N. 02045/2010 REG.DEC.
N. 05942/2008 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 5942 del 2008, proposto dal prof. E. L., rappresentato e difeso dall’avv. Donatella Resta, presso cui elettivamente domicilia in Roma, Lungotevere Marzio 3,
contro
l’Università degli studi di Padova, in persona del Rettore p.t., rappresentata e difesa dagli avv.ti ……
e
il Ministero dell’università e della ricerca, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi 12;
per la riforma
della sentenza del TAR del Veneto, Sez. I, 14 maggio 2007, n. 1459, resa tra le parti, concernente RISARCIMENTO DANNO PER MOBBING.
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio delle parti appellate;
Esaminate le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Vista la decisione interlocutoria n. 6226 del 9 ottobre 2009 ed il conseguente adempimento istruttorio;
Relatore, alla pubblica udienza del 15 gennaio 2010, il consigliere Paolo Buonvino;
Uditi per le parti gli avvocati Resta, Cester e Luigi Manzi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:
FATTO
1) – Si riporta, di seguito, la decisione interlocutoria della Sezione n. 6226 del 9 ottobre 2009, relativa al presente gravame.
“Oggetto dell’appello è la sentenza specificata in rubrica, con la quale il TAR del Veneto ha respinto il ricorso proposto dall'attuale appellante, in servizio fino al 1° aprile 2005 presso l'Università di Padova quale professore associato confermato, per l'accertamento del comportamento vessatorio, tenuto dall'Università nei suoi confronti fin dagli anni ‘70, e per la condanna al risarcimento dei danni subiti a titolo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, distintamente a titolo di danno biologico, danno morale, danno esistenziale, danno all'immagine, danno patrimoniale, per complessivi di € 2.255.000,00.
Secondo il primo giudice, che, peraltro ha ritenuto sussistere la giurisdizione amministrativa sia in relazione alla responsabilità ex articolo 2087 del codice civile, sia in relazione alla responsabilità ex articolo 2043 del codice civile, non vi sarebbero nel caso di specie gli estremi per configurare un comportamento vessatorio imputabile al datore di lavoro ma, semmai, una situazione di forte competizione tra pari grado, che peraltro ha visto il ricorrente più volte sconfitto.
L'appellante contesta le motivazioni contenute nella sentenza, sostenendo, al contrario, che l'Amministrazione, attraverso i suoi dirigenti, avrebbe perseguito costantemente l'obiettivo di mortificarne l'immagine, la professionalità e la posizione tanto da indurlo a presentare le dimissioni dal servizio. Il primo giudice, infatti, nel ridurre le vessazioni a mere competizioni tra pari grado, ha trascurato di considerare che egli era legato agli autori della condotta dell'Amministrazione da un vincolo di dipendenza gerarchica e funzionale, posto che questi, in quanto professori ordinari, svolgevano il ruolo di direttore del Dipartimento e di direttore della Clinica ostetrica presso l'Università di Padova. Cioè del servizio cui l'appellante era assegnato in qualità di professore associato, equiparato a medico appartenente ad una posizione intermedia. Contesta, poi, la sentenza impugnata sotto il profilo del difetto di motivazione. Nelle conclusioni, l'appellante, in via istruttoria, chiede che venga disposta una consulenza tecnica d'ufficio di carattere medico legale, al fine di accertare eziologia, natura e gravità delle patologie lamentate nonché l'acquisizione di documentazione in possesso presso l'Università di Padova.
Conclude quindi chiedendo, in riforma della sentenza appellata, l'accoglimento delle domande proposte con il ricorso di primo grado.
E’ costituita in giudizio l’Università degli studi di Padova, che controbatte le tesi avversarie, eccependo, in via preliminare, la propria carenza di legittimazione, in relazione alla mancata attribuzione della direzione delle scuole di ostetricia di Venezia e di Udine ed al mancato svolgimento dell'attività assistenziale, per la quale è competente il Servizio sanitario nazionale. Sempre in via preliminare, eccepisce la prescrizione delle pretese anteriori al 17 giugno 1986. Contesta, poi, nel merito le affermazioni dell’appellante, che ritiene sfornite della benché minima prova per quel che attiene sia al comportamento antigiuridico che al danno subito, con riferimento alle singole voci indicate dall’appellante. Conclude, infine, per il rigetto dell'appello.
