegnamento, la materia diventa per lo studente obbligatoria e concorre quindi all’attribuzione del credito scolastico.
Il Consiglio di Stato ha in questo modo riformato la sentenza del Tar della scorsa estate: il tribunale amministrativo del Lazio, infatti, aveva escluso i docenti di religione da quelli che potevano assegnare crediti agli studenti in vista della valutazione del diploma.
Ecco la sentenza:

N. 02749/2010 REG.DEC.
N. 07324/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
Sul ricorso numero di registro generale 7324 del 2009, proposto da:
Ministero dell'Istruzione dell'Universita' e della Ricerca, Presidenza del Consiglio dei Ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliati per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;
contro
Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni, Comitato Insegnanti Evangelici Italiani (Ciei), Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Comitato Torinese per la Laicità della Scuola, Crides - Centro Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Nella Scuola, Associazione Democrazia Laica, Associazione Scuola Università Ricerca Assur, Associazione Nazionale del Libero Pensiero Giordano Bruno, Uaar Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni, Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno, Federazione delle Chiese Pentecostali, Alleanza Evangelica Italiana, Associazione per la Scuola della Repubblica, Comitato Bolognese Scuola e Costituzione, Cidi - Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti, Ucei - Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Mce Movimento di Cooperazione Educativa, Fnism Federazione Nazionale Insegnanti, Cgd Coordinamento Genitori Democratici, Arianna Tassinari, Chiesa Evangelica Valdese, rappresentati e difesi dagli avv. Fausto Buccellato, Massimo Luciani, con domicilio eletto presso Fausto Buccellato in Roma, viale Angelico 45; Tavola Valdese, Associazione Xxxi Ottobre Per Una Scuola Laica e Pluralista (Promossa Dagli Evangelici Italiani), Chiesa Evangelica Luterana in Italia, Unione Cristiana Evangelica Battista D'Italia, Filippo Bagni, Ruben Segre, Alessandro Fusaroli; Organizzazione Sindacale Cobas Scuola, rappresentato e difeso dall'avv. Arturo Salerni, con domicilio eletto presso Arturo Salerni in Roma, viale Carso, 23; Conferenza Episcopale Italiana, rappresentato e difeso dagli avv. Alessandro Gigli, Franco Gaetano Scoca, con domicilio eletto presso Franco Gaetano Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello 55;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO - ROMA: SEZIONE III QUA n. 07076/2009, resa tra le parti, concernente D.M. "ISTRUZIONI E MODALITÀ PER LO SVOLGIMENTO DEGLI ESAMI DI STATO" - MATERIA RELIGIONE CATTOLICA.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni e di Comitato Insegnanti Evangelici Italiani (Ciei) e di Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e di Comitato Torinese per la Laicità della Scuola e di Crides - Centro Romano di Iniziativa per la Difesa dei Diritti Nella Scuola e di Associazione Democrazia Laica e di Associazione Scuola Università Ricerca Assur e di Associazione Nazionale del Libero Pensiero Giordano Bruno e di Uaar Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti e di Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni e di Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno e di Federazione delle Chiese Pentecostali e di Alleanza Evangelica Italiana e di Associazione per la Scuola della Repubblica e di Comitato Bolognese Scuola e Costituzione e di Cidi - Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti e di Ucei - Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e di Mce Movimento di Cooperazione Educativa e di Fnism Federazione Nazionale Insegnanti e di Cgd Coordinamento Genitori Democratici e di Organizzazione Sindacale Cobas Scuola e di Conferenza Episcopale Italiana e di Arianna Tassinari e di Chiesa Evangelica Valdese;
Visto l'atto di costituzione in giudizio ed il ricorso incidentale proposto dal ricorrente incidentale Cei - Conferenza Episcopale Italiana, rappresentato e difeso dagli avv. Alessandro Gigli, Franco Gaetano Scoca, con domicilio eletto presso Franco Gaetano Scoca in Roma, via Giovanni Paisiello 55;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 marzo 2010 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati l'Avv. dello Stato Volpe, e gli Avv.ti Luciani, Scoca e Damizia per delega di Salerni;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Con i ricorsi di primo grado, la Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni, altre associazioni laiche e atee, altre istituzioni cristiane ed alcuni studenti iscritti all’ultimo anno di istruzione superiore che avevano scelto di non avvalersi né della religione cattolica, né di insegnamenti sostitutivi hanno chiesto l'annullamento delle ordinanze relative alla disciplina dell’attribuzione dei crediti scolastici per gli esami di maturità per l'anno scolastico 2006-2007 e 2007-2008 nella parte in cui si prevede:
- che i docenti che svolgono insegnamento della religione cattolica partecipino a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernente l'attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento; che analoga posizione completa, sia riconosciuta in sede di attribuzione del credito scolastico ai docenti delle attività didattiche formative alternative all'insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attività medesime (all’art. 8, punto 13);
- che l'attribuzione al punteggio, nell'ambito della banda di oscillazione, tenga conto, oltre che degli elementi di cui all’articolo 14 comma 2 del d.p.r. 323 del 23 luglio 1998, del giudizio formulato dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l'interesse col quale l’alunno ha seguito l'insegnamento della religione cattolica ed il profitto che ne ha tratto; ovvero le altre attività, ivi compreso lo studio individuale, che si sia tradotto in un arricchimento culturale disciplinare specifico, purché certificato valutato alla scuola secondo modalità deliberate dalla istituzione medesima;
- che gli alunni che abbiano scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare alle iniziative formative in ambito scolastico potessero far valere tali attività esclusivamente come crediti formativi soltanto in presenza dei requisiti previsti dal D. M. 49 del 24 febbraio 2000 (art. 8, punto 14).
2. Il T.a.r. ha accolto i ricorsi rilevando che le ordinanze impugnate si ponessero in contrasto con il principio di laicità dello Stato, come definito dalle sentenze costituzionali n. 203/1989 e n 334/1996).
Secondo il primo giudice, in particolare, “un insegnamento di carattere etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico, proprio per il rischio di valutazioni di valore proporzionalmente ancorate alla misura della fede stessa”.
Sotto tale profilo, sarebbe dunque evidente “l’irragionevolezza dell’ordinanza che, nel consentire l’attribuzione di vantaggi curriculari, inevitabilmente collega in concreto tale utilità alla misura della adesione ai valori dell’insegnamento cattolico impartito”. Tale circostanza, del resto, prosegue il T.a.r. riguarderebbe gli stessi alunni che hanno aderito al’insegnamento della religione con un consapevole convincimento, ma il cui profitto potrebbe essere condizionato da dubbi teologici sui misteri della propria Fede.
La sentenza di primo grado osserva ancora che “per comune esperienza di vita, nelle nostre scuole (metropolitane e non) le c.d. materie alternativa – concernendo comunque una minoranza della popolazione scolastica – spesso o non vengono attivate affatto per mancanza di risorse ovvero nella realtà delle cose si riducono al semplice “parcheggio” degli alunni in qualche aula. […]. Il che in concreto comporta che le famiglie laiche o degli alunni stranieri appartenenti ad altre confessioni siano di fatto costretti o ad accettare cinicamente e subdolamente l’insegnamento di una religione in cui non credono; ovvero a subire un ulteriore discriminazione di carattere religioso, che si accompagna e si aggiunge spesso a quelle di carattere razziale, economico, linguistico e culturale”. Da qui la conclusione, secondo cui il sistema complessivo avrebbe l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza, garantita dalla Carta Costituzionale e dall’art. 9 del Concordato, in vista di un punteggio più vantaggioso nel credito scolastico.
3. Avverso tale decisione hanno proposto appello, chiedendone la riforma, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed il Ministero dell’Istruzione. Ha proposto appello, mediante ricorso incidentale, anche la C.E.I. – Conferenza Episcopale Italiana.
4. Gli appelli principale e incidentale possono essere esaminati congiuntamente perché si fondano, in gran parte, su censure comuni.
Gli appellanti in particolare deducono:
a) l’inammissibilità del ricorso di primo grado per difetto di legittimazione e per difetto di interesse degli originari ricorrenti (associazioni e studenti);
b) l’inammissibilità del ricorso per omessa notifica ai controinteressati (da individuarsi negli studenti che abbiano optato per l’insegnamento della religione cattolica o per gli insegnamenti alternativi, oltre che negli insegnanti di religioni)
c) l’erroneità nel merito della sentenza, rilevando che in base alle disposizioni vigenti l’insegnamento della religione cattolica non può che essere valutato ai fini dell’attribuzione del credito scolastico, specie alla luce del disposto dell’art. 11, comma 2, d.P.R. n. 323/1998;
l’assenza di qualsiasi violazione ai principi costituzionali della libertà religiosa e di laicità dello Stato.
5. Gli appelli meritano accoglimento.
6. Occorre, anzitutto esaminare, l’eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza di interesse e per difetto di legittimazione.
L’eccezione non può essere accolta.
Come ha correttamente rilevato il giudice di primo grado, l’interesse fatto valere non è quello immediatamente collegato ad un’utilità di carattere strumentale od economico concernente la concreta valutazione dei risultati scolastici o le conseguenze che potrebbero eventualmente derivare da tali valutazioni sul mercato del lavoro.
I ricorrenti di primo grado deducono la lesione della libertà religiosa, che, a loro dire, verrebbe compromessa dalle ordinanze impugnato laddove queste riconoscono sia agli insegnanti della religione cattolica, sia a quelli dei corsi formativi alternativi di partecipare ai consigli di classe ai fini dell’attribuzione del credito scolastico. In tal modo, sostengono gli originari ricorrenti, si crea una discriminazione in danno a coloro che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, né optano per un corso alternativo, il tutto in lesione con il valore costituzionale della libertà religiosa.
Stabilire se questo tipo di censura sia o meno fondata è questione di merito, non di rito. Non rileva, quindi, ai fini del riconoscimento della legittimazione e dell’interesse al ricorso.
Ai fini dell’ammissibilità ciò che rileva è solo la constatazione che sia le associazioni ricorrenti (che perseguono ideali laici o professano religioni diversa da quella cattolica), sia gli studenti che non si avvalgono né dell’insegnamento della religione, né dei corsi alternativi si trovino in una posizione differenziata rispetto al quisque de populo rispetto alla contestazione di un provvedimento che essi assumono lesivo della propria libertà religiosa, perché, secondo la loro tesi, collocherebbe l’insegnamento della religione cattolica su un piano di superiorità, interferendo con il diritto (riconosciuto dalla Corte costituzionale) di scegliere, senza condizionamenti, non avvalersi di tale né di tale insegnamento né di corsi alternativi.
L’utilità che essi sperano di trarre dall’accoglimento del ricorso è quindi di carattere ideale, immateriale, ed è certamente utilità che deve trovare spazio in sede giurisdizionale perché collegata ad un valore fondamentale della Carta costituzionale, quale è, appunto, quello della libertà religiosa.
L’ascrizione della libertà religiosa tra i diritti civili di rango costituzionale (art. 19 Cost.) ne assicura, in definitiva, la tutela avverso gli interventi potenzialmente limitatori di matrice amministrative.
Stabilire poi se effettivamente i provvedimenti impugnati arrechino o meno tale vulnus alla libertà religiosa è, come si è detto, questione di merito, che come tale non incide sul riconoscimento della legittimazione e dell’interesse al ricorso.
7. Ugualmente infondata è l’eccezione di inammissibilità per omessa notifica ai controinteressati, in quanto, trattandosi di atti di contenuto generale non sussistono, per pacifica giurisprudenza, controintressati in senso tecnico-giurico.
8. I ricorsi vanno, quindi, esaminati nel merito.
Al riguardo, occorre prendere le mosse dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che si è occupata dell’insegnamento della religione cattolica e sulle norme che lo prevedono.
La norma fondante l’insegnamento della religione cattolica in Italia è, come noto, l’art. 9, numero 2, dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (ratificato ed eseguito dall’Italia con la legge n. 121 del 1985, ”.
Tale disposizione normativa si compone di tre proposizioni.
La prima afferma che "la Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”.
La seconda specifica che “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”.
La terza prevede che “all'atto dell'iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
9. Come ha affermato la Corte costituzionale nella storica sentenza n. 203/1989, con questa terza proposizione il principio di laicità è in ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione.
La Corte specifica che dal principio di non discriminazioni ivi consacrato deriva che “la previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché proposta in luogo dell'insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l'una e l'altro lo schema logico dell'obbligazione alternativa, quando dinanzi all'insegnamento di religione cattolica si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche. Lo Stato è obbligato, in forza dell'Accordo con la Santa Sede, ad assicurare l'insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l'esercizio del diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo. Per quanti decidano di non avvalersene l'alternativa è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l'esercizio della libertà costituzionale di religione”.
Con la successiva sentenza n. 13 del 1991, la Corte aggiunge che “il valore finalistico dello <<stato di non obbligo>>, è di non rendere equivalenti e alternativi l'insegnamento di religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall'esterno della coscienza individuale l'esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l'interiorità della persona.
Non è pertanto da vedere nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi una causa di disincentivo per le future scelte degli avvalentisi, dato che le famiglie e gli studenti che scelgono l'insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall'offerta di opzioni diverse. Va anzi ribadito che dinanzi alla proposta dello Stato alla comunità dei cittadini di fare impartire nelle proprie scuole l'insegnamento di religione cattolica, l'alternativa è tra un si e un no, tra una scelta positiva ed una negativa: di avvalersene o di non avvalersene. A questo punto la libertà di religione e garantita: il suo esercizio si traduce, sotto il profilo considerato, in quella risposta affermativa o negativa. E le varie forme di impegno scolastico presentate alla libera scelta dei non avvalentisi non hanno più alcun rapporto con la libertà di religione. Lo <<stato di non-obbligo>> vale dunque a separare il momento dell'interrogazione di coscienza sulla scelta di libertà di religione o dalla religione, da quello delle libere richieste individuali alla organizzazione scolastica”.
10. Occorre allora chiedersi, proprio partendo da tali preziosi insegnamenti del Giudice delle leggi, se le ordinanze ministeriali impugnate si pongano in contrasto con i principi costituzionali in materia di libertà religiosa, discriminando, come sostengono gli originari ricorrenti, coloro che non scelgono nessuna attività formativa alterativa, ed interferendo, quindi, sulla loro libertà di scelta in materia religiosa.
Al quesito, secondo il Collegio, si deve dare risposta negativa.
Nessun passaggio delle motivazioni delle citate sentenze costituzionali consente di escludere che la condotta scolastica tenuta dall’alunno che decida di avvalersi dell’insegnamento della religione o di un insegnamento alternativo possa essere oggetto di valutazione e rilevare così ai fini del giudizio finale.
Anzi, sotto alcuni profili, le citate sentenze costituzionali contengono elementi a favore della legittimità della scelta ministeriale.
Ai fini che qui ci interessano, le principali statuizioni della Corte possono essere così sintetizzate.:
a) l’alternativa all’insegnamento della religione cattolica non può essere l’obbligo di seguire un corso alternativo (dato che altrimenti ricorrerebbe lo schema dell’obbligazione alternativa e la facoltatività dell’insegnamento religioso non sarebbe rispettata), ma non può che essere uno “stato di non obbligo”, che può avere tra i suoi contenuti anche quello di non presentarsi o allontanarsi da scuola;
b) nel minore impegno o addirittura nel disimpegno scolastico dei non avvalentisi non può vedersi una causa di discriminazione indiretta nei confronti di quanto scelgano di avvalersi della religione o un fattore che può interferire nella loro scelta (un cattolico potrebbe scegliere di non seguire l’ora di religione pur di avere un minore impegno scolastico), perché le famiglie e gli studenti che scelgono l'insegnamento di religione cattolica hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dall'offerta di opzioni diverse;
c) assicurata la scelta tra avvalimento e non avvalimento, la libertà di religione è assicurata e le varie opzioni presentate ai non avvalentisti non hanno alcun rapporto con la libertà di religione;
d) l’insegnamento della religione cattolica è facoltativo, ma, precisa la Corte costituzionale con la sentenza n. 203/1989, l'esercizio del diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo.
11. Come si diceva, da queste sentenze non si può dedurre l’illegittimità dell’ordinanza ministeriale che consente la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione o dei corsi alternativi frequentati dai non avvalentisi.
Né si può dire che tale partecipazione andrebbe ad interferire con lo “stato di non obbligo”, condizionando la libertà di scelta di coloro che non decidono di non seguire alcuna attività alternativa, o discriminandoli in sede di giudizio scolastico.
Non esiste al contrario alcun condizionamento, né alcuna discriminazione.
Non esiste condizionamento, perché, riprendendo le stesse parole usate dalla Corte costituzionale per affrontare la questione se il minor impegno dei non avvalentisi potesse condizionare la scelta degli avvalentisi, si può certamente affermare che le famiglie e gli studenti che scelgono di non avvalersi dell’ora di religione e di non seguire alcuna attività formativa hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dal fatto che l’insegnante di religione (o l’insegnante di corsi alternativi) partecipi alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico. Una scelta legata a valori così profondi, come quelli che vengono qui in esame, non può essere condizionata da valutazioni di stampo più marcatamente utilitaristico, legate al fatto che optando per l’insegnamento della religione si potrebbe avere un vantaggio (peraltro eventuale e di minima portata) in termini di valutazione del rendimento scolastico.
E’ senz’altro da escludere, insomma, che una valutazione così importante e profonda possa dipendere dalla mera possibilità di avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico. Vantaggio che, fra l’altro, è del tutto eventuale, sia perché, lo studente non avvalentesi che sia comunque meritevole in tutte le altre materie può raggiungere il massimo punteggio in sede di credito scolastico, sia perché il giudizio dell’insegnante di religione (o del corso complementare) potrebbe essere anche negativo (e quindi incidere negativamente credito scolastico).
Del resto, afferma ancora la Corte costituzionale, l’insegnamento della religione è facoltativo solo nel senso che di esso si ci può non avvalere, ma una volta esercitato il diritto di avvalersi diviene un insegnamento obbligatorio. Nasce cioè l’obbligo scolastico di seguirlo, ed è allora ragionevole che il titolare di quell’insegnamento (a quel punto divenuto obbligatorio) possa partecipare alla valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico. Le stesse considerazioni valgono per gli insegnamento alternativi che, una volta scelti, diventano insegnamenti obbligatori.
Insomma tutte l’attività scolastico dell’alunno deve essere valutata ai fini del credito scolastico, che esprime appunto un punteggio per la carriera scolastica complessiva, ivi inclusa la condotta e il posta in essere e il profitto raggiunto nell’ambito di quei corsi che, originariamente facoltativi, diventano obbligatori in seguito alla scelta fatta.
Se si parte dal presupposto (non seriamente dubitabile alla luce proprio delle sentenze costituzionali) secondo cui l’insegnamento della religione (o di altro corso alternativo) diviene obbligatorio dopo che è stata effettuata la scelta, allora non si vede la ragione per la quale la valutazione dell’interesse e del profitto con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione non debba essere valutato.
Non vi è neanche alcuna discriminazione a carico dei non avvalentisi che non optano per insegnamenti alternativi, in quanto questi hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico rispetto agli studenti che seguono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi.
Il credito scolastico, infatti, è il punteggio per l’andamento degli studi, e risente, in primo luogo, della media dei voti riportati dallo studente, e poi della condotta e delle attività svolte dallo studente durante il corso dell’anno. Pertanto, uno studente che, pur non avvalendosi dell’insegnamento della religione e non optando per insegnamenti alternativi, abbia comunque un alto rendimento scolastico riuscirà ugualmente a raggiungere il massimo in sede di attribuzione del credito scolastico, senza essere in alcun modo pregiudicato o discriminato in conseguenza della scelta fatta nell’esercizio della libertà religiosa. Egli non può certo pretendere di essere valutato per attività che, nell’esercizio di un diritto costituzionale, ha deciso di non svolgere, ma non può nemmeno pretendere che tali attività non siano valutabili a favore di altri che, nell’esercizio dello stesso diritto costituzionale, hanno deciso di svolgerle. E’ la stessa Corte costituzionale a parlare di minore impegno scolastico dei non avvalentisi che non svolgono attività alternative (Corte cost. n. 13/1991)
12. Del resto, chi segue l’insegnamento della religione (o di altro corso alternativo) non avrà per ciò solo automaticamente un punteggio aggiuntivo in sede di credito scolastico, ma si terrà conto, ai fini dell’attribuzione del punteggio che valuta la sua carriera scolastica, anche del giudizio espresso dall’insegnante di religione o di altro insegnamento sostitutivo.
Che di questo giudizio si debba tener conto deriva dal fatto che, per chi si avvale, l’insegnamento della religione diventa insegnamento obbligatorio. Ne discende la necessità di valutare in senso positivo o negativo, come quell’obbligo scolastico sia stato adempiuto.
Non farlo rischierebbe di dare luogo ad una sorta di discriminazione alla rovescio, perché lo stato di “non obbligo” andrebbe ad estendersi anche a coloro che invece hanno scelto di obbligarsi a seguire l’insegnamento della religione cattolica o altro insegnamento alternativo.
In altri termini, l’insegnamento non è obbligatorio per chi non se ne avvale, ma per chi se ne avvale è certamente insegnamento obbligatorio: la libertà religiosa dei non avvalentisi non può, quindi, arrivare a neutralizzare la scelta di chi, nell’esercizio della stessa libertà religiosa, ha scelto di seguire quell’insegnamento e che, dunque, ha il diritto-dovere di frquentarlo e di essere valutato per l’interesse e il profitto dimostrato.
13. Né sarebbe corretto ritenere che per effetto delle ordinanze in questione l’insegnamento della religione dia, per ciò solo, diritto ad un credito scolastico. Al contrario, le ordinanze ministeriali prevedono soltanto che nella valutazione dello studente, si tenga conto anche dell’interess econ cui ha seguito l’ora di religione (o di corso alternativo), sul presupposto, avallato dalla stessa giurisprudenza costituzionale, che, effettuata la scelta, nasca un obbligo scolastico il cui adempimento da parte dello studente deve essere oggetto di valutazione.
A favore di tale conclusione depone, a livello legislativo, la previsione dell’art. 309 d.lgs. n. 297/1994 che, come ricordato anche dalla Corte costituzionale (n. 390/1999), stabilisce che gli insegnanti di religione “fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti”.
14. Non si ravvisa neanche un contrasto con l’art. 205, comma 4, d.lgs. n. 297/1994, ai sensi del quale “per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Gli originari ricorrenti sostengono che da questa norma deriverebbe il divieto per gli insegnanti di religione cattolica di dare voti, il che escluderebbe la possibilità di partecipare alle sedute del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico e di prendere in considerazione il loro giudizio.
Tale conclusione non può essere però condivisa.
Le ordinanze in questioni non prevedono, infatti, che l’insegnante di religione attribuisca un voto, ma solo che nell’attribuzione del punteggio, nell’ambito dalla banda di oscillazione, si tenga conto del giudizio (non del voto appunto) riguardante l’interesse con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione cattolica ovvero l’attività alternativa e il profitto che ne ha tratto. In altri termini, quella “speciale nota” cui fa riferimento l’art. 205, comma 4, cit. pur non potendosi tradurre in un voto numerico contiene necessariamente un giudizio sull’attività svolta dall’alunno. Le ordinanze in questione si limitano a prevedere che tale giudizio diviene ora uno degli elementi valutabile ai fini dell’attribuzione del punteggio nell’ambito della sola banda di oscillazione prevista dalla tabella allegata al D.P.R. n. 323/1998 che, all’art. 11, disciplina il credito scolastico.
15. Per comprendere ancora meglio perché le ordinanze impugnate non diano luogo ad alcuna forma di discriminazione, né si pongano in contrasto con le previsioni di legge, giova spendere qualche parola sulle modalità di calcolo del cosiddetto credito scolastico.
Il credito scolastico trova la sua disciplina nell’art. 11 D.P.R. n. 323/1998 il quale prevede: “Il consiglio di classe attribuisce ad ogni alunno che ne sia meritevole, nello scrutinio finale di ciascuno degli ultimi tre anni della scuola secondaria superiore, un apposito punteggio per l'andamento degli studi, denominato credito scolastico. La somma dei punteggi ottenuti nei tre anni costituisce il credito scolastico che, ai sensi dell'articolo 4, comma 6, si aggiunge ai punteggi riportati dai candidati nelle prove d'esame scritte e orali. Per gli istituti professionali e gli istituti d'arte si provvede all'attribuzione del credito scolastico, per il primo dei tre anni, in sede, rispettivamente, di esame di qualifica e di licenza”. (comma 1).
Il comma secondo continua prevedendo che “Il punteggio di cui al comma 1 esprime la valutazione del grado di preparazione complessiva raggiunta da ciascun alunno nell'anno scolastico in corso, con riguardo al profitto e tenendo in considerazione anche l'assiduità della frequenza scolastica, ivi compresa, per gli istituti ove è previsto, la frequenza dell'area di progetto, l'interesse e l'impegno nella partecipazione al dialogo educativo, alle attività complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi. Esso è attribuito sulla base dell'allegata tabella A e della nota in calce alla medesima”.
Dalla tabella allegata al regolamento si evince che il punto di partenza per l’attribuzione del credito scolastico è la media dei voti (in questa fase non rileva quindi il giudizio dell’insegnate di religione e di altre corsi alternativi che non esprimono propriamente un voto).
Ad ogni voto o fascia di voti corrisponde un punteggio in termini di credito scolastico. Il punteggio non è fisso, ma oscilla tra un minimo e un massimo nell’ambito della c.d. banda di oscillazione (che varia di un punto). Ad esempio, chi al terzo anno ha la media del 6 può avere un credito scolastico tra 4 e 5 punti; chi ha una media compresa tra 6 e 7 può avere u n credito scolastico che varia tra 5 e 6 e così via. Questo significa, evidentemente, che, pur in presenza della stessa media di voti, un alunno può avere un credito scolastico maggiore perché gli viene riconosciuto quel punto aggiuntivo previsto dalla c.d. banda di oscillazione.
Il regolamento prevede che il credito scolastico da attribuire nell’ambito delle bande di oscillazione va espresso in numero intero e deve tenere in considerazione, oltre alla media dei voti, anche l’assiduità della frequenza scolastica, l’interesse e l’impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi.
16. E su questo quadro normativo che intervengono le ordinanze impugnate, le quali si limitano a prevedere che, ai fini dell’attribuzione del credito scolastico nell’ambito della banda di oscillazione, si tiene conto anche del giudizio formulato dai docenti di religione o di insegnamenti alternativi.
Il loro giudizio è quindi solo uno dei tanti elementi da prendere in considerazione, nell’ambito di un giudizio complessivo sulla carriera scolastica e sul comportamento dell’alunno, al fine dell’attribuzione di un punto.
Il che non vuol dire – questo va ribadito – che chi non segue religione (o l’insegnamento alternativo) non possa avere questo punto in più: potrà comunque averlo sulla base degli altri elementi che la legge considera rilevanti (media dei voti, l’assiduità della frequenza scolastica, l’interesse e l’impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi).
Chi segue religione (o l’insegnamento alternativo) non è avvantaggiato né discriminato: è semplicemente valutato per come si comporta, per l’interesse che mostra e il profitto che conegue anche nell’ora di religione (o del corso alternativo). Chi non segue religione né il corso alternativo, ugualmente, non è discriminato né favorito: semplicemente non viene valutato nei suoi confronti un momento della vita scolastica cui non ha partecipato, ferma rimanendo la possibilità di beneficiare del punto ulteriore nell’ambito della banda di oscillazione alla stregua degli altri elementi valutabili a suo favore.
17. Occorre, tuttavia, a questo punto, affrontare un problema che, pur non rientrando nel thema decidendum del presente giudizio, è stato tuttavia oggetto di specifica di trattazione da parte del primo giudice: ovvero la constatazione che in molte scuole gli insegnamenti alternativi all’ora di religione non sono attivati, lasciando così agli studenti che non intendono avvalersi come unica alternativa quella di non svolgere alcuna attività didattica. Si tratta di un argomento che, come si ricordava all’inizio, è stato utilizzato dal T.a.r. per rafforzare la tesi della illegittimità delle ordinanze impugnate.
Pur non essendo specificamente dedotto nei motivi di ricorso, la preoccupazione manifestata dal giudice di primo grado va tenuta nella massima considerazione.
Non vi è dubbio, infatti, che la mancata attivazione dei corsi alternativi rischi di mettere in crisi uno dei presupposti su cui si fondano le ordinanze impugnate, che, nel mettere sullo stesso piano, ai fini della valutazione come credito scolastico nell’ambito della c.d. banda di oscillazione, l’insegnamento della religione e l’insegnamento dei corsi alternativi per i non avvalentisi, danno quasi per scontato che i corsi alternativi esistano ovunque.
Al contrario, è circostanza nota che in molte scuole i corsi alternativi non sono attivati e questo rischia di pregiudicare la libertà religiosa dei non avvalentisi e di compromettere la logica delle ordinanze in esame.
Infatti, nelle scuole in cui il corso alternativo non è attivato, lo studente che per motivi religiosi non intenda avvalersi dell’insegnamento della religione, ha come sola alternativa quella di di non fare nulla (a parte eventuali iniziative individuali o di c.d. studio assistito).
La mancata attivazione dell’insegnamento alternativo può incidere sulla libertà religiosa dello studente o delle famiglia: la scelta di seguire l’ora di religione potrebbe essere pesantemente condizionata dall’assenza di alternative formative, perché tale assenza va, sia pure indirettamente ad incidere su un altro valore costituzionale, che è il diritto all’istruzione sancito dall’art. 34 Cost.
Ciò evidentemente non contraddice il carattere facoltativo dell’insegnamento alternativo: tale insegnamento è, e deve restare, facoltativo per lo studente, che può certamente non sceglierlo senza essere discriminato, ma la sua istituzione deve considerarsi obbligatoria per la scuola, specie alla luce della scelta compiuta nelle ordinanze della cui legittimità ora si discute.
Di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico, perché altrimenti si alimenterebbe una situazione non coerente con quanto le stesse ordinanze impugnate sembrano invece presupporre.
18. In base alle considerazioni che precedono, gli appelli devono, in definitiva, essere accolti e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve respingersi il ricorso di primo grado.
La complessità della materia, l’assenza di precedenti giurisprudenziali specifici e la serietà delle questioni sollevate, specie dal punto di vista etico e costituzionale, impongono la compensazione delle spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie gli appelli principale e incidentale.
Spese compensate
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2010 con l'intervento dei Signori:
Giovanni Ruoppolo, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere
Rosanna De Nictolis, Consigliere
Roberto Garofoli, Consigliere
Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE




