Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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sentenza del Consiglio di Stato su Rigetto di domanda di condono edilizio su zona demaniale marittima.
Questa riguarda la Regione Calabria ma per alcuni aspetti riguarda anche il resto dell'Italia.
Molto sicuramente potrebbe interessare a qualcuno in quanto fa notizia su particolari aspetti e l'informazione non è mai sufficiente.

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N. 05517/2011 REG.PROV.COLL.
N. 08446/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8446 del 2006, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dall'avv. OMISSIS, con domicilio eletto presso OMISSIS in Roma, via Arno, 6;
contro
Comune di Rossano Calabro, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giovanni Spataro, con domicilio eletto presso Francesco Lilli in Roma, via di Val Fiorita, 90;
nei confronti di
Capitaneria di Porto del Compartimento Marittimo di Crotone e Agenzia del Territorio, Ufficio Provinciale di Cosenza, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, Sezione Seconda, 10 aprile 2006, n. 383, resa tra le parti, concernente rigetto di domanda di condono edilizio su zona demaniale marittima.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza del giorno 21 giugno 2011 il consigliere Andrea Pannone e uditi per le parti gli avvocati OMISSIS
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Il sig. OMISSIS impugnava, con ricorso straordinario al Capo dello Stato:
a) il provvedimento del 30 marzo 2005, prot. n. ….. con il quale il dirigente responsabile dell’Ufficio Tecnico del Comune di Rossano ha disposto il rigetto della domanda di condono edilizio presentata dal ricorrente in data 26 settembre 1986, per un fabbricato abusivamente realizzato in località “Zolfara” per la mancanza della dichiarazione di disponibilità dell’ente proprietario dell’area, ritenuta demaniale, la mancanza dell’autorizzazione paesaggistico ambientale, necessaria essendo interessata un’area vincolata, la mancanza di titolo di proprietà del suolo, atto notorio indicante l’epoca di ultimazione dei lavori, dichiarazione sullo stato dei lavori, certificato di residenza storico, convenzionamento stipulato ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge 10/1977, perizia giurata sullo stato e dimensioni dell’opera relativa alle dimensioni della stessa, indicanti il superameno o meno dei mc 450;
b) qualsivoglia atto presupposto, connesso, collegato e consequenziale, comunque lesivo degli interessi del ricorrente ed in particolare delle variazioni accertate a seguito della verificazione straordinaria, a cura dell’agenzia del Territorio, Ufficio Provinciale di Cosenza, del 20 settembre 2002, relative alla fascia costiera del Comune di Rossano.
L’interessato lamentava la violazione degli artt. 32 e 33 del codice della navigazione, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, del d.lgs. 42/2004, dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, eccesso di potere sotto vari profili, violazione dell’art. 10 bis della legge n. 241, appena citata, difetto di istruttoria, disparità di trattamento chiedendo quindi l’annullamento del provvedimento impugnato.
A seguito di opposizione, il ricorrente trasponeva il giudizio di fronte al Tribunale amministrativo regionale per la Calabria.
Con la sentenza in epigrafe il giudice di primo grado respingeva il ricorso.
Avverso la predetta sentenza insorge il sig. OMISSIS chiedendo la sua riforma e l’accoglimento del ricorso di primo grado.
La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso rilevando, per quel che qui interessa, l’infondatezza dell’affermazione relativa ad una pretesa formazione del silenzio assenso da parte dell’amministrazione comunale, che non potrebbe andare a sradicare una situazione oramai consolidata da anni.
Il giudice di primo grado ha affermato che <<pure tale prospettazione non appare corretta, dal momento che, come noto, ai fini della formazione del silenzio assenso che tenga luogo di un provvedimento concessorio, non basta il semplice decorso del tempo senza che vi sia alcun comportamento interruttivo da parte dell’amministrazione decidente sull’istanza di condono, ma occorre che la fattispecie sia legittimamente formata e, nel caso in esame, come è dato evincere dal provvedimento impugnato è accaduto che l’istanza non fosse corredata dal nulla osta paesistico.
Né può sostenersi che all’epoca in cui il condono è stato richiesto e cioè nel 1986 non trovassero applicazione le disposizioni di cui al d.lgs. n. 42 del 2004 recante il codice per i beni culturali, atteso che, come noto, esso non è altro che la riproposizione di norme già esistenti all’epoca di presentazione dell’istanza di condono edilizio ed esattamente della L. 29 giugno 1939, n. 1497 sulle bellezze naturali.
Per giurisprudenza costante la determinazione del silenzio assenso sul condono per decorso dei 24 mesi dalla data dell’istanza, è invocabile non sempre bensì solo quando le opere risultino eseguite in aree non sottoposte ad alcun vincolo, sia di inedificabilità ex art. 33 della L. n. 47 del 1985, sia paesaggistico ambientale (TAR Puglia, Bari, sez. II, 9 aprile 2003, n. 1660).
E comunque tranciante sull’argomento è l’Adunanza Plenaria n. 20 del 22 luglio 1999 che ha affermato il principio secondo cui “la disposizione dell'art. 32 l. 28 febbraio 1985 n. 47, in tema di condono edilizio, nel prevedere la necessità del parere dell'amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico ai fini del rilascio delle concessioni in sanatoria, non reca alcuna deroga ai principi generali e pertanto essa deve interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria, a prescindere dall'epoca in cui il vincolo medesimo sia stato introdotto. Ciò in quanto tale valutazione corrisponde all'esigenza di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti realizzati abusivamente>>.
Si è costituito in giudizio il Comune di Rossano chiedendo il rigetto dell’appello.
All’udienza del 21 giugno 2001 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Va preliminarmente evidenziato come non sia contestato il fatto che l’area interessata dalla costruzione abusiva di cui si tratta sia assoggettata a vincolo paesistico, e che l’istanza non abbia ottenuto l’assenso. Tanto lo si deduce dagli stessi motivi di ricorso allorquando l’appellante afferma (pagina 27 dell’atto introduttivo di giudizio) che: <<Infine, già con legge regionale (della Calabria) 28 febbraio 1995, n. 3, art. 1, erano state delegate ai comuni le funzioni relative al rilascio dell’autorizzazione paesistica ai sensi delle leggi n. 1497/1939 e n. 431/1985, sicché era lo stesso comune a dover provvedere>>.
Il ricorrente sostiene, per quel che è dato intendere, che l’amministrazione, prima di adottare il provvedimento impugnato, avrebbe dovuto pronunciarsi, d’ufficio, sulla compatibilità ambientale dell’immobile da sanare.
La censura non può trovare accoglimento.
Dall’articolo 32, comma 1, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (il quale subordina il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso) non si evince affatto che la richiesta di parere debba essere effettuata dall’amministrazione comunale che ha ricevuto la domanda di sanatoria. I mutamenti di competenza, introdotti dalla legge della Regione Calabria regionale 28 febbraio 1995, n. 3, art. 1, che attribuiscono all’ente comunale il poter di rilascio dell’autorizzazione paesistica, e sempreché tale norma possa ritenersi applicabile anche alle sanatorie in corso, non determinano una modifica procedimentale con obblighi a carico di un’amministrazione e non del richiedente, cosicché l’immobile resta senza parere favorevole.
Quanto all’effettivo rilievo del vincolo paesaggistico, pur sopravvenuto rispetto alla presumibile data di compimento dell’abuso, vanno richiamati i principi elaborati dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio con la decisione n. 20 del 1999, che il Collegio condivide e fa propria.
Il ricorso deve essere pertanto respinto alla luce del principio giurisprudenziale secondo cui “ove l'atto impugnato (provvedimento o sentenza) sia legittimamente fondato su una ragione di per sé sufficiente a sorreggerlo, diventano irrilevanti, per difetto di interesse, le ulteriori censure dedotte dal ricorrente avverso le altre ragioni opposte dall'autorità emanante a rigetto della sua istanza” (Cons. Stato, sez. VI, 31 marzo 2001, n. 1981).
La circostanza della mancata dell’autorizzazione paesistica è sufficiente a respingere l’appello.
Decisiva al riguardo è la circostanza che, oltre alle ulteriori censure formulate in ordine alla delimitazione della fascia demaniale, il ricorrente non abbia mai affermato che il manufatto, per la sua oggettiva collocazione sul suolo, doveva ritenersi ubicato al di fuori del limite, di trecento metri, fissato dalla lettera a) del comma 1 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, norma espressamente richiamata nel provvedimento impugnato. L’amministrazione quindi ben poteva negare l’autorizzazione per la sola circostanza che l’immobile ricadeva in detta fascia, a prescindere dalla natura demaniale della medesima.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore del Comune di Rossano Calabro, in persona del legale rappresentante pro tempore, della somma di € 3.000,00 (euro tremila/00) per le spese di questa fase di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 giugno 2011 con l'intervento dei magistrati:
Giancarlo Coraggio, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere
Andrea Pannone, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 12/10/2011


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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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Consiglio di Stato su "DINIEGO INSTALLAZIONE SBARRA AUTOMATIZZATA SU UN TRATTO DI STRADA PRIVATA"

Bene ha sapersi.

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N. 00728/2012REG.PROV.COLL.
N. 07225/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7225 del 2008, proposto dal Comune di Sestri Levante, rappresentato e difeso dall'avv. Luigi Cocchi, con domicilio eletto presso Gabriele Pafundi in Roma, V. Giulio Cesare 14 Sc A/4;
contro
Condominio OMISSIS in Sestri Levante, rappresentato e difeso dagli avv. Giovanni Gerbi e Ludovico Villani, con domicilio eletto presso il secondo in Roma, via Asiago 8;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LIGURIA – GENOVA, SEZIONE I, n. 1546/2008, resa tra le parti, concernente DINIEGO INSTALLAZIONE SBARRA AUTOMATIZZATA SU UN TRATTO DI STRADA PRIVATA
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 gennaio 2012 il Cons. Nicola Gaviano e uditi per le parti gli avvocati Gabriele Pafundi, su delega di Luigi Cocchi, nonché Giovanni Gerbi e Ludovico Villani;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
Il condominio OMISSIS di Sestri Levante impugnava dinanzi al T.A.R. per la Liguria il provvedimento 16.4.2008 prot. n. 10096 con cui il competente dirigente comunale aveva negato l’assenso, chiesto dallo stesso ricorrente, all’installazione di una sbarra automatizzata destinata a regolare il traffico in entrata e in uscita dalla strada privata appartenente al Condominio (Via privata omissis) e sfociante sulla via OMISSIS.
La ricorrente denunciava la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 del d.P.R. 6.6.2001, n. 380, nonché l’eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento e difetto del presupposto.
Resisteva al gravame il Comune di Sestri Levante.
Il Tribunale adìto, con la sentenza in forma semplificata n. 1546/2008 in epigrafe, accoglieva il ricorso del Condominio.
Tale sentenza formava oggetto di appello da parte del Comune interessato.
Si costituiva in resistenza all’appello, deducendone l’infondatezza, la parte vittoriosa in primo grado.
Con ordinanza n. 5786 del 28 ottobre 2008 la Sezione accoglieva la domanda cautelare proposta dall’appellante.
Le rispettive tesi di parte trovavano ulteriore illustrazione ed approfondimento in successive memorie.
Alla pubblica udienza del 24 gennaio 2012 la causa è stata trattenuta in decisione.
L’appello è infondato.
1a Il provvedimento impugnato si basa sul rilievo che la strada sulla quale si sarebbe voluta installare la sbarra era destinata al pubblico transito. Tanto sulla base di un’autorizzazione sindacale rilasciata il 18 aprile 1966 per la durata di un anno, ed in forza della fruizione collettiva poi proseguita mediante il libero transito veicolare e pedonale del pubblico che da allora aveva contrassegnato la strada, senza soluzione di continuità, e che era stato ribadito da due precedenti dinieghi analoghi a quello impugnato, assunti in data 27 ottobre 1993 e 23 febbraio 1995 dietro conformi istruttorie della Polizia Municipale confermative del predetto uso pubblico.
La ricorrente, dal canto suo, con il ricorso di prime cure ha contestato che la strada, di proprietà privata, fosse soggetta a pubblico passaggio, come invece sostenuto dal Comune.
E il Tribunale ha accolto le tesi del Condominio, osservando che “In tale contesto la p.a. avrebbe dovuto argomentare ulteriormente dagli indici che la giurisprudenza ha da tempo individuato per dedurre la natura pubblica di una via : nel caso in questione, il terreno destinato a via consente l’accesso ed il recesso da alcuni condomini alla via pubblica, e non risulta provato che sia stato destinato all’uso pubblico indifferenziato da tempo immemore, posto che appare carente di prova la relativa asserzione contenuta nel provvedimento in questione.”
1b Rileva preliminarmente la Sezione che l’accertamento giurisdizionale dell’effettiva esistenza della servitù di pubblico passaggio sulla quale le parti si dividono (pacifica essendo invece la privata appartenenza della stessa strada) compete all’autorità giudiziaria ordinaria, trattandosi di materia di diritto soggettivo e non di interesse legittimo. Il Giudice amministrativo può quindi esercitare, al riguardo, esclusivamente una cognizione incidentale sulla questione (cfr. art. 8, comma 1, CPA), senza poter fare stato sulla medesima con la propria decisione, e al solo fine di pronunciarsi sulla legittimità della determinazione dirigenziale che forma specifico oggetto di ricorso.
A tale impostazione risulta peraltro essersi rettamente attenuta la sentenza appellata.
1c Altro rilievo preliminare occorrente riguarda i precedenti dinieghi di autorizzazione, analoghi a quello impugnato, già assunti dal Comune di Sestri Levante negli anni precedenti. In proposito la Sezione non può che convenire con la parte appellata sulle osservazioni per cui, da un lato, il nuovo provvedimento, siccome sorretto da un’autonoma istruttoria e da una nuova motivazione, era sicuramente atto a riaprire i termini di impugnativa giurisdizionale, ancorché i precedenti fossero rimasti inoppugnati; dall’altro, e soprattutto, i dinieghi di cui si tratta non avrebbero potuto non lasciare impregiudicata la natura giuridica ed il regime della strada in discussione.
2 Tanto premesso, la Sezione sul merito della controversia rileva quanto segue.
Con atto del 15 aprile 1966 il Sindaco di Sestri Levante, in accoglimento di conforme istanza della Cooperativa edilizia Omissis, autorizzava la richiedente “ad eseguire l’apertura al pubblico passaggio e la costruzione relativa di una strada privata in Via OMISSIS”, in attuazione del piano di lottizzazione dei terreni di proprietà OMISSIS approvato in data 20 maggio 1960, piano che tale strada appunto prevedeva, ed in applicazione dell’art. 78 del Regolamento Edilizio Comunale, in tema di autorizzazione del Sindaco “ad aprire vie private al pubblico transito”.
L’atto sindacale del 1966 aveva, peraltro, durata limitata ad un solo anno.
La strada in discussione, oltre a servire il fabbricato del Condominio ricorrente, assicura l’accesso a quelli contrassegnati dai successivi civici nn. 294 e 296 della stessa Via OMISSIS, i cui comproprietari sono, però, titolari su di essa già di un diritto civilistico di servitù di passo (pedonale e carraio) ribadito anche da recenti pronunzie giurisdizionali (da ultimo, del Tribunale civile di Chiavari del 14 dicembre 1993).
La strada non è mai proseguita oltre tali edifici, nel collegamento dei quali alla strada pubblica ha dunque sempre visto esaurita la propria concreta funzione.
Ha aggiunto la difesa comunale che la strada era stata realizzata in vigenza della previsione, recata dal p.r.g. dell’epoca, della futura costruzione, a monte del comprensorio lottizzato, della Nuova Via Aurelia (cfr. le tavole in all. nn. 9 e 10 della produzione comunale). Onde la strada privata sarebbe dovuta servire, prospetticamente, a collegare la Via OMISSIS alla prevista nuova arteria.
Il fatto è, però, che la previsione della Nuova Via Aurelia, negli oltre 40 anni nel frattempo decorsi, è rimasta inattuata, per quanto ribadita, da ultimo, anche nel nuovo P.U.C. del 2000 (all. 12 della produzione comunale).
Ne consegue che nel lungo periodo in rilievo l’unico uso possibile della strada in questione è rimasto quello funzionale alla mera utilità dei residenti dei condomini nn. 294 e 296, peraltro già titolari di un diritto privato di servitù confermato dal Tribunale civile (diritto privato di transito che, deduce esattamente la parte appellata, non avrebbe avuto la possibilità di configurarsi ove si fosse trattato davvero di una strada destinata ad uso pubblico).
Si manifesta fondato, dunque, il principale argomento degli appellati per cui la strada in discussione, che si dirama dalla Via OMISSIS, non adempie ad alcuna funzione pubblica, per il fatto di non avere sbocco su altra strada o piazza pubblica, sì da poter soddisfare in tal modo esigenze collettive (id est, di un numero indeterminato di cittadini), conducendo essa esclusivamente ad aree private; né la strada ha mai posseduto un’effettiva idoneità a soddisfare esigenze di carattere generale formando oggetto di uso da parte di una collettività indeterminata di individui.
La giurisprudenza insegna, invero, che costituisce una strada pubblica quel tratto viario che non è cieco, ma assume una esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone : C.d.S., V, 7 dicembre 2010, n. 8624; che il connotato di interclusione dell'area servita esclude che vi possa sorgere un uso stradale in favore di una collettività indeterminata, e fa invece concludere per un'utilità limitata ai soli proprietari frontisti: C.d.S., V, 18 dicembre 2006, n. 7601; che un'area privata può ritenersi assoggettata ad uso pubblico di passaggio quando l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato; oppure quando vi sia stato, con la cosiddetta dicatio ad patriam, l'asservimento del bene da parte del proprietario all'uso pubblico, analogamente, di una comunità indeterminata di soggetti considerati sempre uti cives, di talché il bene stesso viene ad assumere caratteristiche analoghe a quelle di un bene demaniale: Cassazione civile, sez. II, 21 maggio 2001, n. 6924; che ai fini della dicatio ad patriam occorre pur sempre il requisito dell’idoneità intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza comune della collettività dei consociati uti cives : Cass. Civ., II, 13 febbraio 2006, n. 3075.
In coerenza con gli enunciati appena esposti, la giurisprudenza afferma in definitiva che, perché un'area privata possa ritenersi sottoposta ad una servitù pubblica di passaggio, è necessario, oltre all'intrinseca idoneità del bene, che l'uso avvenga ad opera di una collettività indeterminata di persone e per soddisfare un pubblico, generale interesse. Ne consegue che deve escludersi l'uso pubblico quando il passaggio venga esercitato unicamente dai proprietari di determinati fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, o da coloro che abbiano occasione di accedere ad essi per esigenze connesse alla loro privata utilizzazione (Cass. Civ., II, 23 maggio 1995, n. 5637), oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (Cass. civ., I, 22 giugno 1985, n. 3761).
Si rivela pertanto privo di consistenza l’assunto del Comune appellante per cui la strada avrebbe potuto dirsi soggetta a pubblico passaggio ab immemorabile, o almeno dal 1966.
In realtà, per quanto si è detto, non sono mai maturati i presupposti perché sulla strada potesse effettivamente svolgersi un uso generale, facendo difetto, in particolare, il requisito dell’idoneità intrinseca del bene a soddisfare un’esigenza comune della collettività dei consociati. E la fruizione della strada da parte della sola ristretta cerchia dei residenti dei civici nn. 294 e 296 ha costituito espressione del loro semplice diritto civilistico di servitù.
In senso contrario non vale opporre l’inclusione della previsione della strada nell’ambito dell’antica lottizzazione, in quanto i relativi piani possono prevedere anche strade private non soggette a transito pubblico, quali sono, appunto, tutte quelle che abbiano il mero scopo di dare accesso solo a singoli edifici privati.
Né il Comune potrebbe giovarsi, in questo contesto incompatibile con un uso pubblico della strada di cui si tratta, della propria iniziale previsione autorizzativa del 1966. A parte il fatto che l’efficacia del relativo atto sindacale era limitata, come si è già detto, ad un solo ed unico anno, è dirimente la considerazione che lo stesso atto ricavava la proprio ragione d’essere dalla prospettiva della prevista, prossima realizzazione, a monte della lottizzazione, della Nuova Via Aurelia, cui la strada in discussione avrebbe dovuto condurre. La circostanza che il relativo disegno non abbia invece mai trovato seguito ha precluso, pertanto, la possibilità che la strada più volte citata diventasse di uso pubblico.
3 Le ragioni esposte impongono dunque il rigetto dell’appello, in quanto infondato.
Le spese processuali del presente grado possono essere però equitativamente compensate tra le parti.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe, lo respinge.
Compensa le spese del presente grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 24 gennaio 2012 con l'intervento dei magistrati:
Calogero Piscitello, Presidente
Francesco Caringella, Consigliere
Carlo Saltelli, Consigliere
Manfredo Atzeni, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 14/02/2012
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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Interessante sentenza del Consiglio di Stato sulle notifiche e sui termini dei ricorsi Amministrativi.