E’ altresì costituito in appello il Ministero dell'istruzione, dell’università e della ricerca, che chiede venga dichiarata la sua estromissione del giudizio trattandosi gli atti e comportamenti riferibili unicamente all'Ateneo…………………
Il giudice di primo grado, pur ammettendo che nel caso di specie "il servizio e il cursus honorum del ricorrente, all’interno della divisione medica in cui operava, può dirsi contrassegnato da forte ostilità con le due figure di vertice con le quali egli ha avuto a che fare nel corso del suo servizio" ha però aggiunto che "anche se può sembrare in qualche modo forzato, si può dire, invero, che i veri avversari del ricorrente sono i prof. O. e A., che, stando alla narrazione dei fatti , lo hanno osteggiato in tutti i modi. Ma essi, più che come esponenti della P.A.- datore di lavoro, vanno considerati, insieme con gli altri medici- docenti preferiti al ricorrente, all’incirca quali concorrenti pressoché inter pares, sul terreno della competizione professionale (da cui il ricorrente è uscito a più riprese sconfitto)".
Ora, l'appello contesta tale impostazione osservando che i prof. O. e A., in quanto professori ordinari hanno svolto in successione un ruolo, quali direttori del Dipartimento e della clinica ostetrica presso l'Università di Padova, gerarchicamente sovraordinato a quello del ricorrente il quale rivestiva la qualifica di professore associato. Una posizione che ha loro consentito di esercitare una serie di pressioni psicologiche e vessazioni, che, in quanto tollerate dall'Amministrazione universitaria, sono ad essa direttamente riconducibili sotto il profilo risarcitorio. Sottolinea inoltre come il nesso di causalità tra le persecuzioni subite e la patologia da cui è affetto il ricorrente "cardiopatia ischemico ipertensiva e dilatativa con fibrillazione istriale" è stato già accertato dal comitato per la verifica delle cause di servizio nell'adunanza del 5 dicembre 2005 come derivante dalle particolari condizioni in cui egli è stato costretto a lavorare.
2. Prima di procedere all'esame delle questioni di diritto sottese alla presente controversia, il Collegio ritiene di dover espletare attività istruttoria al fine di collocare secondo una precisa visione prospettica alcune situazioni di fatto rilevanti ai fini del decidere:
La prima concerne la ricostruzione della posizione di dipendenza gerarchica del ricorrente dai proff. O. e A., nei periodi in cui si sono svolti gli episodi da lui riferiti e puntualmente riportati nell'esposizione in fatto contenuta nella sentenza impugnata, nonché riepilogati dall'appellante nella memoria presentata per l'odierna udienza di discussione datata 25 maggio 2009.
La seconda riguarda la conoscenza da parte degli organi accademici della situazione conflittuale esistente all’interno del Dipartimento e della Clinica ostetrica e le eventuali misure adottate per porvi rimedio.
La terza concerne il procedimento per la concessione dell'equo indennizzo, non solo in relazione al nesso di causalità ma anche in relazione agli sviluppi che esso ha avuto in termini di ristoro del pregiudizio sanitario subito dall’interessato.
3. Ai fini del decidere, pertanto, appare opportuno acquisire agli atti del presente giudizio:
- una relazione documentata dalla quale risulti la situazione gerarchica interna alla Clinica Ostetrica per i periodi nei quali erano direttori professori O. e .e i due direttori avevano assegnato al professor L.V., con l'ulteriore specificazione se tali compiti fossero assegnati in autonomia oppure sotto il coordinamento di altro sanitario. In quest'ultimo caso, la relazione dovrà contenere il nome e la qualifica del sanitario incaricato della funzione di coordinamento e direzione;
- una relazione documentata sulle misure adottate per porre fine alla conflittualità denunciata nell’atto introduttivo del giudizio ed ammessa pacificamente dall’Amministrazione universitaria negli scritti difensivi acquisiti agli atti del giudizio;
- tutti gli atti relativi al procedimento per la concessione dell'equo indennizzo”.
Intervenuto l’adempimento istruttorio da parte dell’Università appellata (atti depositati il 19 dicembre 2009), la causa torna all’esame del Collegio.
DIRITTO
1) – Prima di prendere in esame le eccezioni di inammissibilità dell’originario ricorso per difetto di legittimazione passiva dell’Università appellata (nonché la richiesta di estromissione dal giudizio avanzata dal MURST), ritiene il Collegio di dover riassumere gli specifici elementi fattuali succedutisi nel tempo ed elencati dall’interessato che connoterebbero di antigiuridicità il comportamento omissivo al quale l’appellante riconduce l’accusa di mobbing nei confronti dell’Ateneo patavino.