Il Segretario

DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 07/05/2010


panorama
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Re: Scuola, i Prof di relig. potranno contrib. al credito

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Visto che si parla di scuola metto qui' questa sentenza del Consiglio di Stato anchessa importante in quanto si parla di alunni.

N. 07125/2010 REG.SEN.
N. 04066/2005 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
Sul ricorso numero di registro generale 4066 del 2005, proposto:
dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in persona del Ministro, legale rappresentante pro tempore;
Ufficio Scolastico Regionale - Direzione Generale dell’Emilia Romagna;
Centro Servizi Amministrativi - Bologna, Istituto Comprensivo N. 7, Consiglio d'Istituto tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
P. G. e T. G., rappresentati e difesi dall'avv. F. D., con domicilio eletto presso G. M. G. in Roma, corso Vittorio Emanuele II, n. ….;
nei confronti di
C. S., S. A. E.;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. EMILIA-ROMAGNA - BOLOGNA: SEZIONE I, n. 86/2005, resa tra le parti, concernente CRITERI DI FORMAZIONE PRIME CLASSI ELEMENTARI E MEDIE PER L’ANNO SCOLASTICO 2004/2005.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 giugno 2010 il consigliere C. C. e uditi per le parti l’avvocato dello Stato S. e l’avvocato F. per delega dell'avvocato D.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Le vicende all’origine dei fatti di causa vengono descritte nei termini che seguono nell’ambito della decisione oggetto di gravame:
“- entro il termine del 31 gennaio 2004, [i signori P…. e T…..] presentavano all’Istituto Comprensivo n. 7 domanda di iscrizione alla classe prima elementare della figlia E. P., esprimendo la preferenza per la scuola elementare “Scandellara” a tempo pieno;
- di detto Istituto fanno parte, all’interno del Quartiere S. Vitale, l’altra scuola elementare “Tempesta”, due scuole materne ed una Scuola media;
- in data 3 marzo 2004, il Consiglio di Istituto stabiliva di adeguare alla Circolare ministeriale 13.1.2004, n. 2 i criteri per la stesura della graduatoria relativa alle iscrizioni per la classe I elementare e I media, attribuendo preferenza assoluta (ovvero “diritto di priorità”) ai bambini provenienti dalla Scuola materna del medesimo Istituto Comprensivo;
- nella stessa seduta, la Dirigente Scolastica dava atto di una situazione di esubero di richieste relative al tempo pieno della Scuola Scandellara, con la conseguenza che, formate due classi a tempo pieno, ciascuna di 25 alunni, residuava un numero di 11 bambini, da distribuire tra la tipologia del modulo, esistente presso la Scandellara stessa e che garantisce due soli pomeriggi settimanali, ed il tempo pieno alla “Tempesta”; a tal fine, trattandosi di bambini tutti residenti nello stradario, la Dirigente riteneva opportuno ricorrere al sorteggio;
- in data 9 marzo 2004 veniva esposta la graduatoria, ove 21 bambini figuravano in situazione di parità;
- in data 11 marzo 2004, il Consiglio d’Istituto approvava all’unanimità le modalità del sorteggio, che veniva effettuato il 16 marzo 2004 ed all’esito del quale la figlia dei ricorrenti risultava utilmente collocata tra gli ammessi alla Scuola Scandellara a tempo pieno;
- nel frattempo, l’adozione dei criteri di cui alla seduta del 3 marzo 2004 aveva determinato la reazione di un Comitato di Genitori appositamente costituitosi e la presa di posizione critica (nota 19.3.2004) del Direttore del Centro Servizi Amministrativi (C.S.A.) di Bologna;
- in data 29 marzo 2004 si svolgeva una nuova riunione del Consiglio di Istituto, nella quale la Dirigente scolastica proponeva l’annullamento della delibera del 3.3.2004 relativa ai nuovi criteri: il Consiglio respingeva a maggioranza detta proposta;
- con nota 16 aprile 2004 prot. n. …./B19, la Dirigente comunicava ai genitori che, “a seguito di legittima disposizione”, sarebbero state riesaminate le domande di iscrizione, per predisporre nuova graduatoria e nuovo sorteggio;
- il nuovo sorteggio si svolgeva il 21 aprile 2004 e questa volta la figlia dei ricorrenti veniva esclusa dalla scuola a tempo pieno Scandellara”.
Con il ricorso introduttivo del primo giudizio, i signori P… e T…. censuravano gli esiti del secondo sorteggio, nonché gli atti allo stesso prodromici (e, in particolare, il provvedimento della preside in data 13 aprile 2004, nonché l’atto di formazione della seconda graduatoria).
Con la pronuncia oggetto del presente gravame, il T.A.R. dell’Emilia-Romagna così provvedeva:
- dichiarava infondata l’eccezione relativa alla presunta acquiescenza che i ricorrenti avrebbero dimostrato nei confronti degli atti oggetto di impugnativa per avere optato per il tempo ‘modulo’ presso la Scuola Scandellara. Al riguardo i primi giudici osservavano che l’aver effettuato l’opzione in parola non valesse in alcun modo ad esprimere acquiescenza nei confronti dell’istanza volta ad ottenere un’utilitas maggiore (l’iscrizione al tempo pieno presso la medesima Scuola Scandellara);
- ancora, dichiarava infondata l’eccezione relativa alla presunta inammissibilità del primo ricorso per non essere ab imis giustiziabile l’interesse all’iscrizione all’uno piuttosto che all’altro plesso nell’ambito della medesima Istituzione scolastica. Sotto tale aspetto, il T.A.R. riteneva che fosse la stessa articolazione funzionale dell’Istituzione scolastica comprensiva a giustificare il carattere differenziato e giuridicamente apprezzabile dell’interesse all’iscrizione all’uno piuttosto che all’altro plesso, ovvero secondo l’una piuttosto che l’altra modalità;
- nel merito, il tribunale riteneva che l’atto della preside in data 13 aprile 2004 fosse qualificabile come provvedimento di secondo grado (assunto in sede di autotutela decisoria) e che lo stesso risultasse illegittimo per essere stato assunto in violazione dei principi generali in tema di adozione dei provvedimenti di autotutela (in particolare, nel caso in questione era mancato il previo contraddittorio procedimentale con gli interessati, nonché la necessaria comparazione fra i diversi interessi nella specie coinvolti). Pertanto, il T.A.R. disponeva l’annullamento del richiamato atto in data 13 aprile 2004 e delle operazioni di sorteggio svolte sulla base delle sue previsioni;
- infine, il T.A.R. dichiarava l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse dell’impugnativa proposta avverso la delibera del Consiglio di Istituto in data 28 maggio 2003, con cui erano stati fissati i criteri di formazione delle classi in seguito superati dall’adozione dei successivi atti oggetto di annullamento.
La pronuncia in questione veniva impugnata in sede di appello dall’Avvocatura generale dello Stato, la quale ne deduceva l’illegittimità e ne chiedeva l’integrale riforma articolando plurimi motivi di doglianza.
Si costituivano in giudizio i signori P…. e T……, i quali concludevano nel senso della reiezione del gravame. Gli stessi proponevano altresì appello incidentale chiedendo la riforma della pronuncia in epigrafe per la parte in cui aveva dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il primo ricorso per la parte in cui si erano gravati i criteri e i sottocriteri approvati dal Consiglio d’Istituto in data 28 maggio 2003.
Con ordinanza n. 2740/05 (resa all’esito della Camera di consiglio del 14 giugno 2005) questo Consiglio respingeva l’istanza di sospensione cautelare degli effetti della sentenza in epigrafe, ritenendo la carenza del requisito del fumus boni juris.
All’udienza pubblica del giorno 22 giugno 2010 i procuratori delle parti costituite rassegnavano le proprie conclusioni e il ricorso veniva trattenuto in decisione.
DIRITTO
1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dai genitori di una bambina che nell’anno scolastico 2004-2005 avrebbe dovuto frequentare la classe prima elementare presso un Istituto comprensivo di Bologna e, per l’effetto, è stata annullata la disposizione della dirigente che aveva stabilito le modalità di riesame delle domande di iscrizione, nonché le operazioni di sorteggio svolte in conseguenza della disposizione in parola.
Giunge, altresì, in decisione, il ricorso incidentale proposto dai genitori della minore avverso il capo della sentenza con cui è stata dichiarata l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso introduttivo in relazione all’impugnativa dei criteri per la formazione delle classi approvati dal Consiglio di Istituto in data 28 maggio 2003.
2. Il Collegio ritiene di prendere le mosse dall’esame del motivo di appello con cui si censura il contenuto della sentenza in epigrafe per la parte in cui non ha rilevato l’inammissibilità per originaria carenza di interesse del ricorso avverso l’atto del 13 aprile 2004, con il quale erano stati ripristinati i criteri di cui alla delibera in data 28 maggio 2003.
Nella tesi dell’appellante, il T.A.R. avrebbe omesso di considerare la sostanziale acquiescenza prestata dai genitori della minore (odierni appellati) ai criteri in tal modo ripristinati mercé l’accettazione degli esiti del secondo sorteggio e la contestuale opzione per il tempo ‘modulo’ presso il plesso Scandellara.
Nella tesi dell’appellante, del resto, la sentenza risulterebbe erronea per aver ritenuto che l’iscrizione al tempo pieno presso il plesso Scandellara presentasse per i ricorrenti in primo grado una situazione di maggior vantaggio atteso che – per un verso – l’iscrizione infine conseguita era corrispondente a quella in concreto accettata e che – per altro verso – il carattere unitario delle Istituzioni scolastiche (e la mera valenza interna dell’articolazione in plessi) non consente di riconoscere giuridica rilevanza all’interesse all’iscrizione presso l’uno o l’altro plesso.
2.1. Il motivo non può essere condiviso, dovendosi – in contrario – confermare il contenuto della pronuncia oggetto di gravame, la quale ha ravvisato l’esistenza di uno specifico interesse all’impugnativa avverso l’atto di ripristino dei precedenti criteri, a nulla valendo – in contrario – l’accettazione da parte dei genitori di una utilitas meno soddisfacente, come l’iscrizione al tempo ‘modulo’ presso il plesso Scandellare manifestato con la nota in data 26 aprile 2004.
Si osserva al riguardo che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale l'acquiescenza, intesa come accettazione espressa o tacita del provvedimento amministrativo lesivo - quale istituto di diritto sostanziale, procedimentale e processuale (ad esempio, determinante l'estinzione del potere di azione, con conseguente inammissibilità del ricorso giurisdizionale proposto avverso il provvedimento medesimo) - si configura solo in presenza di una condotta da parte dell'avente titolo all'impugnazione che sia libera e inequivocabilmente diretta a non più contestare l'assetto di interessi definito dall'Amministrazione attraverso gli atti oggetto di impugnazione. In quanto incidente sul fondamentale diritto di agire in giudizio, l'accertamento in ordine all'avvenuta accettazione del contenuto e degli effetti di un provvedimento lesivo deve essere accurato ed esauriente e svolgersi su tutti i dati fattuali che hanno caratterizzato la dichiarazione negoziale, da cui deve risultare senza alcuna incertezza la presenza di una chiara intenzione definitiva di non rimettere in discussione l'atto lesivo (sul punto –ex plurimis -: Cons. Stato, Sez. IV, sent. 31 luglio 2009, n. 4854).
Riconducendo il principio in questione alle peculiarità del caso di specie, si osserva che la scelta dei genitori di non rifiutare in radice gli effetti di atti per loro meno satisfattivi (si tratta degli atti che avevano determinato l’iscrizione della figlia al tempo ‘modulo’ presso il plesso Scandellara) non potesse in alcun modo equivalere ad una definitiva ed incondizionata accettazione dei relativi effetti ed alla conseguente impossibilità di censurarne in seguito l’illegittimità, se solo si consideri che la mancata adesione quanto meno all’iscrizione in parola li avrebbe verosimilmente esposti al rischio di dover in seguito accettare un’iscrizione ancora meno satisfattiva (ad es.: presso un diverso plesso), o – addirittura – la stessa perdita della possibilità di conseguire l’utilitas sostanziale cui l’istanza originaria risultava volta.
Del resto, l’esame degli atti di causa mostra che i genitori della minore non ritenessero in alcun modo che l’opzione loro offerta rappresentasse, allo stato dei fatti, la migliore possibile (con definitiva perdita della possibilità di reclamare anche in sede giudiziale il conseguimento di un’utilitas poziore), se solo si consideri che, al momento stesso in cui i genitori dichiaravano di non rifiutare l’iscrizione al tempo ‘modulo’ presso il plesso Scandellara, chiedevano altresì - ove possibile - l’iscrizione al tempo pieno presso il medesimo plesso (“qualora si liberasse un posto nelle classi a tempo pieno, gradiremmo essere avvisati”).
Quanto al motivo di appello fondato sulla giuridica unità dell’Istituzione scolastica e alla sostanziale irrilevanza (se non ai fini endorganizzativi) dell’articolazione in plessi, si osserva che l’argomento in questione non sembra cogliere nel segno, atteso che i ricorrenti in primo grado non aspiravano all’iscrizione presso un diverso plesso (si osserva al riguardo che essi avevano comunque ottenuto l’iscrizione della minore al plesso Scandellara, da loro preferito), quanto, piuttosto, ad una diversa articolazione dell’orario delle lezioni.
3. Il Collegio ritiene a questo punto di passare all’esame del motivo di appello con cui si censura la sentenza in epigrafe per la parte in cui ha ritenuto di ricondurre l’atto della preside in data 13 aprile 2004 alla categoria dell’autotutela decisoria, rilevandone l’illegittimità per non essere stato assistito dal rispetto delle garanzie sostanziali e procedimentali proprie di tale tipologia di atti.
Nella tesi dell’appellante, la pronuncia risulterebbe erronea e meritevole di riforma per non aver considerato che l’atto in questione non poteva essere ascritto alla categoria dell’autotutela di tipo decisorio, atteso che gli atti sui quali aveva inciso (in particolare, la delibera consiliare in data 3 marzo 2004 di individuazione dei criteri per la formazione delle classi, la predisposizione della graduatoria in data 9 marzo e l’effettuazione del sorteggio il successivo 16 marzo) avrebbero assunto una valenza meramente endoprocedimentale, non traducendosi nell’adozione di atti conclusivi sui quali avrebbe potuto estrinsecarsi il potere di autotutela.
Ma anche a voler ascrivere il richiamato atto alla categoria dell’autotutela decisoria, l’appellante rileva che non sussisterebbero in concreto le violazioni ravvisate dal T.A.R., se solo si osservi che:
- l’omessa comunicazione di avvio non rileverebbe, trattandosi di procedimento (quello di iscrizione a classi di insegnamento) iniziato su istanza di parte e ben noto ai genitori della minore. Oltretutto, sarebbe importante rilevare che gli stessi ricorrenti in primo grado risultavano fra coloro che avevano espressamente richiesto la predisposizione di una nuova graduatoria;
- gli odierni appellati non potrebbero vantare alcuna posizione di interesse alla contestazione della graduatoria stilata all’esito del secondo sorteggio, atteso che la loro figlia aveva riportato in entrambe le graduatorie in medesimo punteggio, essendosi collocata nella medesima posizione;
- dall’esame degli atti, non emergerebbe in alcun modo che, all’esito delle operazioni di sorteggio del 16 marzo 2004, essi (rectius: la loro figlia) avessero conseguito una posizione migliore rispetto a quella conseguita all’esito della graduatoria stilata nel successivo mese di aprile e del conseguente sorteggio.
3.1. Il motivo, nel suo complesso, non è fondato.
3.1.1. In particolare, non sembrano condivisibili gli argomenti con cui si contesta la qualificazione dell’atto dirigenziale del 13 aprile 2004 come provvedimento di autotutela rispetto agli esiti delle operazioni svolte il precedente mese di marzo.
In particolare, non appare condivisibile la tesi secondo cui l’atto in questione avrebbe inciso (non già su atti conclusivi di un’autonoma serie procedimentale, bensì) su atti meramente endoprocedimentali, non rendendo proficuamente invocabile la categoria dell’autotutela decisoria.
Sotto tale aspetto, al contrario, la pronuncia in epigrafe risulta meritevole di conferma laddove ha rilevato:
- che l’atto conclusivo del peculiare procedimento all’origine dei fatti di causa fosse rappresentato dalla predisposizione della prima graduatoria (pubblicata in data 9 marzo 2004) e dalla successiva effettuazione delle operazioni di sorteggio (16 marzo). Non si trattava di meri atti interni, ma di veri e propri arresti procedimentali conclusivi di autonome serie procedimentali, i cui esiti avrebbero potuto essere travolti dall’Amministrazione solo facendo (corretto) esercizio dei poteri di autotutela;
- che solo dopo la conclusione del primo procedimento (attraverso la predisposizione e pubblicazione della graduatoria e successiva effettuazione del sorteggio) la dirigente scolastica ha ritenuto: a) di tenere in non cale i criteri deliberati dal Consiglio d’Istituto in data 3 marzo 2004; b) di dichiarare l’illegittimità delle operazioni conclusesi con gli atti conclusivi del primo procedimento; c) di pervenire autonomamente all’individuazione di diversi criteri di formazione e di ripetere le operazioni di formazione della graduatoria e di effettuazione del sorteggio.
Si tratta di determinazioni che (a prescindere da ogni questione relativa alla loro intrinseca legittimità) risultavano certamente ascrivibili alla categoria dell’autotutela di tipo decisorio, anche alla luce del tenore testuale delle motivazioni al riguardo addotte dal dirigente scolastico (il quale aveva rilevato l’esigenza di ‘riesaminare’ per motivi di legittimità le determinazioni assunte in ossequio alla delibera consiliare del 3 marzo 2004).
3.1.2. Ma la pronuncia in epigrafe risulta altresì meritevole di conferma anche per la parte in cui ha ravvisato che l’esercizio in concreto del potere di autotutela risultasse illegittimo: a) per la mancata, puntuale esplicazione delle ragioni di pubblico interesse idonee a supportare l’esercizio dell’autotutela (non risultando sufficiente sotto tale profilo il mero interesse al ripristino della legittimità asseritamente violata), nonché b) per il mancato rispetto delle regole del contraddittorio procedimentale.
Si osserva al riguardo che (in base a consolidati principi) ciascuno dei due profili dinanzi richiamati sub a) e b) risultava idoneo a supportare in modo autonomo la pronuncia di annullamento e che in sede di appello nessun argomento è stato profuso in relazione alla carenza di puntuali indicazioni in ordine alla mancata esplicazione delle ragioni di interesse pubblico sottese all’esercizio del provvedimento di autotutela, ragione per cui – anche solo per tale ragione – la pronuncia in questione dovrebbe trovare puntuale conferma.
Fermo restando quanto appena osservato, il Collegio rileva comunque che neppure i motivi di appello volti a sostenere la legittimità dell’omessa comunicazione di avvio del procedimento di autotutela possano trovare accoglimento, atteso che: i) altra cosa è il procedimento (ad iniziativa di parte) finalizzato all’iscrizione alle scuole dell’obbligo, mentre ben altra cosa è il procedimento di secondo grado con cui si esercita l’autotutela sui precedenti atti di predisposizione delle graduatorie e successivi sorteggi; ii) anche a voler annettere rilievo alla nota con cui i genitori della minore (odierni appellati) avevano sollevato dubbi in ordine alla serie procedimentale avviata con la delibera consiliare del 3 marzo 2004, è innegabile che tale nota non valesse in alcun modo a dare avvio al procedimento di secondo grado, configurandosi – piuttosto – come mero atto d’impulso o sollecitatorio. Conseguentemente, non è negabile che l’avvio del procedimento di autotutela fosse riferibile unicamente agli Organi scolastici e che sugli stessi gravasse il tipico onere (nel caso di specie, non ottemperato) di garantire l’adeguata partecipazione procedimentale dei soggetti interessati.
4. Il Collegio ritiene a questo punto di esaminare il motivo di appello incidentale con cui i signori P…. e T….. chiedono la riforma della sentenza in epigrafe per la parte in cui ha ritenuto l’improcedibilità dell’impugnativa avverso i criteri di formazione delle classi approvati dal Consiglio di Istituto in data 28 maggio 2003.
Secondo gli appellanti incidentali, il T.A.R. avrebbe omesso di considerare che, nonostante l’annullamento delle operazioni relative al secondo sorteggio (e alla reviviscenza degli atti conclusi con il primo sorteggio, favorevole agli appellanti incidentali), sussistesse comunque in capo a loro uno specifico interesse alla coltivazione dell’impugnativa avverso i criteri approvati con la delibera consiliare del 28 maggio 2003.
Ciò, in quanto gli odierni appellanti incidentali avrebbero potuto aspirare, attraverso l’annullamento dell’applicazione dei criteri approvati nel maggio del 2003, a che la propria figlia venisse collocata nella prima graduatoria in posizione favorevole, senza la necessità di partecipare al sorteggio.
Il motivo in questione deve essere esaminato in modo congiunto con il primo motivo di appello principale, con cui la difesa erariale ripropone l’eccezione di inammissibilità del ricorso in primo grado per ciò che attiene l’impugnativa avverso la richiamata delibera del maggio 2003.
Secondo l’appellante principale, infatti, tale motivo si sarebbe dovuto dichiarare inammissibile per originaria carenza di interesse, atteso che gli stessi ricorrenti in primo grado avevano sottoscritto in data 12 marzo 2004 un’istanza con la quale rimarcavano la legittimità di tali criteri, contrapponendola alla illegittimità che avrebbe caratterizzato i nuovi e diversi criteri deliberati dal medesimo Consiglio in data 3 marzo 2004 (e la cui illegittimità è stata confermata dalla pronuncia oggetto di gravame).
4.1. Il motivo di appello formulato dalla difesa erariale (che assume il carattere di eccezione in senso sostanziale nei confronti dell’appello incidentale proposto dai signori P…. e T……) non è fondato.
In particolare, non può ritenersi l’originaria carenza di interesse dei signori P…. e T….. all’impugnativa dei più volte richiamati criteri, se solo si consideri che l’aver censurato (insieme con altri genitori) l’illegittimità dei criteri successivamente adottati dagli Organi scolastici non poteva in alcun modo implicare l’incondizionata accettazione dei criteri preesistenti, né la carenza di interesse all’impugnativa dei criteri in parola, laddove questi ultimi risultassero a propria volta viziati da autonomi profili di illegittimità.
4.2. Il motivo di appello incidentale (che, in base a quanto esposto sub 4.1., è ammissibile) è tuttavia infondato nel merito.
Al riguardo il Collegio ritiene che la pronuncia in epigrafe risulti corretta e meritevole di conferma laddove ha ritenuto che l’annullamento in sede giurisdizionale degli atti culminati con l’approvazione della seconda graduatoria (e con il secondo sorteggio) abbiano determinato la reviviscenza degli atti culminati con l’approvazione della prima graduatoria (e con il primo sorteggio, favorevole ai signori P…. e T……), in tal modo determinando il venir meno dell’interesse a coltivare l’impugnativa avverso i criteri del maggio del 2003.
Sotto tale aspetto non può che ribadirsi che l’interesse all’impugnativa deve presentare i criteri della concretezza e dell’attualità, laddove gli appellanti incidentali non esplicitano in alcun modo per quali ragioni l’utilità conseguibile all’esito del positivo svolgimento del sorteggio risulterebbe idonea a garantire loro un’utilitas di grado poziore rispetto a quella che avrebbero potuto conseguire laddove la propria figlia fosse stata direttamente collocata nella prima graduatoria in posizione favorevole (i.e.: senza il bisogno di partecipare ad alcun sorteggio).
Dal punto di vista effettuale, infatti, è del tutto evidente che un diverso esito della vicenda non determinerebbe comunque alcun vantaggio aggiuntivo per gli odierni appellanti incidentali.
5. Per le considerazioni che precedono l’appello in epigrafe deve essere respinto.
Deve, altresì, essere respinto il ricorso incidentale proposto dai signori P…. e T…….
Il Collegio ritiene che sussistano giusti motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, respinge il ricorso principale e respinge il ricorso incidentale.
Spese compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 giugno 2010 con l'intervento dei Signori:
G. B., Presidente
R. G., Consigliere
R. G., Consigliere
M. A., Consigliere
C. C., Consigliere, Estensore