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Aspetto particolare
1)- Inoltre ed infine, anche a voler del tutto prescindere dalle precedenti considerazioni, deve conclusivamente ricordarsi come la giurisprudenza abbia già sottolineato che la predetta norma non ha assolutamente attribuito alla mancata conoscenza della parte un rilievo impeditivo dell'estinzione del giudizio, in quanto la dichiarazione di perenzione va sempre disposta -- una volta comunicato l’avviso ex art. 9 comma 2 l. n. 205 del 2000 -- quando sia decorso il termine semestrale in assenza della presentazione della nuova istanza di fissazione di udienza (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 21 settembre 2006, n. 5564).

2)- La “ratio” dell’art.1 della legge 7 ottobre 1969 n. 742 è solo quella di evitare che il periodo feriale degli esercenti attività di patrocinio legale possa mettere in pericolo il necessario rispetto di adempimenti da adottare tassativamente nel termine.
Esattamente dunque il TAR ha affermato che, nel caso di specie il decennio (oggi ridotto ad un quinquennio) di cui all’art. 9 della legge 21 luglio 2000, n.205, costituiva un elemento di riferimento individuato dal legislatore affinché la segreteria dell’organo giurisdizionale procedesse all’individuazione dei ricorsi per i quali non fosse stata attivava da dieci anni una sollecitazione per la sua definizione.
La prescrizione ultradecennale prevista dall' art. 9 comma 2 l. 21 luglio 2000 n. 205, costituisce una disposizione di carattere eccezionale (arg. ex Consiglio Stato , sez. V, 28 luglio 2005 , n. 4046) con cui il legislatore -- nell’individuare, in via straordinaria , discrezionalmente un lungo periodo di pendenza del giudizio dalla data di deposito dei ricorsi senza che i ricorrenti si fossero attivati a richiedere la rituale fissazione dell’udienza -- non ha operato alcun riferimento al periodo feriale.


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23/01/2012 201200283 Sentenza 4


N. 00283/2012REG.PROV.COLL.
N. 00558/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 558 del 2010, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dall'avv. OMISSIS in Roma, via Cicerone, 49;
contro
Comune di San Mauro Forte, Azienda Sanitaria Usl N. 5 di Montalbano Jonico, OMISSIS;
per la riforma
dell' ordinanza collegiale del T.A.R. BASILICATA - POTENZA: SEZIONE I n. 00091/2009, resa tra le parti, concernente DINIEGO CONCESSIONE EDILIZIA (OPPOSIZIONE A PERENZIONE).
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
OMISSIS;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
Il presente appello è diretto all’annullamento dell’Ordinanza Collegiale del TAR Basilicata ex art. 26, comma 7, della legge 6 dicembre 1971 L. n.1034, di reiezione dell'opposizione al decreto presidenziale con cui -- non essendo stata presentata alcuna istanza di fissazione di udienza dalla data di deposito in data 7 febbraio 1996 -- era stato dichiarato perento il ricorso n. 142/1996 diretto all’annullamento della reiezione della richiesta di una concessione edilizia in sanatoria.
Con la detta ordinanza in particolare il TAR ha ritenuto che nel caso:
vi fosse stata una presunzione di conoscenza circa la ricezione dell’avviso di perenzione ancorché vi fosse l’irriconoscibilità della firma del ricevente;
dovesse escludersi la necessità di notificare due avvisi autonomi, uno per il ricorso introduttivo ed uno per l’ulteriore ricorso notificato il 7.5.1997.
era da negare la fondatezza della censura per cui nel periodo di prescrizione decennale non avrebbero dovuto essere computati i periodi feriali;
andavano dichiarate non scrutinabili le ulteriori censure introdotte con memoria del 20 ottobre 2009.
L’appello ripropone sostanzialmente sia le argomentazioni disattese in primo grado e sia quelle non esaminate perché introdotte con memoria non notificata.
L’Amministrazione comunale e le altre parti intimate non si sono costituite in giudizio.
Con memoria per la discussione l’appellante ha ulteriormente insistito nelle sue argomentazioni.
Chiamata all'udienza pubblica, udito il patrocinatore della parte appellante, la causa è stata ritenuta in decisione.
L’appello è infondato.
___1. Del tutto privo di fondamento è il primo motivo con cui si lamenta che la perenzione sarebbe stata erroneamente pronunciata con riferimento al solo ricorso introduttivo e non anche sull’atto depositato in data 7 maggio 1997, il quale avrebbe dovuto essere considerato un autonomo ricorso in quanto:
-- era munito di un autonomo mandato e di rinnovate notifiche;
-- con esso si indicavano i provvedimenti gli atti ed in particolare la nota del 21.12.1996, con cui l’ASL ribadiva il parere sfavorevole alla richiesta di concessione in sanatoria, adottata in spregio all’ordinanza cautelare;
-- conteneva il richiamo per relationem alle censure già formulate con il ricorso principale e sottolineava la formazione del silenzio assenso.
Al contrario, si deve rilevare che esattamente il TAR ha ritenuto che tale atto non fosse un diverso e separato gravame. E’, infatti, evidente che tale mezzo – qualificato dallo stesso appellante come richiesta di esecuzione dell’ordinanza di sospensiva - restava un incidente cautelare.
L’introduzione, nell’alveo proprio di un ricorso principale, di una richiesta dichiaratamente di esecuzione di un’ordinanza cautelare in via provvisoria (ancorché riferita ad atti successivamente adottati in violazione della stessa), costituisce comunque un momento incidentale del processo principale, essendo teleologicamente destinato ad assicurare proprio gli effetti temporanei doverosamente conseguenti al precedente provvedimento incidentale.
Inoltre, sotto altra angolazione, deve rilevarsi che, in assenza di un formale provvedimento presidenziale di stralcio dell’atto medesimo dal fascicolo e di sua riassegnazione al ruolo generale per una sua autonoma rubricazione, è escluso che possa assumere un’autonomia ontologica sul piano processuale un atto avente invece una sua propria dichiarata, originaria ed esclusiva finalità nell’ambito di un precedente giudizio..
Del resto, prima dell’opposizione, mai il ricorrente aveva richiesto lo stralcio dell’atto del 7.5.1997 dal fascicolo del ricorso di primo grado n. 142/1996, facendo valere l’asserita autonomia dell’istanza di sospensione cautelare in questione.
Nel caso, del resto, lo si ripete, l’atto costituiva lo strumento processuale specificamente diretto ad ottenere gli effetti interinali, destinati ad essere consolidati solo se e quando il ricorso dovesse essere accolto (ma che possono anche essere travolti con il rigetto del processo principale).
In tale prospettiva, al di là del tentativo postumo dell’appellante di mutare la sostanza delle cose, esattamente la decisione gravata afferma che nel caso non si trattava affatto di due ricorsi autonomi riuniti sotto il medesimo numero di ruolo (n. 142/1996), ma di un processo principale e di un successivo incidente cautelare, come tale caratterizzato da una cognizione non piena, di esecuzione del precedente procedimento cautelare.
Di qui l’inconferenza delle argomentazioni e dei richiami operati dall’appellante a precedenti in materia perenzione di ricorsi riuniti e di conversione del ricorso per l’ottemperanza in ricorso ordinario.
In definitiva esattamente è stata respinta l’opposizione alla perenzione in quanto non si ravvisava alcuna giuridica necessità di notificare due avvisi autonomi di perenzione, uno per il ricorso originario e l’altro per l’istanza di esecuzione dell’ordinanza cautelare come esattamente ritenuto dal TAR.
___ 2. Con il secondo motivo si lamenta l’erroneità dell’Ordinanza impugnata nella parte in cui, in assenza di prova contraria, ha ritenuto doversi presumersi la sussistenza del potere della persona che aveva ha ritirato l’avviso per lo studio legale del ricorrente, invocando alcuni precedenti della Sezione in base ai quali sarebbe stata necessaria la prova certa dell’avvenuto ricevimento.
L’assunto non convince.
Deve in primo luogo rimarcarsii rilevato esatto rilievo del TAR secondo cui un ricorrente che non abbia eletto domicilio presso la sede capoluogo deve presumersi, fino a prova contraria, il perfezionamento della conoscenza legale dell’avviso almeno quando consti che una persona addetta allo studio abbia ritirato l’atto nella segreteria del Tribunale.
Innanzitutto si rileva che nessuna norma impone un onere di identificazione dei soggetti che si presentano per il ritiro degli avvisi dei soggetti domiciliatari ex lege presso la segreteria del TAR.
In tale scia, sul piano della valutazione delle circostanze di fatto, deve annotarsi che, per comune esperienza, gli addetti dalle segreterie, specie nei piccoli Tribunali (come quello lucano) ben conoscono i collaboratori degli studi e sono sempre in grado di verificare “intuitu personae” la loro attendibilità ed affidabilità.
Nel caso, per altro, la comunicazione depositata presso la segreteria del tribunale recava l’espresso riferimento al ricorso n. 142/1996 ed alle parti dello stesso, ed era stato ritualmente indirizzato all’Avv. F. C., nel suo domicilio “ex lege” presso la segreteria del TAR, ai sensi dell'art. 35, comma 2, t.u. Cons. St., approvato con r.d. 26 giugno 1924, n. 1054. Per giurisprudenza costante, in base al richiamo dell'art. 19, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, all'art. 35, t.u. 24 giugno 1924 n. 1054, la regola della domiciliazione "ex lege" presso la Segreteria del TAR si applica ad ogni procuratore, anche quando questi appartenga alla stessa circoscrizione del giudice adito, qualora non sia stato eletto il domicilio nel Comune ove ha sede il TAR (cfr., infra multa, Consiglio Stato, sez. IV, 28 maggio 2009, n. 3343; idem, 17 settembre 2007, n. 4847; sez. VI, 30 dicembre 2005, n. 7610; sez. V, 07 febbraio 2000, n. 676).
Si deve pertanto concordare con il Primo Giudice quando afferma che sussisteva una presunzione rafforzata che la segreteria avesse consegnato l’avviso a persona addetta allo studio abilitata a riceverlo, per cui doveva ritenersi acquisita -- dalla data di sottoscrizione per ricevuta del detto avviso di Segreteria, in data 5 giugno 2007 -- la conoscenza legale in capo all’appellante dell’avviso di perenzione, ai sensi dell’art. 9, comma 2, legge 21 luglio 2000, n. 205.
Si potrebbe aggiungere, al di là di quanto perfino liberalmente il TAR ha voluto asserire, che se uno sceglie la segreteria di un TAR per proprio domicilio basta addirittura l’affissione dell’avviso in quella segreteria per dire raggiunta la conoscenza legale dell’atto, senza bisogno di alcun ritiro.
Per giunta è anche esatto che l’odierno appellante non avesse offerto alcun elemento, anche semplicemente sintomatico che potesse porre in dubbio la ragionevole presunzione di appartenenza della firma stessa al difensore o ad un suo collaboratori di studio.
Né l’illeggibilità della firma poteva assolutamente costituire, da sola, un elemento sintomatico dell’invalidità della consegna dell’avviso previsto dall’art. 9, comma 2, legge 21 luglio 2000, n. 205.
Inoltre ed infine, anche a voler del tutto prescindere dalle precedenti considerazioni, deve conclusivamente ricordarsi come la giurisprudenza abbia già sottolineato che la predetta norma non ha assolutamente attribuito alla mancata conoscenza della parte un rilievo impeditivo dell'estinzione del giudizio, in quanto la dichiarazione di perenzione va sempre disposta -- una volta comunicato l’avviso ex art. 9 comma 2 l. n. 205 del 2000 -- quando sia decorso il termine semestrale in assenza della presentazione della nuova istanza di fissazione di udienza (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 21 settembre 2006, n. 5564).
___3. Con un ulteriore mezzo di gravame si assume l’erroneità del rigetto del rilievo per cui la segreteria del Tribunale avrebbe dovuto inviare personalmente ai due ricorrenti due avvisi autonomi in quanto, il riferimento l’art. 9 comma 2 l. n. 205/2000 “alle parti” avrebbe imposto la comunicazione dell’avviso indistintamente a tutti i singoli ricorrenti per evitare che, in caso di ricorso collettivo, si determinasse un’assoluta incertezza sugli effettivi destinatari giuridici della notifica.
Al contrario esattamente il TAR ha ricordato come ai sensi dell’art. 170 c.p.c.:
-- “dopo la costituzione in giudizio tutte le notificazioni e le comunicazioni si fanno al procuratore costituito e non alla parte personalmente” (comma 1);
-- “è sufficiente la consegna di una sola copia dell'atto anche se il procuratore è costituito per più parti” (comma 2).
Nella scia delle predette disposizioni deve essere inquadrato il riferimento letterale operato dal ricordato art. 9 comma 2 l. n. 205/2000: il plurale qui non concerne infatti i “singoli ricorrenti” “ma è riferito alle “parti costituite”, cioè alla parte ricorrente, a quella resistente ed agli intervenienti, così come dette parti sono rappresentate nel processo.
Pertanto, la natura speciale dell’art. 9 in questione era del tutto in conferente; ed esattamente nel caso la Segreteria aveva individuato il procuratore costituito quale destinatario dell’avviso in questione.
___ 4. Con un ulteriore mezzo si ripropone sinteticamente l’asserita erroneità della mancata esclusione di tutti i periodi di sospensione feriale dei termini dal computo della prescrizione decennale.
La “ratio” dell’art.1 della legge 7 ottobre 1969 n. 742 è solo quella di evitare che il periodo feriale degli esercenti attività di patrocinio legale possa mettere in pericolo il necessario rispetto di adempimenti da adottare tassativamente nel termine.
Esattamente dunque il TAR ha affermato che, nel caso di specie il decennio (oggi ridotto ad un quinquennio) di cui all’art. 9 della legge 21 luglio 2000, n.205, costituiva un elemento di riferimento individuato dal legislatore affinché la segreteria dell’organo giurisdizionale procedesse all’individuazione dei ricorsi per i quali non fosse stata attivava da dieci anni una sollecitazione per la sua definizione.
La prescrizione ultradecennale prevista dall' art. 9 comma 2 l. 21 luglio 2000 n. 205, costituisce una disposizione di carattere eccezionale (arg. ex Consiglio Stato , sez. V, 28 luglio 2005 , n. 4046) con cui il legislatore -- nell’individuare, in via straordinaria , discrezionalmente un lungo periodo di pendenza del giudizio dalla data di deposito dei ricorsi senza che i ricorrenti si fossero attivati a richiedere la rituale fissazione dell’udienza -- non ha operato alcun riferimento al periodo feriale.
Al riguardo, è inconferente la giurisprudenza in materia di impugnativa delle sentenze dei TAR , per la quale deve conteggiarsi il periodo di sospensione (cfr. Consiglio Stato , sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1661).
In sostanza, il termine in parola non ha carattere processuale in senso tecnico, ma costituisce un elemento del particolare procedimento di alleggerimento dei ruoli di ricorsi vetusti, dalla data
di deposito dei ricorsi medesimi.
___ 5. Inconsistente è poi la pretesa necessità di una “notifica” nelle forme di rito a mezzo degli Ufficiali Giudiziari.
Al contrario, in assenza di qualsivoglia espresso riferimento alle forme della notificazione degli atti giudiziari, deve escludersi l'obbligo della segreteria dell'organo giudicante di “notificare” l’apposito avviso previsto dal cit. comma 2 dell'art. 9 l. n. 205 del 2000.
La giurisprudenza ha già avuto modo di sottolineare al riguardo come l'art. 9, comma 2, L. n. 205/2000 non ha affatto utilizzato l’espressione "notifica" alle parti costituite in senso tecnico (cfr. Consiglio Stato , sez. IV, 28 gennaio 2011, n. 695); ed è in tal senso che la norma è stata interpretata nella prassi.
___ 6 . Manifestamente infondata è poi l’asserita incostituzionalità della norma dell’art. 9 comma 2 l. n. 205 del 2000 per contrasto con gli artt. 3, 24,113 e 97 della Cost. per compressione del diritto di difesa senza le necessaria garanzie, sulla quale il TAR non si sarebbe pronunciato perché introdotta solo con memoria.
Deve in tal proposito rilevarsi come il nocumento alle posizione del ricorrente è stata una indiretta conseguenza di un suo disinteresse a conseguire la decisione, probabilmente conseguente allo status quo, che comunque si era determinato in esito alla sospensione del diniego di sanatoria di un immobile abusivo in una zona vincolata.
In altre parole, la norma che impone la perenzione dei ricorsi in presenza di un’inerzia processuale della parte ricorrente protrattasi per un decennio non può implicare, in un processo di legittimità caratterizzato dall’impulso di parte, alcuna violazione reale dei diritti di difesa o dei principi di imparzialità. eguaglianza e di tutela delle situazioni giuridiche.
In relazione agli obiettivi di carattere straordinario e congiunturale, diretti allo smaltimento dell’arretrato, alla razionalizzazione delle pendenze, ed alla accelerazione delle procedure, l’eccezione di incostituzionalità appare dunque manifestamente infondata.
___ 7. Originariamente inammissibile, per difetto di contraddittorio, appare la rubrica che concerne doglianze relative:
- all’asserita applicabilità ex officio dell’istituto di cui agli artt. 34 e 36 T.U. n. 1054/1924 per l’asserita oscurità della disciplina in esame;
-- all’asserita sospensione ex lege del procedimento de quo ai sensi dell’art. 44 della L. n.47/1985.
Infatti le predette doglianza sono state introdotte in appello solo con la memoria del 20 ottobre 2009 e, come è evidente dalla solo stessa sintetica enunciazione, non costituivano affatto specificazioni delle precedenti censure.
In ogni caso, però, per ragioni di giustizia, si deve pure rilevare che tali censure appaiono inconsistenti in quanto:
-- da un lato, la ricordata decennale inerzia dei ricorrenti nel richiedere la fissazione impedisce di configurare in termini di scusabilità il comportamento processuale della parte;
-- dall’altro, a prescindere dal fatto che qui l’abuso ricadeva in zona vincolata per cui non poteva configurarsi alcun silenzio assenso, in ogni caso la perenzione del processo avrebbe operato solo nel caso in cui fosse intervenuto un formale provvedimento di sospensione del processo ai sensi dell’art. 44 della L. n.47/1985. Il che nella specie non è avvenuto.
___ 8. In definitiva l’appello è infondato e deve essere respinto e, per l’effetto deve essere confermata la declaratoria della perenzione del gravame di primo grado
Non essendosi costituite in giudizio le amministrazioni e in genere le parti intimate, non vi è luogo a pronuncia sulle spese.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando:
___ 1. respinge l'appello, come in epigrafe proposto e, in conseguenza conferma la perenzione del ricorso di prime cure.
___ 2. Nulla per le spese
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2011 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Fabio Taormina, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 23/01/2012
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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silenzio serbato su segnalazione di presunto abuso edilizio realizzato in fondo limitrofo.