Le vicende in questione, che si desumono dagli atti di causa, si articolano come segue:
- il prof. L. (appellante) è stato assistente incaricato presso la Clinica di ostetricia e ginecologia dell’Università di Padova omissis
- si omettono vari passaggi……………..
2) - Fatta questa premessa in fatto, va, ora verificato se la condotta tenuta dalle Amministrazioni alle quali era riferibile, nel complesso, il rapporto di servizio del prof. L., nonché quella dei professori universitari ad esse facenti capo (e, in particolare, dai titolari della clinica Ostetrico-ginecologica presso la quale gli stessi sono stati, in successione, preposti all’attività assistenziale e accanto ai quali, negli anni, ha operato il prof. L.), fosse da ritenere produttiva di gravi pregiudizi nella sfera dell’interessato, sia sul piano professionale che su quello morale e della salute.
Al riguardo, giova premettere che il c.d. “danno da mobbing” consiste in una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, connotata dal carattere della persecuzione, finalizzata all'emarginazione del lavoratore ed idonea a concretare una lesione dell'integrità psicofisica e della personalità del prestatore, altresì (sotto il diverso profilo dell'accertamento del danno) deve essere condiviso l'orientamento giurisprudenziale secondo cui tale accertamento comporti una valutazione complessiva degli episodi lamentati dal lavoratore, i quali devono essere valutati in modo unitario, tenuto conto da un lato dell'idoneità offensiva della condotta datoriale (come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione) e, dall'altro, della connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta (in tal senso: Cass. Civ., Sez. Lav., sent. 6 marzo 2006, n. 4774); e che il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore; caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente) e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico; fondamento dell'illegittimità è l'obbligo datoriale di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità psicofisica del lavoratore, ai sensi dell'art. 2087 c.c. Può anche utilmente farsi riferimento alla ricostruzione dell’istituto del mobbing, secondo il quale esso non richiede la prova del dolo, essendo sufficiente che il comportamento dannoso non trovi una ragionevole spiegazione. Nel caso in cui il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente, la responsabilità del datore può discendere, attraverso l'art. 2049 c.c., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (cfr. Cassazione civile , Sez. lavoro, 09 settembre 2008 , n. 22858; cfr. anche Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez. Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla protrazione, il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12 giugno 2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione od all'emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. Lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art. 2103 cod. civ.); fondamento dell'illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) l'obbligo datoriale, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore; da ciò, la responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d'un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente; anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l'art. 2049 cod. civ., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia l'intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento - Cass. 4 marzo 2005 n. 4742 - ed il rapporto di occasionalità necessaria fra attività lavorativa e danno subito: Cass. 6 marzo 2008 n. 6033). Per la natura (anche legittima) dei singoli episodi e per la protrazione del comportamento nel tempo nonché per l'unitarietà dell'intento lesivo, è necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo elemento in cui il comportamento si manifesta (assumendo rilievo anche la soggettiva angolazione del comportamento, come costruito e destinato ad essere percepito dal lavoratore);d'altro canto, è necessario che i singoli elementi siano poi oggetto d'una valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà.
Giova anche ricordare (cfr. Cons. St., Sezione VI, n. 728/29009) che la giurisdizione sul risarcimento del danno, anche biologico, derivante da mobbing sussiste nella misura strettamente riconducibile ad un contesto di specifiche inadempienze agli obblighi del datore di lavoro; dette inadempienze possono ravvisarsi anche in comportamenti omissivi, contraddittori o dilatori dell’Amministrazione, ovvero in atti posti in essere in violazione di norme, sulle quali non sussistano incertezze interpretative, o ancora nella reiterazione di atti, anche affetti da mere irregolarità formali, ma dal cui insieme emerga una grave alterazione del rapporto sinallagmatico, tale da determinare un danno all’immagine professionale e alla salute del dipendente.
