Risarcimento del danno non cumulabile con l'equo indennizzo

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Risarcimento del danno non cumulabile con l'equo indennizzo

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Risarcimento del danno non è cumulabile con l'indennizzo
CONSIGLIO DI STATO
ADUNANZA PLENARIA
Sentenza 23 febbraio 2018, n. 1
sul ricorso numero di registro generale 8 di A.P. del 2017, proposto dal Ministero della
Giustizia, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso per legge
dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
contro
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Sabrina Mannarino e Vincenzo Davide
Greco, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Gaetano
Rampini, 16;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, Sezione I, 20 aprile
2016, n. 849.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-;
viste le memorie difensive;
visti tutti gli atti della causa;
relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 dicembre 2017 il Cons. Vincenzo Lopilato e
uditi per le parti l’avvocato dello Stato Giannuzzi e l’avvocato Mannarino.
FATTO
1.– Il dr. OMISSIS- ha esposto, in un ricorso proposto innanzi al Tribunale amministrativo
regionale per la Calabria, sede di Catanzaro, di avere svolto, sin dal mese di ottobre del
1989, funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura della Repubblica
di Paola ed, in tale qualità, «per oltre un decennio, a causa dei numerosi impegni di lavoro,
resi ulteriormente gravosi dal rilevante carico di procedimenti penali assegnatogli, nonché
dallo svolgimento delle funzioni di Procuratore della Repubblica nel lungo periodo di
vacanza del posto, (…) è stato costretto a trattenersi quotidianamente presso gli uffici
della Procura, spesso fino a tarda ora».
In particolare, da una relazione svolta dalla unità sanitaria locale, a seguito del sopralluogo
effettuato presso l’edificio che ospita la Procura in data 30 ottobre 1995, sarebbe emerso
«che i muri esterni erano costituiti da lastre piane in cemento-amianto, sostenute da
profilati in alluminio» e che «le perforazioni presenti nelle lastre in cemento avevano
determinato, con l’emissione di polvere, il rilascio di fibre di amianto».
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Nonostante le autorità sanitarie avessero conseguentemente manifestato «la necessità che
le lastre in cemento amianto venissero rimosse, sostituite, ovvero bonificate nel modo più
idoneo, in quanto rappresentavano una grave fonte di inquinamento ambientale», i relativi
lavori non sarebbero stati eseguiti se non tardivamente ed in maniera incompleta.
In data 4 dicembre 2001 il dr. -OMISSIS- ha presentato istanza di riconoscimento di
dipendenza di infermità da causa di servizio, allegando le risultanze di un esame
radiologico effettuato in data 19 luglio 2001, dal quale era emersa la «presenza di
immagine di pus da riferire ad ulcera in fase florida» ed aggiungendo di essere stato
sottoposto, in data 31 agosto 2001, ad un intervento chirurgico per l’asportazione di una
formazione neoplastica, poi risultata essere un «carcinoma renale a cellule chiare ben
differenziato (GI) con focali aspetti papillari con micro focolaio di infiltrazioni della
capsula reale».
Il Comitato di Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, con provvedimento
del 2 marzo 2005, ha dichiarato la dipendenza da causa di servizio delle infermità
«malattia peptica ulcerosa duodenale» ed «esiti di nefrectomia parziale sinistra con
resezione parziale della X^ costa per carcinoma sx a cellule chiare, ben differenziato (G1)»
e ha riconosciuto al dr. -OMISSIS- «la misura massima prevista dalle vigenti disposizioni
di legge ai fini della concessione dell’equo indennizzo», ascritto alla quarta categoria della
tabella A e liquidato in misura pari ad € 49.567,07, somma poi materialmente corrisposta
al ricorrente in virtù dei decreti di autorizzazione al pagamento emessi dal resistente
Ministero in data 21 aprile 2005 e 16 maggio 2005.
1.1.– Per le ragioni sin qui riportate dr. -OMISSIS- ha chiesto al Tribunale amministrativo
regionale la condanna del Ministero della giustizia al risarcimento del danno non
patrimoniale alla salute subito a seguito dell’esposizione all’amianto e quantificato nella
somma di euro 150.000,00.
Da tale somma, nella prospettiva del ricorrente, non avrebbe dovuto essere detratto
l’importo già percepito a titolo di equo indennizzo, che costituirebbe uno «strumento a
contenuto patrimoniale di natura previdenziale», mentre il risarcimento sarebbe
«finalizzato a ripristinare integralmente il danno subito, in tutte le sue qualificazioni».
2.– Il Tribunale amministrativo, con sentenza 20 aprile 2016, n. 849 ha accolto il ricorso,
riconoscendo a favore del dr. -OMISSIS-, a titolo di risarcimento del danno, la somma
complessiva di euro 85.180,00. In particolare, il primo giudice ha ritenuto che «come da
costante orientamento della giurisprudenza, le prestazioni indennitarie riconosciute dalla
legge in favore dei pubblici dipendenti affetti da patologie contratte per causa di servizio
ovvero per le vittime del dovere concorrono con il diritto al risarcimento del danno da
responsabilità contrattuale o extracontrattuale dell’amministrazione in ordine al medesimo
pregiudizio all’integrità psicofisica patita dal dipendente». L’importo di quelle prestazioni
«non può cioè venire detratto da quanto spettante per il diverso titolo risarcitorio,
dovendosi escludere che ricorra un’ipotesi di compensatio lucri cum damno». Si è
affermato, infatti, che l’illecito mentre «costituisce fatto genetico e costitutivo della pretesa
al risarcimento, rappresenta una mera occasione rispetto alla spettanza dell’indennità che
sorge per il solo fatto che la lesione sia avvenuta nell’espletamento di un servizio di istituto
del soggetto, indipendentemente dalla responsabilità civile dell’amministrazione datrice di
lavoro e in misura autonoma dall’effettiva entità del pregiudizio subito dall’interessato, ciò
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che rileva è l’assenza della finalità compensativo-sostitutiva propria del risarcimento».
3.– Il Ministero della giustizia ha proposto appello, fondato sull’unico motivo della
ritenuta «violazione e falsa applicazione del principio dellacompensatio lucri cum damno,
desumibile dall’art. 1223 c.c.». Secondo il Ministero «la necessità dello scomputo dalle
somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno di quanto corrisposto all’appellato
proprio in ragione della riconosciuta dipendenza dal servizio della patologia contratta per
effetto dell’esposizione all’amianto è imposta dall’esigenza di evitare l’ingiustificato
arricchimento determinato dal porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della
giustizia) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo».
3.1.– Si è costituito in giudizio il ricorrente in primo grado, chiedendo il rigetto
dell’appello.
4.– La Quarta Sezione, con ordinanza 6 giugno 2017, n. 2719, ha ritenuto che, in materia,
sia riscontrabile un contrasto interpretativo nell’ambito della giurisprudenza della Corte di
cassazione.
Un primo orientamento tradizionale, cui si è uniformato il Tribunale amministrativo,