Il CdS ha dato ragione al vicino che aveva cmq. segnalato dei fatti e che il Comune doveva tenerne conto.

I fatti potete leggerli in sentenza.

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

17/10/2012 201205347 Sentenza 4


N. 05347/2012REG.PROV.COLL.
N. 10293/2011 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10293 del 2011, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dagli avv. Donatella Pagani, Corrado Carrubba, con domicilio eletto presso Corrado Carrubba in Roma, via di Vigna Murata, 1;

contro
Comune di Agrate Conturbia;

nei confronti di
OMISSIS;

per la riforma
della sentenza breve del T.A.R. PIEMONTE - TORINO: SEZIONE I n. 00847/2011, resa tra le parti, concernente silenzio serbato su segnalazione di presunto abuso edilizio- ris. danni

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 luglio 2012 il Cons. Raffaele Potenza e uditi per le parti gli avvocati Corrado Carrubba;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
1.- Con ricorso al TAR Piemonte, il sig. OMISSIS proprietario di beni immobili identificati nel ricorso e situati in Comune di Agrate Conturbia (Novara), impugnava il silenzio opposto dal Comune nei confronti della segnalazione, con istanza di provvedere, inviata dal ricorrente stesso con raccomandata a.r. 3.3.2011 e pervenuta all'amministrazione comunale in data 9.3.2011; esponeva il ricorrente di aver inviato al predetto Comune un esposto dal medesimo per un presunto abuso edilizio realizzato in fondo limitrofo, abuso che avrebbe comportato, con danno del ricorrente, l’inglobamento nella proprietà privata della controinteressata di una porzione di strada ad uso pubblico utilizzata dal ricorrente medesimo. In particolare riferiva il ricorrente come la controinteressata limitrofa (sig.ra OMISSIS) , dopo aver presentato una DIA edilizia avente ad oggetto la mera sostituzione di un cancello esistente, avesse poi realizzato abusivamente una recinzione e traslato il cancello, rispetto alla sua originaria collocazione, in modo tale da invadere la strada vicinale che corre lungo il confine della proprietà della controinteressata e da precluderne il passaggio. Per tali ragioni, contro la menzionata DIA, il sig OMISSIS sollecitava l’esercizio dei poteri repressivi comunali e, non avendo avuto riscontro alcuno, proponeva ricorso al TAR, domandando inoltre la condanna del Comune di Agrate Conturbia al risarcimento del danno.

2.- Con la sentenza epigrafata il Tribunale amministrativo ha dichiarato inammissibile il ricorso, non ravvisando (in sintesi) alcun interesse ad agire del ricorrente, risultato non in grado di addurre e dimostrare un pregiudizio alle proprie prerogative dominicali.

3.- Il sig. OMISSIS ha impugnato la sentenza del TAR, chiedendone l’annullamento alla stregua di mezzi ed argomentazioni riassunti nella sede della loro trattazione in diritto da parte della presente decisione .

3.1.- Non si sono costituiti nel giudizio l’amministrazione comunale e la controinteressata.

Parte appellante ha riepilogato in memoria le proprie tesi e, alla camera di consiglio del 10 luglio 2012, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO
1.- La controversia sottoposta alla Sezione dall’appello in esame verte sulla legittimità di un silenzio serbato da amministrazione comunale su istanza sollecitatoria dei poteri repressivi nei confronti di un intervento edilizio, realizzato da proprietario confinante, ritenuto abusivo perché lesivo delle prerogative della proprietà limitrofa. Con la decisione impugnata il TAR si è espresso negativamente sul dovere dell’amministrazione di pronunziarsi, facendo riferimento al presupposto sostanziale per ottenere la repressione dell’abuso, costituito dalla effettiva lesione delle prerogative dominicali del soggetto che sollecita l’esercizio dei poteri repressivi in questione. Il giudice di prime cure ha escluso la sussistenza di detto presupposto (sostenuto invece con riferimento agli elementi addotti dal ricorrente) sulla base di argomentazioni riassumibili come segue:
- quanto alla esistenza della strada pubblica, risulta smentita dai documenti versati in atti, sicchè il passaggio potrebbe al più rappresentare una strada vicinale-privata, sulla quale può discutersi della sussistenza di un uso pubblico; peraltro risulta che “ altro soggetto proprietario di terreni siti in zona abbia intentato una causa possessoria civile avverso l’odierna controinteressata, rivendicando la sussistenza di un passaggio a proprio favore sul contestato percorso, passaggio asseritamente precluso dal cancello. Dal doppio grado di giudizio della vertenza possessoria è per contro emerso che tale tipo di passaggio non è stato comprovato né in termini generali e pubblici né a favore del ricorrente in possessoria”;

- in merito alla sostenuta destinazione pubblica della strada, la sua larghezza non costituisce elemento sufficiente a dimostrarla, trattandosi di previsione caratteristica che può connotare anche le strade private.

1.1.- L’appello in trattazione contrasta queste motivazioni ed in particolare il principio sotteso alla decisione, per il quale l’interesse a promuovere l’azione sollecitatoria non sussiste allorchè la controversia, essendo stata proposta a tutela di un diritto privato, ha natura privatistica. Il gravame, alla luce della giurisprudenza di questo Consiglio formatasi in materia, è meritevole di accoglimento, non potendosi condividere, per le ragioni che seguono, l’interpretazione restrittiva adottata dal TAR sul dovere di pronunziarsi sull’istanza. In effetti, ricostruiti come sopra i termini della controversia, e ribadito (come già ammesso dalla sentenza) che la stessa verte esclusivamente sulla sussistenza di un obbligo del Comune di pronunziarsi sulla domanda, e non sul merito della controversia (la regolarità o meno dell’intervento edilizio), viene qui in rilievo la giurisprudenza amministrativa per la quale, in via generale, “l'obbligo giuridico di provvedere - ai sensi dell'art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18 giugno 2009, n. 69 - sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 3 giugno 2010, n. 3487). In particolare, poi, il proprietario confinante con l’immobile, nel quale si assuma essere stato realizzato un abuso edilizio, ha comunque un interesse alla definizione dei procedimenti relativi all’immobile medesimo entro il termine previsto dalla legge, tenendo conto dell’interesse sostanziale che, in relazione alla vicinanza, egli può nutrire in ordine all’esercizio dei poteri repressivi e ripristinatori da parte dell’organo competente (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 20 luglio 2006, n. 4609; Id., IV Sez., 7 luglio 2008, n. 3384)” (Cons. di Stato , sez.IV, n. 2468/2012)”.

Ciò considerato, rileva il Collegio che la decisione del TAR opera una commistione tra le due distinte questioni giuridiche (pronunzia o meno sull’istanza ed esercizio o meno dei poteri repressivi), obliterando che oggetto del ricorso era solo la prima. E con riferimento a questa sussistevano gli elementi legittimanti minimali per ottenere la pronunzia del Comune, costituiti dalla incontestata proprietà da parte istante e dallo stato dei luoghi esposto dal ricorrente.

Come già condivisibilmente affermato in analoga fattispecie (Cons. di Stato n. 2468/2012, cit.), resta poi irrilevante la prospettiva di un esperimento dell’azione possessoria in sede civile, ben potendo la tutela (rimozione del presunto abuso), non conseguita in sede civile, essere realizzarsi mediante il richiesto esercizio dei poteri pubblicistici in materia edilizia.

Diversamente da quanto ritenuto dal TAR, dunque, l’azione proposta dal sig. OMISSIS contro il silenzio era meritevole di accoglimento; conseguentemente l’appello in trattazione, in riforma sul punto della sentenza impugnata, deve essere accolto, dovendosi annullare il silenzio formatosi sulla domanda e dichiarare il dovere dell’amministrazione di pronunziarsi sull’istanza del sig. OMISSIS, a norma dell’art. 117, comma 2 del c.p.a..

Conseguentemente l’appello in trattazione, in riforma sul punto della sentenza impugnata, deve essere accolto.

2.- L’accoglimento del ricorso di primo grado (limitatamente alle azioni di annullamento e dichiarativa) che ne deriva, non determina la necessità di riesaminare la domanda risarcitoria, poiché essa in questa sede è stata riproposta solo in via subordinata all’eventuale rigetto dell’appello.

3.- Le spese del presente grado di giudizio, seguono il principio della soccombenza (art. 91 c.p.c) e sono pertanto poste a carico del Comune.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione IV), definitivamente pronunziando sul ricorso in epigrafe:
- accoglie l’appello proposto e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata accoglie il ricorso di primo grado, e per l’ulteriore effetto:
- - annulla il silenzio-rifiuto opposto all’istanza in data 3.3.2011;
- - a norma dell’art. 117, comma 2 del c.p.a., ordina al Comune di Agrate Conturbia di pronunziarsi sull’istanza del sig. OMISSIS, entro trenta giorni dalla notificazione della presente sentenza.
- condanna il Comune di Agrate Conturbia al pagamento , in favore dell’appellante, delle spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida complessivamente in Euro tremila (3000), oltre accessori
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 luglio 2012 con l'intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Raffaele Greco, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Raffaele Potenza, Consigliere, Estensore
Oberdan Forlenza, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 17/10/2012
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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Installazione di un ascensore esterno a un immobile.

1) - Diniego opposto dal Comune alla domanda di permesso di costruire avente a oggetto l’installazione di un ascensore esterno a un immobile del quale essi sono comproprietari, inteso ad agevolare l’accesso e la mobilità in particolare della sig.ra, affetta da gravi difficoltà di deambulazione a causa dell’età avanzata.

2) - Nel ricorso è stata richiamata anche la legge 5 febbraio 1992, nr. 104.

Il Consiglio di Stato ha dato ragione ai ricorrenti.
Bene a sapersi per chi si trova nelle stesse condizioni.

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

05/12/2012 201206253 Sentenza 4


N. 06253/2012REG.PROV.COLL.
N. 03695/2012 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso in appello nr. 3695 del 2012, proposto dai signori G. A., E. D. e P. A., rappresentati e difesi dall’avv. Claudio Di Tonno, con domicilio eletto presso l’avv. Maria Assunta Tucci in Roma, via Elvira Recina, 19,

contro
- il COMUNE DI LORETO APRUTINO, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Ugo Di Silvestre, con domicilio eletto presso l’avv. Daniele Vagnozzi in Roma, viale Angelico, 103;
- i signori G. D. S. e P. P., non costituiti;

per l’annullamento,

previa sospensione,
della sentenza del T.A.R. dell’Abruzzo, Sezione di Pescara, nr. 87 del 24 febbraio 2012 (mai notificata) e per il consequenziale risarcimento dei danni.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Loreto Aprutino;
Viste le memorie prodotte dagli appellanti (in date 27 luglio e 25 settembre 2012) e dal Comune (in date 30 luglio e 25 settembre 2012) a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, all’udienza pubblica del giorno 16 ottobre 2012, il Consigliere Raffaele Greco;
Uditi l’avv. Mauro Pisapia, in sostituzione dell’avv. Di Tonno, per gli appellanti e l’avv. Daniele Vagnozzi, in sostituzione dell’avv. Di Silvestre, per il Comune;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
I signori G. A., E. D. e P. A. hanno impugnato, chiedendone la riforma previa sospensione dell’esecuzione, la sentenza con la quale la Sezione di Pescara del T.A.R. dell’Abruzzo ha respinto il ricorso dagli stessi proposto avverso il diniego opposto dal Comune di Loreto Aprutino alla loro domanda di permesso di costruire avente a oggetto l’installazione di un ascensore esterno a un immobile del quale essi sono comproprietari, inteso ad agevolare l’accesso e la mobilità in particolare della sig.ra D….., affetta da gravi difficoltà di deambulazione a causa dell’età avanzata.