E che (Consiglio di Stato, sez. VI, 1 ottobre 2008, n. 4738), secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, nell'ipotesi dell'accertamento di fatti di mobbing che si assumono aver cagionato al prestatore di lavoro rilevanti conseguenze sul piano morale e psicofisico, la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. ha natura contrattuale (in specie, laddove la domanda risarcitoria risulti espressamente fondata sulla lamentata inosservanza, da parte del datore di lavoro, degli obblighi inerenti il rapporto di impiego), potendo ipotizzarsi una configurazione aquiliana dell'actio risarcitoria solo laddove il lavoratore abbia chiesto in modo generico il risarcimento del danno senza dedurre una specifica obbligazione contrattuale (sul punto, cfr. - ex plurimis - Cass. Sez. Un. 4 novembre 1996 n. 9522, 28 luglio 1998 n. 7394, 14 dicembre 1999 n. 900, 12 marzo 2001 n. 99, 11 luglio 2001 n. 9385, 29 gennaio 2002 n. 1147, 25 luglio 2002 n. 10956, 5 agosto 2002 n. 11756, 23 gennaio 2004 n. 1248). Quando l’azione risarcitoria rinvenga, dunque, il proprio presupposto nell'espletamento dell'attività lavorativa da parte e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, degli obblighi su di esso incombenti ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., ne consegue il carattere contrattuale della proposta azione risarcitoria. Una volta ricondotta, poi, la controversia risarcitoria nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 cod. civ., la distribuzione dell'onere probatorio fra il prestatore (asseritamente) danneggiato ed il datore di lavoro deve essere operata in base al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui grava sul lavoratore l'onere di provare la condotta illecita e il nesso causale tra questa e il danno patito, mentre incombe sul datore di lavoro - in base al principio di inversione dell'onus probandi di cui al richiamato art. 1218 cod. civ. - il solo onere di provare l'assenza di una colpa a se riferibile (in tal senso, ex plurimis: Cass. Civ., Sez. lavoro, sent. 25 maggio 2006, n. 12445; id., Sezione lavoro., sent. 8 maggio 2007, n. 10441). Laddove, quindi, il lavoratore ometta di fornire la prova anche solo in ordine alla sussistenza dell'elemento materiale della fattispecie oggettiva (i.e., della complessiva condotta mobbizzante asseritamente realizzata in proprio danno sul luogo di lavoro), difetterà in radice uno degli elementi costitutivi della fattispecie foriera di danno (e del conseguente obbligo risarcitorio), con l'evidente conseguenza che il risarcimento non sarà dovuto, irrilevante essendo, in tal caso, ogni ulteriore indagine in ordine alla sussistenza o meno del nesso eziologico fra la condotta e l'evento dannoso.
3) - Ciò premesso in linea generale, può rilevarsi, con specifico riguardo al presente caso di specie, che il ricorso proposto dall’originario ricorrente e odierno appellante appare instaurato nel solco della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., il medesimo avendo lamentato, da un lato, i comportamenti lesivi della sua sfera giuridica tenuti nel tempo, in particolare, da due professori universitari (che in vario modo, nel tempo, avrebbero creato gravi ostacoli al libero espletamento della propria attività lavorativa e al pieno e pacifico estrinsecarsi delle proprie capacità professionali, determinando, in capo al medesimo, anche il subentro di gravi infermità) e, dall’altro, la condotta parimenti colpevole dell’Ateneo di appartenenza cha avrebbe, in passato, concorso, in varie occasioni, a privare l’interessato di adeguati sbocchi professionali ed avrebbe, inoltre, tenuto un atteggiamento negligente ed omissivo allorquando, a dire del deducente, avrebbe dovuto e potuto intervenire, nel tempo – anche a seguito delle ripetute segnalazioni da parte dell’interessato – per contrastare l’azione dei predetti docenti, restituendo normalità al rapporto di servizio.
4) - In tale ottica, ritiene il Collegio che ricorrano, nella specie, nei limiti che si andrà a precisare, i presupposti per riconoscere la lamentata condotta mobbizzante, nonché il nesso eziologico che lega questa all’evento dannoso, ovvero, al pregiudizio per la sfera giuridica dell’interessato, sul quale pure ci si soffermerà in seguito.
In particolare, sotto il primo dei detti profili, assumono carattere rilevante (anche quali indici della conflittualità tra i predetti professori universitari e il prof. L.):
- il fatto che il prof. L. pur nella veste di assistente di ruolo, dal 1977 fino al 29 dicembre 1985 presso la cattedra di ostetricia e ginecologia, non abbia potuto, in tale posizione, svolgere attività assistenziale (e percepire la relativa indennità)……;
- si omettono altri passaggi a noi non interessanti …..
5) - Questi i fatti che il Collegio ritiene rilevanti in vista della definizione della presente controversia.