ritiene che in questi casi possa operare il cumulo tra indennizzo e risarcimento, venendo in
rilievo fonti diverse delle obbligazioni dovute e la condotta illecita è mera “occasione” e
non “causa” dell’attribuzione dell’indennità.
Un secondo orientamento minoritario sostiene, invece, che in questi casi debba operare la
compensatio lucri cum damno, in quanto ciò che rileva è che la condotta sia unica e, nella
specie, il fatto illecito deve considerarsi “causa” dell’attribuzione dell’indennità.
La Sezione – «in considerazione del pregio delle argomentazioni poste a sostegno del più
recente indirizzo, dell’esposto contrasto giurisprudenziale fra Sezioni della Corte di
cassazione e della possibilità che tale contrasto possa svilupparsi anche in seno alla
giurisprudenza del Consiglio di Stato» – ha ritenuto «opportuno deferire il presente ricorso
all’esame dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99, commi 1 e 4,
c.p.a., per la decisione del seguente punto di diritto (e conseguentemente per la eventuale
definizione dell’intera controversia): “se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo
importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di
carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie
previdenziali”».
5.– Le parti hanno depositato memorie difensive nel presente giudizio.
In particolare, la parte appellata ha messo in rilievo come, in questo caso, non possa opera
la regola della compensatio in quanto: i) sussiste una diversità di titoli delle obbligazioni,
che hanno natura e presupposti diversi, che giustificherebbe il cumulo tra le somme
pretese; ii) la disciplina degli indennizzi da corrispondere in presenza di infermità derivanti
da cause di servizio ha puntualmente indicato i fattori che devono ridurre l’indennità da
corrispondere e tra questi non è menzionata la somma corrisposta a titolo di risarcimento
del danno (art. 50 del d.p.r. 3 maggio 1957, n. 686); iii) nella specie viene in rilievo il
risarcimento del danno non patrimoniale, in relazione al quale, da un lato, non sarebbe
neanche astrattamente ipotizzabile «un rischio di arricchimento del danneggiato», non
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potendo il danno alla persona «essere riparato in base a criteri convenzionali» e pertanto il
danneggiato non potrebbe «neanche ritrovarsi in una situazione più favorevole rispetto a
quella generata dall’illecito»; dall’altro, «viene in rilievo un danno biologico (…) che
assume una rilevanza particolare all’interno del danno non patrimoniale risarcibile»;
dall’altro ancora, l’art. 1223 cod. civ. «fa riferimento alla “perdita” e al “mancato
guadagno” subiti dal creditore», che identificherebbero concetti che «attengono al
patrimonio del danneggiato (…) ma sono invece estranei al risarcimento del danno
non patrimoniale, riguardo al quale non è concepibile una tale distinzione»; iv) nella
fattispecie in esame, la responsabilità dovrebbe avere una funziona sanzionatoria per la
presenza di una condotta dell’amministrazione che avrebbe posto in evidenza «gravi
mancanze nella tutela dell’integrità del dipendente», con la conseguenza che la «relativa
condanna ha un effetto di stimolo per il corretto adempimento dei doveri facenti capo
all’amministrazione».
Infine, si è chiesto, anche qualora venisse vietato il cumulo, di affermare il principio di
diritto ai soli giudizi proposti dopo la decisione della Plenaria «in conformità al principio
di irretroattività dei mutamenti giurisprudenziali incidenti sul diritto vivente».
6.– La causa è stata decisa all’esito della camera di consiglio del 13 dicembre 2017.
DIRITTO
1.– La questione posta all’esame dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato attiene alla
valenza del principio della cd. compensatio lucri cum damno (di seguito anche solo
compensatio) nella fase di determinazione del danno cagionato dal datore di lavoro
pubblico ad un proprio dipendente.
In particolare, si tratta di accertare se la somma spettante a titolo risarcitorio per lesione
della salute conseguente alla esalazione di amianto nei luoghi di lavoro sia cumulabile con
l’indennizzo percepito a seguito del riconoscimento della dipendenza dell’infermità da
causa di servizio ovvero se tale indennizzo debba essere decurtato dal risarcimento del
danno.
2.– La soluzione di tale questione non può essere unitaria ma è strettamente correlata alla
specificità delle fattispecie concrete.
Prima di esaminarle è opportuno trattare alcune questioni di carattere generale che
definiscono il contesto sistematico comune in cui esse si inseriscono.
La prima questione attiene ai titoli delle obbligazioni (1173 cod. civ.) dai quali sorgono
rapporti giuridici, che definiscono anche le cause giustificative degli spostamenti
patrimoniali. Tali rapporti, anche in ragione, tra l’altro, dei soggetti coinvolti, possono
avere natura semplice o complessa. In particolare, vi possono essere rapporti obbligatori
con un solo soggetto responsabile e obbligato, eventualmente in forma complessa, ovvero
più rapporti obbligatori collegati che possono, in ragioni di variabili dipendenti dal caso
concreto, giustificare l’attribuzione di una o di più prestazioni patrimoniali.
La seconda questione attiene alla struttura della responsabilità civile e contrattuale e, in
particolare, per quanto rileva in questa sede, alla cd. causalità giuridica nonché alla
funzione della responsabilità stessa.
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In relazione alla causalità giuridica, l’art. 1223 cod. civ., richiamato anche dall’art. 2056
cod. civ., dispone che «il risarcimento del danno per l’inadempimento per il ritardo deve
comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne
siano conseguenza immediata e diretta».
L’orientamento prevalente della Corte di Cassazione ritiene che le suddette disposizioni
non pongano una vera e propria regola causale bensì prevedano criteri di determinazione
del danno risarcibile in applicazione della teoria della causalità adeguata, che impone di
considerare danni conseguenza risarcibili solo quelli riconducibili al fatto illecito secondo
principi di regolarità causale che fanno applicazione del criterio dell’id quod plerunque
accidit. In questa ottica, la giurisprudenza ritiene risarcibile anche il danno mediato o
indiretto, purché sia prodotto da una sequela normale di eventi che traggono origine dal
fatto originario (Cass. civ., sez. III, n. 29 febbraio 2016, 3893; id., sez. II, 24 aprile 2012,
n. 6474; id., sez. III, 4 luglio 2006, n. 15274; id., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124; Cass.
civ., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255, ritiene, invece, che anche la causalità giuridica
deve essere considerata una causalità in senso tecnico, da accertare secondo la regola
probatoria del “più probabile che non”).
In relazione alla funzione del risarcimento del danno, le Sezioni unite della Corte di
Cassazione, con sentenza 5 luglio 2017, n. 16601, hanno affermato, con riferimento alla
responsabilità civile, che essa può perseguire plurime finalità che si pongono su piani
differenti (Cass. civ., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601).