A sostegno dell’appello, gli istanti hanno dedotto:
1) difetto di motivazione per omessa pronuncia ed ultrapetizione circa il primo motivo di ricorso ad oggetto violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 873 cod. civ.; eccesso di potere per difetto di istruttoria; falso presupposto di fatto e di diritto (in relazione alla censura con la quale si era denunciato come l’ascensore per cui è causa non potesse qualificarsi come “costruzione” ai sensi e per gli effetti dell’art. 873 cod. civ., e comunque non potesse il Comune denegare il permesso di costruire sulla scorta di un diritto rinunciabile dei proprietari confinanti, i quali non risultavano essersi mai opposti all’intervento);

2) difetto di motivazione in relazione al secondo motivo di ricorso portante violazione di legge ex art. 79, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, nr. 380, legge 9 gennaio 1989, nr. 13, d.m. 14 giugno 1989, nr. 236, e art. 3 della legge 7 agosto 1990, nr. 241; eccesso di potere per difetto di istruttoria; falso presupposto di fatto (in relazione all’avere il T.A.R. ritenuto non applicabile la deroga alle distanze prevista per l’ipotesi in cui fra i due edifici vi sia uno “spazio” o una “area di proprietà o di uso comune”);

3) illogicità, ultrapetizione, difetto di motivazione e contraddittorietà sul terzo motivo di ricorso portante violazione e falsa applicazione dell’art. 873 cod. civ. in combinato disposto con l’art. 79, comma 2, del d.P.R. nr. 380 del 2001 e dell’art. 3, comma 2, della legge nr. 13 del 1989 e della legge 5 febbraio 1992, nr. 104, come interpretati alla luce dei principi ex artt. 2, 3, 32 e 42 Cost.; eccesso di potere per difetto di istruttoria; illogicità manifesta (in relazione alla prevalenza da assegnare al diritto alla salute ed alla vita di relazione dei soggetti portatori di handicap, in funzione dei quali è stata adottata la normativa sull’eliminazione delle cc.dd. barriere architettoniche).

In conclusione, parte appellante ha reiterato l’istanza risarcitoria già formulata nel ricorso introduttivo.

Si è costituito il Comune di Loreto Aprutino, opponendosi con diffuse argomentazioni all’accoglimento del gravame e chiedendo la conferma della sentenza impugnata.

Alla camera di consiglio del 5 giugno 2012, fissata per l’esame della domanda incidentale di sospensiva, questa è stata differita sull’accordo delle parti, per essere abbinata alla trattazione del merito.

Entrambe le parti hanno affidato a memorie l’ulteriore svolgimento delle rispettive tesi.

All’udienza del 16 ottobre 2012, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO
1. Giunge all’attenzione della Sezione il contenzioso relativo all’installazione di un ascensore esterno all’immobile sito in Loreto Aprutino alla via OMISSIS; detto impianto dovrebbe servire a risolvere i problemi di accesso e mobilità della sig.ra E. D., residente nell’immobile in questione ed una degli odierni appellanti, la quale a causa dell’età avanzata e delle conseguenti difficoltà di deambulazione ha serie difficoltà ad uscire e rientrare presso la propria abitazione sita al terzo piano.

Tuttavia, la richiesta di permesso di costruire intesa alla realizzazione del predetto ascensore è stata respinta dall’Amministrazione comunale col provvedimento gravato in prime cure nel presente giudizio: secondo il Comune, all’intervento osterebbe il disposto dell’art. 79, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001, nr. 380, a mente del quale in tema di realizzazione di opere finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche – e facendo eccezione all’ordinario regime di deroga alle norme sulle distanze – “è fatto salvo l’obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 e 907 del codice civile nell’ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune”.

Con la sentenza qui appellata, il T.A.R. dell’Abruzzo ha respinto il ricorso proposto dagli istanti avverso il diniego, evidenziando:
- che la tutela della salute e della vita di relazione dei soggetti portatori di handicap, pur rappresentando un valore di primaria importanza, non è assoluta e incondizionata, ma può subire limitazioni in ragione della tutela di valori di pari rilevanza;

- che, in particolare, il comma 2 dell’art. 79 testé citato dimostrerebbe che, a fronte di un’ordinaria prevalenza delle ragioni del portatore di handicap sugli interessi eventualmente contrastanti dei soggetti residenti nel medesimo edificio, non altrettanto potrebbe dirsi per gli immobili limitrofi, laddove il legislatore avrebbe ritenuto di assegnare prevalenza al loro diritto alla salute in funzione del quale risulta posta la norma di cui all’art. 873 cod. civ. (la cui ratio, come è noto, è quella di evitare la creazione di intercapedini dannose o pericolose);

- che nella specie, premesso che la realizzazione dell’ascensore avrebbe comportato il mancato rispetto della distanza minima di tre metri dal fabbricato confinante, non vi sarebbe spazio alcuno per un’applicazione dell’eccezione prevista dall’ultima parte della disposizione, atteso che fra i due immobili esiste sì un cortile, ma tale cortile non risulta essere in comproprietà fra di essi né risulta l’esistenza di servitù di passaggio comune.

2. Tutto ciò premesso, l’appello è fondato nei sensi e nei limiti appresso precisati.

3. Innanzi tutto, il Collegio reputa fondato il primo motivo di appello nella parte in cui si sostiene l’estraneità dell’ascensore oggetto della richiesta di permesso di costruire alla nozione di “costruzione” di cui all’art. 873 cod. civ., e quindi l’inapplicabilità ad esso delle disposizioni in tema di distanze dallo stesso poste.

Ed invero, alla stregua della giurisprudenza più recente l’impianto di ascensore – al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche etc. dell’edificio principale – rientra fra i volumi tecnici o impianti tecnologici strumentali alle esigenze tecnico-funzionali dell’immobile (cfr. Cass. civ., sez. II, 3 febbraio 2011, nr. 2566).

4. Ma, anche al di là di quanto sopra, appare condivisibile l’impostazione sviluppata nel secondo mezzo, secondo cui, nell’interpretazione dell’eccezione alla regola del rispetto delle distanze posta dall’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi dal tener conto dell’inserimento della norma – come già rilevato - all’interno della disciplina volta all’eliminazione delle barriere architettoniche nell’interesse dei soggetti portatori di handicap.

Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto bilanciamento di interessi, come quello cui ha proceduto il primo giudice (e al quale gli odierni appellanti, soprattutto col terzo mezzo, contrappongono un opposto bilanciamento), quanto soprattutto nell’accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore, quali quella di “spazio o area di proprietà o di uso comune”, le quali non possono essere recepite in un’ottica strettamente civilistica, ma vanno calate nell’ambito della normativa tecnica esistente in subiecta materia.

Sotto tale profilo, soccorre il d.m. 14 giugno 1989, nr. 236, contenente la normativa regolamentare a suo tempo adottata in attuazione della legge 9 gennaio 1989, nr. 13, e che ancora oggi costituisce il riferimento dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (nel quale la predetta legge è confluita).

L’art. 2 del citato decreto contiene una serie di definizioni tecniche utili all’applicazione della normativa de qua e, in particolare, qualifica come “spazio esterno (...) l’insieme degli spazi aperti, anche se coperti, di pertinenza dell’edificio o di più edifici” (lett. F) e come “parti comuni dell’edificio (...) quelle unità ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari” (lett. E).

Applicando tali coordinate interpretative all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, risulta chiaro come il legislatore, nel far riferimento a spazi o aree “di proprietà o di uso comune”, ha inteso richiamare non soltanto il dato giuridico dell’esistenza di una comproprietà o di una servitù di uso comune, ma anche il semplice dato materiale dell’esistenza di uno spazio comunque denominato, che per le sue caratteristiche si presti a essere impiegato dai residenti di entrambi gli immobili confinanti; ed è appena il caso di aggiungere che la definizione della lettera E non presuppone affatto che le “unità immobiliari” cui essa fa riferimento debbano necessariamente essere parte di un medesimo edificio (ché, anzi, dal combinato disposto di detta definizione con quella di cui alla successiva lettera F si ricava che uno spazio esterno comune può certamente interessare anche “più edifici”).

Con riguardo al caso di specie, se è vero che il cortile esistente fra i due immobili e nel quale dovrebbe insistere l’ascensore per cui è causa non risulta essere in comproprietà fra i due condomini, non risulta però contraddetto l’assunto degli appellanti secondo cui esso risulta de facto utilizzato materialmente e per la sua interezza dai residenti di entrambi gli immobili; per vero, il T.A.R. si è limitato a rilevare l’esistenza di un confine catastale che dividerebbe a metà il cortile medesimo, senza però che questo risulti tagliato da muro o recinzioni (unico elemento che sarebbe idoneo a escluderne l’ “uso comune” nel senso sopra precisato).

Ne discende che non poteva il Comune denegare il rilascio del permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 873 cod. cov., applicandosi in ogni caso l’ulteriore deroga di cui all’ultima parte del comma 2 dell’art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.

5. I rilievi fin qui svolti, essendo di per sé sufficienti a fondare l’accoglimento del ricorso di primo grado, esonerano dall’esame delle ulteriori doglianze sviluppate dagli appellanti.

6. Va invece respinta l’istanza risarcitoria formulata a conclusione del ricorso introduttivo e reiterata nell’appello.

Al riguardo, va in primo luogo evidenziato che la presente decisione non comporta quale conseguenza la necessaria spettanza agli istanti del “bene della vita” costituito dal permesso di costruire, ma soltanto l’obbligo di riesame della richiesta ad aedificandum da parte del Comune (il quale, beninteso, risulterà vincolato soltanto dai principi enunciati nella presente sentenza).

In secondo luogo, il pregiudizio alla mobilità e alla vita di relazione della ricorrente sig.ra D…… di cui si chiede il ristoro risulta soltanto apoditticamente affermato, ma per nulla provato (neanche nell’an).

7. In considerazione della relativa novità delle questioni esaminate e della parziale soccombenza reciproca, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado, nei sensi e limiti di cui in motivazione.

Compensa tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 ottobre 2012 con l’intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Raffaele Greco, Consigliere, Estensore
Fabio Taormina, Consigliere
Raffaele Potenza, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 05/12/2012
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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diniego istanza di condono.

1) - Le istanze erano state chieste con riguardo a lavori abusivi realizzati in zona agricola sottoposta a vincolo idrogeologico.

2) - E’ infondato anche il motivo con il quale si pretende che la regola della distanza dai confini sia norma di relazione e non di rilievo pubblicistico, tanto da non poter giusto costituire, nell’erronea ottica della appellante, giusto motivo di diniego.

3) - Infatti, se è vero che la sanatoria edilizia regola i rapporti tra privato ed ente pubblico senza incidere sui diritti dei terzi pregiudicati dall'opera abusiva (i quali potranno comunque chiedere all'autorità giudiziaria la demolizione o il risarcimento del danno), è altrettanto vero che rilasciare il titolo edilizio per opere costituenti violazione certa di norme sulle distanze o sul diritto di veduta, e quindi ingiustamente lesive, significherebbe esperire un'azione amministrativa contrastante con i principi di correttezza e buona amministrazione ex art. 97 cost., nonché col principio di economia dei mezzi giuridici, in quanto il terzo leso sarebbe di certo legittimato ad opporsi all'opera assentita, chiedendo al g.o. la demolizione e rendendo così sostanzialmente inutile il titolo edilizio abilitante.

4) - Il diniego è stato motivato perché trattasi di nuova costruzione, difforme dagli strumenti urbanistici vigenti al 2 ottobre 2003; in violazione della distanza dalla strada, inferiore al minimo consentito, e con altezza in gronda superiore al consentito.

5) - Con riferimento alla nozione di "costruzione", rilevante ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall'articolo 873 del c.c. o da norme regolamentari integrative, si è stabilito che tale "concetto" comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. 18 febbraio 2011, n. 4008; Cass. 1 luglio 1996, n. 5956).

La ricorrente ha perso l'Appello al CdS.

Altri particolari punti potete leggerli qui sotto in sentenza.

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15/01/2013 201300223 Sentenza 4


N. 00223/2013REG.PROV.COLL.
N. 06543/2009 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 6543 del 2009, proposto da:
M. C. Z., rappresentato e difeso dall'avv. Federico Mannucci, con domicilio eletto presso Federico Mannucci in Roma, via G. Mazzini, 11;

contro
Comune di Marsciano, rappresentato e difeso dall'avv. Maurizio Pedetta, con domicilio eletto presso Goffredo Gobbi in Roma, via Maria Cristina, 8;

per la riforma
della sentenza del T.A.R. UMBRIA - PERUGIA: SEZIONE I n. 00036/2009, resa tra le parti, concernente diniego istanza di condono.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Marsciano;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 gennaio 2013 il Cons. Sergio De Felice e uditi per le parti gli avvocati Federico Mannucci e Maurizio Pedetta;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
Con cinque distinti ricorsi (nn. 23, 24, 25, 26 e 27 dell’anno 2008), proposti innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria, l’attuale appellante agiva per l’annullamento di cinque distinti dinieghi di condono emessi dal Comune di Marsciano tutti in data 9 ottobre 2007, con numeri di prot. 26122, 26120, 26121, 26119, 26123.

Le istanze erano state chieste con riguardo a lavori abusivi realizzati negli anni 2000-2002 in zona agricola sottoposta a vincolo idrogeologico.

Tali opere consistevano in: tettoia sorretta da sei colonne in mattoni con destinazione cucina aperta; annesso con struttura portante in mattoni e copertura in cemento; fabbricato di tre piani; muro in cemento armato con recinzione; altro muro in cemento armato con recinzione.

I motivi di diniego erano in parte simili e in parte differenti; per tutti il Comune faceva riferimento alla novità e alla non conformità urbanistica delle opere edilizie nonché al carattere unitario degli abusi.

I ricorsi esponevano la condonabilità dell’opera, secondo relazioni tecniche prodotte, lamentando violazione delle norme del regolamento edilizio ed eccesso di potere e in subordine l’illegittimità costituzionale della legge regionale umbra n.21 del 2004 in relazione all’art. 117 Costituzione.

Il giudice di primo grado provvedeva nel modo seguente: riuniva i ricorsi per connessione sia soggettiva che oggettiva; rigettava le questioni preliminari di inammissibilità, anche quella per asserita acquiescenza; rigettava, in quanto manifestamente infondata, la questione di illegittimità costituzionale della legge regionale umbra in materia di condono, che limita la condonabilità per le opere nuove solo a determinate condizioni e con precisi limiti volumetrici e quindi esclude la condonabilità delle opere nuove non conformi. Specificando l’analisi del merito dei ricorsi, il primo giudice rigettava tutte le censure, vagliate comunque anche complessivamente per il carattere unitario della costruzione abusiva in questione, sulla base della legittimità dei motivi di diniego, attinenti alla violazione delle distanze dai confini catastali, dalla strada, all’altezza, alla distanza dalla strada (ricorso n.23/2008), non potendosi avere riguardo alla mancata utilizzazione di fatto di una pubblica strada; si ravvisava la violazione dalle distanze minime dalle strade pubbliche (ric. 24/2008); veniva rigettato anche il ricorso relativo al diniego di condono per la tettoia, ritenuta costruzione edilizia per le caratteristiche strutturali e funzionali, anche per violazione delle distanze; veniva rigettato pure il ricorso relativo all’annesso destinato al ricovero, in quanto per lo stesso, sia pure volume tecnico, dovevano rispettarsi le norme sulle distanze.

Avverso tale sentenza propone appello la stessa ricorrente di prime cure, Z. M. C., che, in primo luogo, descrive i fatti procedimentali, rappresentando i diversi provvedimenti impugnati con i cinque distinti ricorsi, esponendo come si tratterebbe soltanto in parte di motivi di diniego simili (giustificati con la natura non di ampliamenti di edifici preesistenti, ma di nuove costruzioni, non conformi a strumenti urbanistici e in violazione delle distanze); in realtà, tuttavia, ogni diniego ha avuto diverse motivazioni (per esempio, in relazione al limite di distanza violato, a volte dai confini, a volte dalla strada, a volte oppure con riguardo al limite di altezza violato).

Con un primo motivo di appello relativo a tutti i cinque ricorsi originari (da pagina 8 a pagina 11 dell’appello) si lamenta l’erroneo utilizzo, da parte del primo giudice, del potere di riunione, in quanto in sentenza si è affermato erroneamente trattarsi di un abuso unitario e si sostiene che si è fatta una valutazione complessiva della vicenda; al contrario, assume tale motivo di appello, con la indebita riunione dei cinque ricorsi per cinque provvedimenti basati su motivazioni diverse, si è leso il diritto di difesa, costringendo la parte a proporre un unico appello.

Con altro motivo di impugnazione (da pagina 11 a pagina 13) si sostiene l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117 comma 3 Costituzione, della legge regionale umbra n.21 del 2004, nel punto in cui limita la sanabilità delle opere nuove rientranti nella tipologia II (ossia solo se realizzate in assenza di titolo ma conformemente agli strumenti urbanistici), ciò che irragionevolmente, nel non consentire la condonabilità di opere nuove difformi, determinerebbe una disparità di trattamento.