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15/11/2010

N. 33433/2010 REG.SEN.
N. 10681/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Terza Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10681 del 2009, proposto da:
Consulta Romana per la Laicità delle Istituzioni; CIDI - Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti; Comitato Insegnanti Evangelici Italiani (CIEI); Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia; Comitato Torinese per la Laicità della Scuola; Tavola Valdese, CRIDES - Centro Romano Iniziative Difesa Diritti nella Scuola; Associazione XXXI ottobre per una scuola laica e pluralista (promossa dagli evangelici italiani); Associazione Nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno”; UAAR - Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti; Consulta Torinese per la Laicità delle Istituzioni; Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno; Federazione delle Chiese Pentecostali; Associazione per la Scuola della Repubblica; Comitato Bolognese Scuola e Costituzione; Associazione Italialaica; UCEI - Unione delle Comunità Ebraiche Italiane; Associazione Gruppo Martin Buber Ebrei per la Pace; Fnism -Federazione Nazionale Insegnanti;
nonché per i sigg. Lamorte Matteo, nella qualità di studente rappresentato dai genitori Lamorte Beniamino e Bonucchi Catia; Conti Maddalena, nella qualità di genitore esercente la potestà sulla figlia minore Gaia Conti; Giorgio Elia Gomel e Rosella Mattei, in qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlia minore Sara Gomel; Luciano Naldesi e Donatella Mengoli, nella qualità di genitori esercenti la potestà sulla figlia minore Clara Naldesi;
tutti rappresentati e difesi dagli avv.ti Fausto Buccellato e Massimo Luciani, ed elettivamente domiciliati presso lo studio del primo in Roma, al viale Angelico, 45;
contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero della Pubblica Istruzione, Ministero della Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso la cui sede - in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12 – domiciliano per legge;
nei confronti di
Conferenza Episcopale Italiana, in persona del Presidente pro tempore, non costituita in giudizio;
e con l'intervento di
ad opponendum:
SNADIR – Sindacato Nazionale Autonomo degli Insegnanti di Religione, Ruscica Orazio, Scivoletto Marisa, rappresentati e difesi dall'avv. Giuseppe Nastasi, ed elettivamente domiciliati in Roma, alla via Gavorrano, n. 12, presso lo studio dell’avv. Mario Giannarini;
per l'annullamento, in parte qua, previa sospensione,
del d.p.r. 22 giugno 2009, n. 122, pubblicato in G.U. n. 191 del 19 agosto 2009, avente ad oggetto ” Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi degli articoli 2 e 3 del decreto legge 1 settembre 2008, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169”, limitatamente agli artt. 2, commi 1, 4 e 6; 3, commi 1 e 2; 4, commi 1 e 3; 6, commi 2 e 3, nonché di ogni atto presupposto, consequenziale o comunque connesso ancorché allo stato incognito.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio delle amministrazioni intimate e del Sindacato opponente;
Viste le memorie difensive presentate dalle parti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 14 ottobre 2010 il cons. Massimo L. Calveri e uditi i difensori delle parti come specificato nel relativo verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1.- Nel premettere che la questione della partecipazione degli insegnanti di religione alle procedure valutative degli studenti della scuola pubblica è stata al centro di un notevole contenzioso, rammentano i ricorrenti che, da ultimo, con sentenza n. 7076 in data 17 luglio 2009, la Sezione III-quater di questo Tribunale ha annullato le ordinanze ministeriali un. 26/07 prot. n. 2578 e 30/08 prot. 2724, recanti “Istruzioni e Modalità per lo svolgimento degli Esami di Stato”, rispettivamente, per gli anni scolastici 2005/2006 e 2006/2007, nella parte in cui esse prevedevano che l’impegno e il profitto degli studenti che si avvalessero dell’insegnamento della religione cattolica o di insegnamenti alternativi fossero oggetto di valutazione ai fini dell’attribuzione del credito scolastico.
L’annullamento giudiziale delle predette ordinanze è stato disposto nella considerazione che esse “si pongono … in radicale contrasto con la lettera c) dell’articolo 9 della legge 21 del 1985, in quanto l’attribuzione di un credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti o dei loro genitori, quale quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione” e che “Il sistema complessivo, in essere in concreto, ha dunque l’effetto di indurre gli studenti a rinunciare alle scelte dettate dalla propria coscienza, garantita dalla Carta Costituzionale e dell’articolo 9 del Concordato, in vista di un punteggio più vantaggioso nel credito scolastico”.
1.1.- Riportando la testuale disciplina delle norme regolamentari, qui impugnate con atto notificato in data 14 dicembre 2009, rilevano i ricorrenti come il Governo interviene nuovamente in questa delicata materia, aggravando i vizi già stigmatizzati dalla sentenza n. 7076 del 2009.
Tanto in ragione del fatto che il nuovo testo regolamentare non contiene la previsione, un tempo usuale (e, a loro avviso, doverosa) nei provvedimenti ministeriali annualmente regolativi delle valutazioni degli studenti, che la “nota” relativa alla frequenza del corso di religione, di cui all’art. 309, comma 4, del d. d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, “diventa un giudizio motivato” (non, comunque, un voto), nel caso in cui il parere dell’insegnante di religione cattolica sia determinante.
Inoltre, essi soggiungono, il regolamento, in violazione della normativa vigente, procederebbe alla piena equiparazione degli insegnanti di religione a tutti gli altri docenti.
Con la conseguenza che da tali statuizioni discenderebbe un effetto gravemente discriminatorio nei confronti degli studenti che abbiano deciso di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, i quali rischierebbero di essere penalizzati nella valutazione complessiva e nell’attribuzione del credito scolastico rispetto ai colleghi che abbiano diversamente optato.
1.2.- Nell’esplicitare le ragioni della propria legittimazione alla presente impugnativa, i ricorrenti formulano tre motivi di ricorso, sollevando in subordine la questione di legittimità costituzionale della normativa di riferimento (artt. 9 legge n. 121/1985; art. unico d.p.r. n. 202/1990; art. 309 d.lgs. n. 297/1994; art. 6, 7 e 11 d.p.r. n. 323/1998) ove interpretata nel senso del provvedimento impugnato.
1.3.- Si costituivano in giudizio le amministrazioni intimate, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.
1.4.- Dispiegava intervento ad opponendum la SNADIR, Sindacato Autonomo degli Insegnanti di Religione, svolgendo argomentate considerazioni in favore della legittimità dell’impugnato testo regolamentare.
1.5.- Su accordo delle parti, l’istanza cautelare non è stata esaminata in vista della sollecita definizione nel merito del ricorso, che viene trattenuto in decisione alla udienza pubblica del 14 ottobre 2010.
2.- In via preliminare vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalle amministrazioni resistenti.
Si sostiene che il ricorso è stato proposto nei confronti di un atto regolamentare non suscettibile in via autonoma di arrecare una qualche lesione attuale e concreta degli interessi dei soggetti che hanno attivato l’impugnativa, soggiungendosi che comunque con il provvedimento impugnato non sono state attribuite misure di favore all’insegnamento della religione cattolica discriminando altre opzioni religiose ovvero sia stato pregiudicato il valore della laicità della scuola statale.
Il ricorso sarebbe poi inammissibile perché non notificato ad almeno uno degli alunni che hanno optato per l’insegnamento della religione cattolica, in violazione dell’art. 21 della legge n. 1034/1971 (ora art. 41, comma 2, c.p.a.).
2.1.- Le eccezioni non hanno pregio.
2.1.1.- Tutte le prospettazioni formulate con il ricorso sono dirette a censurare alcune norme del regolamento del d.p.r. n. 122/2009 nell’assunto che esse, contenendo disposizioni di favore per l’insegnamento della religione cattolica, introdurrebbe una discriminazione nei riguardi degli studenti che, come uno dei ricorrenti, non si sono avvalsi di detto insegnamento.
Trattasi quindi di normativa idonea, in ipotesi, a vulnerare autonomamente, e a prescindere dall’interposizione di atti amministrativi, il principio di laicità e di non discriminazione della scuola statale.
La riprova di quanto precede è offerta dalle stesse amministrazioni opponenti che, nell’argomentare il profilo di inammissibilità dell’impugnativa, escludono che comunque la censurata normativa contenga una disciplina discriminatoria nei riguardi degli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, compromettendo il principio del pluralismo religioso.
Tale argomentazione attiene però non già al piano della ritualità ma alla fondatezza del ricorso, che va pertanto esaminato nel merito.
2.1.2.- Quanto all’ulteriore eccezione di inammissibilità per omessa notifica del ricorso ad almeno uno dei controinteressati, individuabile in uno degli studenti che ha scelto di seguire l’insegnamento della religione cattolica, è del tutto pacifico che i ricorsi avverso atti normativi a contenuto generale, quale è quello impugnato, vanno notificati solo all'amministrazione che ha adottato l'atto, perché nei confronti di detti atti non sono configurabili controinteressati (tra le molte, CdS, VI, 13 aprile 2006, n. 2037).
3.- Con il primo motivo di ricorso è dedotto, con riferimento all’intero regolamento: Violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 5, del d. 1. n. 137 del 2008. Difetto di fondamento legislativo.
Si afferma che il regolamento impugnato è stato adottato in pretesa attuazione dell’art. 3, comma 5, del decreto legge n. 137 del 2008, a tenore del quale “Con regolamento emanato ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro dell‘istruzione, dell‘università e della ricerca, si provvede al coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli studenti, tenendo conto anche dei disturbi specifici di apprendimento e della disabilità degli alunni, e sono stabilite eventuali ulteriori modalità applicative del presente articolo”.
Poiché, come emergerà dallo svolgimento dei successivi motivi di ricorso, il regolamento non si sarebbe limitato al semplice coordinamento, ma avrebbe innovato la normativa vigente, esso avrebbe operato in carenza assoluta di fondamento legislativo.
3.1.- Stante il tenore del motivo, il suo esame non potrà che avvenire nel contesto dell’esame dei motivi successivi, perché – come puntualizzato dagli stessi ricorrenti – è con tali motivi che sarebbero state profilate censure secondo cui la potestà regolamentare governativa sarebbe stata esercitata debordando dalle finalità e dai limiti posti dalla norma primaria, confinati nel mero “coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli studenti”.
In realtà, come si vedrà nell’esposizione puntuale dei motivi dedotti, questi ultimi sono diretti, più che a censurare il difetto di fondamento legislativo delle norme regolamentari impugnate, ad evidenziare che dette norme, violando la normativa pattizia intervenuta tra Repubblica Italiana e Santa Sede, attribuiscano al docente di religione cattolica la possibilità di avere un peso determinante, in sede di scrutinio finale degli studenti, nelle decisioni collegiali adottate a maggioranza dal consiglio di classe, riconoscendo al docente di concorrere anche nell’attribuzione del punteggio per il credito scolastico, così determinando una disparità di trattamento tra gli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione e tra quelli che decidano di non avvalersene.
3.2.- Con il secondo motivo di ricorso è dedotta: con particolare riferimento agli artt. 2, commi 1, 4 e 6; 3, commi 1 e 2; 4, commi 1 e 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 9 legge n. 121/1985; art. unico d.p.r. n. 202/1990; art. 309 del d.lgs. n. 297/1994; punto 2.7 dell’Intesa di cui al d.p.r. n. 751/1985.
Nel riportare la normativa primaria e pattizia in ordine all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali e la correlativa posizione di status dei docenti di detto insegnamento, riferiscono i ricorrenti che le norme regolamentari censurate con il ricorso prevedono che: l’insegnante di religione partecipi al consiglio di classe; il consiglio di classe esprima le sue valutazioni sugli studenti, anche in riferimento alle ammissioni, con voto a maggioranza; conseguentemente, il docente di religione può avere un peso determinante nella decisione collegiale; in questo caso, però, contrariamente a quanto disposto dalle norme primarie o pattizie, quelle impugnate non stabiliscono che, se determinante, il voto dell’insegnante di religione divenga un semplice “giudizio motivato iscritto a verbale”.
Si produce, conseguentemente, la diretta violazione delle norme in epigrafe, in quanto non si fa salva la previsione dell’intesa del 1985 modificata nel 1990 (e, anzi, si fanno salve delle ipotetiche “intese future”, che non si comprende bene perché siano richiamate), consentendo - dunque - all’insegnante di religione di partecipare al giudizio in modo determinante; determinante in modo radicale, atteso che, ai sensi dell’art. 6, comma 2, la valutazione del comportamento dello studente (essenziale per la stessa ammissione) è collegiale, e che ad essa partecipa l’insegnante di religione, senza che il regolamento impugnato escluda che, sul punto, questi possa avere un peso decisivo.
Solo l’assenza di un voto determinante degli insegnanti di religione, invece, assicura il rispetto della libertà di scelta (in ordine all’avvalimento o meno dell’insegnamento della religione) sancito dalla Costituzione, dalla legge e dai patti con la Santa Sede, facendo in modo che la scelta se avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica sia davvero rimessa alla libera valutazione di ciascuno studente, poiché non possono in alcun modo derivarne incentivi, né penalizzazioni, a carico di alcuno.
L’inderogabilità del principio di libertà della scelta è fondamentale e inderogabile, come ribadito anche da questo Tribunale con la precitata sentenza n. 7076 del 2009, con la quale si è affermato che “in una società democratica, al cui interno convivono differenti credenze religiose, certamente può essere considerata una violazione del principio del pluralismo il collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico e quindi con un‘implicita promessa di vantaggi didattici, professionali ed in definitiva materiali”.
3.2.1.- Il motivo non è fondato.
Giova brevemente richiamare il quadro normativo e pattizio nel quale si iscrive la vicenda dell’insegnamento della religione cattolica in Italia.
E’ noto che con il Concordato tra la Santa Sede e la Repubblica italiana del 1984 è venuta meno l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola statale, già sancita con il Concordato del 1929.
Con la l. 25 marzo 1985, n. 121 (“Ratifica ed esecuzione dell'accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell'11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede”, lo Stato italiano, “riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”, si è impegnato “ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado” (art. 9, comma 2).
Con la medesima norma si è stabilito quanto segue: “Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All'atto dell'iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione”.
La legge ha poi trovato applicazione mediante Intese tra lo Stato Italiano e le diverse confessioni religiose, e, per quel che specificamente attiene alle modalità di organizzazione dell’insegnamento della religione cattolica, da Intesa intercorsa tra il Ministero della Pubblica Istruzione e la Conferenza Episcopale Italiana formalizzata con d.p.r. 16 dicembre 1985, n. 751 (“Esecuzione dell'intesa tra l'autorità scolastica italiana e la Conferenza episcopale italiana per l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche”), successivamente modificata e integrata con d.p.r. 23 giugno 1990, n. 202.
Di tale Intesa merita di essere richiamato, ai fini dell’impugnativa all’esame, il punto 2.7 dell’art. 2 del d.p.r. n. 751/1985, il cui ultimo periodo è stato aggiunto dall’Intesa allegata al d.p.r. n. 202/1990, che così recita: “Gli insegnanti incaricati di religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti ma partecipano alle valutazioni periodiche e finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell'insegnamento della religione cattolica, fermo quanto previsto dalla normativa statale in ordine al profitto e alla valutazione per tale insegnamento. Nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall'insegnante di religione cattolica, se determinante, diviene un giudizio motivato iscritto a verbale”.
L’ora menzionata norma pattizia è stata in sostanza recepita dall’art. 309 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297, con il quale è stato approvato il testo unico delle disposizioni vigenti in materia di istruzione; di tale articolo vanno menzionati i commi 3 e 4 del seguente tenore: “I docenti incaricati dell'insegnamento della religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri docenti, ma partecipano alle valutazioni periodiche e finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell'insegnamento della religione cattolica.
Per l'insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l'interesse con il quale l'alunno segue l'insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Con d.l. 1 settembre 2008, n. 137, convertito in legge con modificazioni dall'art. 1, comma 1, della l. 30 ottobre 2008, n. 169, contenente “Disposizioni urgenti in materia di istruzione e università”, sono state dettate, in particolare con gli artt. 1, 2 e 3, norme in materia di acquisizione delle conoscenze e delle competenze relative a “Cittadinanza e Costituzione” di valutazione del comportamento e degli apprendimenti degli alunni.; in applicazione degli artt. 2 e 3 dell’anzidetto decreto legge, è stato emanato il d.p.r. 22 giugno 2009, n. 122 (“Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni”), i cui artt. 2, 3, 4 e 6 costituiscono, in parte, oggetto dell’impugnativa all’esame.
Ritiene il Collegio che, nel delineato quadro normativo, non sono suscettibili di favorevole apprezzamento le censure dedotte con il motivo.
Non è anzitutto rispondente che le norme regolamentari impugnate consentano al docente di religione di partecipare a pieno titolo, assieme agli altri docenti, alla valutazione collegiale e periodica degli studenti della scuola primaria e secondaria.
Invero, sia nell’art. 2, comma 4, che nell’art. 4, comma 3, del testo regolamentare in questione, concernenti la valutazione degli alunni rispettivamente nel primo ciclo di istruzione e nella scuola secondaria di secondo grado, si rinviene la seguente medesima proposizione normativa : “La valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del decreto legislativo 16 aprile L 1994, n. 297, ed è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche all’intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n. 121”.
Orbene, stante il riferimento normativo alla disciplina contenuta nel precitato art. 309 per la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica, con la puntualizzazione quivi espressa che il docente di religione non esprime un voto, curando solo e soltanto la redazione di “una speciale nota” riguardante l’interesse e il profitto relativo a detto insegnamento, ai sensi del quarto comma del medesimo art. 309, è evidente come non sia predicabile che il docente in questione partecipi “a pieno titolo” assieme agli altri docenti alla valutazione degli studenti.
Tale partecipazione si modula infatti nei termini prefigurati dall’Intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, di cui all’accordo concordatario ratificato con la legge n. 121/1985 (peraltro opportunamente richiamato dalle norme regolamentari censurate), e quindi – per quel che qui interessa considerare – dal p. 2.7 dell’art. 2 del d.p.r. n. 751/1985, come integrato dal d.p.r. n. 202/1990, con il quale è stata data esecuzione dell’Intesa tra l’autorità scolastica italiana e la conferenza episcopale italiana per l’insegnamento della religione cattolica.
E’ il caso di ricordare, e di ribadire, in proposito che la modifica (recte: l’integrazione) del p. 2.7 dell’esecuzione dell’Intesa del 1985, ad opera dell’Intesa intervenuta nel 1990, è nel senso che “nello scrutinio finale, nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di religione cattolica, se determinante, diviene un giudizio iscritto a verbale”.
Dalle esposte considerazioni emergono i punti salienti che disciplinano la subiecta materia, sulla quale l’impugnata normativa regolamentare non ha in alcun modo inciso, limitandosi solo a richiamare, e a ribadire la vigenza, della disciplina pattizia cui fa sostanziale riferimento l’art. 309 del t.u. sull’istruzione.
Tali punti salienti possono riassumersi in quanto segue:
a.- il docente incaricato dell’insegnamento della religione cattolica fa parte della componente docente negli organi scolastici e possiede pertanto lo status degli altri insegnanti;
b.- egli partecipa alle valutazioni periodiche e finali, ma soltanto per gli alunni che si sono avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica (c.d. avvalentisi); non esprime un voto numerico, limitandosi a compilare una speciale nota, da consegnare assieme alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse manifestato e il profitto conseguito in detto insegnamento;
c.- nello scrutinio finale, per il solo caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di religione, se determinante, diviene un giudizio motivato da iscriversi a verbale.
Tanto premesso, e ribadito che il d.p.r. n. 122/2009 non è in alcun modo idoneo a immutare la riferita disciplina pattizia, consegue che la partecipazione del docente di religione alle valutazioni collegiali degli allievi è confinata – ovviamente per gli allievi avvalentisi – nei limiti circoscritti da detta normativa; d’altro canto, i ricorrenti affermano in modo apodittico la partecipazione dei docenti in questione alla stregua degli altri insegnanti, non menzionando una qualche situazione in cui ciò si sia verificato. Del resto, e concludendo sul punto, una volta chiarito che tali docenti non esprimono un voto numerico e che, nella particolare situazione descritta dall’ultimo periodo del p. 2.7 del d.p.r. n. 751/1985, formulano solo un giudizio motivato, non vi è ragione di asserire la prospettata assimilazione, non potendosi dubitare che il docente della religione cattolica, sotto lo specifico profilo dell’attività valutativa, non è assimilabile ai docenti delle materie curriculari.
Tanto vale anche con riferimento al profilo di censura che involge l’applicazione della proposizione normativa di cui al precitato p. 2.7 dell’Intesa (fattispecie rappresentata alla lettera c.- dei punti salienti di cui sopra), nei riguardi della quale si deduce che una sua non corretta interpretazione, in ordine al “voto espresso dall’insegnante di religione cattolica”, potrebbe condurre ad un’arbitraria equiparazione dei docenti di religione agli altri docenti.
E’ da osservare in proposito che la censura si sostiene sull’inesistente presupposto che il predetto voto si sostanzi in un voto di profitto; diversamente, il voto in questione è quello che concorre alla determinazione della maggioranza dell’organo scolastico chiamato a deliberare a maggioranza nello scrutinio finale, disponendosi in proposito che, ove tale voto sia determinante, esso deve diventare un giudizio motivato.
In definitiva, coerentemente alle previsioni della normativa concordataria, il docente di religione non esprime mai un voto numerico (circostanza questa ribadita proprio dall’impugnato comma 2 del d.p.r. n. 122, che, nel prefigurare le condizioni di ammissibilità agli esami di Stato degli studenti della penultima classe del secondo ciclo di istruzione, chiarisce che “le votazioni suddette [cioè quelle assegnate dai docenti negli scrutini finali dei due anni precedenti il penultimo] non si riferiscono all’insegnamento della religione cattolica”), ma sempre e comunque un giudizio.
Quanto poi alla doglianza secondo cui le norme regolamentari impugnate non farebbero salva la previsione dell’intesa del 1985 e la modifica intervenuta nel 1990, e che rinviino senza motivo a “intese future”, può osservarsi, come già anticipato, che proprio le norme impugnate fanno contestuale riferimento sia all’art. 309 del d.lgs. n. 297/1994, che in parte recepisce l’Intesa del 1985, sia al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge n. 121/1985, e che la salvezza di “eventuali modifiche all’intesa di cui al (predetto) punto 5 del Protocollo addizionale è indubbiamente una superfetazione normativa cui non può però attribuirsi il significato adombrato in ricorso, e cioè di un elemento di voluta vaghezza temporale idoneo a favorire la possibile disapplicazione e/o diversa interpretazione dell’attuale normativa pattizia vigente.
D’altra parte, non può non osservarsi che la rappresentata necessità di inserire nel corpo del regolamento di cui al d.p.r. n. 122/2009 il testo della modifica dell’Intesa intervenuta nel 1990 involge un profilo di tecnica redazionale dei testi normativi e non può certamente assurgere a dignità di censura apprezzabile nella sede giurisdizionale.
In proposito può solo auspicarsi (nei limiti della valenza di un auspicio formulato da un giudice di legittimità) che, in una materia così sensibilmente significativa involgente la libertà religiosa e il principio di laicità dello Stato, il Ministero della Pubblica Istruzione dia mano ad una nota informativa, chiara e puntuale, sull’insegnamento della religione cattolica, diretta agli organi scolastici e alle famiglie degli studenti, sugli aspetti organizzativi e sui riflessi didattici di detto insegnamento, con un necessario riferimento ovviamente anche alle previste opzioni alternative all’insegnamento della religione cattolica.