La finalità generale e prioritaria è compensativa: lo scopo è di reintegrare la sfera giuridica
del danneggiato ponendolo, in attuazione del cd. principio di indifferenza, nella situazione
in cui si sarebbe trovato senza il fatto illecito.
La finalità generale e secondaria è «preventiva (o deterrente o dissuasiva)»: lo scopo è
anche quello di evitare la reiterazione del fatto illecito.
La finalità specifica ulteriore è «sanzionatoria-punitiva»: lo scopo è di “punire” il
danneggiante mediante la condanna, nei soli casi in cui la legge lo consenta in coerenza
con i limiti che la Costituzione pone nella conformazione delle regole di responsabilità
(cfr. art. 25), a corrispondere una somma superiore a quella necessaria per eliminare i
pregiudizi conseguenti al fatto illecito.
Gli aspetti esaminati propri della responsabilità civile valgono, con i necessari adattamenti,
anche con riferimento alla responsabilità contrattuale.
La finalità generale e prioritaria è, infatti, anche in questo caso, compensativa.
La finalità specifica ulteriore sanzionatoria-punitiva è configurabile soltanto nei casi in cui
vi sia una espressa previsione di legge: si pensi, a titolo esemplificativo, alla conversione
del contratto di mutuo da oneroso a gratuito nel caso in cui le parti abbiamo previsto
l’obbligo di corrispondere interessi usurari (art. 1815 cod. civ.). Il principio di parità delle
parti del contratto, quale proiezione del principio costituzionale di eguaglianza, esclude
anche che esse possano prevedere, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, rimedi
risarcitori di natura punitiva. La stessa norma che contempla la clausola penale (art. 1382
cod. civ.) deve essere interpretata nel senso di attribuire ai contraenti un potere che ha una
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finalità esclusivamente risarcitoria come dimostra la previsione, attuativa del principio di
buona fede oggettiva, del potere di riduzione d’ufficio da parte del giudice nel caso in cui
l’ammontare della penale sia manifestamente eccessivo (art. 1384 cod. civ.).
3.– Le diverse fattispecie concrete, inserite nel descritto contesto generale, presentando,
accanto a specifiche peculiarietà, taluni elementi comuni, possono essere collocate, per fini
ordinatori, in tre diverse categorie, che si differenziano sul piano dei titoli delle
obbligazioni e dei soggetti responsabili e obbligati, con implicazioni diverse in punto di
causa giustificativa delle attribuzioni, nonché di causalità giuridica e funzione della
responsabilità.
4.– La prima categoria è quella che ricomprende fattispecie che si caratterizzano per la
presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e obbligato ad effettuare
una prestazione derivante da un unico titolo.
Si tratta di casi in cui la stessa condotta, ricorrendo i presupposti previsti per le diverse
forme di responsabilità, può cagionare un danno e contestualmente un vantaggio nella
sfera giuridica del danneggiato.
Tali fattispecie contemplano “rapporti obbligatori bilaterali” in cui compaiono,
eventualmente in forma complessa, una sola parte responsabile ed obbligata ed una sola
parte danneggiata.
La giurisprudenza e la dottrina non hanno mai dubitato della necessità di valutare l’entità
dei vantaggi conseguiti dal danneggiato ai fini della determinazione effettiva del danno.
Sul piano strutturale, tale risultato si raggiunge accertando che la causa giustificativa del
vantaggio sia rappresentata dalla commissione dell’illecito, con conseguente applicazione
della regola della causalità giuridica che, come esposto, costituisce, secondo la prevalente
ricostruzione, una modalità di determinazione del danno subito. Ne consegue che nella fase
di valutazione delle conseguenze economiche negative, dirette ed immediate, dell’illecito
occorre considerare anche il lucro eventualmente acquisito al patrimonio della parte lesa
che, in quanto tale, riduce l’area dei danni effettivamente cagionati dalla condotta del
responsabile.
Sul piano funzionale, l’istituto in esame impedisce che il danneggiante sia costretto a
corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare il patrimonio leso.
In questa prospettiva, la compensatio lucri cum damno non ha una sua autonomia
dommatica ma rappresenta una mera espressione descrittiva di una delle possibili modalità
di impiego del meccanismo causale nella fase di determinazione dei pregiudizi.
5.– La seconda categoria è quella che ricomprende fattispecie che si caratterizzano per la
presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e di due soggetti obbligati
sulla base di titoli differenti.
Si tratta di fattispecie in cui il sistema prevede, in forme diversificate, accanto all’obbligo
di risarcire il danno derivante da titolo illecito (2043 o 1218 cod. civ.) anche l’obbligo di
corrispondere una indennità o somma a vario titolo.
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In primo luogo, possono venire in rilievo forme di assicurazione privata contro i danni
derivanti da fonte contrattuale che obbligano l’assicuratore, verso pagamento di un premio,
a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro in
attuazione del cd. principio indennitario (artt. 1882 cod. civ. e ss.).
In secondo luogo, possono venire in rilievo forme di assicurazione sociale disciplinate da
leggi speciali (art. 1886 cod. civ.), che sono, a loro volta, riconducibili ad istituti differenti,
quali, da un lato, quelli che apprestano ai lavoratori, nell’ambito di particolari sistemi
contributivi, una tutela contro gli infortuni e le malattie professionali ovvero una tutela
previdenziale in caso di invalidità (e altri eventi), dall’altro, quelli che assicurano ad ogni
cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere una tutela
assistenziale, mediante, ad esempio, la corresponsione di un’indennità di
accompagnamento (cfr. art. 38 Cost.).
Infine, possono venire in rilievo singole previsioni di legge che contemplano l’indennità da
corrispondere per finalità solidaristiche a favore, ad esempio, di familiari di vittime cadute
in servizio ovvero di vittime del terrorismo.
Le descritte fattispecie si caratterizzano per la presenza di “rapporti giuridici trilaterali”
ovvero, più precisamente, di duplici rapporti bilaterali: i) la relazione tra parte responsabile
obbligata a titolo di illecito e parte danneggiata; ii) la relazione tra quest’ultima e altra
parte obbligata a titolo diverso a seconda della vicenda che viene in rilievo.
Tali situazioni rendono più complessa la ricostruzione dei modi di operatività della
compensatio.
Non è questa la sede per proporre una possibile soluzione, in quanto si tratta di questioni
che, con le ordinanze sopra indicate, sono state rimesse all’esame delle Sezioni unite della
Cassazione. E’, pertanto, sufficiente riportare, in sintesi, come già fatto nell’ordinanza di
rimessione alla Plenaria, i due orientamenti che si sono formati nell’ambito della
giurisprudenza della Cassazione, ai soli fini di porre in rilievo la differenza rispetto alla
vicenda in esame.
Un primo e maggioritario orientamento ritiene che, per le fattispecie rientranti in questa
categoria, non sia applicabile la regola della compensatio ma quella del cumulo.