Con altri motivi, l’appellante:
A.- relativamente al ricorso n. 23 del 2008 deduce quanto segue:
A.a.- omessa pronuncia sul dedotto difetto di motivazione per l’indicazione della violazione dell’art. 46 delle NTA al PRG all’epoca vigente, che impone una distanza dalle costruzioni dai confini di mt. 7,5 e in sostanza difetto di idonea motivazione;
A.-b.- che le norme sulle distanze dai confini catastali di altra proprietà sono norme di relazione; e poiché l’autorizzazione edilizia fa comunque salvi i diritti dei terzi, non poteva per ciò solo negarsi il condono;
B.- relativamente al ricorso n. 24 del 2008 deduce quanto segue:
B.a.- erroneità della ritenuta violazione delle distanze, perché non vi è una vera minaccia alla sicurezza del traffico, come sembra pretendere l’art. 32 della legge n.47 del 1985, e anche nel caso di violazione dell’obbligo di rispetto si tratta di strada non effettivamente utilizzata;
B.b.- in ogni caso non è vero che il limite di distanza sia di metri 15, in quanto la variante adottata di recente prevede un limite minore, cioè di dieci metri; e doveva farsi riferimento alle normative vigenti al momento dell’esame della domanda di condono;
B.c.- errerebbe la sentenza appellata nel punto in cui non ammette di doversi fare riferimento al successivo reinterro, al fine di valutare l’altezza del fabbricato.
C.- Con riguardo al ricorso 25 del 2008 (da pagina 24 in poi dell’appello), avente ad oggetto il locale tecnico si deduce quanto segue:
C.a.- sarebbe errata la conclusione della sentenza secondo cui l’abuso non sarebbe condonabile perché in contrasto con le norme relative alla distanza dai confini, dalla strada e da altro fabbricato:
.- in primo luogo la strada non è esistente;
.- in secondo luogo non vi sarebbe minaccia per la sicurezza del traffico;
C.b.- si sostiene inoltre che si tratta di pertinenza e che la distanza va calcolata in modo ortogonale e non radiale, anche in applicazione delle norme sopravvenute del regolamento edilizio (art. 49), più favorevoli al privato.
D.- Con riguardo al ricorso n. 26 del 2008, avente ad oggetto il diniego di condono sulla tettoia-gazebo, si deduce quanto segue:
D.a.- la sentenza è errata, in quanto è vero che l’intervento è urbanisticamente rilevante (altrimenti non sarebbe stato chiesto condono), ma per esso non deve aversi riguardo al calcolo della distanza dalla strada e da altro fabbricato, dovendosi considerare le distanze tra pareti finestrate;
D.-b.- relativamente alla distanza dalla strada, si deduce di nuovo trattarsi di strada non esistente con assenza di minaccia alla sicurezza del traffico; e in ogni caso sarebbe rispettato il limite di metri dieci;
D.c.- doveva tenersi conto dello strumento urbanistico di variante adottato, anche se non approvato, esistendo il diritto ad ottenere il condono in caso di intervento per opere che siano conformi al momento dell’esame della sanatoria.
E.- Con riguardo al ricorso di primo grado n.27 del 2008 (da pagina 34 in poi dell’appello) si deduce quanto segue:
E.a.- in primo luogo la sentenza avrebbe omesso di motivare sul punto, avendo fatto cenno ad esso solo al paragrafo 4;
E.b.- sussisteva condonabilità, perché, ancora una volta, la strada rispetto alla quale sarebbe violata la distanza sarebbe strada vicinale non più esistente, mentre l’abuso non costituirebbe minaccia alla sicurezza del traffico;
E.c.- il limite di dieci metri (l’assunto è ripetuto) è comunque rispettato;
E.d.- deve aversi riguardo alla variante più favorevole, adottata con delibera del Consiglio comunale n.69 del 3 giugno 2003 e approvata con delibera di C.C. n.62 del 27 aprile 2004, essendo dunque consentita la sanatoria di opere dapprima vietate;
E.e.- in subordine è riproposta la questione di illegittimità costituzionale della legge regionale umbra, come sopra già esposta.

Si è costituito il Comune di Marsciano, concludendo per l’inammissibilità e comunque l’infondatezza dell’appello.

Alla udienza pubblica dell’8 gennaio 2013 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1.E’ del tutto infondato il primo motivo di appello, con il quale si lamenta l’esercizio indebito del potere di riunione da parte del primo giudice.

In disparte la considerazione assorbente che la vicenda è unitaria, trattandosi di un unico intervento, costituito da diverse parti del medesimo fabbricato in zona agricola (per cui sono state presentate tre istanze di condono), oltre tettoia-gazebo e annesso tecnico (e la stessa parte appellante ha sostenuto la natura di pertinenza almeno per uno dei due interventi staccati), il primo giudice ha valutato che si trattava di giudizi tra le stesse parti, aventi oggetti simili (dinieghi di condono) riguardanti l’intervento abusivo, che questo giudice giudica unitario (ma ciò può anche essere superfluo) e con motivi e censure almeno in parte analoghi.

Soprattutto, però, vanno ribaditi i principi generali in materia di riunione, secondo i quali:
.- i provvedimenti di riunione e di separazione costituiscono espressione tipica del potere discrezionale del giudice, hanno natura ordinatoria e si fondano su valutazioni di mera opportunità, con la conseguenza che essi non comportano, per gli effetti che ne discendono nello svolgimento dei processi, alcuna nullità (Consiglio Stato sez. IV, 10 luglio 2007,n. 3893);

.- la valutazione in ordine all'opportunità della trattazione congiunta di più cause connesse fra di loro è rimessa esclusivamente alla discrezionalità del giudice innanzi al quale le cause pendono e il mancato esercizio del potere di riunione (dunque anche l’esercizio del medesimo potere) non è sindacabile in sede di appello (salvo che, in caso di omessa riunione, fra esse sussista un rapporto di pregiudizialità tale da non poterne consentire la decisione separata, caso differente dalla fattispecie; Consiglio Stato sez. IV, 16 gennaio 2008 n. 74);

.- il potere di riunione dei ricorsi è ampiamente discrezionale, non è in alcun modo sindacabile in appello e quindi le parti non hanno alcun interesse a censurare né il contenuto della scelta, né le modalità attraverso cui la decisione di riunione sia stata formata, sempre che, in concreto siano state rispettate tutte le garanzie difensive riguardanti i singoli procedimenti riuniti (Consiglio Stato sez. V, 6 luglio 2007, n. 3868).

Ora il rispetto delle garanzie difensive è stato pienamente assolto nella fattispecie processuale in esame, in cui tutti i motivi di censura proposti e dedotti con i vari ricorsi sono stati attentamente esaminati e vagliati, sia pure nella valutazione comune di taluni di essi. D’altronde, laddove, per ipotesi, o anche per tesi difensiva, vi fosse stata una omessa pronuncia, con il motivo d’appello e per l’effetto devolutivo il motivo verrebbe trattato compiutamente dal giudice dell’impugnazione; e in ogni caso il vizio di omessa pronuncia, laddove esistente, non è consequenziale alla scelta della riunione dei processi.

2. E’ del tutto infondato l’altro motivo di appello, pur esso esteso a tutti i ricorsi di primo grado, con cui l’appellante deduce l’illegittimità costituzionale della legge regionale, che sarebbe eccessivamente limitativa laddove ammette a sanatoria le sole opere abusive di ampliamento di edifici già esistenti ultimate entro il 31 marzo 2003 e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti alla data del 2 ottobre 2003, con esclusione delle opere edilizie abusive nuove non conformi alla stessa data alle stesse norme, così come l’asserita disparità di trattamento che si avrebbe da Regione a Regione.

Secondo il Giudice delle leggi (Corte costituzionale, 10 febbraio 2006, n. 49), che quindi si è già espresso sul punto proprio in termini, non è fondata la q.l.c., in riferimento agli art. 3, 81, 117 commi 2 lett. a), e) ed l) e 3 e 119 cost., dell'art. 21 comma 1 lett. d) l. reg. Umbria 3 novembre 2004 n. 21, il quale, escludendo dal condono edilizio straordinario i «nuovi edifici, salvo quanto previsto dall'art. 20 comma 1 lett. b)», della medesima legge regionale, ridurrebbe l'ambito delle fattispecie passibili di sanatoria, in contrasto con i principi fondamentali posti dall'art. 32 comma 25 d.l. n. 269 del 2003.

Per la Corte Costituzionale non sono quindi fondate, le q.l.c. dell’art. 20 comma 1 lett. a) e c), che limita il condono di opere difformi solo al caso di ampliamenti di edifici già esistenti, non ammettendoli per le nuove costruzioni; e dell’art. 21 comma 1, lett. c), d), e), h) l. reg. Umbria n. 21 del 3 novembre 2004.

La disciplina del condono straordinario da parte delle regioni è riconducibile alla materia “governo del territorio”, di competenza concorrente, sicché, da un lato, ben possono aversi discipline diverse da quanto previsto dall'art. 32 d.l. n. 269 del 2003, quale conv. dalla l. n. 326 del 2003, non potendosi certo ritenere incoerente rispetto al disegno costituzionale che siano adottate legislazioni diversificate da Regione a Regione, con tutto ciò che ne consegue per gli interessati e per le pronunce giurisdizionali che facciano applicazione di tale disciplina, e, dall'altro, si deve riconoscere in materia al legislatore regionale un ampio potere discrezionale nella possibilità di definire i confini entro cui modulare gli effetti sul piano amministrativo del condono edilizio straordinario, tanto più che i commi 25 e 26 dell'art. 32 d.l. n. 269 del 2003 sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui, rispettivamente, non prevedevano «che la l. reg. di cui al comma 26 possa determinare limiti volumetrici inferiori a quelli ivi indicati» e «che la l. reg. possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità per l'ammissibilità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso edilizio di cui all'allegato 1», potere che, nella specie, non risulta esercitato in modo irragionevole.

D’altra parte, occorre rilevare, al fine di concludere per la sicura legittimità dell’intervento legislativo regionale e sul suo ambito, come proprio la Corte costituzionale (con la precedente sentenza 28 giugno 2004, n. 196) avesse dichiarato l'incostituzionalità, per contrasto con gli art. 117 e 118 cost.:

.- dei commi 14, 25, 26, 32, 55, 57, 55, dell'art. 32 d.l. 30 settembre 2003 n. 269, nel testo originario e in quello risultante dalla l. conv. n. 326 del 2003, proprio nella parte in cui era escluso il legislatore regionale da ambiti materiali che invece ad esso spettano, sulla base delle disposizioni costituzionali e statutarie;

.- dell'intero art. 32 d.l. 30 settembre 2003 n. 269, nel testo originario e in quello risultante dalla l. conv. n. 326 del 2003, nella parte in cui non prevede che la l. reg. di cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge statale;

.- dell'allegato 1 d.l. n. 269 del 2003, nel testo originario e in quello risultante dalla l. conv., n. 326 del 2003, nella parte in cui determina la misura dell'anticipazione degli oneri concessori e le relative modalità di versamento;

- del comma 49 ter dell'art. 32 d.l. n. 269 del 2003, introdotto dalla l. conv. n. 326 del 2003.

In sostanza, secondo la Corte, sono affetti da illegittimità costituzionale parziale i commi 14, 25, 26, 32, 33, 37, 38, 49 ter e l'Allegato 1 dell'art. 32 d.l. 30 settembre 2003 n. 269, conv. dalla l. 24 novembre 2003 n. 326, in quanto gli stessi violano l'art. 117 comma 3 cost., poiché escludono il legislatore regionale, in materia rimessa alla legislazione concorrente, da ambiti materiali che invece a esso spettano, sulla base delle disposizioni costituzionali e statutarie.

3. In ordine alle censure svolte riguardanti il ricorso r.g. n. 23 del 2008 dinanzi al Tar, l’appellante deduce: a) omessa pronuncia sul dedotto difetto di motivazione per l’indicazione della violazione dell’art. 46 delle NTA al PRG all’epoca vigente, che impone una distanza dalle costruzioni dai confini di mt. 7,5 e in sostanza difetto di idonea motivazione; b) che le norme sulle distanze dai confini catastali di altra proprietà sono norme di relazione e fanno salvi i diritti dei terzi, sicché non poteva per ciò negarsi il condono.

I motivi sono infondati.

L’istanza di sanatoria riguardava la parte posteriore dell’edificio principale, descritta come “unità abitativa composta di un piano interrato ad uso fondo, un piano terra ad uso abitazione”.

Il diniego è stato motivato in quanto “l’intervento non costituisce ampliamento di un edificio esistente ma una nuova costruzione; in contrasto con l’art. 20 della l.r. 21 del 2004 (anche con la lettera b) del primo comma) l’opera non è conforme agli strumenti urbanistici vigenti alla data del 2 ottobre 2003; Distanza dai confini di altra proprietà inferiore al consentito”.

Come si desume dall’analisi del provvedimento impugnato, la motivazione è stata pienamente espletata nel contenuto del diniego; inoltre, è chiaro come la difformità andasse individuata rispetto alle norme urbanistiche vigenti alla data prevista per il condono. Non può considerarsi vizio di pronuncia (né di ultrapetizione o extrapetizione) la circostanza che, per completezza, il primo giudice avrebbe indicato in sentenza, con precisione, l’articolo della norma di piano che si intendeva violata (l’art. 46).

Si ritiene per esempio in materia che sia adeguatamente motivato il parere negativo alla sanabilità di un'opera edilizia abusivamente realizzata nel caso in cui l'Amministrazione abbia richiamato semplicemente norme di piano che precludano nell'area la realizzazione di nuove costruzioni estranee alla destinazione agricola.

Con riguardo alla completezza nel merito del motivo di diniego per violazione del limite di distanza dai confini, è evidente, come bene controdeduce il Comune appellato, che è logico riferirsi alla distanza dell’edificio nella sua interezza dai confini di proprietà di terzi, non potendosi certo aderire alla pretesa della parte di considerare, a tali fini, la frazione di unità abitativa a sé stante quasi a ritenerla edificio separato, contrariamente alla realtà.

E’ infondato anche il motivo con il quale si pretende che la regola della distanza dai confini sia norma di relazione e non di rilievo pubblicistico, tanto da non poter giusto costituire, nell’erronea ottica della appellante, giusto motivo di diniego.

Infatti, se è vero che la sanatoria edilizia regola i rapporti tra privato ed ente pubblico senza incidere sui diritti dei terzi pregiudicati dall'opera abusiva (i quali potranno comunque chiedere all'autorità giudiziaria la demolizione o il risarcimento del danno), è altrettanto vero che rilasciare il titolo edilizio per opere costituenti violazione certa di norme sulle distanze o sul diritto di veduta, e quindi ingiustamente lesive, significherebbe esperire un'azione amministrativa contrastante con i principi di correttezza e buona amministrazione ex art. 97 cost., nonché col principio di economia dei mezzi giuridici, in quanto il terzo leso sarebbe di certo legittimato ad opporsi all'opera assentita, chiedendo al g.o. la demolizione e rendendo così sostanzialmente inutile il titolo edilizio abilitante.

Né possono avere valutazione positiva i rilievi di parte appellante che, con riguardo ad una particella confinante, sostiene di averla poi acquistata e, quanto ad altra particella, sostiene che la violazione sarebbe di minima entità e quindi irrilevante.

Il primo motivo è infondato perché la violazione va valutata alla data del 2 ottobre 2003, mentre l’acquisto è avvenuto in data 21 settembre 2007; quanto al rilievo che l’abuso sarebbe irrilevante in quanto non di grandi dimensioni, al di là della irrilevanza giuridica del rilievo, è sufficiente osservare come in sostanza vi sia una ammissione completa della riscontrata difformità, sicché non è dato né all’amministrazione, né al giudice discostarsi dalla affermazione della violazione della norma urbanistica di riferimento con riguardo alla entità di misura dell’abuso.

4. In ordine ai motivi di appello proposti relativamente al ricorso di primo grado n. 24 del 2008 va osservato che: l’istanza era presentata come avente ad oggetto “unità abitativa composta di un piano interrato ad uso fondo, un piano terra e primo ad uso abitazione”; si tratta della parte dell’edificio frontale rispetto alla strada vicinale.

Il diniego è stato motivato perché trattasi di nuova costruzione, difforme dagli strumenti urbanistici vigenti al 2 ottobre 2003; in violazione della distanza dalla strada, inferiore al minimo consentito, e con altezza in gronda superiore al consentito.

Con i motivi di appello si sostiene che la violazione della strada non sussisterebbe, perché tale strada sarebbe inutilizzata e perché non sussiste la minaccia alla sicurezza del traffico; inoltre si fa illegittimamente riferimento, da parte della sentenza, al limite di 15 metri, mentre la nuova variante adottata ha abbassato il limite a dieci metri e dovrebbe aversi riferimento alle norme vigenti al momento dell’esame della domanda di condono.

I rilievi sono tutti infondati.

Infatti, quanto alla strada, la mancata utilizzazione di una strada pubblica, tuttora esistente giuridicamente sulla base della sua iscrizione nell’elenco delle strade vicinali di uso pubblico, non può costituire di per sé circostanza dirimente per escludere l’obbligo per il costruttore di rispettare il limite di distanza dal ciglio stradale, poiché, ai fini della condonabiltà dell’abuso non viene in rilievo il problema della minaccia alla sicurezza del traffico, ma soltanto il profilo della conformità urbanistica dell’opera alle norme vigenti.

D’altronde, le norme invocate dalla parte appellante non pretendono che la violazione sia accompagnata dalla minaccia di sicurezza al traffico; ma anzi, al contrario, richiedono che gli stessi interventi, devono comunque non essere posti in violazione delle norme, sulle strade, al che si aggiunge la specifica che in ogni caso “sempre che le opere stesse” non debbono costituire “minaccia alla sicurezza del traffico”; tale requisito è un quid pluris che deve sussistere ai fini del condono (l’assenza di minaccia…) e non già una ulteriore condizione al fine di poter ravvisare la violazione ai fini del diniego, come pretende l’appello (si legga in tal senso l’art. 32 l.47 del 1985, comma 1 lett. c) “.. ( non debbono essere)…in contrasto con le norme del decreto ministeriale 10 aprile 1968, n.1404, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13 aprile 1968, e con agli articoli 16, 17 e 18 della legge 13 giugno 1991, n.190, e successive modificazioni, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico…”.

E’ parimenti infondata la pretesa di doversi fare riferimento alle nuove più permissive norme soltanto adottate, perché si deve avere riguardo alle norme vigenti alla data del 2 ottobre 2003, come più volte già sottolineato, e ciò è sufficiente; inoltre, come noto, non è approvata e vigente sotto tutti gli effetti (e certo non ai considerati effetti della conformità o difformità ai fini delle distanze) la variante solo adottata e successivamente approvata.