Quanto poi all’ordine di considerazioni formulate da questo Tribunale nella richiamata sentenza n. 7076/2009 (avente ad oggetto un ricorso diretto a censurare l’O.M. 30/2008 prot. 2724 recante “Istruzioni e Modalità per lo svolgimento degli Esami di Stato”), il Collegio non ritiene di poter condividere la conclusione quivi rinvenibile, e cioè che, alla luce della normativa regolamentare apprestata in subiecta materia dall’impugnato d.p.r. n. 122/2009, si dia luogo ad una violazione del principio del pluralismo in ragione del “collegamento dell’insegnamento della religione con consistenti vantaggi sul piano del profitto scolastico”.
Le ragioni di tale scostamento risulteranno meglio percepibili dalle considerazioni che si svolgeranno nell’esame del terzo motivo.
2.3.- Il quale è mirato a dedurre l’illegittimità dell’art. 6, comma 3, del d.p.r. n. 122/2009, in ordine alla modalità quivi prevista di attribuzione del credito scolastico in sede di scrutinio finale nel secondo ciclo di istruzione, perché violativo degli artt. 6, 7 e 11 del d.p.r. n. 323/1998, dell’art. 309 del d.lgs. n. 297/1994, nonché viziato di illogicità e di disparità di trattamento.
Si argomenta nel modo che segue.
La precitata disposizione regolamentare testualmente prescrive: “In sede di scrutinio finale il consiglio di classe, cui partecipano tutti i docenti della classe, compresi gli insegnanti di educazione fisica, gli insegnanti tecnico-pratici nelle modalità previste dall’art. 5, commi 1- bis e 4, del testo unico di cui al decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, e successive modificazioni, i docenti di sostegno, nonché gli insegnanti di religione cattolica limitatamente agli alunni che si avvalgono di quest’ultimo insegnamento, attribuisce il punteggio per il credito scolastico di cui all’art. 11 del decreto del Presidente della Repubblica 23 luglio 1998, n. 223 e successive modificazioni.”
Ove detta previsione normativa fosse interpretata in modo da intendere la “partecipazione” degli insegnanti di religione al consiglio di classe in sede di attribuzione del punteggio per il credito scolastico come partecipazione decisoria, essa sarebbe palesemente illegittima, potendo detti insegnanti partecipare al consiglio di classe solo con funzioni eventualmente consultive.
Diversamente, ove a tale docenti si attribuissero funzioni decisorie, sarebbe violata la libertà di scelta relativa all’avvalimento, perché gli studenti avrebbero interesse a vedersi attribuire crediti anche grazie alla decisione dell’insegnante di una materia ch’essi hanno scelto di frequentare e altri (legittimamente) no.
Oltretutto - si soggiunge – si determinerebbe in tal modo una disparità di trattamento fra studenti avvalentisi e no, atteso che la norma impugnata non fa alcun riferimento ai “docenti incaricati delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica”, i quali, ai sensi degli artt. 2, comma 5, e 4, comma 1, semplicemente “forniscono preventivamente ai docenti della classe elementi conoscitivi sull’interesse manifestato e il profitto raggiunto da ciascun alunno”, trovandosi così esclusi da un procedimento decisionale che vede, invece, protagonisti anche gli insegnanti di religione.
3.1.- Il motivo si compone di due distinte doglianze, involgendo l’una l’illegittimità della funzione decisoria attribuita ai docenti di religione nel consiglio di classe chiamato ad attribuire il punteggio per il credito scolastico; l’altra, la conseguente illegittimità per il diverso trattamento riservato a detta categoria di docenti rispetto a quella dei docenti di attività alternative all’insegnamento della religione cattolica, non essendo prevista la partecipazione di questi ultimi nel consiglio di classe.
3.1.1.- - La prima delle enunciate doglianze non merita adesione.
Il nucleo dell’assunto che sta alla base del motivo dedotto è sintetizzabile nel fatto che il docente di religione, con la sua partecipazione a pieno titolo al consiglio di classe per l’attribuzione del credito scolastico, introdurrebbe un elemento discriminatorio nei riguardi degli studenti non avvalentisi.
Al fine di esaminare compiutamente la censura dedotta, ravvisa il Collegio l’opportunità di illustrare il meccanismo del credito scolastico, disciplinato dall’art. 11 del d. p.r. n. 323 del 23 luglio 1998, n. 223 e successive modificazioni (contenente il “Regolamento recante disciplina degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore, a norma dell'articolo 1 della L. 10 dicembre 1997, n. 425”).
Della citata disposizione regolamentare vanno richiamati i primi due commi:
“Il consiglio di classe attribuisce ad ogni alunno che ne sia meritevole, nello scrutinio finale di ciascuno degli ultimi tre anni della scuola secondaria superiore, un apposito punteggio per l'andamento degli studi, denominato credito scolastico. La somma dei punteggi ottenuti nei tre anni costituisce il credito scolastico che, ai sensi dell'articolo 4, comma 6, si aggiunge ai punteggi riportati dai candidati nelle prove d'esame scritte e orali. Per gli istituti professionali e gli istituti d'arte si provvede all'attribuzione del credito scolastico, per il primo dei tre anni, in sede, rispettivamente, di esame di qualifica e di licenza.
Il punteggio di cui al comma 1 esprime la valutazione del grado di preparazione complessiva raggiunta da ciascun alunno nell'anno scolastico in corso, con riguardo al profitto e tenendo in considerazione anche l'assiduità della frequenza scolastica, ivi compresa, per gli istituti ove è previsto, la frequenza dell'area di progetto, l'interesse e l'impegno nella partecipazione al dialogo educativo, alle attività complementari ed integrative ed eventuali crediti formativi. Esso è attribuito sulla base dell'allegata tabella A e della nota in calce alla medesima”.
L’ora citata tabella A, in relazione a un valore indicato come M, che rappresenta la media dei voti conseguiti nello scrutinio finale di ciascun anno scolastico, fa corrispondere un punteggio che costituisce il credito scolastico. Tale punteggio non è fisso, ma oscilla tra il minimo e il massimo di una banda di oscillazione che varia di un punto. Esemplificando: chi al terzo anno ha la media di 6 può conseguire un credito scolastico tra 4 e 5 punti; se la media è compresa tra 6 e 7 il credito può variare da 5 a 6, e così di seguito.
La banda di oscillazione, e la conseguente possibilità per lo studente di cumulare un punto aggiuntivo, è influenzata da alcune variabili individuate (cfr. NOTA alla precitata Tabella A allegata al d.p.r n. 323 cit.) oltre che dalla media dei voti, anche dall'assiduità della frequenza scolastica, dall'interesse e dall'impegno nella partecipazione al dialogo educativo e alle attività complementari ed integrative, e da eventuali crediti formativi.
Quanto precede porta a formulare alcune significative considerazioni con riferimento al tema che ne occupa.
Il credito scolastico tiene conto della media dei voti in ciascun anno scolastico e degli altri elementi valutativi enumerati alla NOTA della Tabella A.
Per quanto attiene alla presenza dell’insegnante di religione cattolica nello scrutinio finale dove è attribuito il punteggio per il credito scolastico, è ovvio che la valutazione di detto insegnante non può discendere da un voto di profitto, che egli non esprime, ma dagli ulteriori elementi presi in considerazione (assiduità della frequenza scolastica, interesse e impegno nella partecipazione al dialogo educativo); elementi che, a ben vedere, corrispondono in parte a quelli che figurano nella “speciale nota”, prevista dall’art. 309 t.u. istruzione, da consegnare assieme alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse manifestato e il profitto conseguito dallo studente nell’insegnamento in questione.
Tanto premesso, non può aderirsi alla prospettazione contenuta in ricorso secondo cui la presenza del docente di religione nello scrutinio finale, in quanto incidente sul credito scolastico, sia idonea a determinare una situazione di discriminazione nei riguardi degli studenti che decidono di non avvalersi di detto insegnamento, e in particolare di quelli che decidono di non partecipare ad attività alternative e di assentarsi dalla scuola.
Invero, atteso che, in forza dell’accordo con la Santa Sede, la Repubblica italiana si è obbligata ad assicurare l’insegnamento di religione cattolica, e che, in omaggio al principio di laicità dello Stato, detto insegnamento è facoltativo, con la conseguenza che “solo l’esercizio del diritto di avvalersene crea l’obbligo scolastico di frequentarlo” (Corte cost., sent. n. 203 del 12 aprile 1989), non è irragionevole che il titolare di quell’insegnamento, divenuto obbligatorio in seguito ad un’opzione liberamente espressa, partecipi alla valutazione sull’adempimento dell’obbligo scolastico.
In buona sostanza, e come condivisibilmente sul punto ritenuto di recente dal giudice d’appello, “se si parte dal presupposto (non seriamente dubitabile alla luce…delle sentenze costituzionali [intervenute sulla materia]) secondo cui l’insegnamento della religione (o di altro corso alternativo) diviene obbligatorio dopo che è stata effettuata la scelta, allora non si vede la ragione per la quale la valutazione dell’interesse e del profitto con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento della religione non debba essere valutato” (CdS, VI, 7 maggio 2010, n. 2749).
In altre parole, una volta che per scelta concordataria, gli insegnanti incaricati di religione cattolica fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti (partecipando alle valutazioni periodiche e finali per gli alunni che si sono avvalsi di detto insegnamento), non si vede perché tali insegnanti, cui è attribuito lo status di docenti, non possano esprimere una valutazione su quegli elementi, immanenti ad ogni funzione docente, quali assiduità della frequenza scolastica, interesse e impegno nella partecipazione al dialogo educativo, dalla norma ritenuti incidenti sul credito scolastico.
E’ diffusa l’opinione che lo statuto didattico dei docenti di religione soffra di alcune ambiguità derivanti dalla formulazione della normativa pattizia di riferimento (il precitato punto 2.7 dell’art. 2 del d.p.r. n. 751/1985, trasfuso nell’art. 297 t.u. istruzione) che configura i docenti di religione cattolica come componenti del consiglio di classe. Tanto per la ragione, alla luce dei distinti profili sopra esaminati, che tali docenti, pur non esprimendo un voto numerico di profitto nella disciplina che insegnano, possono però risultare decisivi in sede di scrutinio finale, potendo anche incidere sull’assegnazione del credito scolastico.
Il Collegio non condivide un siffatto punto di vista ove si ponga mente che le intese concordatarie sono la risultante di concessioni reciproche tra i soggetti contraenti che danno luogo ad una disciplina dagli indubbi profili di singolarità. Tale è il caso dei docenti della religione cattolica che presentano uno status particolare, non assimilabile a quello del docente di materie curriculari. Ancorché essi procedano alla valutazione dell’insegnamento della religione cattolica senza attribuzione di voto numerico - non essendo tale insegnamento considerabile alla stregua di un’ordinaria disciplina soggetta, quanto al profitto, a valutazione di merito - essi non lasciano comunque di essere docenti al pari di quelli che compongono il consiglio di classe.
Consegue, come si è sopra argomentato, e per quel che più specificamente attiene alla previsione di un loro ruolo efficiente nella determinazione del credito scolastico, che tale previsione risponde ad un’evidente esigenza di ragionevolezza, non essendo ipotizzabile che a un docente sia impedito di poter valutare il comportamento degli allievi quanto meno sotto il profilo dell’interesse, dell’impegno e dell’assiduità con cui essi seguono un insegnamento da loro scelto.
E’ sulla base delle considerazioni che precedono che non si ritiene di poter aderire agli assunti svolti dalla Sezione-quater nella decisione n. 7076/2009, ampiamente richiamata in ricorso, che, sul tema del credito scolastico quale configurato dall’art. 3, comma 6, della legge n. 425/1997, assumendo “una radicale svalutazione del valore complessivo delle prove scritte ed orali rispetto al valore del voto finale”, ha ritenuto giustificabili “le preoccupazioni di chi non abbraccia tale culto, circa la rilevanza e l’incidenza dei crediti in questione sull’esito dell’esame”.
Intanto, va precisato – altrimenti divenendo fuorviante il riferimento all’incidenza del giudizio valutativo del docente di religione cattolica sul credito scolastico – che il punteggio che concorre a formare il credito trova la sua consistente (e preponderante) base nella media dei voti di profitto riportati dallo studente nei distinti anni scolastici, rispetto alla quale media il docente di religione cattolica è del tutto estraneo non esprimendo egli, come è pacifico, alcun voto. Il docente di religione, nella sua qualità di componente il consiglio di classe, è invece chiamato, al pari degli altri docenti, a fornire un giudizio sugli ulteriori parametri valutativi (assiduità della frequenza scolastica, interesse e impegno nella partecipazione al dialogo educativo) cui fa riferimento la precitata tabella A in ordine ai criteri determinativi del credito scolastico. Consegue che il giudizio del docente di religione si risolve in uno dei molteplici elementi da prendere in considerazione, nell’ambito di un giudizio complessivo della carriera scolastica e sul comportamento dello studente, al fine della possibile attribuzione di un punto aggiuntivo rispetto alla media dei voti conseguiti nello scrutinio finale.
Non è quindi rispondente una configurazione del credito scolastico sul quale può incidere in maniera significativa il giudizio del docente di religione cattolica; a parte l’obiettiva circostanza – non tenuta in considerazione - che, come ogni giudizio, esso non conduce necessariamente ad un esito di segno positivo.
Quanto poi al profilo di censura che deduce l’illegittimità del testo regolamentare in quanto la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione sarebbe discriminatorio rispetto agli studenti che decidono di non seguire alcuna attività alternativa, non presentandosi a scuola o da questa allontanandosi, valgano le conclusioni contenute nella precitata sentenza del Consiglio di Stato n. 2749/2010, che ha annullato la decisione n. 7076/2009, le cui considerazioni confutative, qui di seguito enunciate, trovano l’apprezzamento del Collegio.
Ritiene il Giudice d’appello che la partecipazione agli scrutini degli insegnanti di religione cattolica non interferisca con lo “stato di non obbligo” degli studenti non avvalentisi, non condizionandone né la libertà di scelta di non seguire alcuna attività alternativa, né discriminandoli in sede di giudizio scolastico.
A tale approdo interpretativo l’autorevole Consesso perviene valorizzando significativi contenuti della giurisprudenza della Corte costituzionale che, con le sentenze nn. 230/1989 e 13/1991, si è occupata dell’insegnamento della religione cattolica.
Questi gli assunti argomentativi svolti per escludere che rispetto agli studenti non avvalentisi possa esistere condizionamento o discriminazione:
a.- non esiste condizionamento, perché, come ha ritenuto la Corte costituzionale con la storica sentenza n. 203/1989, in tema di esame della questione se il minor impegno dei non avvalentisi possa condizionare la scelta degli avvalentisi, “si può certamente affermare che le famiglie e gli studenti che scelgono di non avvalersi dell’ora di religione e di non seguire alcuna attività formativa hanno motivazioni di tale serietà da non essere scalfite dal fatto che l’insegnante di religione (o l’insegnante di corsi alternativi) partecipi alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico. Una scelta legata a valori così profondi, come quelli che vengono qui in esame, non può essere condizionata da valutazioni di stampo più marcatamente utilitaristico, legate al fatto che optando per l’insegnamento della religione si potrebbe avere un vantaggio (peraltro eventuale e di minima portata) in termini di valutazione del rendimento scolastico)”;
b.- non vi è peraltro alcuna forma di discriminazione a carico dei non avvalentisi che non optano per insegnamenti alternativi, in quanto questi hanno le stesse possibilità di raggiungere il massimo punteggio in sede di attribuzione del credito scolastico rispetto agli studenti che seguono l’ora di religione o gli insegnamenti alternativi;
c.- è infine da escludere che una valutazione così importante e profonda di seguire o meno l’insegnamento della religione cattolica, che scaturisce da un esercizio di coscienza qual è quello della scelta di libertà di religione o dalla religione, “possa dipendere dalla mera possibilità di avere un vantaggio in sede di attribuzione del credito scolastico”. Con l’importante annotazione, quanto al supposto “vantaggio”, che esso “è del tutto eventuale, sia perché, lo studente non avvalentesi che sia comunque meritevole in tutte le altre materie può raggiungere il massimo punteggio in sede di credito scolastico, sia perché il giudizio dell’insegnante di religione (o del corso complementare) potrebbe essere anche negativo (e quindi incidere negativamente sul credito scolastico)”.
In definitiva, e per concludere sul punto in contestazione, chi decide di seguire la religione (o l’insegnamento alternativo) non è avvantaggiato, ma sarà giudicato sulla base dei parametri valutativi previsti per l’attribuzione del credito scolastico, nei minimali limiti – ripetesi - della banda di oscillazione. Chi diversamente ritiene liberamente di non avvalersi né dell’insegnamento della religione, né dell’insegnamento alternativo non è discriminato: “semplicemente non viene valutato nei suoi confronti un momento della vita scolastica cui non ha partecipato, ferma rimanendo la possibilità di beneficiare del punto ulteriore nell’ambito della banda di oscillazione alla stregua degli altri elementi valutabili a suo favore” (sent. CdS, n. 2749 cit.).
3.1. 2.- A diversa conclusione deve pervenirsi per la seconda delle doglianze svolte.
Invero, non può non aderirsi all’affermato punto di vista che l’omessa previsione degli insegnanti di materie alternative all’insegnamento di religione nel consiglio di classe che decide in ordine all’attribuzione del credito scolastico introduca, essa sì, un’evidente situazione discriminatoria nei riguardi degli studenti non avvalentesi che optino per l’insegnamento alternativo.
In proposito, si premette che con riferimento al tema dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali sono ipotizzabili quattro distinte situazioni: 1.- alunni che seguono l’insegnamento della religione cattolica; 2.- alunni che seguono attività alternativa; 3.- alunni che optano per lo studio individuale; 4.- alunni che scelgono di assentarsi dalla scuola (arg.: art. 8 O.M. n. 44 in data 5 maggio 2010 avente ad oggetto “Istruzioni e modalità organizzative ed operative per lo svolgimento degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria di secondo grado nelle scuole statali e non statali. Anno scolastico 2009/2010”).
Orbene, con riferimento alle fattispecie di cui ai pp. 1 e 2 non trova giustificazione il fatto, come peraltro statuito dall’art. 8 della precitata O.M. n. 44/2010, mutuando la disciplina contenuta negli impugnati artt. 4, comma 1, e 6, comma 3, che i docenti di religione cattolica “partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione, nell’ambito della banda di oscillazione, del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento, esprimendosi in relazione all’interesse con il quale l’alunno ha seguito l’insegnamento e il profitto che ne ha tratto”, mentre i docenti incaricati delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica “forniscono preventivamente ai docenti della classe elementi conoscitivi sull’interesse manifestato e sul profitto raggiunto da ciascun alunno”.
Invero, se, come affermato dalla Corte costituzionale, richiamando la terza proposizione dell’art. 9, numero 2, dell’Accordo ratificato con le legge n. 121/1985, il principio di laicità dello Stato “è in ogni sua implicazione rispettato grazie alla convenuta garanzia che la scelta non dia luogo a forma alcuna di discriminazione” (cit. sent. n. 203(1989), è evidente che il diverso trattamento, riservato nel procedimento decisionale alle due distinte categorie dei docenti in considerazione, introduca un vulnus alla posizione degli studenti non avvalentisi che decidano di seguire attività di insegnamenti alternativo. Non può di certo dubitarsi della disparità di trattamento introdotta dalla fonte regolamentare impugnata, atteso che un conto è sedere “a pieno titolo” nel consiglio di classe e concorrere alle sue deliberazioni in ordine all’attribuzione del punteggio per il credito scolastico, un conto è fornire preventivamente al consiglio di classe “elementi conoscitivi” sull’interesse e il profitto dimostrati da ciascuno studente; insomma, un conto è presenziare, e porsi in posizione dialettica nell’ambito dell’organo consiliare, un conto è rassegnare dei “meri elementi conoscitivi” che dovranno essere apprezzati “dai docenti della classe”.
Non può infine non osservarsi, ad ulteriore riprova della marginalizzazione dei docenti di attività alternative rispetto ai docenti di religione cattolica, che la disciplina introdotta in parte qua dall’impugnato d.p.r. n. 122/2009 (artt. 4, comma 1, e 6, comma 3) determina un irragionevole trattamento deteriore dei docenti di attività alternative rispetto alla previgente disciplina dettata con l’O.M. n. 44 in data 8 aprile 2009, concernente le modalità di svolgimento degli esami di Stato dell’a.s. 2008/09. L’art. 8, comma 13, di detta ordinanza così infatti statuiva”: “I docenti che svolgono l’insegnamento della religione cattolica partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l’attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento. Analoga posizione compete, in sede di attribuzione del credito scolastico, ai docenti delle attività didattiche e formative alternative all’insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attività medesime”.
3.4.- Nei limiti di cui in motivazione, e quindi solo in parte, il ricorso merita accoglimento, dovendosi dichiarare l’illegittimità degli artt. 4, comma 1, e 6, comma 3, del d.p.r. n. 122/2009, nella parte in cui è stata apprestata, in sede di credito scolastico, una disciplina discriminatoria per i docenti delle attività alternative all’insegnamento della religione cattolica.
Al di fuori di tale specifico ed unico aspetto, va invece escluso, alla stregua delle svolte considerazioni, che la normativa regolamentare impugnata sia afflitta dagli ulteriori dedotti profili di discriminazione in danno degli studenti non avvalentisi dell’insegnamento della religione cattolica.
Tali considerazioni conclusive portano a disattendere la questione di legittimità costituzionale, posta in via eventuale con il terzo motivo di ricorso, e sollevata nell’asserito contrasto dell’impugnata fonte regolamentare con gli artt. 2, 3, 7, 8 e 21 della Costituzione per irragionevolezza e disparità di trattamento, nonché per la compressione del principio di parità fra le confessioni religiose, della libertà religiosa e del diritto di manifestazione del pensiero.
In proposito va puntualizzato che, ancorché la rubrica del motivo rechi l’intestazione “Illegittimità derivata per l’illegittimità costituzionale degli artt. 9 l. n. 121 del 1985; art. unico d.P.R. n. 202 del 1990; 309 d.lgs. n. 297 del 1994; 6, 7 e 11 d.P.R. n. 232 del 1998 ove interpretati nel senso del provvedimento impugnato”, la questione di legittimità costituzionale viene sostanzialmente svolta nei riguardi delle norme già impugnate del testo regolamentare di cui al d.p.r. n. 122/2009.
Tanto premesso deve però osservarsi che, nel caso all’esame, si verte in tema di disposizioni normative di un regolamento, ancorché delegato in quanto emesso ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge n. 400/1988; donde l’inammissibilità della proposta questione di legittimità costituzionale.
Tanto alla luce del costante orientamento del Giudice delle leggi, secondo cui “nell'attuale configurazione monistica di forma di Governo con potere legislativo riservato al Parlamento, il controllo della Corte deve essere limitato alle sole fonti primarie” (sent. 24 gennaio 1989, n. 23).
Invero, il regolamento delegato, nel quale l'autorizzazione delle camere al governo non trasferisce a questo la funzione legislativa ma ampia soltanto la facoltà regolamentare del medesimo, conserva pur sempre natura di atto amministrativo, impugnabile solo davanti al giudice amministrativo (tra le molte: Tar Latina, 17 aprile 2000, n. 189); la conferma di quanto precede è del resto offerta dagli stessi ricorrenti che, in presenza di un atto formalmente amministrativo, hanno ritualmente avviato l’iniziativa giurisdizionale davanti al giudice amministrativo.
4.- Il ricorso va in parte accolto, nei limiti e ai sensi di cui in motivazione.
La complessità e la novità delle questioni spingono a compensare tra le parti le spese di giudizio e gli onorari di causa.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così dispone:
a.- accoglie il ricorso limitatamente all’impugnativa degli artt. 4, comma 2, e 6, comma 3, per i motivi enunciati in motivazione e, per l’effetto, ne dispone l’annullamento;
b.- lo respinge per la rimanente parte;
c.- compensa tra le parti costituite le spese di lite;
d.- ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 ottobre 2010 con l'intervento dei magistrati:
Evasio Speranza, Presidente
Paolo Restaino, Consigliere
Massimo Luciano Calveri, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 15/11/2010
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Re: Scuola, i Prof di relig. potranno contrib. al credito

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Visto che si parla di scuola metto quì questa sentenza nel caso possa servire a qualcuno.