In particolare, sul piano strutturale, si afferma come la diversità dei titoli delle obbligazioni
e dei relativi rapporti giuridici sottostanti costituisca una idonea causa giustificativa delle
differenti attribuzioni patrimoniali e, conseguentemente, la condotta illecita rappresenta
non la “causa” dell’indennità a vario titolo corrisposta ma la mera “occasione” di essa.
Non si può, pertanto, applicare la regola della causalità giuridica ai fini del computo delle
indennità nella fase di determinazione effettiva del danno.
Sul piano funzionale, non vi sono rischi di sovracompensazioni economiche proprio perché
la diversità delle ragioni giustificative delle attribuzioni patrimoniali impedisce di
assegnare valenza punitiva al risarcimento del danno.
Un secondo orientamento, fatto proprio dalle ordinanze di rimessione alle Sezioni unite,
ritiene, invece, che anche in questi casi debba applicarsi la regola della compensatio.
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In particolare, sul piano strutturale, si afferma come la diversità dei titoli non giustifichi
l’esito cui perviene l’opposto indirizzo interpretativo in quanto ciò che rileva è che la
condotta (e non il titolo) sia unica e che essa costituisca la “causa” sia del danno sia
dell’attribuzione di somme finalizzate a reintegrare il patrimonio leso. In particolare, sul
piano della causalità giuridica, si sottolinea, non è «corretto interpretare l’art. 1223 cod.
civ. in modo asimmetrico e ritenere che “il rapporto fra illecito ed evento può anche non
essere diretto ed immediato” quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario
che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo
fatto illecito» (Cass. civ., sez. III, n. 15534 del 2017, cit.).
Sul piano funzionale, ammettendo il cumulo e non la compensatio, si assegna una funzione
sovracompensativa al risarcimento del danno. Anche le indennità sopra indicate sono,
infatti, riconducibili eziologicamente al fatto illecito e dunque hanno una finalità
compensativa del pregiudizio subito dalla parte lesa.
Questi aspetti sono resi ancora più complessi dal meccanismo della surrogazione prevista
dall’art. 1916 cod. civ. e dalla legislazione speciale. In particolare, tale articolo dispone che
«l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare
di essa, nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili».
Il danneggiante, infatti, si sottolinea nelle ordinanze di rimessione, potrebbe essere
costretto a corrispondere la medesima somma sia al danneggiato sia, a seguito della
successione nel rapporto obbligatorio, al soggetto o ente che ha corrisposto l’indennità alla
parte lesa. Si verrebbe così ad attribuire – sul presupposto che i benefici collaterali
corrisposti non abbiano valenza autonoma giustificativa delle relative attribuzioni
patrimoniali – una funzione punitiva al risarcimento del danno in mancanza di una
espressa previsione di legge che lo consenta. L’unica possibilità per evitare questo risultato
sarebbe quello di ritenere che non operi la surrogazione. Ma tale esito, sottolinea la
Cassazione, sarebbe contraddittorio in presenza di norme imperative che la contemplano e
che non potrebbero essere derogate con atto di autonomia delle parti. Sotto altro aspetto,
nelle ordinanze di rimessione si pone in evidenza, con implicazioni sulla funzione
deterrente della responsabilità, che «l'istituto della surrogazione e la stima del danno da
fatto illecito non sono legati da alcun nesso di implicazione bilaterale»: infatti, «se le
conseguenze del fatto illecito sono state eliminate dall'intervento d'un assicuratore (privato
o sociale che sia), ovvero da un qualsiasi ente pubblico o privato, il pagamento da tale
soggetto compiuto, se ha avuto per effetto o per scopo quello di eliminare le conseguenze
dannose, andrà sempre detratto dal credito risarcitorio, a nulla rilevando nè che l'ente
pagatore non abbia diritto alla surrogazione, nè che, avendolo, vi abbia rinunciato».
In definitiva, si tratta di accertare se i due rapporti giuridici che vengono in rilievo,
mantenendo una loro autonomia e dunque una valenza “bilaterale”, abbiano ciascuno una
propria causa giustificativa delle attribuzioni patrimoniali che consente il cumulo tra di
esse ovvero se tali rapporti, anche in ragione della operatività del meccanismo della
surrogazione (di cui occorre valutare l’eventuale derogabilità convenzionale), siano
strettamente collegati con sussistenza di una sostanziale “unitaria” causa di giustificazione
delle attribuzioni patrimoniali che impone l’operatività della compensatio tra di esse
mediante l’applicazione del meccanismo della regolarità causale.
6.– La terza fattispecie è quella in cui è presente un’unica condotta responsabile, un solo
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soggetto obbligato e titoli differenti delle obbligazioni.
La vicenda concreta all’esame di questa Adunanza plenaria si inserisce in questo ambito.
Nella specie, la parte appellata: i) ha già ottenuto dal Ministero della Giustizia una somma
a titolo di indennità per infermità dipendente da causa di servizio conseguente
all’esposizione a fibre di amianto presenti nel luogo di lavoro; ii) ha chiesto con il presente
giudizio la condanna dello stesso Ministero al risarcimento anche del danno alla salute
subito per la medesima ragione senza detrazione della somma già corrisposta a titolo di
indennità.
La soluzione della questione all’esame della Plenaria presuppone la previa individuazione
dei titoli delle obbligazioni che vengono in rilievo e della loro natura, nonché dei soggetti
del rapporto obbligatorio.
6.1.– Il primo titolo dell’obbligazione risarcitoria è regolato dall’art. 2087 cod. civ.,
applicabile anche in ambito pubblicistico, il quale prevede che «l’imprenditore è tenuto ad
adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale
dei prestatori di lavoro».
In relazione alla natura di tale obbligazione, è controversa la sua riconducibilità alla
responsabilità contrattuale o extracontrattuale.
Il prevalente orientamento seguito dalla Corte di Cassazione, che questo Collegio
condivide, ritiene che la responsabilità del datore di lavoro abbia natura contrattuale e
rinvenga la propria fonte nel contratto di lavoro che, ai sensi dell’art. 1374 cod. civ., è
integrato dalla norma di legge, sopra riportata, che prevede doveri di prestazione finalizzati
ad assicurare la tutela della salute del lavoratore.
Sul piano strutturale, tale qualificazione dell’illecito implica, ai sensi dell’art. 1218 cod.
civ., che: il lavoratore deve provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa,
l’inadempimento del datore di lavoro e i danni conseguenza; il datore di lavoro deve
provare l’assenza di colpa e pertanto di aver adottato tutte le cautele necessarie per
impedire il verificarsi del danno medesimo (da ultimo, Cass. civ., sez. lav., 15 giugno
2017, n. 14865).
L’accertamento di tale responsabilità, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte
appellata, dà diritto, sussistendone i presupposti, anche al risarcimento del danno non
patrimoniale e, in particolare, del cd. danno biologico.
A tale proposito, l’art. 2059 cod. civ. dispone che tale voce di danno «deve essere risarcito
solo nei casi determinati dalla legge».