E’ del tutto infondata anche la pretesa dell’appellante volta a far constare l’illegittimità del motivo di diniego relativo all’altezza dell’edificio, che andrebbe commisurata dal piano di campagna e non dalle fondamenta, che verrebbero ricoperte a seguito di interventi futuri da realizzare. E’ evidente che non può valutarsi la conformità se non con riguardo alla situazione esistente, non potendo valere né successivi interventi, né tantomeno promesse di interventi, inidonei come tali a concretare una conformità smentita dai fatti e anzi ammessa dalla stessa parte.

5. Sono infondati anche i motivi di appello relativi al ricorso di primo grado n. 27 del 2008.

La parte appellante deduce l’omissione di motivazione effettuata dalla sentenza, che avrebbe fatto cenno a detto ricorso solo al paragrafo 4.

In realtà la sentenza ben motiva (a pagina 7 quinto rigo) come si tratti di tre ricorsi (23, 24 e 27) aventi argomenti analoghi (simili, come visto, motivi di diniego e di censura).

Infatti, anche i motivi di appello, infondati, deducono (sul ricorso n. 27 del 2008) la condonabilità, perché la strada rispetto alla quale sarebbe violata la distanza è strada vicinale non più esistente e non costituisce minaccia alla sicurezza del traffico; il limite sarebbe comunque rispettato; deve aversi riguardo, si ripete dalla Z……, alla variante più favorevole, adottata con delibera del Consiglio Comunale n.69 del 3 giugno 2003 e approvata con delibera di C.C. n.62 del 27 aprile 2004, essendo consentita la sanatoria di opere dapprima vietate; in subordine viene riproposta la questione di illegittimità costituzionale della legge regionale umbra, come sopra già esposta.

I motivi sono tutti infondati per le ragioni che sono state esposte in precedenza, in occasione dell’esame di precedenti analoghe censure, analogamente respinte.

6. Anche con riguardo ai motivi di appello relativi al ricorso n. 25 del 2008 (riguardante il locale tecnico), si richiamano le ragioni già esposte della loro infondatezza sulla distanza dai confini, sulla distanza dalla strada, sulla esigenza o meno anche di minaccia per la sicurezza del traffico.

Sono infondati, in aggiunta, i motivi con cui si sostiene che la distanza andava calcolata in modo ortogonale e non radiale, anche in applicazione delle norme sopravvenute più favorevoli del nuovo regolamento edilizio .

Infatti, nella specie, come rilevato pure dal primo giudice, si tratta di una struttura edilizia vera e propria, avente la sua autonomia, di oltre quattro metri per tre e circa due metri e trenta di altezza, realizzata in laterizio di mattoni, tetto in latero, cemento ricoperto di coppi e pertanto soggetto alle norme sulle distanze tra fabbricati; inoltre il regolamento comunale vigente alla data del 2 ottobre prevedeva che si dovesse fare riferimento al metodo di misurazione radiale e non a quello ortogonale.

In tema di distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione, soltanto quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima (così da ultimo, Cassazione civile sez. II, 3 febbraio 2011 n. 2566).

Secondo tale giurisprudenza, in vero, ai fini del calcolo delle distanze legali, integra la nozione di volume tecnico, non computabile nella volumetria della costruzione, solo quell'opera edilizia priva di alcuna autonomia funzionale, anche potenziale, in quanto destinata a contenere impianti serventi di una costruzione principale per esigenze tecnico-funzionali della costruzione medesima: in sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere ubicati all'interno di questa, come quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore ecc., mentre va escluso che possa parlarsi di volumi tecnici in relazione a quelle parti del fabbricato che ne costituiscono parte integrante.

7. Con riguardo ai motivi di appello esposti, relativi al ricorso di primo grado r.g.n. 26 del 2008, avente ad oggetto il diniego di condono sulla tettoia-gazebo aperto, vale quanto sopra esposto per: a) distanze dalla strada; b) strada esistente anche se di fatto non del tutto utilizzata; c) minaccia della sicurezza al traffico; d) nuove norme della variante soltanto adottata e non ancora approvata al momento di riferimento della conformità o difformità e cioè al 2 ottobre 2003.

Inoltre, con riguardo alla limitata rilevanza dell’intervento, tanto che per esso dovrebbe considerarsi la distanza tra pareti finestrate e non dalla strada o da altro fabbricato, va osservato che, al contrario, si ritiene costituire a tal fine "costruzione" anche un manufatto che, seppure privo di pareti, realizzi una determinata volumetria, sicché - al fine di verificare l'osservanza o meno delle distanze legali - la misura deve esser effettuata assumendo come punto di riferimento la linea esterna della parete ideale posta a chiusura dello spazio esistente tra le strutture portanti più avanzate del manufatto stesso (nella specie, tettoia) (Cassazione civile sez. II, 14 marzo 2011, n. 5934).

Con riferimento alla nozione di "costruzione", rilevante ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall'articolo 873 del c.c. o da norme regolamentari integrative, si è stabilito che tale "concetto" comprende qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità e immobilizzazione rispetto al suolo (Cass. 18 febbraio 2011, n. 4008; Cass. 1 luglio 1996, n. 5956).

Nella specie, basti considerare che, in fatto, si tratta di struttura edilizia di dimensioni notevoli (quasi 90 metri quadrati e la circostanza non viene smentita, né contestata), realizzata in muratura, con pilastri che misurano 50 cm per 50, copertura in cemento, telaio in ferro e manto in coppi, con un lato interamente tamponato.

Il concetto di costruzione cui fanno riferimento gli art. 873 e 907 c.c. ai fini del rispetto della distanza minima comprende qualsiasi manufatto avente caratteristiche di consistenza e di stabilità e in tal senso non può essere negata tale caratteristica alla tettoia in parola.

8. Per le considerazioni sopra svolte, l’appello va respinto.

La condanna alle spese del presente grado di giudizio segue il principio della soccombenza; le spese sono liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), sezione quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, così provvede:

rigetta l’appello, confermando la impugnata sentenza;

condanna la parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidandole in complessivi euro settemila e cinquecento, di cui duemila per spese, anche tenendo conto che in primo grado sono stati riuniti cinque ricorsi aventi distinti oggetti, anche se in parte con questioni identiche.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 gennaio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Numerico, Presidente
Sergio De Felice, Consigliere, Estensore
Fabio Taormina, Consigliere
Raffaele Potenza, Consigliere
Fulvio Rocco, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 15/01/2013
panorama
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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Edilizia e luogo di culto/preghiera

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29/05/2013 201300522 Sentenza 1


N. 00522/2013 REG.PROV.COLL.
N. 01121/2012 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia
sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1121 del 2012, proposto da:
Associazione Dialogo e Convivenza, rappresentato e difeso dagli avv. Filippo Collia, Giuseppe Zonca, con domicilio eletto presso Filippo Collia in Brescia, p.za Vittoria, 11 (Fax=030/3755748);

contro
Comune di Cologne, rappresentato e difeso dagli avv. Fiorenzo Bertuzzi, Silvano Venturi, Gianpaolo Sina, con domicilio eletto presso Fiorenzo Bertuzzi in Brescia, via Diaz, 9;

per l’annullamento, previa sospensione,
del provvedimento 24 settembre 2012 prot. n°3329 e n°54/2012 del registro ordinanze, notificato il 1 ottobre 2012, con il quale il Responsabile dell’area tecnica del Comune di Cologne ha ingiunto all’Associazione Dialogo e Convivenza il divieto di effettuare attività di culto (preghiera del venerdì) presso il locale seminterrato del condominio Edera, sito in Cologne alla via Antonelli 38, censito al catasto al foglio 14 mappale 1 subalterni 99 e 100, a decorrere dalla data di notifica;
di ogni atto presupposto, conseguente e comunque connesso;
nonché per la condanna
dell’amministrazione intimata al risarcimento del danno;

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Cologne;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 maggio 2013 il dott. Francesco Gambato Spisani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO
L’Associazione Dialogo e Convivenza, odierna ricorrente, è una associazione culturale costituita fra cittadini marocchini di fede islamica, la quale è proprietaria dell’immobile meglio indicato in epigrafe, un seminterrato di circa 700 mq sito in Cologne, al n°38 della via Antonelli (v. in particolare la memoria finale dell’associazione 20 aprile 2013 p.1; si tratta di fatti non contestati in causa) in origine con destinazione d’uso ad uffici; per adibirlo a propria sede, ha quindi richiesto il rilascio del permesso di costruire necessario a variarne in tal senso la destinazione suddetta, e lo ha ottenuto all’esito di un contenzioso definito con la sentenza di questo Tribunale, sezione I, 22 settembre 2011 n°1320 (doc. 3 Comune, copia di essa).

In particolare, l’Associazione ha, in dichiarata ottemperanza a tale sentenza, ottenuto il rilascio di un primo permesso di costruire, 20 ottobre 2011 prot. n°15548, “condizionatamente all’esito dell’appello proposto avverso alla [testuale] sentenza del TAR di Brescia n°1320/2011 del 22 settembre 2011, con espresso divieto, ai sensi della sentenza del TAR di Brescia n°1320/2011 del 22 settembre 2011, di destinare i locali a luogo di culto ovvero a qualsivoglia attività cultuale, con espressa limitazione al numero massimo di accesso di n°162 persone come da ordinanza n°40 del 10 agosto 2008 n°12130” (doc. 3 ricorrente, copia provvedimento in questione, da cui la citazione); a fronte di ciò, ha fatto rilevare, con lettera 28 ottobre 2011, di ritenere illegittime tali prescrizioni (doc. 4 ricorrente, copia lettera) ed ha infine ottenuto il provvedimento di rettifica 22 novembre 2011 prot. n°17275, che il permesso di costruire rilascia senza alcuna delle condizioni citate (doc. 5 ricorrente, copia provvedimento).

Successivamente, nondimeno, l’Associazione, all’esito di un sopralluogo ivi disposto in data 6 aprile 2012 (doc. 6 ricorrente, copia avviso di avvio del procedimento, ove se ne fa menzione), ha ricevuto l’ordinanza di cui meglio in epigrafe, che testualmente le fa “divieto di effettuare attività di culto (preghiera del venerdì)” presso l’immobile in questione (doc. 1 ricorrente, copia ordinanza).

Avverso tale ordinanza, l’Associazione insorge quindi nella presente sede, con ricorso articolato in tre censure, riconducibili in ordine logico ai seguenti due motivi:

- con il primo di essi, corrispondente alle censure prima e terza alle pp. 4 e 7 dell’atto, deduce eccesso di potere per falso presupposto, in quanto presso l’immobile in questione non sarebbe avvenuta alcuna attività sanzionabile, dato che i membri dell’associazione si limitano, in modo compatibile con la destinazione urbanistica di esso, a svolgervi la preghiera caratteristica della loro religione, senza averlo per ciò trasformato in moschea, ovvero in luogo di pubblico culto;

- con il secondo motivo, deduce violazione dell’art.31 del T.U. 6 giugno 2001 n°380, nel senso che, dato e non concesso che l’immobile in parola sia effettivamente stato trasformato in luogo di culto, la sanzione per ciò prevista non si identificherebbe con il divieto di pregare di cui al provvedimento.

Nello stesso ricorso introduttivo, l’Associazione propone altresì domanda di risarcimento del danno non patrimoniale che il provvedimento in questione le avrebbe arrecato, in quanto emesso con “intenti vessatori… connotati da pregiudizio razziale e religioso” (p. 9 ricorso secondo rigo) e lesivo di un diritto costituzionalmente garantito.

Con memoria 20 aprile 2013, l’Associazione ha ribadito le proprie asserite ragioni.

Resiste il Comune, con memorie 27 ottobre 2012 e 30 aprile 2013, in cui chiede che il ricorso sia respinto nel merito, sostenendo che il locale per cui è causa sarebbe in realtà una moschea vera e propria, e come tale dovrebbe necessariamente essere assentita da uno specifico permesso di costruire, nella specie mancante.

La Sezione ha accolto la domanda cautelare con ordinanza 31 ottobre 2012 n°483, confermata in appello da C.d.S. sez. VI 14 gennaio 2013 n°76, e alla udienza del 22 maggio 2013 ha da ultimo trattenuto il ricorso in decisione.

DIRITTO
1. Il ricorso è fondato tanto nella domanda di annullamento quanto nella domanda risarcitoria, nei termini di cui appresso.

2. Il primo ed il secondo motivo di ricorso vanno trattati congiuntamente, in quanto connessi, e sono fondati, per le ragioni già esposte in sede di ordinanza cautelare. Il provvedimento impugnato, come risulta dal dispositivo di esso riportato testualmente in epigrafe (doc. 1 ricorrente, cit. terzultimo periodo), vieta puramente e semplicemente di svolgere nel locale ivi indicato la “attività di culto” specificata come “preghiera del venerdì”, senza far ciò dipendere da una particolare modalità con la quale essa venga eventualmente esplicata in rapporto alle caratteristiche urbanistiche edilizie dell’immobile in cui essa si svolge, pacificamente di proprietà della ricorrente.

3. Ciò posto, va ribadito il rilievo valorizzato per cui nel nostro ordinamento, ai sensi del noto art. 19 della Costituzione, nessun soggetto può ordinare ad altro, in sintesi estrema, di non pregare a casa propria. Identico precetto, va aggiunto per completezza, si desume dall’ordinamento europeo, cui ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. il nostro si conforma: in primo luogo, la libertà di religione e di culto è riconosciuta anche dall’art. 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esecutiva in Italia per la l. 4 agosto 1955 n°848; in secondo luogo, la libertà di religione è riconosciuta anche dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, o Carta di Nizza, 7 dicembre 2000, che come è noto ha ora il medesimo valore giuridico dei Trattati europei, ai sensi dell’art. 6 del Trattato di Lisbona 13 dicembre 2007.

4. In tal senso, la difesa del Comune intimato ha continuato a fondarsi su un presupposto diverso, che però all’evidenza non può ricavarsi a fronte di un dispositivo del provvedimento che dice altro. Il Comune deduce infatti che il locale per cui è causa, legittimamente adibito a sede dell’associazione ricorrente, sarebbe in fatto adibito ad altro uso, a sede dedicata di culto islamico ovvero a moschea, uso per il quale, a differenza che per la sede di una associazione, è richiesto il permesso di costruire ai sensi dell’art. 52 comma 3 ter della l.r. Lombardia 12/2005, nella specie mancante.

5. In tal senso, deve allora osservarsi che il Comune è senz’altro titolare dell’astratto potere di sanzionare l’uso di un locale difforme dalla destinazione, ma che nel caso di specie l’uso difforme non può essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera, del venerdì o di altra ricorrenza. Infatti, come risulta dalla giurisprudenza già richiamata e che qui si riproduce –in tal senso C.d.S., sez. IV, 28 gennaio 2011, n°683- e dalla prassi, che pure si torna a citare – in tal senso il parere al Ministero dell’Interno espresso il 27 gennaio 2011 dal Comitato per l’Islam italiano- per ravvisare la presenza di una moschea in senso rilevante per le norme edilizie e urbanistiche sono necessari due requisiti, l’uno intrinseco, dato dalla presenza di determinati arredi e paramenti sacri, l’altro estrinseco, dato dal dover accogliere “tutti coloro che vogliano pacificamente accostarsi alle pratiche cultuali o alle attività in essi svolte” e “consentire la pratica del culto a tutti i fedeli di religione islamica, uomini e donne, di qualsiasi scuola giuridica, derivazione sunnita o sciita, o nazionalità essi siano”(così il parere stesso).

6. Allo stesso modo, si ribadisce, una chiesa consacrata nei termini della religione cattolica, e anche di altri culti, può esistere anche all’interno di una proprietà privata -come nel caso delle cappelle gentilizie, di conventi o di istituti, dove è ben possibile dir regolarmente Messa- ma non assume rilievo urbanistico edilizio sin quando non permetta il libero accesso dei fedeli. Pertanto, l’uso incompatibile potrebbe verificarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera fosse non riservato ai membri dell’associazione, ma indiscriminato, perché è in quest’ultimo caso che si verifica l’aumento di carico urbanistico da valutare in sede di rilascio del permesso di costruire, fermo che ciò dovrebbe essere in concreto accertato dall’autorità, attraverso una corretta e completa istruttoria.

7. Va quindi accolta la domanda di annullamento del provvedimento 24 settembre 2012 prot. n°3329 per cui è causa, e rimane da scrutinare se vada accolta la contestuale domanda risarcitoria, che è espressamente qualificata (ricorso, p. 9 settimo rigo dal basso) come relativa a un danno non patrimoniale da liquidare secondo equità.

8. In proposito, va allora premesso che la domanda è in astratto ammissibile, in quanto nel nostro ordinamento, a partire dalle note sentenze Cass. civ. sez. III 31 luglio 2003 nn° 8827 e 8828 nonché Cass. S.U. 11 novembre 2008 n°26972, è riconosciuta la possibilità di risarcire ai sensi dell’art. 2059 c.c. il danno non patrimoniale che colpisca interessi della persona collegati a diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione, quale è la libertà di religione, né si dubita, per giurisprudenza costante che non richiede come tale citazioni, che esso possa spettare anche ad enti giuridici.