Se il cane morde l’alunna nel cortile della scuola, l’Istituto scolastico paga i danni – Cassazione Civile, Sentenza n. 3680/2011
L’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissione dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni (anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso). Nonché, che è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 cod. civ.; sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante.
Nella fattispecie la Cassazione ha accolto il ricorso presentato nell’interesse di una studentessa addentata alla mano da un cane incustodito e senza museruola nel cortile antistante l’edificio scolastico, mentre si accingeva a uscire da questo al termine delle lezioni. In primo grado veniva rigettata dal Tribunale la domanda, di risarcimento del danno per le lesioni subite, avanzata nei confronti del Ministero della pubblica istruzione, così come l’appello proposta dalla stessa. In applicazione dell’enunciato principio, però, la Terza sezione civile ha cassato la sentenza impugnata e rinviato, per l’applicazione del principio di diritto, alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione.

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
Cassazione Civile, Sezione Terza, Sentenza n. 3680 del 15/02/2011
FATTO E DIRITTO
1. [OMISSIS] (studentessa prossima alla maggiore età), addentata alla mano da un cane incustodito e senza museruola nel cortile antistante l’edificio scolastico, mentre si accingeva a uscire da questo al termine delle lezioni, vedeva rigettata dal Tribunale la domanda, di risarcimento del danno per le lesioni subite, avanzata nei confronti del Ministero della pubblica istruzione. L’appello proposta dalla stessa veniva rigettato con sentenza del 5 settembre 2005.
2. Avverso la suddetta sentenza la M. ha proposto ricorso per cassazione, con un unico motivo, e depositato memoria. Il Ministero, ritualmente intimato, non ha svolto attività difensive.
3. La decisione impugnata ha rigettato l’appello sulla base delle seguenti argomentazioni:a) l’azione proposta in primo grado, come qualificata dal giudice adito e non specificamente impugnata sul punto, con conseguente passaggio in giudicato, è di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.;b) correttamente il Tribunale ha rigettato la domanda ex art. 2043 c.c., non potendosi configurare a carico della P.A. l’obbligo di impedire, attraverso appositi accorgimenti, compresa la destinazione di personale addetto alla sorveglianza all’ingresso, il verificarsi di simili eventi; né potendosi ritenere che la sorveglianza all’ingresso risponda a principi di prudenza e diligenza o che vi sia colpa (o dolo) della P.A. nella mancata predisposizione di accorgimenti idonei a evitare l’accesso di cani. Restando, perciò esclusa la possibilità di riferire l’evento alla responsabilità alla P.A.;c) l’appellante ha dedotto la violazione dell’obbligo contrattuale di garantire la sicurezza dei minori affidati alla scuola, ma la domanda non può esaminarsi perché nuova, essendo diversa da quella di risarcimento dei danni per responsabilità extracontrattuale, correttamente rigettata dal primo giudice.
3.1. La ricorrente, con unico motivo, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2048 c.c., in una con insufficiente e contraddittoria motivazione. Chiede che la sentenza sia cassata in applicazione del principio di diritto per cui, stante la portata generale dell’obbligo dell’amministrazione scolastica di garantire la sicurezza degli alunni, così che la sorveglianza e la custodia degli spazi frequentati dagli allievi deve intendersi finalizzata alla prevenzione di qualsivoglia rischio prevedibile, compresa l’introduzione di animali privi di custodia, chi agisce per il risarcimento deve dimostrare l’evento dannoso e il suo verificarsi nel tempo in cui l’alunno era sottoposto alla vigilanza dell’insegnante, restando indifferente che invochi la responsabilità contrattuale per negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza o la responsabilità extracontrattuale per omissione delle cautele necessarie, suggerite dall’ordinaria prudenza, in relazione alle specifiche circostanza di tempo e di luogo, affinché sia salvaguardata l’incolumità dei discenti minori.
4. Il ricorso è fondato.
4.1. Da quasi un decennio è principio consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, che il titolo della responsabilità del Ministero della pubblica istruzione, nel caso di alunni che subiscano danni durante il tempo in cui dovrebbero esser sorvegliati dal personale della scuola, può essere duplice e può esser fatto valere contemporaneamente. Il titolo è contrattuale se la domanda è fondata sull’inadempimento all’obbligo specificatamente assunto dall’autore del danno di vigilare, ovvero di tenere una determinata condotta o di non tenerla; extracontrattuale se la domanda è fondata sulla violazione del generale dovere di non recare danno ad altri. Quindi, lo stesso comportamento può essere fonte per il suo autore sia di una responsabilità da inadempimento, sia di una responsabilità da fatto illecito, quando l’autore della condotta anziché astenersene la tenga, ovvero manchi di tenere la condotta dovuta e le conseguenze sono risentite in un bene protetto, non solo dal dovere generale di non fare danno ad altri, ma dal diritto di credito, che corrisponde ad una obbligazione specificamente assunta dalla controparte verso di lui. Quando una tale situazione si verifica, il danneggiato può scegliere, sia di far valere una sola tra le due responsabilità, sia di farle valere ambedue (in particolare da Cass. n. 16947 del 2003 sino a tempi molto recenti).Pure pacifico da tempo è che l’accoglimento della domanda di iscrizione, con la conseguente ammissio
ne dell’allievo alla scuola, determina l’instaurazione di un vincolo negoziale, dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni (anche al fine di evitare che l’allievo procuri danno a se stesso). Nonché, che è applicabile il regime probatorio desumibile dall’art. 1218 cod. civ.; sicché, mentre l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, sull’altra parte incombe l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile né alla scuola né all’insegnante (da s.u. n. 9346 del 2002 sino al 2010).
4.2. La sentenza impugnata contrasta, evidentemente, con questi principi. Oltre a ignorare il duplice titolo di responsabilità e la facoltà di scelta in capo al danneggiato, non ha valutato la portata degli obblighi contrattuali derivanti all’amministrazione scolastica dall’iscrizione dell’alunno.
Con l’iscrizione, gli alunni sono affidati all’amministrazione scolastica, che esplica il proprio servizio attraverso il personale – docente e non – e mediante la messa a disposizione di locali, laboratori ecc. Dall’iscrizione deriva a carico dell’istituto l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e l’incolumità dell’allievo nel tempo in cui questi fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni. Quindi, anche l’obbligo di vigilare, predisponendo gli accorgimenti necessari a seconda della conformazione dei luoghi, affinché nei locali scolastici non si introducano terzi (persone o animali) che possano arrecare danni agli alunni. Ne deriva che, nelle controversie per il risarcimento del danno da lesioni provocate dall’aggressione di un cane incustodito, nei locali e pertinenze (come nel caso di specie il cortile antistante l’edificio scolastico) messi a disposizione dalla scuola, l’attore deve provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, mentre l’amministrazione ha l’onere di dimostrare che l’evento dannoso è stato determinato da causa non imputabile, essendo stati predisposti gli accorgimenti idonei ad impedire l’accesso a terzi.
5. La sentenza impugnata deve essere, pertanto, cassata. Il giudice di rinvio rinnoverà l’esame dell’appello applicando il suddetto principio di diritto e liquiderà le spese processuali anche del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione.
Depositata in cancelleria il 15 febbraio 2011
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Re: Scuola, i Prof di relig. potranno contrib. al credito

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Parere del Consiglio di Stato in merito al riconoscimento della Diocesi Ortodossa Romena d’Italia;

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Numero 03315/2011 e data 02/09/2011

REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 22 giugno 2011

NUMERO AFFARE 01973/2011
OGGETTO:
Ministero dell'interno - dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione.

Parere in merito alla richiesta di riconoscimento della personalità giuridica, ai sensi della legge n. 1159/1929, da parte della Diocesi Ortodossa Romena d’Italia;
LA SEZIONE
Vista la relazione trasmessa con nota prot. n. ……. del 12 maggio 2011, con la quale il Ministero dell’interno ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sulla richiesta in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore ed estensore consigliere Sabato Malinconico;

Premesso e Considerato:
Il Ministero dell’interno, nella suindicata relazione, premette che con giusto attestato del Patriarca in data 11 luglio 2008 il Santo Sinodo della chiesa ortodossa romena d’Italia ha approvato sia la costituzione della “Diocesi ortodossa romena d’Italia” con sede in Roma, sia, in data 19 giugno, 2009, il relativo statuto redatto con atto pubblico rep. n. 33128 del 6 ottobre 2009, a rogito del notaio G. F..
Con istanza in data 8 ottobre 2009, il legale rappresentante della predetta diocesi SILUAN, al secolo Span Ciprian Nicolae, ha chiesto il riconoscimento della personalità giuridica dell’organismo quale ente di culto diverso dal cattolico, ai sensi della legge n. 1159 del 1929 e del relativo regolamento approvato con R.D. n. 289 del 1930.
Circa le finalità di detto organismo il Ministero rileva che lo scopo principale dell’ente, essenzialmente religioso, è volto alla diffusione della fede della chiesa ortodossa. Lo stesso Dicastero sottolinea che la distribuzione geografica di 115 parrocchie in cui si articola la Diocesi dà conto del forte radicamento sul territorio nazionale della chiesa ortodossa romena alla quale aderisce una comunità religiosa assai rilevante ed in continua espansione, i cui fedeli a tutt’oggi ammontano a circa 300.000 unità.
Il Ministero nell’evidenziare, poi, come profili di interesse pubblico al riconoscimento, che la chiesa ortodossa svolge un ruolo nell’ambito della nuova immigrazione in Italia, fa presente che, tenuto conto della rilevata, articolata e diffusa presenza sul territorio della predetta comunità, sono state interpellate 64 prefetture, compresa quella di Roma ove ha sede l’organismo, che si sono espresse tutte in modo favorevole al richiesto riconoscimento.
Soggiunge, altresì, che il patrimonio dell’ente è costituito dalla somma di euro 43.864,16, come risulta da certificato del OMISSIS in data 11 novembre 2010, e da immobili siti nei comuni di Roma, Pavia e Pino Torinese.
Tale consistenza patrimoniale ed anche i bilanci consuntivi relativi agli anni 2007/2009 dimostrano, a parere del Ministero riferente, che l’ente dispone di mezzi finanziari sufficienti al raggiungimento dei propri fini.
La sede legale della “Diocesi ortodossa romena d’Italia” è fissata in un immobile di proprietà della stessa, sito in Roma, via Ardeatina n. 1741, acquistato con atto pubblico del 5 settembre 2008, repertorio n. 32729, a rogito notaio G. F..
Nel merito il Ministero evidenzia che:
a) in ordine allo Statuto, non si ha alcuna obiezione da formulare in quanto nello stesso sono puntualmente indicati, come prescritto, la denominazione, la sede e gli scopi, la composizione degli organi ed il loro funzionamento, il patrimonio (dal quale, come si è detto, risulta che l’ente ha i mezzi economico-finanziari sufficienti per il raggiungimento dei propri fini), nonché la disposizione in ordine alla devoluzione del patrimonio stesso in caso di estinzione dell’ente;
b) rileva peraltro che il legale rappresentante dell’Organismo, pur essendo domiciliato in Roma, è cittadino romeno, laddove la prassi amministrativa porterebbe a richiedere quale requisito del rappresentante dell’ente il possesso della cittadinanza italiana; peraltro, lo stesso Ministero richiama espressamente precedenti pareri di questo Consiglio di Stato, nei quali è stato rilevato che il tenore letterale dell’art. 10 del R.D. n. 289 del 1930 è tale da lasciare legittimamente spazio ad ipotesi di riconoscimento di enti che – configurandosi come diretta articolazione di organizzazioni confessionali che trascendono i confini di un singolo Stato – vedano preposto ai loro vertici, in qualità di legali rappresentanti, cittadini non italiani. In particolare tale orientamento si è evidenziato in occasione del riconoscimento della personalità giuridica della “Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia ed Esarcato per l’Europa meridionale” e “dell’Amministrazione della Chiesa ortodossa russa (patriarcato di Mosca) in Italia”.
Sulla base del quadro di fatto esposto, la Sezione ritiene che l’istanza volta al riconoscimento della personalità giuridica possa essere accolta, concordemente a quanto sostiene l’amministrazione riferente.
Deve rilevarsi infatti che dagli elementi evidenziati nella dettagliata e documentata relazione emerge con tutta evidenza che ricorrono i presupposti stabiliti dalla vigente normativa per la valutazione favorevole dell’istanza.
P.Q.M.
Esprime parere favorevole all’accoglimento dell’istanza.



IL PRESIDENTE
Filippo Patroni Griffi




IL SEGRETARIO
Francesca Albanesi
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notizia che riguarda il numero di alunni consentito per classe.


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GIUSTIZIA. Classi pollaio, Tar Lazio: Ministero si adegui

31/10/2011


In un'ordinanza pubblicata lo scorso 28 ottobre il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (Sezione Terza Bis) ordina al ministero Istruzione, Università e Ricerca di depositare nella segreteria della sezione nel termine di giorni dieci decorrenti dalla comunicazione il Piano di riqualificazione dell'edilizia scolastica. Tutto inizia lo scorso dicembre, quando il Tar accoglie il ricorso del Codacons sulle classi-pollaio, richiamando il ministero al rispetto delle leggi vigenti in materia di affollamento delle aule scolastiche.

Il decreto sul dimensionamento scolastico, voluto nel 2009 da Tremonti, impone limiti al numero degli alunni per classe fino a 30, ma una norma del 1992 stabilisce che in caso di incendio in classe debbano esserci al massimo 26 persone: 25 alunni più l'insegnante. "Se il ministero vuole classi più numerose deve anche assicurarsi che gli edifici scolastici siano idonei ad ospitarle, nel rispetto delle norme di sicurezza vigenti", si legge in una nota del Codacons che commenta la sentenza. E il Piano in questione serve proprio a questo, ma nessuno lo ha ancora predisposto.
Viale Trastevere si è opposto al pronunciamento dei giudici del Tar, ma lo scorso giugno il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso confermando la precedente senza del Tar.
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Empoli (FI): liceo propone ora di morale laica

Il sito GoNews rende noto che presso il liceo Pontorno di Empoli sarà possibile avvalersi, in alternativa all’insegnamento della religione cattolica, di un’ora di morale laica, insegnata da docenti di filosofia.


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Per chi non fa religione a scuola c'è l'ora di 'morale laica'. Succede al 'Pontormo'
Il liceo presenta una serie di novità in vista del prossimo anno scolastico. 'Open day' fissato per il 10 dicembre
09/12/2011

Sabato 10 dicembre , dalle ore 15.30 alle ore 18.30, l’Istituto Statale di Istruzione Superiore “Il Pontormo” rimane aperto, per dare informazioni a tutti gli interessati sugli indirizzi e sulle caratteristiche educative di questo storico istituto della nostra città. Da questo anno scolastico agli indirizzi tradizionali del liceo scientifico si affianca il liceo delle scienze umane che a sua volta propone due opzioni, quella di base e quella economico sociale. Il liceo delle Scienze umane è uno dei nuovi licei previsti dalla riforma della scuola superiore e sostituisce il precedente liceo psicosociopedagogico.
La finalità del liceo delle scienze umane è quella di studiare in particolare l’uomo ed i fenomeni sociali, analizzare le teorie che spiegano la costruzione dell’identità personale e le relazioni che si determinano all’interno di una società. Fornisce quindi allo studente le conoscenze, le abilità e le competenze necessarie per cogliere la complessità e la specificità dei processi di formazione della persona. Accanto a questo nuovo indirizzo, ci sono il liceo scientifico tradizionale, realizzato per fornire una preparazione che possa consentire l’iscrizione a qualsiasi facoltà universitaria, l’opzione delle scienze applicate e quella del bilinguismo. L’opzione delle scienze applicate è una delle novità della riforma, avrà il compito di fornire agli studenti competenze particolarmente avanzate negli studi afferenti alla cultura scientifico-tecnologica, con particolare riferimento alle scienze matematiche, fisiche, chimiche, biologiche, all’informatica e alle loro applicazioni. Verranno illustrate le attività educative istituzionali e quelle che hanno il compito di aumentare e migliorare l’offerta formativa.
Tra le caratteristiche della scuola vogliamo segnalare la possibilità di poter scegliere un’attività alternativa alla religione cattolica, gli studenti potranno avvalersi di un insegnamento di morale laica, proposta da docenti di filosofia. Un altro aspetto che verrà presentato è la presenza di una struttura architettonica e multimediale che consente a tutti gli studenti, anche a quelli diversamente abili o a quelli costretti a lunghi periodi di assenza, di poter seguire le lezioni a distanza, attraverso l’ausilio di specifiche attrezzature. La novità di quest’anno è la possibilità di utilizzare, in alcune aule, la lavagna interattiva multimediale. Dal passato anno scolastico l’Istituto sperimenta la doppia ricreazione. Con la riforma le ore di insegnamento sono state portate a sessanta minuti, di conseguenza si entra alle 08.00 si esce, in alcuni giorni, alle 14, un tempo di lavoro e di impegno consistente. In queste circostanze un solo periodo di riposo è sembrato troppo breve, la scuola ha così scelto di fermarsi per dieci minuti, ma in due momenti della mattinata, alle dieci e a mezzogiorno.

L'intervista alla docente Monica Zefferi si può ascoltare sul sito GoNews
Fonte: Liceo 'Pontormo' - Empoli
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Quesito su nomina dei Ministri di culto.

1)- A parere della Sezione il gruppo di fedeli del particolare culto per il quale è richiesta l’approvazione della nomina di un ministro dovrebbe tendere al valore orientativo di 500 persone distribuite nelle varie fasce di età.

2)- Ove invece la collocazione sul territorio dei fedeli non sia concentrata in un ambito sufficientemente ristretto ma interessi l’intero territorio nazionale il valore di tale “modulo distribuito” dovrà essere di misura nettamente superiore, orientativamente intorno alle cinquemila unità.

3)- In conclusione, si è del parere che l’autorizzazione al ministro di culto debba essere concessa solo se la dimensioni della comunità di fedeli raggiunga un valore tale da far ritenere possibile l’esigenza di celebrazione di atti di culto produttivi di effetti giuridici nel nostro ordinamento (matrimoni).
Tale valore può essere orientativamente indicato in 500 persone, corrispondente di massima con le più piccole parrocchie cattoliche con parroco residente ovvero intorno alle cinquemila persone ove la comunità di fedeli sia distribuita in tutto il territorio nazionale.

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Numero 00561/2012 e data 02/02/2012

REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima

Adunanza di Sezione del 11 gennaio 2012

NUMERO AFFARE 01834/2011

OGGETTO:

Ministero dell'interno-Dipartimento per le libertà civili e l'immigrazione.

Nomina dei Ministri di culto. Requisiti oggettivi per la valutazione con riferimento al numero dei fedeli. Quesito.

LA SEZIONE
Vista la relazione n. 00011119 del 29 aprile 2011 pervenuta il 4 maggio successivo, con la quale il Ministero dell’interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione - ha chiesto il parere sul quesito in oggetto;
vista la nota n. 0002693 del 28 novembre 2011 originata dallo stesso Dipartimento contenente gli adempimenti all’incombente istruttorio di cui al parere interlocutorio della Sezione n. 01834/2011 del 15 giugno 2011;
Esaminati gli atti e udito il relatore consigliere Sergio Siracusa;

Premesso:
1. Riferisce l’Amministrazione che la nomina dei ministri di culto trova la propria regolamentazione nella legge 24 giugno 1929, n. 1159, recante "disposizioni sull'esercizio dei Culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi" e più specificamente nell' art. 3, nonché negli artt. 20, 21 e 22 del Regio Decreto 28 febbraio 1930, n. 289.
L'applicazione del citato complesso normativo è spesso resa difficile dalla carenza di organicità e di completezza ed è grazie alla linea interpretativa elaborata dal Consiglio di Stato con vari pareri, ed in particolare con il parere n. 6357 (rectius n. 02758/2009) - reso dalla Sezione Prima nell'adunanza del 23 settembre 2009 - che la Amministrazione concede ai ministri dei culti non regolati da intese l'approvazione della nomina, con provvedimento valido su tutto il territorio nazionale.
Il parere richiamato ha, infatti, costituito un momento di svolta nell'interpretazione della procedura, avendo ribadito sia che l'approvazione governativa amplia la sfera dei poteri del ministro di culto ricollegando agli atti compiuti da quest'ultimo, nell'esercizio del suo ministero, effetti diretti nell'ordinamento dello Stato (efficacia del matrimonio), sia avendo chiarito, per converso, che la mancata approvazione non determina alcun impedimento per l'opera del ministro di culto, ben potendo lo stesso continuare ad esercitare liberamente l'attività pastorale in tutto il territorio nazionale in virtù dei poteri conferitigli dalla Chiesa di appartenenza.
Il medesimo parere ha, altresì, evidenziato l'ampiezza della discrezionalità attribuita all'Amministrazione nella valutazione della sussistenza di requisiti necessari all'adozione del provvedimento che, sotto il profilo soggettivo, sono riconducibili all'affidabilità, alla serietà ed alla moralità della persona che deve rivestire la delicata carica pastorale, mentre, sotto il profilo oggettivo, sono riscontrabili nella "sussistenza di una comunità di fedeli qualitativamente e quantitativamente consistente".
Orbene, prosegue l’Amministrazione, sempre più frequenti sono le istanze correlate all'insorgere di associazioni religiose cui aderiscono poche decine di fedeli e, in alcune situazioni, la richiesta è addirittura ancorata ad una base di 10 fedeli; in tali casi l'esiguità del numero sembrerebbe deporre a sfavore della rilevanza quali-quantitativa della comunità religiosa e, conseguentemente, della necessità che il ministro debba compiere atti di culto produttivi di effetti giuridici nel nostro ordinamento.