La Corte di Cassazione, con orientamento oramai costante, ha chiarito che, ai fini del
danno ingiusto, la “legge” può essere sia quella “costituzionale”, con tutela dei diritti
fondamentali della persona, sia quella “ordinaria” che può stabilire la risarcibilità anche di
posizioni soggettive non riconducibili all’area dei diritti della persona (Cass., sez. un., 11
novembre 2008, n. 26972). Ai fini del danno conseguenza, viene in rilievo la cd.
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«sofferenza morale», che costituisce l’aspetto interiore del danno, e il cd. «danno
esistenziale», che costituisce «l’impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana» e
cioè l’incidenza dell’illecito nella sfera dinamico relazionale del soggetto, in quanto «i due
autentici momenti essenziali della sofferenza dell’individuo» sono «il dolore interiore, e/o
la significativa alterazione della vita quotidiana» (Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2016, n.
7766).
Si tratta di un danno avente “natura unitaria”, il che sta «sta a significare che non v'è
alcuna diversità nell’accertamento e nella liquidazione del danno causato dalla lesione di
un dirittocostituzionalmente protetto» (Cass. n. 7766 del 2016, cit). Ne consegue che il
danno biologico, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellata, non potrebbe
ricevere un trattamento differenziato.
La Cassazione, a partire dalla citata sentenza n. 26972 del 2008, ha ritenuto che l’art. 2059
cod. civ., nonostante manchi una espressa norma di collegamento, sia applicabile anche in
ambito contrattuale. In particolare, in assenza di una espressa previsione di legge che
contempli tale danno, è necessario che il contenuto dell’obbligazione contrattuale,
individuato anche alla luce della causa in concreto e dunque della ragione pratica
dell’affare, sia costituito dal dovere di protezione di un diritto fondamentale della persona
del creditore. Invero, l’art. 1174 cod. civ., prevedendo che la prestazione che forma
oggetto dell'obbligazione deve corrispondere a un interesse, «anche non patrimoniale», del
creditore, sembra assegnare all’autonomia negoziale delle parti il potere di selezionare gli
interessi tutelabili con conseguente applicabilità del meccanismo risarcitorio in esame
anche a prescindere dall’esistenza di un diritto costituzionalmente protetto ovvero di una
espressa previsione legislativa.
Nella fattispecie in esame, è comunque indubbio che viene in rilievo un diritto della
persona costituzionalmente tutelato, in quanto l’art. 2087 cod. civ. pone a carico del datore
di lavoro il dovere di proteggere proprio la sfera personale del lavoratore e in particolare il
diritto all’integrità psico-fisica. La violazione di tale norma autorizza la corresponsione
anche del danno non patrimoniale.
Sul piano funzionale, la norma in esame, anche in presenza di un danno non patrimoniale,
impone che il risarcimento del danno, in attuazione delle regole della causalità giuridica,
venga corrisposto con finalità esclusivamente compensative. Il legislatore non ha
autorizzato, infatti, la previsione di forme di danni punitivi.
6.1.1.– Il titolo della seconda obbligazione è regolato dall’art. 68 del decreto del Presidente
della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo
statuto degli impiegati civili dello Stato), il quale prevede(va) che «per le infermità
riconosciute dipendenti da causa di servizio è a carico dell’amministrazione la spesa per la
corresponsione di un equo indennizzo per la perdita dell’integrità fisica eventualmente
subita dall’impiegato». Il decreto del Presidente della Repubblica 3 maggio 1957, n. 686
(Norme di esecuzione del testo unico delle disposizioni sullo statuto degli impiegati civili
dello Stato, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3)
dispone(va) che l’indennità si determina secondo equità ed essa è «ridotta della metà se
l’impiegato consegua anche la pensione privilegiata» e, inoltre, va dedotto «quanto
eventualmente percepito dall’impiegato in virtù di assicurazione a carico dello Stato o di
altra pubblica amministrazione». Per i dipendenti degli enti pubblici la relativa disciplina è
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contenuta nell’art. 32 del decreto del Presidente della Repubblica 26 maggio 1976, n. 411
(Disciplina del rapporto di lavoro del personale degli enti pubblici di cui alla legge 20
marzo 1975, n. 70).
Il procedimento per ottenere tale indennità è stato disciplinato, dapprima dal decreto del
Presidente della Repubblica 20 aprile 1994, n. 349 e, successivamente, dal decreto del
Presidente della Repubblica 29 ottobre 2001, n. 461.
Il decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il
consolidamento dei conti pubblici), non applicabile ratione temporis, ha abrogato, tra
l’altro, l’istituto «dell’accertamento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio»,
ferma «la tutela derivante dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie
professionali». La norma continua prevedendo che la disposizione di cui al primo periodo
del presente comma non si applica: i) «nei confronti del personale appartenente al
comparto sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico»; ii) «ai procedimenti in
corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai procedimenti per i quali,
alla predetta data, non sia ancora scaduto il termine di presentazione della domanda,
nonché ai procedimenti instaurabili d'ufficio per eventi occorsi prima della predetta data».
In relazione alla natura di tale indennità questa Adunanza plenaria ha ritenuto che essa sia
diversa dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno e deve essere
considerata alla stessa stregua delle altre indennità corrisposte in costanza di rapporto di
lavoro, per le seguenti ragioni.
Sul piano strutturale, nella disciplina dell’indennità «il legislatore prescinde da ogni
riferimento a criteri di responsabilità conseguenti al verificarsi dell’evento dannoso» e «la
perdita dell’integrità fisica è valutata tenendo esclusivamente conto delle oggettive
condizioni di tempo e di luogo nelle quali la prestazione lavorativa risulta effettuata ed in
presenza delle quali si è verificata la lamentata menomazione» (sentenza 16 aprile 1985, n.
14; nello stesso senso 8 ottobre 2009, n. 5).
Sul piano funzionale, le norme di legge, sopra riportate non proteggono il bene «integrità
psico-fisica» che «è solo l’occasione dell’erogazione, ma la speciale condizione del
dipendente divenuto infermo in ragione del suo rapporto con l’amministrazione e del
servizio prestato». Il fine, pertanto, «non è risarcitorio ma si inserisce nell’ambito di un
sinallagma in cui si intrecciano prestazioni e controprestazioni di contenuto plurimo» e
«appare avvicinabile ad una delle tante indennità che l’amministrazione conferisce ai
propri dipendenti in relazione alle vicende del servizio» (sentenza 16 luglio 1993, n. 9).
Lungo questa linea, più recentemente, si è affermato come il legislatore abbia «preso in
considerazione l’interesse pubblico collegato allo svolgimento di determinate attività
particolarmente pericolose per la salute o anche solo le condizioni disagevoli per