9. Nel caso di specie, poi, la domanda è fondata nel merito. Del danno risarcibile sussiste anzitutto l’elemento oggettivo, ovvero l’ingiusta lesione all’interesse di cui si è detto, da ritenersi in quanto operata con il provvedimento illegittimo qui annullato. Sussiste poi l’elemento soggettivo, poiché il rispetto della libertà di religione è patrimonio culturale di qualunque persona media, sì che non si può ipotizzare, in mancanza di circostanze particolari per vero nemmeno allegate, che la lesione qui operata sia frutto di ignoranza scusabile.

10. In proposito va valutato anche il complessivo atteggiamento dell’amministrazione, che come riportato in narrativa ha dapprima condizionato in modo illegittimo (doc. ti 3-5 ricorrente, cit.) il rilascio del permesso di costruire concernente la sede dell’associazione, poi ha adottato l’ordinanza qui impugnata a seguito di interventi diretti e puntuali sul caso concreto del Sindaco nei confronti del Dirigente competente (doc. ti ricorrente 9-11, copie carteggio in merito), interventi nella prassi quantomeno inusuali, oltre che non rispettosi del riparto delle competenze previsto dalla legge. Da tutto ciò, ragionevolmente, si desume un certo accanimento, appunto non compatibile con la buona fede ispirata da ignoranza scusabile.

11. Il danno cagionato va liquidato in termini equitativi, nella somma simbolica di mille euro di cui al dispositivo, maggiorata degli accessori di legge.

12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, così provvede:

a) accoglie la domanda di annullamento e per l’effetto annulla il provvedimento 24 settembre 2012 prot. n°3329 e n°54/2012 del registro ordinanze del Responsabile dell’area tecnica del Comune di Cologne;

b) accoglie la domanda risarcitoria e per l’effetto condanna il Comune di Cologne a corrispondere alla Associazione Dialogo e Convivenza a titolo di ristoro del danno non patrimoniale la somma di € 1.000 (mille/00), oltre interessi e rivalutazione dalla data della presente sentenza al saldo;

c) condanna il Comune di Cologne a rifondere alla Associazione Dialogo e Convivenza le spese del presente giudizio, spese che liquida in € 3.000 (tremila/00) oltre quanto già liquidato per la fase cautelare, oltre accessori di legge, se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Brescia nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Petruzzelli, Presidente
Mario Mosconi, Consigliere
Francesco Gambato Spisani, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 29/05/2013
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

Messaggio da panorama »

Per cultura professionale.

Anche se di diverso argomento ma potrebbe essere utile a qualcuno.
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demolizione della roulotte stabilmente istallata nel terreno di proprietà adibita ad abitazione

IL TAR DI GENOVA precisa:

Questione che, come più volte rilevato da questo Tribunale con orientamento univoco cui va data continuità, è stata espressamente risolta dal testo unico dell’edilizia laddove all’art. 3, comma 1, lett.e) n.5, ha qualificato come nuova costruzione “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, cose mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini o simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.

In definitiva ciò che rileva ai fini della qualificazione della roulotte come costruzione è la destinazione impressale (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. V, 27 aprile 2012 n. 2450): qualora come nel caso in esame – circostanza non affatto contestata dai ricorrenti con riguardo agli allacci abusivi alle utenze di luce, gas e acqua – funga da abitazione, occorre conseguire il permesso di costruire per essere installata e mantenuta nell’area di sedime.

Ricorso perso.

Per completezza potete leggere il tutto qui sotto.
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18/02/2014 201400281 Sentenza 1


N. 00281/2014 REG.PROV.COLL.
N. 00744/2012 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 744 del 2012, proposto da:
M. F., G. F., rappresentati e difesi dall'avv. D. G., con domicilio eletto presso D. G. in Genova, via Bartolomeo Bosco 31/4;

contro
Comune di Rapallo, in nome del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Corrado Mauceri, con domicilio eletto presso Corrado Mauceri in Genova, via XII Ottobre, 2/63;

per l'annullamento
ordinanza n. 20/2012 di rimozione roulotte utilizzata a fini abitativi.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Rapallo;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2014 il dott. Oreste Mario Caputo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

I ricorrenti hanno collettivamente impugnato l’ordinanza di demolizione della roulotte stabilmente istallata nel terreno di proprietà adibita ad abitazione, comminata dal dirigente del servizio del comune di Rapallo.

A fondamento del gravame, oltre la mancanza di motivazione, hanno dedotto che la roulotte non sarebbe affatto annoverabile fra le costruzioni la cui realizzazione e installazione richiede il permesso di costruire sicché, sotto il profilo normativo, sarebbe altresì violato l’art. 40 l.r. 16 del 2008.

Il Comune si è costituito instando per l’infondatezza del ricorso.

Avuto riguardo al (solo) danno conseguente all’esecuzione dell’atto impugnato è stata accolta la domanda incidentale di tutela cautelare (ord. n. 342 del 2012).

Alla pubblica udienza del 16.01.2014 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

È impugnata l’ordinanza di demolizione avente ad oggetto la roulotte stabilmente istallata dai ricorrenti nel terreno di proprietà adibita ad abitazione permanente.

Le censure di natura sostanziale ripropongono le medesime questioni già affrontate e risolte dalla giurisprudenza amministrativa in tema di consistenza edilizia delle roulotte, adibite ad abitazione, e della loro conseguente ascrizione alla costruzione, quale intervento edilizio assoggettato al permesso di costruire.

Questione che, come più volte rilevato da questo Tribunale con orientamento univoco cui va data continuità, è stata espressamente risolta dal testo unico dell’edilizia laddove all’art. 3, comma 1, lett.e) n.5, ha qualificato come nuova costruzione “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, cose mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini o simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.

La legge regionale ha fatto propria la disciplina statale prevedendo, all’art. 45, comma 1, l.r.16/2008, in caso di assenza del titolo legittimante l’intervento edilizio, la demolizione del manufatto.

In definitiva ciò che rileva ai fini della qualificazione della roulotte come costruzione è la destinazione impressale (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. V, 27 aprile 2012 n. 2450): qualora come nel caso in esame – circostanza non affatto contestata dai ricorrenti con riguardo agli allacci abusivi alle utenze di luce, gas e acqua – funga da abitazione, occorre conseguire il permesso di costruire per essere installata e mantenuta nell’area di sedime.

Che, è bene sottolineare, è gravata altresì da vincolo paesaggistico, con la conseguenza che alla violazione edilizia s’aggiunge quella paesaggistica, la cui tutela impone, ai sensi dell’art. 167 d.lgs. 42 del 2004, la sanzione ripristinatoria della demolizione.

Sicché anche le censure che deducono il difetto di motivazione, in considerazione della natura vincolata dell’atto impugnato, sono infondate.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.


P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese di lite in favore del comune di Rapallo che liquida in complessive 2000,00 (duemila) euro, oltre diritti ed accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Genova nella camera di consiglio del giorno 16 gennaio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Santo Balba, Presidente
Oreste Mario Caputo, Consigliere, Estensore
Angelo Vitali, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

Messaggio da panorama »

Questa segue la sentenza di cui prima, poiché è lo stesso ricorrente.
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demolizione dei fabbricati stabilmente istallata nel terreno di sua proprietà

IL TAR scrive:

1) - ordinanza di demolizione avente ad oggetto due fabbricati stabilmente istallati dal ricorrente nel terreno di proprietà rispettivamente adibiti ad abitazione permanente e deposito.

2) - In definitiva ciò che rileva ai fini della loro qualificazione come costruzione è la destinazione impressale (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. V, 27 aprile 2012 n. 2450): qualora come nel caso in esame – circostanza non affatto contestata dal ricorrente con riguardo agli allacci abusivi alle utenze di luce, gas e acqua ed alle opere accessorie di pavimentazione del terreno di pertinenza – fungano da abitazione e deposito occorre conseguire il permesso di costruire per essere installati e mantenuti nell’area di sedime.

Il resto leggetelo qui sotto.
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18/02/2014 201400280 Sentenza 1


N. 00280/2014 REG.PROV.COLL.
N. 00743/2012 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 743 del 2012, proposto da:
M. F., rappresentato e difeso dall'avv. D. G., con domicilio eletto presso D. G. in Genova, via Bartolomeo Bosco 31/4;

contro
Comune di Rapallo, in nome del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Corrado Mauceri, con domicilio eletto presso Corrado Mauceri in Genova, via XII Ottobre, 2/63;

per l'annullamento
ordinanza n. 21/2012 di rimozione opere edilizie abusive

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Rapallo;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 gennaio 2014 il dott. Oreste Mario Caputo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Il ricorrente ha impugnato l’ordinanza di demolizione dei fabbricati stabilmente istallata nel terreno di sua proprietà, comminata dal dirigente del servizio del comune di Rapallo.

A fondamento del gravame, oltre la mancanza di motivazione e al difetto di legittimazione passiva, ha dedotto che le strutture precarie non sarebbe affatto annoverabili fra le costruzioni la cui realizzazione e installazione richiede il permesso di costruire sicché, sotto il profilo normativo, sarebbe altresì violato l’art. 40 l.r. 16 del 2008.

Il Comune si è costituito instando per l’infondatezza del ricorso.

Avuto riguardo al (solo) danno conseguente all’esecuzione dell’atto impugnato è stata accolta la domanda incidentale di tutela cautelare (ord. n. 342 del 2012).

Alla pubblica udienza del 16.01.2014 la causa, su richiesta delle parti, è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

È impugnata l’ordinanza di demolizione avente ad oggetto due fabbricati stabilmente istallati dal ricorrente nel terreno di proprietà rispettivamente adibiti ad abitazione permanente e deposito.

Le censure di natura sostanziale ripropongono le medesime questioni già affrontate e risolte dalla giurisprudenza amministrativa in tema di consistenza edilizia dei prefabbricati, adibiti ad abitazione e servizi accessori; e della loro conseguente ascrizione alle costruzioni, quali interventi edilizi assoggettati al permesso di costruire.

Questione che, come più volte rilevato da questo Tribunale con orientamento univoco cui va data continuità, è stata espressamente risolta dal testo unico dell’edilizia laddove all’art. 3, comma 1, lett.e) n.5, ha qualificato come nuova costruzione “l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, cose mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini o simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.

La legge regionale ha fatto propria la disciplina statale prevedendo, all’art. 45, comma 1, l.r.16/2008, in caso di assenza del titolo legittimante l’intervento edilizio, la demolizione del manufatto.

In definitiva ciò che rileva ai fini della loro qualificazione come costruzione è la destinazione impressale (cfr., fra le tante, Cons. St., sez. V, 27 aprile 2012 n. 2450): qualora come nel caso in esame – circostanza non affatto contestata dal ricorrente con riguardo agli allacci abusivi alle utenze di luce, gas e acqua ed alle opere accessorie di pavimentazione del terreno di pertinenza – fungano da abitazione e deposito occorre conseguire il permesso di costruire per essere installati e mantenuti nell’area di sedime.

Che, va sottolineato, è gravata altresì da vincolo paesaggistico, con la conseguenza che alla violazione edilizia s’aggiunge quella paesaggistica, la cui tutela impone ex art, 167 d.lgs. 42 del 2004 la sanzione ripristinatoria della demolizione.

Da ultimo, la disponibilità delle aree oggetto d’intervento abusivo è stata accertata in sede di sopralluogo sulla scorta di oggettivi elementi di riscontro (cfr. verbale in atti), non specificamente confutati dal ricorrente.

Sicché anche le censure che deducono il difetto di motivazione e di (parziale) carenza di legittimazione passiva della sanzione impugnata, in considerazione della natura vincolata dell’ordinanza e degli accertamenti effettuati dal Comune, sono infondate.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del Comune di Rapallo che si liquidano in complessivi 2000,00 (duemila) euro, oltre diritti ed accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Genova nella camera di consiglio del giorno 16 gennaio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Santo Balba, Presidente
Oreste Mario Caputo, Consigliere, Estensore
Angelo Vitali, Consigliere


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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

Messaggio da panorama »

il Comune di Pomezia ha ordinato, ai sensi degli artt. 54 e 1161 del codice della navigazione, la rimozione di opere, realizzate su area demaniale marittima di mq 23,70.

Il Consiglio di Stato scrive:

1) - la giurisprudenza della Sezione ha costantemente affermato che: “L’esercizio del potere di autotutela demaniale previsto dagli art. 54 e 55, c. nav. non incontra limiti temporali in alcuna disposizione legislativa. Poiché, a norma degli art. 54 e 55 citati, è un atto dovuto l’ordine di rimettere le cose in pristino, se siano abusivamente occupate zone del demanio marittimo o vi siano eseguite innovazioni non autorizzate, le censure di eccesso di potere sono inammissibili, non essendo configurabili allorquando il provvedimento impugnato non è il risultato di valutazioni discrezionali” (Cons. St. VI, 27 dicembre 2010, n. 9408; 29 marzo 2011, n. 1886; 14 luglio 2011, n. 4299 e n. 4301; 21 luglio 2011, n. 4431).

2) - il collegio non può che richiamare l’orientamento della Sezione (14 luglio 2011, n. 4299 e n. 4301; 21 luglio 2011, n. 4431) secondo il quale “il potere sanzionatorio è, razionalmente, attribuito alla medesima autorità cui compete il rilascio delle concessioni demaniali”, alla luce del “comma 7 dell’art. 3 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, il quale stabilisce che <<ai fini dell’applicazione del presente decreto legislativo e ai sensi dell’articolo 1 e dell’articolo 3 della legge 15 marzo 1997, n. 59, tutte le funzioni e i compiti non espressamente conservati allo Stato con le disposizioni del presente decreto legislativo sono conferiti alle regioni e agli enti locali>>”.

Il resto leggetelo qui sotto.
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11/04/2014 201401774 Sentenza 6


N. 01774/2014 REG.PROV.COLL.
N. 07911/2012 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7911 del 2012, proposto da:
R. G., rappresentato e difeso dall’avv. F. F., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via della Mercede, 11;

contro
Comune di Pomezia, non costituito in giudizio;

nei confronti di
Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, Corpo delle Capitanerie di Porto e Agenzia del Demanio, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione I quater n. 1971/2012, resa tra le parti, concernente rimozione di opere abusive realizzate su area demaniale marittima.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio delle amministrazioni indicate in epigrafe;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza del giorno 19 novembre 2013 il consigliere Andrea Pannone e uditi per le parti l’avvocato F… e l’avvocato dello Stato Barbara Tidore;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. L’odierno appellante ha impugnato innanzi il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio l’ordinanza n. 16 prot. 101754 del 10 novembre 2010 con cui il Comune di Pomezia ha ordinato, ai sensi degli artt. 54 e 1161 del codice della navigazione, la rimozione di opere, realizzate su area demaniale marittima di mq 23,70.

2. Il ricorso di primo grado è stato respinto dalla sentenza qui impugnata.

3. L’appellante ripropone le censure formulate in primo grado deducendo i seguenti motivi così epigrafati:

a) Sull’errore della sentenza appellata di ritenere nel caso di specie non violato il principio di affidamento e congruamente motivato il provvedimento comunale (violazione falsa applicazione del principio di affidamento; violazione falsa applicazione del principio di proporzionalità e adeguatezza dell’azione amministrativa; violazione falsa applicazione del principio di imparzialità; difetto di motivazione; difetto di istruttoria; erroneità dei presupposti in fatto in diritto).

b) Sull’errore della sentenza appellata di ritenere congruamente motivato il provvedimento comunale (violazione falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990; difetto di motivazione; difetto di istruttoria; erroneità dei presupposti in fatto in diritto; travisamento dei fatti).

c) Sull’errore della sentenza appellata di non ritenere nel caso di specie violato l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento comunque non rilevante la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento (violazione falsa applicazione degli art. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990; violazione falsa applicazione delle norme principi che impongono all’amministrazione di comunicare l’avvio del procedimento; violazione falsa applicazione degli art. 9 e 10 della legge n. 241 del 1990; violazione falsa applicazione del diritto di partecipazione al procedimento; eccesso di potere sotto il profilo del difetto di istruttoria; violazione falsa applicazione principi di imparzialità; violazione falsa applicazione dello statuto comunale).

d) Sull’errore della sentenza appellata di non considerare che la demolizione delle opere reputate abusive balcone compromette la stabilità e la funzionalità dell’intero fabbricato (violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990; difetto di motivazione; difetto d’istruttoria; erroneità dei presupposti in fatto in diritto; travisamento dei fatti; irragionevolezza; illogicità);

e) Sull’errore della sentenza appellata di ritenere sussistente nel caso di specie la competenza del Comune ad adottare il provvedimento impugnato (difetto di competenza; violazione e falsa applicazione dell’art. 54 del codice della navigazione; violazione falsa applicazione dell’art. 59 del d.P.R. n. 616 del 1977; violazione e falsa applicazione degli art. 1 e 105 del d.lgs. n. 112 del 1998; violazione falsa applicazione dell’art. 77 della legge regionale 6 agosto 1999, n. 14; violazione falsa applicazione della circolare del Ministero dei trasporti n. 120 del 24 maggio 2001).

4. Con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione del principio dell’affidamento, essendo il provvedimento ripristinatorio intervenuto a distanza di decenni dalla realizzazione delle opere.