Ometto i fatti rilevanti che si rimandano ad una lettura completa della sentenza sul sito internet …..; ciò quanto meno per verificare se quanto denunciato rispondesse al vero e se vi fossero margini per ricomporre una situazione che appariva, comunque degradata, ciò nell’interesse stesso della struttura sanitaria universitaria di cui si tratta, o, all’occorrenza, per intervenire sul piano disciplinare; si aggiunga che il mancato intervento degli organi universitari ha, poi, concorso a determinare l’abbandono anticipato del servizio da parte dell’interessato a cagione dell’aggravamento del suo stato di salute, documentato in atti fin dal 1990, via via aggravatosi e confermato, formalmente, dal riconoscimento, all’interessato, dell’infermità (comportante assoluta inidoneità lavorativa) dipendente da causa di servizio e dell’equo indennizzo; riconoscimenti, questi ultimi, che, nel giudizio degli organi sanitari preposti ai relativi accertamenti, appaiono correlati, oltre che a risalenti problemi di carattere cardiaco, anche alla situazione di stress lavorativo documentata dall’interessato (v. verbale n. 98 del 28 aprile 2005 della Commissione medica di verifica di Padova, che richiama la documentazione afferente a denunce, procedimenti giudiziari etc., e la delibera del Comitato di Verifica per le cause di servizio, ove si precisa che, attraverso la lettura “della relazione trasmessa dall’Amministrazione e dalla documentazione in atti è dato ravvisare….il nesso eziologico tra l’infermità denunciata dal richiedente e riscontrata dalla Commissione Medica e l’attività di servizio prestata e che, comunque, gli elementi e le circostanze di fatto evidenziati si prospettano in rapporto di valida efficienza eziopatogenica con l’insorgenza e l’evoluzione dell’evento morboso”).
Ometto altre narrazioni ….
In questa situazione s’inscrive, poi, come dianzi notato, il fatto che il Preside della Facoltà, con la ripetuta nota del 16 maggio 1985, abbia, in effetti, stigmatizzato l’iniziativa giurisdizionale assunta innanzi al giudice amministrativo dal prof. L. con riguardo al conferimento dei detti incarichi; dal che traspare un animus non sereno da parte del mondo accademico in ordine ad iniziative giudiziarie volte, in effetti, solo a far valere il buon diritto dell’interessato a svolgere incarichi professionali di sicuro spessore ai fini delle aspettative di valido sviluppo di carriera, oltre che sicuramente remunerativi.
Valenza mobbizzante hanno acquistato, poi, come notato, anche l’assoggettamento, in due occasioni, del prof. L., a procedimenti disciplinari, pure su segnalazioni del prof. O., conclusisi con l’archiviazione; anche in tal caso si tratta, invero, di un indice di pressione psicologica nei confronti del medesimo pur in presenza, evidentemente, di elementi di incolpazione privi di consistenza.
Ometto altre narrazioni ………
Quelle sin qui riportate appaiono circostanze mobbizzanti significative, intervenute, come detto, nel periodo in cui il prof. O. era preposto alle strutture sanitarie anzidette; e tali circostanze si sono riverberate, in certa misura, sia sul piano della salute del prof. L., sia su quello della dequalificazione professionale e, talora, del demansionamento; sotto il primo profilo, in quanto lo stato di salute dell’interessato risulta essere peggiorato con riferimento alle vicende, per lui dannose sul piano professionale, succedutesi negli anni, come desumibile dalla certificazione medica prodotta in atti dal ricorrente, che dà atto dell’aggravamento della situazione cardio-circolatoria e dell’insorgere di più spiccati picchi pressori (al medesimo, come notato, è stato riconosciuta anche l’infermità dipendente da causa di sevizio e il diritto all’equo indennizzo tenuto anche conto proprio delle vicende e dei precedenti di carriera dallo stesso documentati); sotto gli ulteriori profili, in quanto l’interessato risulta essere stato, a più riprese, privato di compiti assistenziali o di incarichi che era legittimato a conseguire; così come pure sottoposto a pressioni psicologiche, legate alla carriera, riconducibili alle varie azioni nei suoi confronti intentate a livello penale o sanzionatorio (sempre su iniziativa primariale); di qui il nesso eziologico corrente tra condotta tenuta dall’Amministrazione o da suoi esponenti e danno patito dall’interessato, da determinarsi, poi, anche nelle sue scansioni temporali.