l’espletamento delle mansioni dei dipendenti pubblici ed ha predisposto un regime di
ristoro del lavoratore pubblico dipendente che in occasione dello svolgimento di dette
attività subisca una rilevante lesione della sua integrità fisica». Ne consegue che «pur
nell’adempimento ordinario e diligente delle obbligazioni di entrambe le parti del rapporto
di lavoro, può accadere che si verifichino menomazioni della integrità fisica del lavoratore
sia in ragione della pericolosità obiettiva delle lavorazioni (…) che in relazione allo
svolgimento di ogni altra mansione del lavoratore» (sentenza n. 5 del 2009, cit.).
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Tale orientamento deve essere rimeditato.
Deve ritenersi, infatti, che l’indennità in questione ha natura sostanzialmente analoga a
quella risarcitoria da illecito contrattuale, per le seguenti ragioni.
Sul piano strutturale, la nozione di “indennità” è normalmente collegata ad una condotta
che integra gli estremi di un atto lecito dannoso, in quanto tale autorizzato dal sistema.
La nozione di “indennità” è però compatibile anche con una condotta che integri gli
estremi di un atto illecito, in quanto tale vietato dal sistema.
Si può trattare, in questi casi, di un illecito che non è conseguenza della violazione di un
dovere di prestazione o protezione di matrice contrattuale ovvero della violazione di un
dovere generale del neminem laedere di matrice extracontrattuale ma di un dovere
contemplato da una specifica disposizione di legge. Il sistema delle fonti delle
obbligazioni, cui si è fatto cenno in premessa, consente di costruire modelli di
responsabilità che si fondano su requisiti oggettivi e soggettivi diversi (cfr. Cass civ., sez.
II, 16 dicembre 2015, n. 25292)
Nella fattispecie in esame, questo Collegio ritiene che le riportate norme di disciplina della
materia prevedano un’indennità che può essere conseguenza sia un di atto illecito sia di un
atto lecito dannoso.
In particolare, la prima ipotesi, che rileva in questa sede, ricorre nel caso in cui la lesione
dell’integrità fisica subita dal dipendente sia causata dalla condotta contra ius del datore di
lavoro che non ha adottato le cautele necessarie ed idonee a proteggere la sfera giuridica
del lavoratore. Si tratta di una responsabilità che può prescindere dal dolo o dalla colpa.
La seconda ipotesi ricorre nel caso in cui sussiste solo una connessione con l’attività
lavorativa senza che sia individuabile un comportamento illecito del datore di lavoro. In
tale caso, però, non si pone un problema di concorso di responsabilità con possibile
cumulo dei rimedi, in quanto, non venendo in rilievo un illecito, non può trovare
applicazione l’art. 2087 cod. civ.
Sul piano funzionale, la finalità perseguita, in ogni caso, è quella di compensare la sfera
giuridica del lavoratore leso sia pure attraverso un meccanismo, come appena sottolineato,
strutturalmente differente da quello risarcitorio.
Il «bene protetto» è anche in questo caso l’integrità psico-fisica del dipendente ed essa
costituisce non l’occasione ma la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale. Non
può, pertanto, ritenersi, anche alla luce dell’evoluzione del sistema giuslavoristico e delle
forme di tutela della persona, che l’indennità in esame sia assimilabile alle “altre”
indennità corrisposte in costanza di rapporto. Il risultato cui era pervenuta l’Adunanza
plenaria, con le sentenze citate, considerava, infatti, il lavoratore esclusivamente come
prestatore di attività “destinatario” in quanto tale di diverse indennità e non anche come
“persona” protetta dal relativo contratto.
6.2.– I soggetti che vengono in rilievo si inseriscono in un “rapporto obbligatorio
bilaterale” in cui compare una sola parte responsabile ed obbligata ed una sola parte
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danneggiata.
L’Amministrazione statale è, infatti, l’unico soggetto che deve corrispondere sia
l’indennità prevista dalle leggi sopra indicate sia la somma risarcitoria in qualità di datore
di lavoro pubblico. Ed è questa la principale diversità rispetto alla questione posta
all’esame delle Sezioni unite.
6.3.– L’analisi congiunta dei profili sin qui esaminati relativi ai titoli e ai soggetti delle
obbligazioni che vengono in rilievo conduce a ritenere che le somme corrisposte non
possono essere cumulate.
Tale esito interpretativo si fonda su talune ragioni (6.3.1.), è confermato dall’esistenza di
alcune fattispecie (6.3.2.) e non è contraddetto (6.3.3.) dalle argomentazioni difensive della
parte appellata.
6.3.1.– Sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una condotta unica
responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità
compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la
nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una,
altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale
della parte lesa.
In questi casi, l’applicazione delle regole della causalità giuridica impone che venga
compensato e liquidato soltanto il danno effettivamente subito dal danneggiato, senza che
le suddette attribuzioni possano cumularsi tra di esse.
Non si tratta, pertanto, di applicare la regola della compensatio nella sua versione
“tradizionale”, che presuppone che la medesima condotta determini un “danno” e un
“vantaggio”. Come già esposto, tale regola non ha una sua autonomia ed è riconducibile
alle tecniche di determinazione del danno che, nella specie, trovano applicazione in modo
ancora più lineare e diretto. In questo caso, infatti, la medesima condotta ha determinato
solo “danni” e dunque effetti pregiudizievoli, con la conseguenza che occorre evitare il
“cumulo di voci risarcitorie” e non “il cumulo di danno e di lucro”.
Sul piano della funzione degli illeciti, il riconoscimento del cumulo implicherebbe
l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva. L’esistenza, infatti,
di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l’obbligo di
corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del
danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo. Tale risultato,
contrariamente a quanto sostenuto dall’appellato, non può ammettersi in quanto manca una
espressa previsione legislativa che contempli un illecito punitivo e dunque che autorizzi un
rimedio sovracompensativo e non sarebbe nemmeno configurabile una duplice causa
dell’attribuzione patrimoniale.
In definitiva, nella fattispecie in esame l’accertata finalità compensativa di entrambi i titoli
delle obbligazioni concorrenti e del conseguente meccanismo risarcitorio, nonché la
semplicità del rapporto che evita le possibili complicazioni ricostruttive connesse al
funzionamento della surrogazione, impedisce che possa operare il cumulo tra danno e
indennità.
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6.3.2.– Questo esito interpretativo trova conferma sia in fattispecie legalmente previste sia
in talune fattispecie cosi come interpretate dalla Corte di Cassazione.
In relazione alle prime, è sufficiente menzionare l’art. 2-bis della legge n. 241 del 1990
che, in caso di comportamento illecito dell’amministrazione conseguente alla violazione
del termine di conclusione del procedimento, dispone che l’istante ha diritto sia,