Ciò premesso, fermo restando il pieno rispetto dell'autonomia e della libertà religiosa riconosciuta dall'art. 8 della Costituzione, non può non rilevarsi che in tali casi la richiesta di approvazione della nomina del ministro di culto appare strumentale ad una mera forma di legittimazione dell'organismo religioso in seno alla realtà sociale in cui opera e, pertanto, l’Amministrazione ritiene di avere la potestà di negare l'approvazione della nomina allorquando l'esiguità del numero dei fedeli sia tale da non evidenziare la reale esigenza di collegare agli atti compiuti dal ministro di culto la produzione di effetti giuridici nell'ordinamento. D'altro canto, se così non fosse, si dovrebbe riconoscere all'approvazione della nomina la caratteristica di atto "dovuto", soggetto alla sola verifica della regolarità formale e cioè all'effettiva provenienza dell'atto di nomina dalla confessione religiosa di appartenenza, con i soli limiti derivanti dalla professione di principi contrari all'ordinamento giuridico italiano o di riti contrari al "buon costume".
Quanto esposto evidenzia come la mancanza di una espressa indicazione normativa renda, tuttavia, concreta la possibilità che l’Amministrazione incorra nel rischio di un illegittimo diniego ovvero in una disparità di trattamento tra le organizzazioni religiose ed occorre, quindi, individuare quanto prima dei criteri minimi cui fare riferimento per ritenere la sussistenza del requisito numerico oggettivo.
È dunque su questo specifico punto, che esplica una diretta incidenza sulle modalità attuative dell'esercizio del culto e sull'attribuzione di poteri che producono effetti civili nell'ordinamento, conclude l’Amministrazione, che si ritiene di dover nuovamente interpellare il Consiglio di Stato per conseguire il superamento di ogni residuo dubbio interpretativo.
Considerato:
2. Il quesito è inteso a conoscere il parere della Sezione in merito al valore della soglia quantitativa minima di fedeli necessari per poter procedere alla nomina di ministri di culto nei confronti di confessioni religiose non munite di leggi di intesa.
3. Si richiama di seguito la normativa di interesse:
a. La legge 24 giugno 1929, n. 1159 (Disposizioni sull'esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi), all’art. 3, prevede che “Le nomine dei ministri dei culti diversi dalla religione dello Stato debbono essere notificate al Ministero della giustizia e degli affari di culto (oggi Ministero dell’interno) per l'approvazione. Nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero compiuti da tali ministri di culto, se la loro nomina non abbia ottenuto l'approvazione governativa.”;
b. il r.d. 28 febbraio 1930, n.289 contiene le “Norme per l’attuazione della legge 24 giugno 1929, n. 1159 sui culti ammessi nello Stato e per coordinamento di essa con le altre leggi dello Stato.”;
c. le “Istruzioni del Ministero dell’interno, Dir. Gen. degli Affari di Culto, inviata nel 1956 ai Prefetti della Repubblica, contengono, al paragrafo 5., lettera B, le norme per la “Approvazione di nomine a ministri di culto”.
4. Le considerazioni espresse con il richiamato parere della Sezione n. 02758/2009 del 23 settembre 2009 hanno ricordato che la “Corte costituzionale con sentenza n. 59/1958, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge n. 1159/1929.
A tali conclusioni la Corte è giunta partendo dalla distinzione fra la libertà di esercizio dei culti acattolici come pura manifestazione di fede religiosa e l’organizzazione delle varie confessioni nei loro rapporti con lo Stato.
Se la facoltà di regolare i rapporti con lo Stato viene effettivamente esercitata – ha ritenuto la Corte - è evidente che, dalle norme che ne risultano, così come la confessione religiosa riceve dei vantaggi, del pari deve subire i limiti che, nell'interesse dello Stato ad essi logicamente si riconnettono, limiti che a loro volta devono esser tali da non violare i diritti già assicurati dalla Costituzione.
È legittimo, quindi, che allorquando agli atti dei ministri di culti acattolici siano riconosciuti effetti giuridici (come l’efficacia del matrimonio), le nomine dei ministri di culto, a questi effetti e solo a questi effetti, “ricadano sotto la ricognizione e il controllo dello Stato, mercè i provvedimenti di approvazione”.
In definitiva, quindi, l’approvazione governativa non occorre per il compimento di atti di culto. Qualora, però, l’ordinamento generale conferisca ad un soggetto, in quanto ministro di culto, delle facoltà, dei poteri, degli esoneri da limiti cui deve sottostare ogni cittadino, allora è legittima l’approvazione della nomina.
5. Per rispondere al quesito posto dall’Amministrazione occorre individuare criteri di riferimento per valutare la consistenza del requisito numerico oggettivo di fedeli per la concessione dell’approvazione governativa, allo scopo di evitare la possibilità di incorrere nel rischio di un illegittimo diniego ovvero in una disparità di trattamento tra le organizzazioni religiose.
Appare opportuno preliminarmente precisare che la “consistenza numerica” è solo uno dei fattori di cui l’Amministrazione deve tenere conto nel procedere alla autorizzazione della nomina dei ministri di culto. Altri elementi che debbono essere tenuti in considerazione sono quelli indicati all’art. 20, terzo comma, del r.d. 28 febbraio 1930, n.289: “denominazione del culto, i suoi scopi, i suoi riti, i mezzi finanziari dei quali dispone, i nomi degli amministratori, l’autorità ecclesiastica da cui dipende.” Nonché sotto il profilo soggettivo, l'affidabilità, la serietà e la moralità della persona che deve rivestire la delicata carica pastorale.
Per quanto concerne la “consistenza numerica, si ritiene che la individuazione di tale valore possa essere collegata quantitativamente ad un gruppo sociale nel quale gli eventi legati ad atti di culto produttivi di effetti giuridici nel nostro ordinamento (per esempio matrimoni) abbiano una frequenza apprezzabile su base annuale. Occorre in altre parole cercare di individuare un modulo base di fedeli al disopra del quale può essere giustificata la presenza di un ministro di culto munito di autorizzazione alla celebrazione del matrimonio con effetti civili nell’ordinamento dello Stato e ad avvalersi dei privilegi e prerogative previste dal citato r.d. 28 febbraio 1930, n.289 con riguardo a richieste di autorizzazioni ad apertura di templi od oratori (art. 1), possibilità di indire e presiedere riunioni pubbliche di culto nei templi od oratori autorizzati (art. 2), pubblicazione ed affissione di atti all’interno e alle porte esterne dei templi (art. 3), eseguire collette all’interno e agli ingressi dei templi (art. 4), autorizzazione a frequentare luoghi di cura (art. 5), assistenza a carcerati (art. 6), dispensa dalla chiamata alle armi (art. 7), assistenza ai militari (art. 8), istruzione religiosa scolastica (art. 23).
6. Può rivelarsi opportuno al proposito fare riferimento all’ordinamento del culto più diffuso in Italia per poi eventualmente passare ad esaminare modelli di culti o istituzioni religiose di minore rilevanza e diffusione.
La più piccola articolazione territoriale della Chiesa cattolica è la parrocchia.
Ad essa è preposto un parroco a cui sono affidate le responsabilità pastorali nella loro interezza con possibilità di delega di alcune di esse ad un assistente ove disponibile.
Il Ministero potrà agevolmente accertare il numero minimo di persone costituenti il gruppo sociale dotato di parrocchia con parroco residente. Ricadono in questi casi i Comuni più piccoli della Repubblica o piccole frazioni di Comuni.
Per realtà inferiori la Chiesa cattolica quasi sempre mantiene agibile l’edificio di culto ma non designa un parroco residente e affida la cura delle anime ad una presenza periodica settimanale e saltuaria “on call” ad un parroco di una parrocchia vicina o ad un suo assistente.
A parere della Sezione il gruppo di fedeli del particolare culto per il quale è richiesta l’approvazione della nomina di un ministro dovrebbe tendere al valore orientativo di 500 persone distribuite nelle varie fasce di età.
L’Amministrazione potrà verificare tale valore e prendere in esame modelli riferiti ad altri culti anche non regolati da intese con lo Stato Italiano e modificare ove opportuno il valore del “modulo base” di 500.
Un secondo aspetto da esaminare è individuato nella distribuzione sul territorio dei gruppi di fedeli della stessa confessione religiosa.
La dimensione del “modulo base” avrà valore solo se riferita a una comunità di fedeli concentrata in un agglomerato urbano o comunque in un ambito territoriale sufficientemente ristretto.
Ove invece la collocazione sul territorio dei fedeli non sia concentrata in un ambito sufficientemente ristretto ma interessi l’intero territorio nazionale il valore di tale “modulo distribuito” dovrà essere di misura nettamente superiore, orientativamente intorno alle cinquemila unità.
La nomina del ministro di culto potrà essere approvata al verificarsi in alternativa dei due moduli.
7. È da aggiungere altresì che il valore dei moduli orientativamente indicati, e riferito ad una comunità di fedeli abbisognevoli di guida spirituale fino a comprendere con una ragionevole frequenza la celebrazione di matrimoni, può richiedere la presenza anche di un sostituto del ministro di culto titolare, in grado di sostituire il titolare in caso di impedimento di qualsiasi genere.
Pertanto appare ragionevole prevedere che per tale gruppo di fedeli la possibilità di autorizzare, ove richiesto, un secondo ministro di culto.
8. Per quanto concerne la verificabilità dei numeri orientativi indicati, con riferimento alla salvaguardia della libertà di “professare la propria fede religiosa” costituzionalmente garantita, indicata dal Dipartimento degli affari giuridici e legislativi nella sua nota n. 6241 del 26 settembre 2011, essa potrà essere ottenuta tramite spontanea dichiarazione dei fedeli e non tramite accertamenti eseguiti contro la volontà degli stessi.
9. In conclusione, si è del parere che l’autorizzazione al ministro di culto debba essere concessa solo se la dimensioni della comunità di fedeli raggiunga un valore tale da far ritenere possibile l’esigenza di celebrazione di atti di culto produttivi di effetti giuridici nel nostro ordinamento (matrimoni).
Tale valore può essere orientativamente indicato in 500 persone, corrispondente di massima con le più piccole parrocchie cattoliche con parroco residente ovvero intorno alle cinquemila persone ove la comunità di fedeli sia distribuita in tutto il territorio nazionale.
Ove ritenuto opportuno la comunità di fedeli delle suddette dimensioni potrà disporre di un secondo ministro di culto in grado di sostituire il primo in caso di impedimento.
P.Q.M.
Nelle esposte considerazioni è il parere del Consiglio di Stato.



L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Sergio Siracusa Giuseppe Barbagallo




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Quanto è ricca la chiesa cattolica? Assai da sfamare tutti i poveri e le persone bisognose ed anche il TERZO MONDO, invece che fa?


dal sito:
http://www.futurodigitale.com/notizie-g ... l-vaticano" onclick="window.open(this.href);return false;

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L'oro del vaticano

Il tema delle ricchezze della Chiesa Cattolica è stato da sempre oggetto di discussioni nel mondo.C'è chi inorridisce di fronte ai tanti dati che negli ultimi 50 anni sono stati dati da giornalisti e scrittori e c'è chi parla di falsità. E' un tema complesso,per cui mi limiterò a dare alcuni dati salienti,spiegando in un secondo momento l'origine di tanto grandi ricchezze.

L'Oro del Vaticano
La Chiesa Cattolica possiede il secondo tesoro in oro più grande del mondo. La rivista italiana Oggi,nel 1952,stimò questo tesoro in 7.000 milioni di lire (=3.500.000.000 di euro odierni). Un tesoro straordinario,se comparato con i miseri 400 milioni di lire in oro dello Stato italiano e secondo solo a quello degli Stati Uniti. Sono passati quasi 50 anni. A quanto ammonterà il tesoro oggi giorno?Calcolando gli interessi, possiamo stimare l'incremento del valore del tesoro in un 63%,più del doppio quindi. Questo significa che ad oggi il tesoro in oro supererebbe i 7 miliardi di euro.
Il tesoro del Vaticano in metalli preziosi è stato stimato dalla pubblicazione United Nations World Magazine come ammontante a diversi milioni di dollari. Una gran parte di questo tesoro è immagazzinata in lingotti presso la U.S. Federal Reserve Bank, mentre il resto è custodito in banche britanniche ed elvetiche. Questa, comunque, non è che una piccola quota della ricchezza del Vaticano che, nei soli Stati Uniti, è più consistente di quella delle cinque aziende più floride della nazione. Se a questo si aggiungono proprietà immobiliari, azioni e titoli all'estero, la cospicua fortuna della Chiesa cattolica diventa così imponente che risulta impossibile darne una valutazione credibile.(39)

Le azioni del Vaticano
Sembrerebbe incredibile ma la Chiesa possiede anche delle azioni. Le notizie a riguardo sono più facili da trovare e,frequentemente, vari giornali internazionali,come il Der Spiegel o El Pais, ne hanno parlato. Tempo fa avevo parlato degli investimenti della Banca Cattolica Pax. Il giornale Der Spiegel scoprì,nel 2010, che la banca aveva investito in azioni di aziende operanti nel mercato del tabacco, della difesa, di armi e della contraccezione. Due anni prima,nel 2008, vari giornali spagnoli riportarono la notizia degli investimenti azionari degli arcivescovati di Madrid e Burgos nel laboratorio farmacéutico Pfizer. Un'impresa que tra i tanti farmaci fabbrica anche un anticoncezionale. Come dire: quando si tratta di affari non si guarda in faccia a nessuno. Certamente le riserve finanziarie del Vaticano,non si fermano qui. "Sono principalmente concentrate a Wallstrett,la più famosa borsa del mondo. In totale il patrimonio finanziario della Chiesa Cattolica,in azioni e altre partecipazioni, ammontava nel 1958 a 50.000 milioni di marchi tedeschi. '' 4) pág. 153

Una cifra che,nel frattempo. potrebbe aver tranquillamente superato i 100 milioni di euro.
"Il Vaticano possiede enormi investimenti presso gli istituti Rothschild di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, la Banca Hambros, il Credit Suisse di Londra e Zurigo. Negli Stati Uniti ha ingenti investimenti presso la Morgan Bank, la Chase-Manhattan Bank, la First National Bank di New York, la Bankers Trust Company e presso altri istituti di credito. Il Vaticano possiede miliardi di quote delle più potenti multinazionali, come Gulf Oil, Shell, General Motors, Bethlehem Steel, General Electric, International Business Machines, T.W.A. etc. Facendo una stima prudenziale, nei soli Stati Uniti tali quote ammontano ad oltre 500 milioni di dollari.
In un documento pubblicato come parte integrante di un prospetto informativo relativo ad investimenti obbligazionari, l'arcidiocesi di Boston ha stimato le sue risorse in seicentotrentacinque milioni di dollari ($ 635,891,004), vale a dire 9.9 volte le sue passività. Questo significa un valore netto di cinquecentosettantuno milioni di dollari ($ 571,704,953). Non è quindi difficile risalire alla stupefacente ricchezza della Chiesa, una volta che aggiungiamo gli introiti delle vent’otto arcidiocesi e delle 122 diocesi degli U.S.A., alcune delle quali sono anche più doviziose di quella di Boston.".(39)
La Chiesa di Roma, una volta sommati i suoi patrimoni, è il maggior agente di cambio del mondo. Il Vaticano, indipendentemente dai vari papi di passaggio, si è sempre di più orientato verso gli USA. Il Wall Street Journal ha affermato che le transazioni finanziarie del Vaticano nei soli Stati Uniti sono state così importanti che spesso riguardavano la compravendita di oro per lotti da uno o più milioni di dollari alla volta. (39)
Il tesoro del Vaticano in metalli preziosi è stato stimato dalla pubblicazione United Nations World Magazine come ammontante a diversi milioni di dollari. Una gran parte di questo tesoro è immagazzinata in lingotti presso la U.S. Federal Reserve Bank, mentre il resto è custodito in banche britanniche ed elvetiche. Questa, comunque, non è che una piccola quota della ricchezza del Vaticano che, nei soli Stati Uniti, è più consistente di quella delle cinque aziende più floride della nazione.(39)
La Chiesa di Roma, una volta sommati i suoi patrimoni, è il maggior agente di cambio del mondo. Il Vaticano, indipendentemente dai vari papi di passaggio, si è sempre di più orientato verso gli USA. Il Wall Street Journal ha affermato che le transazioni finanziarie del Vaticano nei soli Stati Uniti sono state così importanti che spesso riguardavano la compravendita di oro per lotti da uno o più milioni di dollari alla volta.(39)


Il Vaticano e i suoi consorzi
"Il Vaticano è il più grande consorzio economico-religioso del mondo.Possiede innumerovoli imprese,negli ambiti più disparati: plastica,elettronica,cemento,acciaio,industria tessile,chimica,alimentare,senza dimenticare il settore immboliare”.. 3)
Gli interessi della Chiesa Cattolica si concentrano anche nell'ambito energetico. L'Italgas,leader nel settore in Italia, appartiene al Vaticano
e ha succursali in 36 città italiane. Senza contare che il Vaticano ha partecipazioni in imprese che fanno parte dei settori più disparati: catrame,ferro,distilleria,acqua potabile,forni a gas,forni industriali,per citarne alcuni.
Dei 180 istituti finanziari italiani almeno un terzo dispone del denaro del Vaticano.(3)pag.244
Il Vaticano è altresì proprietario di molte banche tra le più importanti in italia e possiede partecipazioni bancarie in Europa.Nord e Sud America. Il Vaticano possedeva e possiede un pacchetto azionario di maggioranza in alcune imprese italiane,come ad es. la Fiat e la ex Alitalia. 2) pág. 53
Nella lista di imprese di cui il Vaticano è azionista o proprietario del 1993 l'Alitalia era tra le imprese di cui il Vaticano era azionista,insieme ad altre imprese italiane e straniere importantissime.Olivetti,General Motors,Rotschild Bank,Canal Fox,Shell,per citarne alcune.


Il Vaticano possidente terriero
La Chiesa Cattolica è il maggior proprietario terriero del mondo occidentale.
Alcuni esempi:
Germania: con 8,25 miliardi di m2,il Vaticano è il più grande proprietario terriero tedesco34) pág. 208.
Pensate che quest'immenso territorio corrisponde alla metà dello stato tedesco di Schleswing-Holstein34) pág. 208 o allo spazio occupato dalle città di Brema.Amburgo,Berlino e Monaco,messe insieme.
Italia: più di 500.000 ettari di superficie agraria di proprietà della Chiesa
Spagna: circa il 20% di tutta la compagna spagnola
Portogallo: circa il 20% di tutta la campagna portoghese
Argentina: circa il 20% della campagna argentina
Stati Uniti: più di 1.100.000 ettari di superficie agraria.
Nel conto totale praterie e boschi non sono inclusi. 26) pág. 429
Come avrà acquisito la Chiesa Cattolica quest'immensa quantità di terre?


Il Vaticano possidente immobiliare
Il Vaticano è il più grande possessore di immobili mondiale. Pensate che la Chiesa possiede il 20-22% del patrimonio immobiliare italiano. Nel 1977 Palo Ojetti pubblicò sulla rivista l'Europeo(7.1.1977) alcuni dati incredibili sulla città di Roma,arrivando a calcolare che ¼ della città è di proprietà della Chiesa. Pagina su pagina registrò migliaia di palazzi che in parte appartengono alle 325 congregazioni delle monache cattoliche e degli ordini monastici5) Il giornalista si occupò anche sulle proprietà del Vaticano a Verona,scoprendo dalle carte del catasto che circa la metà degli immobili erano segnati di nero. Bene quegli immobili erano di proprietà della Chiesa. Ojetti,infine,sottolineò come questo metodo dovesse essere comune ad altre città. L'articolo non piacque affatto al Vaticano. Esponenti della Santa Sede qualificarono l'articolo come confuso,irresponsabile,scandaloso,anticlericale,impreciso e di basso livello. Ma non finisce qui. Il diretto del quotidiano l'Europeo fu licenziato in tronco.
Abbiamo dovuto aspettare 21 anni per avere un'altra inchiesta sul tema.Il coraggioso giornalista,Max Parisi della Padania,fece un'indagine approfondita sulle proprietà immobiliari del Vaticano a Roma. Nel suo articolo,datato 21 giugno 1998, concluse che 1/3 di tutti gli immobili della capitale è di proprietà della Chiesa Cattolica. 6)
Quest'immobili,dal valore inestimabile,si trovano,in base alla sua inchiesta, nelle zone migliori della città: "Tutta la zona da Campo dei Fiori fino a Palazzo Sant'Angelo,insieme a Piazza Navona e alle strade adiacenti, praticamente,sono di proprietà del Vaticano. Si tratta di qualcosa meno della metà del centro storico. "Solo in questa zona la Chiesa possiede più di 2500 palazzi. La totalità degli immobili non compare nei registri di proprietà del catasto,perchè sono considerate territorio straniero 6)
Ma non finisce qui. Tempo fa è tornato sull'argomento il giornale che, in quest'articolo, parlando delle proprietà del Vaticano a Roma e provincia,diede questi dati:
115.000: sono gli immobili posseduti dal Vaticano a Roma e provincia
1/5 degli immobili di Roma e provincia è del Vaticano
Ma non finisce qui. Tra gli aspetti più interessanti dell'articolo c'è l'elenco delle sigle religiose con il più alto numero di proprietà fra Roma e provincia:
la Cei ne ha 16
l’Opera romana per la preservazione della fede e la provvista di nuove chiese in Roma 54
l’Abbazia di Subiaco 102
l’Apsa 306 (comprese le varie sigle)
le Ancelle francescane del Buon pastore 55
Arcipretura Valmontone 350
Arcipretura in Vallepietra 97
Beneficio parrocchiale del capitolo di San Pietro-Vaticano 164+201 (oltre a 114 beni amministrati da Hoerner Arturo)
capitolo Subiaco 575
Canonici Albano Laziale 171
Canonici Ariccia 518
Capitolo Basilica S. Maria Maggiore 101
Caritas 70
Vicarie Castel Madama 158
Vicariato di Roma 276
Suore domenicane Santa Caterina 20
Sottocura Sant’Andrea Gallicano 92
Società cattolica di assicurazioni Verona 33
Suprema congregazione sant’Ufficio 133
Santa Sede Città del Vaticano 178
Reverenda Fabbrica di San Pietro 139
Propaganda Fide e suoi istituti di riferimento (1.139, come pubblicato ieri dal Giornale)
Congregazione di S. Vincenzo Pauli 161, Pontificio istituto teutonico 211, Pontifica opera per la preservazione della fede 683
Dati interessantissimi,a cui si aggiunge l'elenco fatto sempre dal Giornale di tutte le proprietò immobiliari della Chiesa a Roma,che ho riportato in quest'articolo. Stiamo parlando di proprietà stimate in 9 miliardi di euro di valore e di proprietà del 100% del Vaticano.


Delle proprietà del Vaticano in Italia negli ultimi anni si sono occupati giornali e televisioni.Come dimenticare l'inchiesta sulle proprietà della diocesi bolognese fatta da repubblica l'anno scorso. Vi do solo alcuni dati:
1200 immobili di proprietà della Chiesa
3000 proprietà se si considerano le fondazioni. La Lercaro possiede 120 unità fra negozi e magazzini, la Gesù divino operaio arriva a 140. Fra le parrocchie più "ricche" quella dedicata ai santi Savino e Silvestro, in zona Corticella: 65 proprietà.
Numeri incredibili. Per approfondimenti vi rimando agli articoli:
Bologna: la classifica delle proprieta' immobiliari della Chiesa
Bologna, inchiesta sulle cospicue proprietà della Chiesa
E alla visione della puntata di Exit
Il patrimonio immobiliare del Vaticano e della Curia di Bologna
Ma non finisce qua.Il 22 gennaio 2002 sul giornale spagnolo El Mundo vengono pubblicati alcuni dati interessanti sulle proprietà immobiliari della Chiesa in Spagna. "In Spagna la Chiesa Cattolica è una grande potenza immobiliare.Non c'è paese senza chiesa,nè città senza cattedrale,nè monte senza eremita.Si calcola che il patrimonio ecclesiastico comprendo circa 100.000 immobili. O detto in altro modo,l'80% del patrimonio storico-artistico nazionale appartiene alla chiesa. Per esempio,il 70% della città vecchia di Toledo è in mano alla Chiesa. E lo stesso si può dire per Avila,Burgos o Santiago de Compostela.Nessuno sa quale sia la quantità totale del patrimonio ecclesiastico." Quindi anche in Spagna dati incredibili.