6) – Rilevato, quindi che le condotte dannose descritte si sono svolte nell’ambito del rapporto di impiego universitario,si tratta, ora, di stabilire in che grado l’Università intimata possa ritenersi responsabile di tali condotte.
Ritiene, al riguardo, il Collegio che la presente vicenda verte, in effetti, su fatti venuti in essere, da una lato, con riguardo all’assegnazione di incarichi di diretta competenza dell’Università (direzione delle Scuole di Venezia e Udine), ……
7) – Quanto al periodo al quale riferire le richieste risarcitorie avanzate dall’interessato, va disattesa, anzitutto, l’eccezione di prescrizione sollevata dall’Università con riferimento alle pretese antecedenti di un decennio al 16 ottobre 2006 (data di notifica del ricorso di primo grado); ciò in quanto con nota ricevuta dall’Università il 17 giugno 1996 il ricorrente ha interrotto i termini di prescrizione (la nota, “da intendersi anche ai fini dell’interruzione della prescrizione”, è da ritenersi, anche se sintetica, produttiva di effetto interruttivo delineando le responsabilità oggettive dell’Università “in relazione a fatti compiuti da dipendenti o collaboratori di detta Amministrazione ivi compresi atti denigratori, diffamatori e calunniatori”)
Si aggiunga, poi, che, in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, sia per responsabilità contrattuale che per responsabilità extracontrattuale, la Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che il termine di prescrizione ex art. 2935 c.c. inizia a decorrere non già dal momento in cui il fatto del terzo viene a ledere l'altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile (cfr. Cassazione civile , sez. lav., 20 luglio 2007 , n. 16148; Cass. n. 12666 del 2003, Cass. n. 9927 del 2000, Cass. n. 8845 del 1995, Cass. n. 3206 del 1989, Cass. n. 4532 del 1987); e, nel caso in esame, la situazione di pregiudizio relativa alle situazioni venute in essere in data più remota (mancata assegnazione di compiti assistenziali dal 1977), è potuta emergere, con certezza, già a partire dal 1983, allorché la mancata prestazione di attività assistenziale ha lasciato trasparire con certezza il significato che sul piano economico e di carriera produceva la mancata assegnazione di detti compiti; il periodo corrente fino a tale data e quello successivo (in cui il danno si era, ormai, manifestato) corrente fino al 16 giugno 1986 (data corrispondente ad un decennio antecedente alla predetta nota interruttiva della prescrizione) non può, quindi, essere preso in considerazione a fini risarcitori ostandovi l’eccepita (già in primo grado) prescrizione decennale ex art. 2946 c.c.
E neppure può essere preso in utile considerazione il periodo corrente dall’inizio del 1998 fino a tutto il mese di novembre 2000 in quanto, in tale lasso temporale, l’interessato, come dallo stesso ammesso, ha potuto espletare senza pregiudizi e in assenza di contrasti interni il proprio servizio come preposto al reparto di Ostetricia.
In ordine, infine, alla concreta quantificazione dei danni che l’appellante assume di aver patito, indicati già in primo grado, ritiene il Collegio che possa procedersi ad una loro complessiva quantificazione in via equitativa e onnicomprensiva, in misura pari, per ogni anno di servizio decorrente dal 16 giugno 1986 e fino alla data di collocamento a riposo, ad € 15.000 (e con esclusione del periodo Gennaio 1998/novembre 2000, dianzi indicato); con gli interessi nella misura legale decorrenti dalla data di notificazione del ricorso di primo grado al soddisfo.

Le spese del doppio grado sono liquidate nel dispositivo e poste a carico dell’Università appellata; sono compensate nei confronti del Ministero dell’Università e Ricerca.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione VI, accoglie l’appello in epigrafe e, per l’effetto, in accoglimento del ricorso di primo grado, condanna l’Università appellata al pagamento, a favore dell’appellante, delle somme di cui all’esposizione che precede.
Condanna l’Università di Padova al pagamento delle spese del doppio grado, che si liquidano in complessivi € 2.500,00(duemilacinquecento/00); compensa le spese nei confronti del Ministero appellato.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 gennaio 2010 con l'intervento dei Magistrati:
Giuseppe Barbagallo, Presidente
Paolo Buonvino, Consigliere, Estensore
Roberto Garofoli, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Claudio Contessa, Consigliere
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Depositato in segreteria il 13/04/2010
Spero di aver fatto cosa gradita visto che sono richiamate diverse sentenze.
Un saluto a tutti.