sussistendone i presupposti, al risarcimento del danno sia ad un indennizzo «per il mero
ritardo», aggiungendo, sul presupposto della medesima finalità della misura riparatoria
contemplata, che «in tal caso le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di
indennizzo sono detratte dal risarcimento».
In relazione alle seconde, la Cassazione ha affermato che, in presenza di una danno da
emoderivati infetti, il Ministero può essere ritenuto responsabile, ricorrendo i presupposti
previsti dall’art. 2043 cod. civ., per omessa vigilanza. La legge 25 febbraio 1992, n. 210
prevede la corresponsione da parte del Ministero della sanità di un «indennizzo a favore
dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni
obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati». La Cassazione ha affermato
che l’indennizzo corrisposto al danneggiato deve essere integralmente scomputato dalle
somme corrisposte a titolo di risarcimento «posto che in caso contrario la vittima si
avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo
del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso
soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di
sangue o somministrazione» (Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 584; nello stesso
senso, tra le altre, Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2014, n. 26152).
6.3.3.– Questo esito interpretativo non è inciso dalle seguenti argomentazioni difensive
della parte appellata.
In relazione alla espressa previsione da parte della normativa di settore sull’equo
indennizzo dei fattori che sono idonei a ridurre l’indennità da corrispondere e che non
ricomprenderebbero la somma corrisposta a titolo di risarcimento del danno (art. 50 del
d.p.r. n. 686 del 1957), deve rilevarsi come non si possa ritenere che essi siano gli unici
rilevanti. Ciò in quanto, alla luce dei principi generali che regolano la materia, sarebbe
stata necessaria una esplicita previsione idonea ad assegnare carattere di esclusività ai
divieti di cumulo.
In relazione alla impossibilità di applicare la regola della compensatio al danno non
patrimoniale per la sua natura che escluderebbe la stessa astratta possibilità di una
riparazione, in base a “criteri convenzionali”, dell’interesse personale leso, deve rilevarsi
come anche tale voce di danno abbia una finalità compensativa e debbano essere previste
modalità risarcitorie idonee ad evitare ingiustificati arricchimenti. La “non patrimonialità”
del bene leso e soprattutto delle conseguenze derivanti dal fatto lesivo non esclude la
possibilità che si proceda, in via equitativa e con l’ausilio di meccanismi tabellari da calare
sempre nell’ambito di processi personalizzati che valorizzino le peculiarietà del caso
concreto, ad una determinazione quantitativa degli effetti economici negativi subiti dal
soggetto leso. In altri termini, la particolare natura del pregiudizio alla persona non esclude
che si provveda ad una sua quantificazione.
In tale ottica, se si ammettesse la possibilità di cumulare somme dovute anche a titolo
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diverso la conseguenza sarebbe quella di assegnare una valenza punitiva al danno
risarcibile in contrasto con la più volte enunciata regola della finalità compensativa in
assenza di una espressa previsione legislativa.
7.– La decisione dell’intera controversia, ai sensi dell’art. 99, comma 4, comporta
l’accoglimento dell’appello.
In via preliminare deve rilevarsi come la regola della compensatio, contrariamente a
quanto sostenuto dalla parte privata resistente, non può ritenersi applicabile soltanto a
rapporti futuri e non anche a quelli in corso.
Gli enunciati giurisprudenziali hanno, infatti, natura formalmente dichiarativa. La diversa
opinione «finisce per attribuire alla esegesi valore ed efficacia normativa in contrasto con
la logica intrinseca della interpretazione e con il principio costituzionale della separazione
dei poteri venendosi a porre in sostanza come una fonte di produzione» (Cons. Stato, Ad.
Plen., 2 novembre 2015, n. 9).
Affinché un orientamento del giudice della nomofilachia possa avere efficacia solo per il
futuro devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: «a) che si verta in materia
di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; b) che tale mutamento sia
stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del
pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso;
c) che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa
della parte» (così Cass. civ., 11 marzo 2013, n. 5962).
Nella fattispecie in esame non occorre applicare una norma processuale e nemmeno
attinente al procedimento amministrativo, e, in ogni caso, non risulta che vi sia stato né un
mutamento imprevedibile di orientamento in ragione anche degli indirizzi interpretativi
seguiti nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Cassazione né una incidenza
negativa sul diritto di azione della parte appellata.
Chiarito ciò, nella specie il Tribunale amministrativo ha ritenuto, applicando la regola del
cumulo, che il ricorrente avesse diritto ad aggiungere all’indennità già percepita il
risarcimento del danno non patrimoniale.
La controversia in esame deve, invece, essere risolta, in applicazione dei principi sin qui
esposti, mediante l’applicazione della regola del divieto di cumulo.
Occorra detrarre, pertanto, dall’ammontare della somma risarcitoria pari ad euro 85.180,00
la somma di euro 49.567,07 già corrisposta dall’amministrazione a titolo di indennizzo.
L’amministrazione deve, pertanto, corrispondere alla parte appellata la somma di euro
35.612,93.
8.– Alla luce di quanto sin qui esposto occorre formulare il seguente principio di diritto
limitatamente alla questione relativa al cumulo tra risarcimento e indennità dovute da enti
pubblici e non anche, perché non rilevante, da assicuratori privati o sociali: “la presenza di
un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al
medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del
pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un
rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola
della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della
responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma
dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo
indennitario”.
9.– Le spese del presente grado di giudizio, in ragione della complessità della questione
risolta, giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di
giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Adunanza Plenaria, definitivamente
pronunciando, enunciato il principio di diritto riportato al punto 8 del diritto:
a) accoglie l’appello e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, condanna il
Ministero della Giustizia a corrispondere alla parte appellata la somma di euro 35.613,07;
b) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2017 con
l'intervento dei magistrati:
Alessandro Pajno, Presidente
Filippo Patroni Griffi, Presidente
Franco Frattini, Presidente
Giuseppe Severini, Presidente
Luigi Maruotti, Presidente
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Bernhard Lageder, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere
Vincenzo Lopilato, Consigliere, Estensore