Per avere un'idea del patrimonio immobiliare della Chiesa universale, si può prendere come riferimento l'osservazione fatta da un membro della Conferenza cattolica di New York, che ha testualmente affermato: “Probabilmente la nostra chiesa è seconda solo al governo degli Stati Uniti, per quanto riguarda il volume annuo di acquisizioni.” Un'altra dichiarazione di un sacerdote cattolico e ripresa dalla stampa statunitense, è forse ancora più eloquente:”La Chiesa cattolica –ha affermato- dovrebbe essere considerata la maggiore azienda negli Stati Uniti. Abbiamo una filiale in ogni luogo. I nostri capitali ed il patrimonio immobiliare dovrebbero essere più cospicui di quelli di Standard Oil, A.T.& T. e di U.S. Steel messi assieme. Il nostro ruolo di contribuenti dovrebbe essere secondo solo a quello degli uffici delle entrate del governo degli Stati Uniti d'America”. (39)

La Chiesa cattolica è il maggiore potere finanziario e detentore di beni oggi esistente. È il maggior possessore di ricchezze materiali, più di qualsiasi altra singola istituzione, azienda, banca, fiduciaria, governo o stato dell'intero pianeta. Il papa, in qualità di amministratore ufficiale di questo immenso Eldorado, è di conseguenza il più facoltoso individuo del pianeta. Nessuno può realisticamente stimare quanto valga il suo patrimonio in termini di milioni di dollari.(39)

FONTE:http://www.free-italy.info/
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Re: Scuola, i Prof di relig. potranno contrib. al credito

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Parere del Consiglio di Stato in merito all'Associazione “Chiese Elim in Italia" con sede in Milano relativo al riconoscimento della personalità giuridica dell’organismo quale ente di culto, non cattolico, ai sensi degli artt.2 della L. n.1159/1929 e 10 del R.D. n.289/1930.

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20/04/2012 201002426 Definitivo 1 Adunanza di Sezione 21/03/2012


Numero 01915/2012 e data 20/04/2012

REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima

Adunanza di Sezione del 21 marzo 2012

NUMERO AFFARE 02426/2010

OGGETTO:
Ministero dell'interno - Dipartimento libertà civili e immigrazione.

Richiesta di parere sull’istanza presentata dall’Associazione “Chiese Elim in Italia”, con sede in Milano, per il riconoscimento di personalità giuridica ai sensi della legge n. 1159/1929 e del R.D. n. 289/1930;

LA SEZIONE
Vista la relazione 1507 del 14/05/2010 con la quale il Ministero dell'interno - Dipartimento libertà civili e immigrazione ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull' affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore consigliere Francesco D'Ottavi;

PREMESSO:
Il richiedente Ministero nella suindicata relazione premette che, con documentata istanza, il legale rappresentante dell’Associazione ‘Chiese Elim in Italia’, con sede in Milano ha chiesto il riconoscimento della personalità giuridica dell’organismo quale ente di culto, non cattolico, ai sensi degli artt.2 della L. n.1159/1929 e 10 del R.D. n.289/1930.
Al riguardo, il Ministero rileva che il sodalizio è stato costituito in data 6 settembre 1993, con atto pubblico, repertorio n.108.829, notaio Caputo, con la denominazione ‘Chiese Elim in Italia’, depositato in atti con il relativo statuto, modificato con atto pubblico del 20 maggio 2009, repertorio n.101.513, notaio Chiodi Daelli.
Circa la sussistenza dei necessari requisiti la referente Amministrazione rileva che l’Associazione, come enunciato dagli artt. 1, 4 e 5 dello statuto e come evidenziato nella relazione del legale rappresentante, ha come suo scopo principale la diffusione del messaggio evangelico.
La consistenza numerica dei fedeli, secondo quanto si ricava dai rapporti informativi delle Prefetture competenti, ammonta a circa 5000 persone.
Peraltro il Ministero osserva che, dall’esame dei bilanci, si deduce che le spese sono costituite quasi totalmente da attività extrareligiose, il che rappresenta un’anomalia in relazione ad organismi i cui fini prioritari dovrebbero essere di religione e di culto.
Circa la disponibilità della sede legale dell’ente, viene evidenziato che la sede è condivisa con quella dell’Associazione Cristiana Evangelica, come da contratto di comodato (non datato né registrato), per una durata di dodici anni, con scadenza nel 2015; in ambedue gli organismi il legale rappresentate è il Sig. G. P..
Nello Statuto sono indicati, oltre alla denominazione, la sede e gli scopi, la composizione degli organi ed il loro funzionamento, il patrimonio nonché la devoluzione dello stesso in caso di estinzione dell’ente.
La Prefettura di Milano ha espresso parere favorevole.
Nella precedente Adunanza del 23 giugno 2010, la Sezione al fine di chiarire le menzionate, condivisa perplessità disponeva di acquisire documentati chiarimenti in ordine alle seguenti circostanze: 1) dati anagrafici dell’effettivo rappresentante dell’Associazione (nell’istanza è indicato il signor G. P., nel contratto di comodato il signor S. D. D.); 2) in relazione al contratto di comodato, in quanto la copia allegata è priva dell’indicazione del luogo e delle data della sottoscrizione; 3) in ordine alle spese effettivamente sostenute per gli scopi religiosi dell’ente.
L’Amministrazione ha adempiuto all’incombente inviando apposita Nota integrativa del 15 febbraio 2012, corredata dei richiesti chiarimenti.

CONSIDERATO:
Come risulta dalla documentata riscontrata relazione e dagli ulteriori documenti pervenuti all’esito della disposta istruttoria, l’Associazione ‘Chiese Elim in Italia’, avente lo scopo principale della diffusione del messaggio evangelico possiede i requisiti per ottenere il riconoscimento della personalità giuridica quale ente di culto, non cattolico, ai sensi delle disposizioni di cui agli articolo 2, della L. n. 1159/1929 e 10 del R. D. n. 289/1930.
Invero, come si evince dall’analitico esame delle varie disposizioni dello Statuto dell’ente e dalla documentazione inviata, l’accertato scopo finalistico di carattere prevalentemente religioso, il numero riscontrato dei fedeli, la disponibilità dell’immobile in cui l’Associazione ha la sua sede, l’individuazione nominativa del suo effettivo rappresentante, nonché i chiarimenti forniti in relazione ad alcuni dubbi sorti in precedenza anche su alcune delle voci contenute negli atti contabili (chiarimenti tutti documentati all’esito della menzionata disposta istruttoria), fanno ritenere superate le perplessità in precedenza manifestate e pertanto, conformemente anche all’avviso espresso dalla Prefettura competente, si esprime parere favorevole all’accoglimento dell’istanza, ai sensi dell’art.2 della legge 24 giugno 1929, n.1159.
P.Q.M.
Esprime parere favorevole.



L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Francesco D'Ottavi Giuseppe Barbagallo




IL SEGRETARIO
Licia Grassucci
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Cappella del Tesoro di San Gennaro in Napoli.

cappella per la custodia delle reliquie di san Gennaro.

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02/05/2012 201101777 Definitivo 1 Adunanza di Sezione 14/03/2012


Numero 02064/2012 e data 02/05/2012


REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima

Adunanza di Sezione del 14 marzo 2012


NUMERO AFFARE 01777/2011
OGGETTO:
Ministero dell’interno.

Quesito sulla natura giuridica dell’ente Cappella del Tesoro di San Gennaro in Napoli.
LA SEZIONE
Vista la relazione, 26 aprile 2011 prot. 0001084, con la quale il ministero dell’interno ha posto al Consiglio di Stato il quesito sopra indicato;
esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Francesco D’Ottavi.

Premesso:
Il richiedente ministero nella relazione premette che con decreto del presidente della repubblica 13 febbraio 1987, n. 33, recante il regolamento d’attuazione della legge 20 maggio 1985 n. 222, è stata disciplinata la nomina del Consiglio d’amministrazione delle fabbricerie, alle quali cui questo Consiglio di Stato, con parere n. 289 del 28 settembre 2000 reso da una commissione speciale, ha riconosciuto “natura essenzialmente privatistica”.
Peraltro, per un’antica consuetudine che trova radice nella storia, dall’applicazione di tale normativa è sottratta la nomina dei membri dell’organo che amministra l’ente Cappella di San Gennaro di Napoli. Tale inveterata esenzione coinvolge tanto la procedura di nomina dei componenti dell’organismo di amministrazione quanto la composizione dello stesso. In proposito l’ente sostiene che la Cappella non rientri nella categoria delle fabbricerie e, poiché l’individuazione della sua natura giuridica è propedeutica all’ormai improcrastinabile rinnovo dello statuto, si rende necessaria l’acquisizione di un parere sulla qualificazione giuridica dell’ente.
Al riguardo il ministero rileva che l’origine storica della Cappella di San Gennaro a Napoli risale al XVI secolo, quando coloro che furono eletti rappresentanti dei “sedili” (corrispondenti ai rioni nei quali era strutturata all’epoca l’amministrazione cittadina), in ragione di dieci deputati nobili, appartenenti alle famiglie annotate nel “libro d’oro”, e due del popolo, assunsero, con atto notarile del 13 gennaio 1527, l’impegno di costruire e dotare una cappella per la custodia delle reliquie di san Gennaro. In base a tale atto i rappresentanti riservarono a sé, in perpetuo, la proprietà dell’edificio, l’amministrazione ed il governo della Cappella, nonché la presentazione, la conferma e la rimozione dei cappellani; il diritto di patronato sulla Cappella fu riconosciuto alla città di Napoli con la bolla del 10 marzo 1605 dipPapa Paolo V e fu confermato con le successive bolle del 1635, di papa Urbano VIII, e del 1927, di papa Pio XI.
Sempre sotto il profilo storico viene poi osservato che con il primo statuto, adottato dall’ente in data 13 novembre 1659, fu espressamente stabilito che l’amministrazione della Cappella fosse riservata esclusivamente alla città di Napoli e tenuta, per essa, dai rappresentanti dei “sedili”; con decreto di Gioacchino Napoleone, re delle Due Sicilie, 23 gennaio 1811 n. 867; la deputazione dell’ente fu posta sotto la presidenza del Sindaco di Napoli e la competenza del controllo dello stato attivo e passivo dell’amministrazione della Cappella fu affidata al ministro degli affari esteri.
Viene poi rappresentato che successivamente l’ente, in considerazione della sua specialità, fu esentato sia dalla soppressione operata dalle leggi del periodo napoleonico, che da quella disposta con decreto luogotenenziale del 18 maggio 1861.
Lo statuto aggiornato ed approvato con regio decreto del 7 giugno 1894 e il relativo regolamento, adottato con decreto ministeriale del 23 gennaio 1926, recano l’ordinamento della Cappella ancora oggi vigente.
In forza di tali disposizioni, la Cappella venne posta alle dipendenze del ministero di grazia, giustizia e degli affari di culto, con esclusione di ogni dipendenza dall’autorità ecclesiastica.
Quindi, per effetto delle riforme seguite al Concordato lateranense, nel 1932 tutte le attribuzioni in materia ecclesiastica e quindi anche le vicende della Cappella furono trasferite al ministero dell’interno.
Sempre in base all’ordinamento della Cappella, all’amministrazione dell’Ente è tuttora preposta una deputazione di dodici membri rappresentanti le famiglie degli antichi sedili cittadini, nominati allora dal re ed oggi con decreto del ministro dell’interno, su deliberazione della deputazione; ciascuno dei “deputati” resta in carica per quattro anni ed è rieleggibile; l’organo collegiale viene, invece, rinnovato per quote annuali pari ad un quarto della deputazione, per cui ogni anno viene eletta una terna di rappresentanti.
Da ultimo, con decreto del ministro dell’interno del 5 gennaio 2004 è stata attestata la personalità giuridica civile dell’ente per “antico possesso” e, di recente, la prefettura di Napoli ha evidenziato la necessità di aggiornare lo statuto, risalente al 1894, per adeguarlo alle disposizioni della vigente normativa.
Tutto ciò premesso il ministero rileva che, pur condividendo la necessità di procedere al richiesto aggiornamento statutario, l’ente ha rappresentato l’esigenza di “chiarire la propria natura giuridica”, ritenendo di poter essere collocato nel novero degli enti fondazionali morali di natura pubblicistica. In proposito ha sostenuto che la propria “peculiarità identitaria….e l’atipicità dei connotati … lo sottraggono ad ogni riferibilità alla disciplina pattizia di cui alla legge n. 222/85 e, quindi, all’accostamento analogico alla figura giuscanonistica delle Fabbricerie”; sempre a sostegno di tale tesi, l’Ente ha osservato che “il processo di adeguamento dello Statuto non può che fondarsi sul sano tentativo di contemperare il carattere estremamente precipuo dei fondamenti esegetici e teleologici dell’ente stesso e le giuste esigenze di dotarlo di uno Statuto opportunamente sincronico all’attuale quadro normativo generale”; a tale fine ha altresì rilevato che la collocazione della Cappella del Tesoro di San Gennaro tra gli enti di natura fondazionale “discende dalla obiettiva disamina degli eventi che son all’origine stessa della nascita e vita dell’ente e, per di più, consente un’armonica conservazione dei suoi caratteri di maggiore tradizione storica, tra i quali, non da ultimo, i criteri d’elezione che presiedono alla nomina dei componenti del suo organo collegiale di amministrazione”.
Viceversa il ministero rappresenta come l’ente abbia il medesimo scopo, finalità e funzioni di una fabbriceria e che, pertanto, abbia anch’esso natura giuridica privatistica; infatti, se è vero che la nomina dei membri della deputazione, la sua composizione numerica, le modalità di elezione, nonché la nomina del presidente differiscono dalla fattispecie tipicizzata dalla vigente normativa sulle fabbricerie, è altresì vero che gli scopi perseguiti dall’ente, individuati dall’art. 12 dello statuto nella “amministrazione dei beni della Cappella e nomina del personale della Cappella e della Chiesa, del Duomo, dell’Oratorio nella Villa alla Due Porte e della Segreteria”, coincidono con gli scopi propri delle fabbricerie indicati dall’art. 37, D.P.R. n. 33 del 1987; in tal senso, a suo tempo, il 18 giugno 1929, si è espresso, con apposito parere, il procuratore generale del re presso il tribunale di Napoli, secondo cui “se nel dispaccio ministeriale del 18 maggio 1861 si credette parlare di istituzione sui generis, la Cappella del tesoro di San Gennaro non perdette nulla del suo carattere funzionale di fabbriceria. D’altronde come è stato ritenuto, per Fabbricerie debbono ritenersi non soltanto quelle che hanno tal nome, ma anche gli altri istituti od Enti per i quali – come per la Cappella di San Gennaro – fu stabilito un particolare metodo di amministrazione dei propri beni. Ma c’è di più: l’Ente di cui ci occupiamo conservò sempre, attraverso i secoli, la denominazione di Cappella: e “Cappelle” appunto si chiamavano nelle provincie napoletane le fabbricerie, come in Sicilia “Maramme” ed “Opere” in Toscana”.
Né può non considerarsi che è riscontrabile, anche nel caso dell’ente, la tipica connotazione che le fabbricerie assumono nel nostro ordinamento, caratterizzandosi come enti che, pur amministrando beni ed edifici ecclesiastici, non sono enti ecclesiastici in senso stretto ed operano “senza alcuna ingerenza nei servizi di culto”; pertanto, nel caso di specie, secondo il ministero, dovrebbe trovare applicazione il generale principio dell’ubi eadem ratio, ibi eadem dispositio, tanto più che nell’attuale ordinamento non si rinviene alcuna disposizione normativa espressamente finalizzata a disciplinare il funzionamento dell’ente Cappella di San Gennaro.
Su tale contrapposta valutazione è stato chiesto il parere.
Nell’adunanza dell’8 giugno 2011 la Sezione, stanti le implicazioni di carattere generale e le loro potenziali ricadute nel delicato assetto delle attività aventi comunque una possibile rilevanza ecclesiastica riteneva opportuna l’acquisizione di apposito avviso da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri – dipartimento degli affari giuridici e legislativi.
Il ministero ha adempiuto dandone comunicazione con nota del 15 gennaio 2012, con cui ha qui trasmesso copia del parere reso in data 25 novembre 2011 dalla commissione governativa per l’attuazione delle disposizioni dell’accordo tra Italia e Santa Sede; in tale parere la commissione, dopo analitica ricostruzione del contesto normativo, concorda sostanzialmente con l’avviso del ministero, suggerendo peraltro che in sede di revisione dello statuto si tenga conto “della tradizione storica e della atipica configurazione della Cappella lasciando il numero dei componenti del Consiglio d’Amministrazione (Deputazione) a 12 unità. Si potrà anche prevedere nel nuovo Statuto che il Ministro dell’Interno nel nominare tali componenti per un triennio tenga conto della storica configurazione della Deputazione, oltre che delle indicazioni di cui all’art. 35, comma 1, del D.P.R. n. 33/87. Si potrà inoltre disporre nello Statuto che il Sindaco di Napoli, che è anche patrono della Cappella in rappresentanza della città, sia membro della Deputazione stessa e suo Presidente; resta, comunque, al Ministero dell’Interno, “conclude il parere”, il compito di valutare, prima della sua approvazione, il nuovo Statuto che la Deputazione dovrà presentare nel rispetto della vigente normativa in tema di fabbricerie”.

Considerato:
Come riportato nella dettagliata relazione sopra sinteticamente esposta, viene richiesta una valutazione ricognitiva sulla natura giuridica dell’ente Cappella del Tesoro di San Gennaro di Napoli; in particolare, in considerazione del rinnovo dello Statuto dell’ente si contrappone la qualificazione giuridica prospettata dall’ente medesimo, secondo, cui l’atipicità del soggetto lo farebbe collocare nel novero degli enti fondazionali morali di natura pubblicistica sottraendolo alla configurazione giuscanonistica delle fabbricerie, e quella propugnata dal richiedente Ministero, per cui l’attività e le finalità dell’ente in questione coincidono con quelle tipiche delle fabbricerie.
In proposito la Sezione rileva che effettivamente, come risulta dall’analitica documentazione prodotta (cfr. per es. le bolle pontificie del 1605, del 1635, del 1927 ecc.), l’ente, che riveste notevole importanza nella storia religiosa e culturale della Città di Napoli, ha avuto un’origine e quindi una storia del tutto particolari, mantenendo la sua tipicità amministrativa e regolatoria pur nel succedersi secolare dei vari ordinamenti.
Peraltro, ad avviso della Sezione proprio analizzando criticamente e finalisticamente la documentazione di riferimento, si deve convenire che tale riconosciuta tipicità trovava una giustificazione di carattere generale, nella pur riconosciuta necessità di mantenere l’autonomo assetto dell’ente.
Infatti, negli ordinamenti precedenti, in assenza di una disciplina generale che garantisse in maniera uniforme l’attività sociale e religiosa svolta da enti riconosciuti dalla Chiesa cattolica, era necessario ricondurre tali enti alla “tipicità” particolaristica della loro caratteristiche e finalità che assicurasse sia la loro autonomia sia l’integrità, nel tempo, dei loro patrimoni per garantire l’attuazione delle loro specifiche finalità.
Tuttavia, e in questo quadro ad avviso della Sezione va risolto il prospettato quesito, si deve valutare se tale tipicità (meglio: la “tipicità che nei secoli aveva consentito una specifica normativizzazione), sia attualmente in contrasto con la disciplina generale delle fabbricerie, nel senso che si distingua da questa e richieda tuttora una regolazione particolare.
Ritiene la Sezione che al di là dei retaggi e delle tradizioni storiche che trovano, o meglio trovavano, una loro peculiare giustificazione in assetti socio-economico-culturali del tutto diversi da quelli attuali, l’esatta individuazione della natura giuridica dell’ente in questione non può che derivare da un’attenta valutazione delle attività svolte; nella specie tali attività, come risulta dall’allegata documentazione, coincidono con le finalità proprie perseguite dalla fabbricerie così come previste dalla specifica normativa di cui all’art. 37 del D.P.R. 13 febbraio 1987, n 33 (e anche dalle leggi 20 maggio 1985 n. 222 e 27 maggio 1929 n. 848). Né a contrario può ritenersi che un’antica tradizione storica, che, come considerato, trovava la sua ragione d’essere in un diverso assetto socio-economico-culturale, sia di per sé sufficiente a derogare dall’applicazione della normativa comune e generale, normativa che viceversa, trova la sua indifferenziata applicazione nell’ordinamento attuale, solo in ragione delle oggettive finalità ed attività perseguite dall’ente.
Tale valutazione, che in generale fa rientrare l’ente nella configurazione comune della fabbricerie di cui alla menzionata normativa generale è conforme non solo alla riscontrata qualificazione dell’attività esercitata, ma con essa all’esigenza fondamentale dell’ordinamento attuale di ricondurre le tipologie particolaristiche di sopravvenienze extra ordinem, di puro retaggio storico, alla conforme generale previsione normativa.
Tale conclusione è confortata anche dal contenuto del menzionato parere reso dalla commissione governativa per l’attuazione delle disposizioni dell’accordo Italia – Santa Sede.
Peraltro, in linea con quanto suggerito dalla medesima commissione, condiviso dalla Sezione, si dovrà, nel rispetto della pacifica applicazione della normativa generale, tenere opportunamente conto, in sede di revisione dello statuto, della tradizione storica e dell’atipicità della Cappella con particolare riguardo alle specifiche indicazioni al riguardo svolte dalla commissione; indicazioni che opportunamente consentono da un lato di inserire l’ente nell’ambito della generale applicazione della richiamata vigente normativa in tema di fabbricerie e, dall’altro, di rispettare, ove possibile, il contesto storico culturale dell’ente medesimo.
È ovvio che la legittimità della revisione statutaria in conformità con le considerazioni svolte sarà ovviamente valutata dal competente richiedente ministero sulla base della calibrata attuazione dei menzionati parametri di riferimento: da un lato l’esigenza primaria del rispetto dell’applicazione della normativa generale e comune, e dall’altro quella, pur rilevante, del mantenimento, ove compatibile, delle tradizioni storico-culturali.
P.Q.M.
nelle considerazioni che precedono è il parere del Consiglio di Stato.



L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Francesco D'Ottavi Raffaele Carboni




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Re: Scuola, i Prof di relig. potranno contrib. al credito

Messaggio da panorama »

Per opportuna notizia.

Negato lo sdoppiamento delle classi della Scuola Elementare composte, rispettivamente, di ventinove e trenta alunni, ed in una è presente un alunno diversamente abile.

- Il d.P.R. 81/2009, all’art. 10, prevede che le classi debbano in via generale essere costituite con un numero di alunni non superiore a ventisei, elevabile fino a ventisette se residuano resti;
- all’art. 5 stabilisce poi che le classi in cui sono presenti alunni diversamente abili debbano essere costituite con non più di venti frequentanti.
- L’art. 4, comma 1, del medesimo d.P.R. 81/09 consente la deroga al numero massimo in misura non superiore al 10%.

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30/05/2012 201201045 Sentenza 1


N. 01045/2012 REG.PROV.COLL.
N. 00006/2012 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6 del 2012, proposto da:
(congruo numero di ricorrenti OMISSIS), in qualità di esercente la potestà genitoriale sul minore - tutti rappresentati e difesi dall'avv. Giuseppe Romeo, con domicilio eletto presso il suo studio in Firenze, via Cadore 6;
contro

il Ministero dell'Istruzione, dell’Università e della Ricerca in persona del Ministro in carica e l’Ufficio Scolastico Regionale della Toscana in persona del legale rappresentante in carica, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato presso la quale sono domiciliati per legge in Firenze, via degli Arazzieri 4; l’Ufficio Scolastico Provinciale di Massa Carrara e l’ITC Tifoni di Pontremoli in persona dei rispettivi Dirigenti in carica, non costituiti in giudizio;
per l'annullamento

del Decreto del Dirigente Scolastico Provinciale di Massa Carrara prot. AOOUSPMS 5598 del 2.11.2011, con cui l'Ufficio Scolastico Provinciale della Provincia di Massa ha negato lo sdoppiamento delle sezioni A e B della Scuola Elementare Tifoni di Pontremoli, oltre a tutti gli atti e provvedimenti congiunti e connessi, presupposti e conseguenti, e per la pronuncia dell’ordine di sdoppiare la classe prima della scuola primaria dell’ITC Tifoni di Pontremoli con composizione di una terza sezione che svolga lezioni con modalità di tempo pieno.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e dell’Ufficio Scolastico Regionale della Toscana;
Vista la memoria difensiva dei ricorrenti;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 maggio 2012 il dott. Alessandro Cacciari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. I ricorrenti sono genitori di minori che frequentano la prima classe presso l’istituto comprensivo Tifoni di Pontremoli, i quali sono stati divisi in due classi composte, rispettivamente, di ventinove e trenta alunni; una delle due sezioni svolge attività scolastica tempo pieno e l’altra secondo quello modulare (orario compreso tra le 8 e le 13) e nella prima è presente un alunno diversamente abile.