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Re: Risarcimento del danno non cumulabile con l'equo indennizzo

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Il CdS respinge l'Appello del ricorrente.

- diniego di concessione di equo indennizzo

- in sentenza viene richiamato quanto sancito dal Consiglio di Stato in Adunanza plenaria con la sent. n. 1/2018 (Cons. Stato, ad. plen. 23 febbraio 2018 n. 1).

1) - L’appellante, -OMISSIS- all’epoca dei fatti, era rimasto vittima di incidente stradale su veicolo di servizio guidato da collega. All’esito di giudizio civile per il risarcimento del danno, in cui l’interessato aveva convenuto il suddetto collega, il Ministero dell’interno, il Ministero della difesa e la società Le Assicurazioni d’Italia, egli aveva ottenuto “l’erogazione da parte della Compagnia del massimale di polizza pari a £ -OMISSIS-”, nonché “la condanna dei responsabili in solido al pagamento della somma di £ -OMISSIS-, oltre interessi e spese legali”.

Il CdS precisa:

2) - Non può accedersi alla tesi dell’appellante per cui nella fattispecie i soggetti obbligati e i rapporti che vengono in rilievo sarebbero due ben distinti, in quanto: l’assicurazione in base alla quale egli aveva percepito la somma di £ -OMISSIS- era a carico dell’Amministrazione e la presenza dell’appellante sul veicolo incidentato era direttamente connessa al rapporto di servizio con la stessa Amministrazione.
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Re: Risarcimento del danno non cumulabile con l'equo indennizzo

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Il CdS emette un'altra sentenza NEGATIVA circa la cumulabilità dell'equo indennizzo a seguito di infortunio subito di cui era accertata la dipendenza da causa di servizio, in quanto era già stato liquidato, a titolo di indennizzo corrisposto da assicurazione privata, il maggiore importo di euro 43.000,00.

Il resto potete leggerlo nell'allegato.
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Re: Risarcimento del danno non cumulabile con l'equo indennizzo

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Il CdS accoglie l'Appello del Ministero della Difesa circa la cumulabilità dell'equo indennizzo con l'indennizzo della Assicurazione.

- “non si è proceduto alla liquidazione in quanto l’importo di Euro 25.000,00 liquidato a titolo di indennizzo dalla Cattolica Assicurazioni è superiore a quello da liquidarsi”

Si legge anche questo riferimento:

1) - In proposito si evidenzia peraltro che l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 23 febbraio 2018, n. 1, ancorché con riferimento ad una diversa fattispecie, ma con coordinate ermeneutiche recanti un principio di carattere generale applicabile al caso de quo per similitudine strutturale e funzionale, ha escluso il cumulo tra risarcimento e indennità dovute da enti pubblici, giacché «la presenza di un'unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario».

Come sempre vi invito a leggere l'allegato.
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