Con nota del 3 ottobre 2011 i ricorrenti hanno chiesto al Direttore scolastico generale della Toscana di provvedere, entro cinque giorni, alla suddivisione delle classi poiché composte da un numero eccessivo da alunni; in risposta è loro pervenuta la nota 2 novembre 2011, prot. 5598, con la quale è stato comunicato di non avere potuto riscontrare positivamente la richiesta per l’indisponibilità di posti autorizzati. I ricorrenti hanno quindi impugnato tale diniego con il presente ricorso, notificato il 9 dicembre 2011 e depositato il 3 gennaio 2012, lamentando con primo motivo la violazione dell’art. 5, comma 2, d.p.r. 20 marzo 2009, n. 81 laddove prevede che le classi con alunni diversamente abili debbano di norma essere costituite da non più di venti frequentanti, e più in generale censurano l’elevato numero di alunni in entrambe le classi. Contestano inoltre le condizioni di disagio in cui gli alunni si troverebbero a frequentare e che il Ministero intimato non provveda alla riqualificazione del patrimonio edilizio scolastico, per organizzare il sistema scolastico secondo i parametri previsti dalla legislazione comunitaria.

Si è costituita con memoria di stile l’Avvocatura dello Stato chiedendo la reiezione del ricorso.
All’udienza fissata per la decisione sulla domanda cautelare, la trattazione della causa è stata rinviata al merito.
All’udienza del 4 maggio 2012 la causa è stata trattenuta in decisione.

2. Con il presente gravame i ricorrenti contestano la violazione dei livelli qualitativi obbligatori nell’erogazione del servizio scolastico il cui rispetto, a loro dire, avrebbe dovuto portare allo sdoppiamento delle sezioni A e B nella scuola primaria Tifoni di Pontremoli. L’azione incardinata ricade quindi nell’ambito di applicazione del d.lgs. 20 dicembre 2009, n. 198, a norma del quale (art. 1, comma 1) “al fine di ripristinare il corretto svolgimento della funzione o la corretta erogazione di un servizio, i titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori possono agire in giudizio, con le modalità stabilite nel presente decreto, nei confronti delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi pubblici, se derivi una lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi ……………dalla violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi ovvero dalla violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti, per i concessionari di servizi pubblici, dalle autorità preposte alla regolazione ed al controllo del settore e, per le pubbliche amministrazioni, definiti dalle stesse…”. Nel caso di specie con il primo motivo si assume la violazione del d.P.R. 81/09, contenente “norme per la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola” emanato ai sensi dell'art. 64, comma 4, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in l. 6 agosto 2008, n. 133.

In via preliminare il Collegio rileva che la proponibilità dell’azione per l’efficienza delle amministrazioni, in base all’art. 2 del soprarichiamato d.lgs. 198/2009, è subordinata alla previa notificazione all’Amministrazione interessata di una diffida a provvedere entro il termine di novanta giorni. L’azione può essere proposta dopo l’inutile scadenza del termine.

I ricorrenti hanno inviato una diffida alle Amministrazioni interessate il 3 ottobre 2011 concedendo però solo cinque giorni per provvedere sulla loro richiesta. Il termine è quindi inferiore a quello di legge. Si ritiene peraltro di ammettere egualmente il ricorso poiché l’Ufficio Scolastico regionale, con nota 2 novembre 2011, prot. 5598, ha comunicato di non poter dar corso alla richiesta e il rifiuto espresso di provvedere rende inutile l’attesa del decorso del termine legislativo di novanta giorni.

Nel merito, il primo motivo di ricorso appare fondato.

Il d.P.R. 81/2009, all’art. 10, prevede che le classi debbano in via generale essere costituite con un numero di alunni non superiore a ventisei, elevabile fino a ventisette se residuano resti; all’art. 5 stabilisce poi che le classi in cui sono presenti alunni diversamente abili debbano essere costituite con non più di venti frequentanti. L’art. 4, comma 1, del medesimo d.P.R. 81/09 consente la deroga al numero massimo in misura non superiore al 10%.

Nel caso in esame risulta dalla produzione documentale, non contestata, che le classi del primo anno di corso sono composte da un numero eccessivo di alunni rispetto alle previsioni normative, e precisamente trenta e ventisette, quest’ultima per la classe ove è presente un alunno diversamente abile. Le presenze sono quindi eccessive rispetto ai massimi previsti, anche tenendo conto del possibile incremento percentuale.

La nota dell’istituto Tifoni in data 7 marzo 2012, prot. 514, non rappresenta rilevanti mutamenti nella situazione. L’unico dato che emerge, infatti, è che gli alunni della sezione ove è presente l’alunno diversamente abile sono ridotti al numero di ventisette, e il numero è ancora eccessivo rispetto alle previsioni normative; per il resto essa dà conto di possibili futuri sviluppi della situazione e non di mutamenti avvenuti. Il ricorso sotto questo profilo è dunque fondato e deve essere accolto.

Non osta alla conclusione la previsione di cui all’art. 7, comma 1, d.lgs. 198/2009 in base alla quale “in ragione della necessità di definire in via preventiva gli obblighi contenuti nelle carte di servizi e gli standard qualitativi ed economici di cui all'articolo 1, comma 1, e di valutare l'impatto finanziario e amministrativo degli stessi nei rispettivi settori, la concreta applicazione del presente decreto alle amministrazioni ed ai concessionari di servizi pubblici è determinata, fatto salvo quanto stabilito dal comma 2, anche progressivamente, con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze e di concerto, per quanto di competenza, con gli altri Ministri interessati”.

Nel caso in esame infatti gli standards qualitativi del servizio scolastico risultano già definiti dal d.P.R. 81/2009 e non vi sono quindi ragioni per negare l’applicazione del rimedio giudiziale.

Devono invece essere respinte le ulteriori censure proposte dai ricorrenti poiché vengono formulate in termini generici e senza individuare specifici parametri di qualità violati dalle Amministrazioni intimate. Non è infatti dimostrato che lo spazio minimo degli alunni sia inferiore a quello normativamente previsto e, per quanto riguarda il secondo motivo, non viene nemmeno individuata con precisione la disposizione normativa di cui si assume la violazione. Non è inoltre dimostrata l’inefficacia del piano della sicurezza.
Il ricorso deve quindi essere accolto parzialmente, nei limiti e termini sopra evidenziati.

La parziale soccombenza dei ricorrenti giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie parzialmente, nei limiti e termini di cui in motivazione, e per l’effetto ordina alle intimate Amministrazioni, per quanto di rispettiva competenza, di adottare entro due mesi dalla comunicazione in via amministrativa o, se anteriore, notificazione della presente sentenza le misure necessarie per riportare la presenza degli alunni nei parametri normativi, anche attraverso lo sdoppiamento di classe.

Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 4 maggio 2012 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Buonvino, Presidente
Carlo Testori, Consigliere
Alessandro Cacciari, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE



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Diniego di nulla osta in ordine alla richiesta presentata per il ritiro dalla scuola al fine di consentire al figlio di poter essere ammesso come privatista agli esami di idoneità alla classe successiva".

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N. 00588/2012 REG.PROV.COLL.
N. 01053/2001 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1053 del 2001, proposto da:
OMISSIS, nell’interesse di OMISSIS, rappresentati e difesi dall'avv. Fulvio Mastroviti, con domicilio eletto presso Fulvio Mastroviti in Bari, Quintino Sella, 40;
contro

Istituto Tecnico Commerciale Statale "C. Vivante", rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distr.le Stato Di Bari, domiciliata per legge in Bari, via Melo, 97;
per l'annullamento

- della nota racc. A.R. prot. n. ...... – F/P del 15.03.2001 a firma del Preside dell’I.T.C. “C. Vivante”, recante comunicazione del diniego di nulla osta in ordine alla richiesta presentata dai ricorrenti per il ritiro dalla scuola del figlio OMISSIS;
- della nota racc. A.R. prot. n........del 23.03.2001, a firma del Preside dell’I.T.C. “C. Vivante”, con cui si dà comunicazione che la sospensione dalle lezioni per quindici giorni effettivi dell’alunno OMISSIS decorrerà “dal giorno 28 marzo fino al giorno 19.04.2001”;
- di ogni altro provvedimento presupposto e connesso ancorchè non conosciuto;

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Istituto Tecnico Commerciale Statale "C. Vivante";
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2012 il dott. Antonio Pasca e uditi per le parti i difensori avv. F.Mastroviti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Con il ricorso in esame i ricorrenti, nell’interesse del figlio all’epoca minore, impugnano il provvedimento di cui in epigrafe, con cui l’Amministrazione ha denegato il nulla osta per il ritiro dalla scuola del predetto minore.
L’alunno OMISSIS frequentante nell’A.S. 2000/2001 la classe III Sez. A preso l’I.T.C. “Vivante” di Bari, responsabile di comportamento rilevante ai fini disciplinari, è stato sospeso dalle lezioni per la durata di giorni 15, comunicata ai genitori dell’alunno con nota del 17.02.01.
In data 8 marzo 2001 i ricorrenti, al fine di consentire al figlio di poter essere ammesso come privatista agli esami di idoneità alla classe successiva, hanno proposto istanza finalizzata ad ottenere il nulla osta per il ritiro del figlio dalla scuola.

A tale istanza hanno fatto seguito gli impugnati provvedimenti di diniego.
I ricorrenti deducono il seguente articolato motivo di censura:
1) violazione ed erronea applicazione dell’art. 193 del D.Lgs. 297/94 in relazione all’art. 328 D.Lgs. citato, nonché agli artt. 4 del D.P.R. 249/98, 14 D.P.R. 275/99 e 9 del Regolamento d’Istituto, nonché eccesso di potere sotto vari profili.
Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata, contestando le avverse deduzioni e chiedendo la reiezione del ricorso.
Con ordinanza di questo Tribunale n. 671 del 7.06.01 è stata accolta l’istanza cautelare proposta dal ricorrente.
All’udienza del 2.02.2012 il ricorso è stato introitato per la decisione.

DIRITTO
Occorre anzitutto premettere che, sulla base della tutela cautelare a suo tempo accordata ai ricorrenti, il minore ha dapprima conseguito l’idoneità alla classe successiva quale privatista in data 10.07.01 e successivamente conseguito il diploma in ragioneria; tanto tuttavia in esecuzione e a seguito dell’ordinanza cautelare di cui sopra, persistendo conseguentemente l’interesse a ricorrere.
Quanto al merito, il ricorso è fondato e meritevole di accoglimento.

Ed invero, a prescindere dalla circostanza dell’applicabilità o meno dell’art. 4 R.D. 643/1925 (che prevede come condizione ostativa al ritiro dalla scuola la pendenza di procedimento disciplinare, ma con specifico riferimento alla diversa ipotesi dell’istanza di ritiro per trasferimento presso altro istituto nel corso dell’anno scolastico), gli impugnati provvedimenti devono ritenersi comunque illegittimi per vizio di eccesso di potere per erronea presupposizione.

Con l’impugnato provvedimento del 15.03.01, il Preside dell’Istituto ha rifiutato il nulla osta, sul presupposto della non regolare posizione dell’alunno nei rapporti disciplinari, atteso che la sanzione avrebbe avuto corso solo dopo la scadenza del termine per la proposizione di eventuali gravami avverso la decisione del Consiglio di Disciplina.

A tale nota ha fatto seguito quella ulteriore in data 23.03.01, con cui si comunicava ai ricorrenti che essendo scaduti i termini per l’eventuale impugnazione del verbale del Consiglio di disciplina, la sanzione disciplinare della sospensione per 15 giorni avrebbe avuto inizio con decorrenza dal 28.03.01 e fino al 19.04.01.

Ciò premesso, rileva il Collegio che detti provvedimenti risultano illegittimi nella misura in cui il diniego presuppone una presunta perdurante vigenza della sanzione disciplinare della sospensione, che doveva viceversa ritenersi già espiata alla data di proposizione dell’istanza di nulla osta (10.03.01).

Ed invero i ricorrenti avevano proposto una prima istanza di rilascio del nulla osta per il ritiro del figlio dalla scuola, protocollata in arrivo al n. .... del 13.02.01, cui ha fatto seguito un primo diniego prot. 906F/P del 15.02.01, con cui si negava il nulla osta essendo in corso un procedimento disciplinare.
Proprio sulla base di tale provvedimento, che infatti non è stato impugnato, i ricorrenti, dopo l’adozione e la comunicazione del provvedimento disciplinare preannunciato, hanno atteso il decorso del termine di sospensione dalle lezioni e, quindi, la compiuta definizione del procedimento disciplinare, coincidente con la espiazione della sanzione irrogata, prima di riproporre l’istanza.

Occorre infatti ricordare che la sanzione disciplinare, irrogata a seguito della riunione del Consiglio di disciplina del 16.02.01, è stata comunicata con raccomandata A/R ai ricorrenti prot. .... del 17.02.01 ricevuta in data 19.02.01.
In detta comunicazione, di carattere definitivo, non risulta previsto alcun differimento del dies a quo di espiazione della sanzione disciplinare, né indicata alcuna condizione sospensiva o termine per l’esecuzione della sanzione medesima.

Tale condizione o termine iniziale è stato viceversa apposto dal Preside dell’istituto solo con gli impugnati provvedimenti ( del 15.03.01, confermato e integrato con successivo in data 23.03.01).
Viceversa, i ricorrenti avevano proposto la seconda istanza in data 10.03.01, proprio in ossequio alle statuizioni contenute nel primo diniego del 15.02.01 (attesa all’epoca la pendenza della vicenda disciplinare), riproponendo l’istanza solo in data 10.03.01, allorchè il termine di sospensione dalle lezioni doveva ritenersi già esaurito e la sanzione disciplinare totalmente espiata.

I ricorrenti,infatti, non hanno medio tempore fatto frequentare le lezioni al figlio proprio sul presupposto della piena ed immediata operatività della sanzione, la cui esecuzione non era stata assoggettata ad alcun termine iniziale o condizione , dovendosi conseguentemente individuare il dies a quo della sospensione dalle lezioni in data dal 19 febbraio 2001.

Ciò in omaggio al principio di affidamento in buona fede, nonché in conformità del principio efficacemente sintetizzato nel noto brocardo “quod sine die debetur, statim debetur”.

Illegittimamente pertanto l’istituto ha ritenuto di introdurre un termine o condizione sospensiva di cui non vi è traccia alcuna nel finale e definitivo provvedimento di irrogazione della sanzione.
Il ricorso va dunque accolto, con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati.
Ricorrono giustificati motivi per dichiarare interamente compensate tra le parti le spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie.
Dichiara compensate tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Bari nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2012 con l'intervento dei magistrati:
Sabato Guadagno, Presidente
Antonio Pasca, Consigliere, Estensore
Desirèe Zonno, Primo Referendario


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 20/03/2012
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Statuto degli impiegati civili dello Stato.

Per “infortunio in itinere”, subito da insegnanti pubbliche, hanno chiesto il riconoscimento della causa di servizio, negato dall’amministrazione di appartenenza in ragione del fatto che esse risiedevano, senza averne chiesto l’autorizzazione, in luogo (sia pur di pochi chilometri) distante dal comune ove era la scuola di loro destinazione;

Pronunciamento della Corte Costituzione con la propria ordinanza.

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ORDINANZA N. 169

ANNO 2012


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Alfonso QUARANTA Presidente
- Franco GALLO Giudice
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
ha pronunciato la seguente

ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) promosso dal Consiglio di Stato - sezione VI giurisdizionale, nel procedimento vertente tra T.M.R. ed altra e il Ministero della pubblica istruzione ed altri con ordinanza del 30 giugno 2011, iscritta al n. 27 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 maggio 2012 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.
Ritenuto che il Consiglio di Stato - sezione VI giurisdizionale ha sollevato, con ordinanza del 30 giugno 2011, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato) ‒ a tenore del quale «L’impiegato deve risiedere nel luogo ove ha sede l’ufficio cui è destinato. Il capo dell’ufficio, per rilevanti ragioni, può autorizzare l’impiegato a risiedere altrove, quando ciò sia conciliabile con il pieno e regolare adempimento d’ogni altro suo dovere» − denunciandone il contrasto con gli articoli 3, 16, 97 e 98 della Costituzione;
che, come emerge dall’ordinanza di rimessione, il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi sul ricorso di due insegnanti pubbliche proposto per ottenere, al fine della indennizzabilità di un grave “infortunio in itinere”, da loro subìto, il riconoscimento della causa di servizio, negato dall’amministrazione di appartenenza in ragione del fatto che esse risiedevano, senza averne chiesto l’autorizzazione, in luogo (sia pur di pochi chilometri) distante dal comune ove era la scuola di loro destinazione;
che, ad avviso del rimettente, la censurata disposizione – in quanto legata ad un contesto, urbano, delle comunicazioni e della disponibilità di mezzi propri, ormai superato e non più attuale – sancirebbe (per di più per le sole categorie di pubblici dipendenti non interessati da successive sue parziali abrogazioni) un obbligo divenuto ora “irragionevole” e «inconferente al fine di assicurare il rispetto del canone di buona amministrazione», dal che, appunto, l’evocata violazione dell’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della non giustificata disparità di trattamento di situazioni omogenee e della irragionevolezza per sopravvenuto anacronismo, e degli artt. 97 e 98 Cost., oltreché l’ipotizzato vulnus al precetto dell’art. 16 Cost., «perché ormai senza una plausibile ragione restringe[rebbe] anche la libertà di circolare e soggiornare in qualsiasi parte del territorio nazionale»;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l’infondatezza, in ogni suo profilo, della questione, per essere la disposizione denunciata tuttora giustificata da «preminenti esigenze istituzionali e di servizio generale, il cui soddisfacimento trova naturale supporto nella pronta reperibilità [del pubblico dipendente] in situazioni in cui si renda necessaria la sua presenza».
Considerato che, in relazione al sopra evidenziato oggetto del giudizio a quo, siccome assunto nell’ordinanza di rimessione, il rimettente dà per presupposto che la violazione dell’obbligo di residenza, di cui al citato articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), oltre alle possibili ricadute sul piano disciplinare, abbia anche, di per sé, effetto ostativo alla indennizzabilità dell’infortunio subìto, per recarsi al lavoro, dal pubblico dipendente;
che, tuttavia, così opinando, il giudice a quo ha omesso di prendere in esame, anche ai fini di una eventuale estensione dell’oggetto della denuncia di illegittimità costituzionale, sia la normativa di riferimento (e, prima di tutte, quella applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto di cognizione) sul riconoscimento della causa di servizio del dipendente pubblico, che, in ipotesi, dovrebbe giustificare l’incidenza della situazione di rilievo disciplinare supposta dalla norma impugnata ai fini di detto riconoscimento, sia la stessa disciplina in materia di infortunio in itinere, che, dopo una risalente elaborazione giurisprudenziale, si è tradotta in apposita disposizione inserita, da parte dell’articolo 12 del decreto legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 (Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’articolo 55, comma 1, della legge 17 maggio 1999, n. 144), nel corpo dell’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), così che risulta trascurata anche quella giurisprudenza (segnatamente, della Corte di cassazione) che, quanto all’infortunio in itinere, nel delibare l’esistenza del nesso eziologico tra l’evento e la percorrenza del tragitto normale tra il luogo di lavoro e quello di “abitazione”, per tale ha inteso, in termini di effettività, non solo il luogo di personale dimora del lavoratore ma anche quello (ove diverso) in cui si trovi la sua famiglia;
che, dunque, la prospettata questione va dichiarata manifestamente inammissibile per carenza di motivazione sulla sua rilevanza e non manifesta infondatezza.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 12 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 16, 97 e 98 della Costituzione, dal Consiglio di Stato - sezione VI giurisdizionale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2012.
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Si parla di religione

Trascrizioni del tetragramma nelle versioni italiane della Bibbia

• La Bibbia di Antonio Brucioli, 1530 rev. 1551. Protestante.
Usa Signore tranne in Esodo 6:3 dove usa Ieova.
Nella revisione del 1562 stampata dall’editore Francesco Durone la forma 'Iehova' o 'Iehovah' ricorre decine di volte. Esempio Genesi 28:13

• La Sacra Bibbia di Giovanni Diodati. 1607 riedita 1946. Protestante.
Usa Signore. In alcune edizioni riporta il nome di "Geova" nell'intestazione di pagina 584 e nella sovrascritta di Isaia 41.

• Sacra Bibbia di Antonio Martini, 1778 riedita 1963. Cattolica.
Usa Signore. Nella nota di Esodo 3:14-15 ha Jehovah

• Versione Riveduta di Giovanni Luzzi, 1925 riedita 1966. Protestante.
Usa Eterno. Nelle note a Esodo 3:15 e 6:3 usa la forma Jahveh.
Nella nota a Matteo 1:21 usa la forma Gèova.
In Genesi 22:14 ha Iehovah come parte di un nome composto.[23]

• La Bibbia, Eusebio Tintori, 1945. Cattolica .
Usa Signore. Nelle note ha Jahve.

• La Sacra Bibbia, Ricciotti. 1955. Cattolica.
Usa sempre Signore e ha Jahvè in alcune note come Esodo 3:14; 6:2,3; Gioele 3:12; Giona 4:10,11.

• La Bibbia, Edizione Paoline. ediz. 1958 e seguenti. Cattolica.
Usa Signore tranne in Esodo 6:2-3 (e relativa nota) e Geremia 1:6 dove usa Jahvé (ediz. 1958 e seguenti).
Usa Jahvé In salmo 83:19, al posto di "Il Signore" delle edizioni precedenti (ediz. 1970 e seguenti).
A seconda delle edizioni usa Jhwh nelle parentesi nel testo di Esodo 6:3 (ediz. 1997).

• La Bibbia a cura di Fulvio Nardoni, 1960. Cattolica.
Il nome Jahweh vi ricorre più volte nel testo ad esempio in Esodo 6:2,3,6,8; Isaia 1:24; 3:1; 10:33; 26:4; 40:10; 51:22; 61:1; ecc..

• La Sacra Bibbia, Pontificio Istituto Biblico 1961. Cattolica.
Oltre a Signore usa varie volte nel testo Jahve, ad esempio in Esodo 3:15; 6:2; Salmo 83:19 .

• La Sacra Bibbia ed. Garzanti imprimatur 1964. Cattolica.
Usa "Yahvè", es. pag 952 Salmo 83:19 ed altre;

• La Bibbia di Mons. Garofalo, 1964. Cattolica.
Usa sempre Jahve, ma solo nell'Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento tale nome non viene mai riportato anche quando sono citati versetti biblici dell'Antico Testamento in cui il nome compare, ne è un esempio Luca 4:18 in cui Gesù legge Isaia 61:1.

• Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture. Testimoni di Geova. 1967 ed. riv. 1987.
Usa sempre Geova.

• La Bibbia Concordata, 1968. Interconfessionale.
Rende Signore tranne Salmo 83:19 dove usa Iavè.

• La Sacra Bibbia, Galbiati, Penna e Rossano. Cattolica. 1968.
Usa sempre Iahvé .

• La Sacra Bibbia CEI, 1974. Cattolica.
Rende Signore. Nella nota in calce a Esodo 3:14,15 ha JHWH.
Nella nota a 1 Maccabei 3:18 usa Jahveh.

• La Bibbia di Gerusalemme, 1974. Cattolica.
Ha lo stesso testo della CEI.
Nelle note menziona Jahveh, come quelle su Esodo 3:13, Isaia 42:8, ecc.
(Il testo originale francese, La Bible de Jérusalem, usa sempre Yahvé)

• Nuovissima Versione della Bibbia Edizione Paoline. 1967-1980. Cattolica.
Usa Signore. Nella nota ad Esodo 6:2-8 usa Jahveh.

• La Nuova Diodati. Protestante. 1991.
Usa sempre Eterno. Nella prefazione usa Jehovah e Yah.
In nomi composti come Genesi 22:14 usa Jehovah.

• Il libro di Isaia, Moraldi. 1994. Cattolica.
Usa sempre Jhwh.

• La Bibbia. Versione Nuova Riveduta, Società Biblica di Ginevra. 1994. Protestante.
Rende il tetragramma con 'SIGNORE' tutto in maiuscolo per distinguerlo dalla parola ebraica signore "adhonai".
Nella prefazione usa YHWH.

• La Bibbia, Oscar Mondadori. 2000. Aconfessionale.
Usa sempre Jhwh.

• La Sacra Bibbia, ed. dott. Armando Curcio, 1866, versione mons. Antonio Martini arciv. Firenze.
alla pagina 50 in Esodo capitolo 3 versetto 14 usa Adonai, ma nella nota dice:"Denotasi con questo nome, che si pronuncia Jehovah, ...."
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