Anche tale censura non può trovare accoglimento in quanto la giurisprudenza della Sezione ha costantemente affermato che: “L’esercizio del potere di autotutela demaniale previsto dagli art. 54 e 55, c. nav. non incontra limiti temporali in alcuna disposizione legislativa. Poiché, a norma degli art. 54 e 55 citati, è un atto dovuto l’ordine di rimettere le cose in pristino, se siano abusivamente occupate zone del demanio marittimo o vi siano eseguite innovazioni non autorizzate, le censure di eccesso di potere sono inammissibili, non essendo configurabili allorquando il provvedimento impugnato non è il risultato di valutazioni discrezionali” (Cons. St. VI, 27 dicembre 2010, n. 9408; 29 marzo 2011, n. 1886; 14 luglio 2011, n. 4299 e n. 4301; 21 luglio 2011, n. 4431).

5. Con il secondo motivo il ricorrente censura il provvedimento impugnato per difetto di motivazione.

Anche tale censura è infondata perché, nel caso di specie, la motivazione è in re ipsa e consiste nella realizzazione di un manufatto, sia pure di modesta entità, su “demanio marittimo”. Né l’una, né l’altra circostanza sono state smentite nel corso del processo: entrambe sono sufficienti per giustificare l’adozione del provvedimento impugnato.

6. Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione delle norme che garantiscono la partecipazione procedimentale.

L’infondatezza della censura in esame discende dalla natura e dal contenuto del provvedimento impugnato (di demolizione di opere realizzate sul demanio marittimo). Se, come si è detto, il potere di autotutela demaniale non incontra limiti temporali, costituisce corollario di tale principio l’irrilevanza di un’eventuale partecipazione al procedimento, la cui conclusione non poteva, anche attraverso un giudizio ex post, essere diversa da quella cristallizzata nel provvedimento impugnato (art. 21 octies, della legge n. 241 del 1990).

7. Con il quarto motivo di appello il ricorrente si duole della mancata considerazione da parte dell’amministrazione comunale degli effetti pregiudizievoli, per la stabilità e funzionalità dell’intero fabbricato, che sarebbero determinati dall’esecuzione del provvedimento sanzionatorio.

La Sezione non può che rinviare al proprio precedente (decisione 27 dicembre 2010, n. 9408) nel quale si rilevava (proprio per le conseguenze nefaste che il provvedimento impugnato causava sul bene del ricorrente) che erano precluse al giudice della legittimità valutazioni in ordine alla sclassificazione del bene demaniale, fermo restando che l’amministrazione, prima di procedere alla materiale esecuzione del provvedimento impugnato, avrebbe dovuto valutare se conservare al bene la natura demaniale.

La censura, pertanto, non può trovare accoglimento in quanto, così come già evidenziato dal giudice di primo grado, la natura del bene (demanio marittimo), che l’amministrazione vuole ricondurre all’originaria destinazione, non consente valutazioni comparative in ordine agli interessi tutelati.

8. È infine infondata l’ultima censura con la quale si contesta la competenza del Comune ad adottare il provvedimento impugnato.

Anche in tal caso il collegio non può che richiamare l’orientamento della Sezione (14 luglio 2011, n. 4299 e n. 4301; 21 luglio 2011, n. 4431) secondo il quale “il potere sanzionatorio è, razionalmente, attribuito alla medesima autorità cui compete il rilascio delle concessioni demaniali”, alla luce del “comma 7 dell’art. 3 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, il quale stabilisce che <<ai fini dell’applicazione del presente decreto legislativo e ai sensi dell’articolo 1 e dell’articolo 3 della legge 15 marzo 1997, n. 59, tutte le funzioni e i compiti non espressamente conservati allo Stato con le disposizioni del presente decreto legislativo sono conferiti alle regioni e agli enti locali>>”.

9. In conclusione il ricorso va respinto con compensazione delle spese di giudizio per giusti motivi.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 novembre 2013 con l’intervento dei magistrati:
Luciano Barra Caracciolo, Presidente
Claudio Contessa, Consigliere
Andrea Pannone, Consigliere, Estensore
Vincenzo Lopilato, Consigliere
Giulio Veltri, Consigliere


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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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Anche se la Provincia non sapeva quale tratto di strada andava aggiustata (sicuramente presto lo saprà) e quello che ha fatto il Comune è Lodevole ed apprezzabile da parte di tutti i cittadini.

Cmq. leggete il tutto qui sotto per prendere esempio.
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17/04/2014 201400643 Sentenza 1


N. 00643/2014 REG.PROV.COLL.
N. 01024/2013 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1024 del 2013, proposto da:
Provincia di Massa Carrara, in persona del Commissario Straordinario pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Martina Rossi e Cristina Geraci, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.A.R. Toscana in Firenze, via Ricasoli n. 40;

contro
Comune di Zeri, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Francesco Antonio Caputo, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.A.R. Toscana in Firenze, via Ricasoli n. 40;

per l'annullamento
- dell'ordinanza sindacale n. 24/2013 del 25.6.2013, con la quale il Sindaco del Comune di Zeri ha ordinato all'amministrazione provinciale di Massa Carrara di provvedere all'esecuzione di lavori di somma urgenza per la prevenzione e l'eliminazione del grave pericolo denunciato, onde garantire la necessaria incolumità pubblica e la sicurezza;
- di ogni ulteriore atto connesso.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Zeri.
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 marzo 2014 il dott. Gianluca Bellucci e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

La Provincia di Massa Carrara è proprietaria delle strade provinciali n. 36, 37, 65 e 66.

Il Sindaco del Comune di Zeri, con ordinanza n. 24 del 25.6.2013, rilevate le cattive condizioni di manutenzione delle predette strade, danneggiate dagli eventi alluvionali, e riscontrata la pericolosità, per la circolazione, derivante da alcuni cedimenti della sede viaria, ha ordinato alla Provincia di Massa Carrara, quale ente proprietario, di eseguire entro 10 giorni i lavori d’urgenza necessari a prevenire ed eliminare il pericolo evidenziato.

Avverso tale provvedimento la ricorrente è insorta deducendo:

1) violazione e/o falsa applicazione dell’art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267/2000; insussistenza dei requisiti di cui alla predetta norma; difetto di motivazione, sproporzionalità e irragionevolezza manifeste;

2) violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto dei commi 1 e 4 dell’art. 54 del d.lgs. n. 267/2000, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 115/2011; violazione dei principi di cui al D.M. 5.8.2008.

Si è costituito in giudizio il Comune di Zeri.

Con ordinanza n. 418 del 31.7.2013 è stata respinta l’istanza cautelare.

All’udienza del 5 marzo 2014 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

Con la prima censura la ricorrente, premesso che le ordinanze contingibili e urgenti devono essere adeguatamente motivate e assumono, come necessario presupposto, la comprovata sussistenza di un estremo pregiudizio al quale occorre porre rimedio, deduce che l’impugnato provvedimento non richiama specifiche situazioni eccezionali e imprevedibili e si presenta come generico, indeterminato e carente di motivazione, facendo riferimento a quattro strade provinciali senza identificare i tratti viari interessati da cedimenti o necessitanti di manutenzione.

La doglianza è fondata, nei senso appresso indicati.

Il potere del Sindaco, quale ufficiale di governo, di adottare ordinanze contingibili e urgenti può essere esercitato al fine di prevenire o eliminare gravi pericoli che minacciano la pubblica incolumità, e solo per far fronte a situazioni eccezionali non altrimenti risolvibili.

Il potere di ordinanza presuppone situazioni, non tipizzate dalla legge, di pericolo effettivo, la cui sussistenza deve essere suffragata da adeguata istruttoria ed esauriente motivazione, dalla quale devono risultare gli elementi, di fatto e di diritto, giustificanti la deviazione dal principio di tipicità degli atti amministrativi (Cons. Stato, V, 25.5.2012, n. 3077; TAR Abruzzo, Pescara, I, 2.10.2012, n. 396; TAR Calabria, Catanzaro, I, 15.11.2011, n. 1376).

La motivazione delle ordinanze in questione è altresì finalizzata a porre in condizione il destinatario di comprendere, oltre all’iter logico posto alla base del provvedimento, il tipo di prestazione che gli viene imposta.

Invero, la specifica e chiara indicazione della fonte del pericolo e dell’oggetto su cui occorre intervenire si rende necessaria anche al fine di consentire al soggetto compulsato di provvedere con l’immediatezza richiesta da tale tipologia di provvedimento.

Orbene, la contestata ordinanza non identifica i tratti stradali interessati dal pessimo stato di manutenzione o da cedimenti, richiama genericamente la “comunicazione verbale dell’Ufficio tecnico comunale”, senza specificarne i contenuti, richiama missive del Ministero dei Trasporti e dell’Unione dei Comuni della Lunigiana nonché segnalazioni dei cittadini senza dare contezza delle specifiche condizioni dei luoghi alle quali esse si riferiscono.

Il Sindaco di Zeri, con il provvedimento impugnato, adduce a presupposto le pessime condizioni di quattro strade provinciali che collegano Pontremoli con Zeri, senza precisare quali siano le parti che sono fonte di pericolo e senza spiegare con chiarezza i contenuti e gli specifici esiti dell’istruttoria condotta ai fini dell’accertamento dello stato dei luoghi e delle effettive condizioni di assoluta emergenza e pericolo.
Il gravato provvedimento risulta quindi viziato da carenza di istruttoria e di motivazione.

In conclusione, il ricorso deve essere accolto, restando assorbite le censure non esaminate.

Sussistono, comunque, giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio, inclusi gli onorari difensivi, attesa la particolarità della vicenda dedotta.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla l’impugnata ordinanza. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 5 marzo 2014 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Buonvino, Presidente
Bernardo Massari, Consigliere
Gianluca Bellucci, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 17/04/2014
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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diniego di sanatoria deciso dal comune e relativo ad un manufatto in lamiera nel quale viene esercitata l’attività artigianale di lavorazione marmi, in area di rispetto cimiteriale.

IL TAR nel rigettare il ricorso scrive:

1) - Venendo poi agli altri motivi di ricorso che ruotano attorno alla contestata inedificabilità assoluta della fascia di rispetto cimiteriale, qualificazione che invece trova espressa indicazione nella legge, la disciplina di tutela è confermata dalla giurisprudenza maggioritaria, cui questo Collegio ritiene di conformarsi.

2) - Il Collegio come detto, aderisce alla giurisprudenza più recente del CdS (IV 12\5\2014 n.2405) che ha affermato “Il vincolo cimiteriale, espresso dall'art. 338, r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, come modificato dapprima dall'art. 4, l . 30 marzo 2001, n. 130 e quindi dall'art. 28 comma 1 lett. a), l. 1 agosto 2002, n. 166, ha natura assoluta e s'impone, in quanto limite legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienico-sanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale”.
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27/08/2014 201401308 Sentenza 2


N. 01308/2014 REG.PROV.COLL.
N. 01494/1996 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1494 del 1996, proposto da:
OMISSIS e OMISSIS , rappresentati e difesi dall'avv. Roberto Damonte, con domicilio eletto presso Roberto Damonte in Genova, V. J. Ruffini 7 anzi V. Corsica 10;

contro
Comune di Genova, rappresentato e difeso dall'avv. Caterina Chiesa, con domicilio eletto presso Caterina Chiesa in Genova, via Garibaldi 9;

per l'annullamento
provvedimento di diniego di concessione in sanatoria prot. N.2089 del 19\6\1996.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Genova;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 giugno 2014 il dott. Roberto Pupilella e uditi per le parti i difensori Avv.Damonte-Avv.Chiesa;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la ricorrente ha impugnato il diniego di sanatoria deciso dal comune in data 19\6\1996 e relativo ad un manufatto in lamiera nel quale viene esercitata l’attività artigianale di lavorazione marmi, in area di rispetto cimiteriale.

Il nucleo della controversia ruota infatti attorno alla possibilità di considerare l’area in questione come non soggetta ad un vincolo assoluto d’inedificabilità.

Parte ricorrente è al corrente della insistenza del manufatto su area sottoposta al vincolo cimiteriale ma, confortata da alcune pronunce, che hanno lasciato uno spazio interpretativo al diniego assoluto di edificazione, assume l’illegittimità del provvedimento di diniego, sul presupposto che l’amministrazione comunale avrebbe dovuto riconoscere, nella fattispecie, la possibilità di mantenimento del manufatto destinato ad uso artigianale, in un contesto di complessiva aggressione all’area di espansione del cimitero che ne avrebbe ormai compromesso il futuro allargamento, anche in considerazione della particolare orografia del terreno.

Inoltre, (primo motivo) il provvedimento sarebbe stato assunto senza la necessaria delega sindacale e sarebbe pertanto, anche per questa ragione, illegittimo.

Si costituiva in giudizio il comune di Genova che, con la memoria conclusiva, replicava su tutti i motivi di ricorso.

Acquisita la replica della ricorrente, la causa veniva trattenuta in decisione all’udienza del 12\6\2014.

DIRITTO

In via preliminare il Collegio deve darsi carico della preoccupazione della ricorrente circa l’inammissibilità del ricorso, per l’esistenza di ben due pronunce successive al 1996 che hanno, la prima, ritenuto inammissibile la nuova richiesta di sanatoria della costruzione in discussione e la seconda, respinto un accertamento di conformità ex art.13 l.n.47\85.

In verità il comune ha sì depositato la documentazione complessiva della vicenda amministrativa di cui è causa, ma non ha insistito, nella sua difesa conclusionale, sull’eccezione d’inammissibilità, ma sulla infondatezza nel merito del ricorso.

Il Collegio conviene con la ricorrente che residua tutt’oggi l’interesse alla definizione del diniego del 1996, poiché in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato la richiesta di riesame è stata dichiarata inammissibile perché meramente confermativa del diniego di condono oggi scrutinato, mentre il successivo procedimento ex art. 13 l.n.47\85, non si è ancora definito, per la pendenza di una domanda di revocazione introdotta dalla sig.a OMISSIS, con la conseguenza della necessità di una pronuncia nel merito sul diniego di condono espresso dal comune nel 1996.

Ciò premesso il ricorso non è fondato.

Quanto al primo motivo di ricorso, nel quale ci si duole dell’assenza di una espressa delega da parte del Sindaco, la giurisprudenza in materia, ha affermato che “Alla luce del mutato quadro normativo in ordine alle competenze del Sindaco e della dirigenza degli Enti locali (già per effetto della l. 8 giugno 1990 n. 142 e del d.lg. n. 267 del 2000 e successive modifiche) deve ritenersi implicitamente abrogata ogni previsione della l. n. 47 del 1985 relativa alla competenza del Sindaco in materia edilizia, dal momento che tutti i provvedimenti di gestione amministrativa in materia edilizia e urbanistica, compreso quindi il rigetto di una richiesta di concessione edilizia in sanatoria o di condono, rientrano ai sensi delle sopravvenute disposizioni, nella sfera di competenza del dirigente” (Tar Lazio II 8\2\2012 n.1236).

Venendo poi agli altri motivi di ricorso che ruotano attorno alla contestata inedificabilità assoluta della fascia di rispetto cimiteriale, qualificazione che invece trova espressa indicazione nella legge, la disciplina di tutela è confermata dalla giurisprudenza maggioritaria, cui questo Collegio ritiene di conformarsi.

Ha infatti affermato sulla questione il Tar Palermo III 18\1\2012 n.77 che “La salvaguardia dell'area di rispetto cimiteriale di 200 metri prevista dall'art. 338, r.d. 27 luglio 1934 n. 1265, consiste in un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente la collocazione di edifici o comunque di opere ad esso incompatibili, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che s'intendono tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione ed alla sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale”.

Va dunque respinta la lettura restrittiva che parte ricorrente dà della disciplina in questione, volendo introdurre una distinzione tra i manufatti non destinati alla residenza, compatibili, e le altre opere, incompatibili con il vincolo, che la legge non contempla.

La disciplina delle aree “d’inedificabilità assoluta”, deve necessariamente essere valutata con riferimento alla volontà del legislatore di evitare di compromettere la futura fascia di espansione del cimitero e quindi nessuna importanza può avere la funzione del manufatto o la sua destinazione, dovendosi piuttosto considerare la sua amovibilità o provvisorietà.

Nella specie l’immobile contestato risulta esistente da quasi quarant’anni, secondo gli accertamenti compiuti dall’amministrazione, in esito all’istruttoria della domanda di condono, negandosi così in radice la temporaneità o precarietà dell’attività svolta.

Il Collegio come detto, aderisce alla giurisprudenza più recente del CdS (IV 12\5\2014 n.2405) che ha affermato “Il vincolo cimiteriale, espresso dall'art. 338, r.d. 27 luglio 1934, n. 1265, come modificato dapprima dall'art. 4, l . 30 marzo 2001, n. 130 e quindi dall'art. 28 comma 1 lett. a), l. 1 agosto 2002, n. 166, ha natura assoluta e s'impone, in quanto limite legale, anche alle eventuali diverse e contrastanti previsioni degli strumenti urbanistici, in relazione alle sue finalità di tutela di preminenti esigenze igienico-sanitarie, salvaguardia della sacralità dei luoghi di sepoltura, conservazione di adeguata area di espansione della cinta cimiteriale”.

Se così è nessun pregio possono avere gli ulteriori motivi di ricorso, che vorrebbero sindacare il difetto di motivazione e di istruttoria del comune per aver “giustificato” il diniego con il solo riferimento alla lettera della legge, senza alcuna valutazione circa la situazione attuale dei luoghi e l’affermata compatibilità del manufatto.

Come sopra ricordato, il divieto assoluto di edificazione imponeva al comune il diniego del condono, con la semplice verifica della insistenza del manufatto artigianale all’interno dell’area di rispetto del cimitero di Rivarolo.

Quanto poi alle valutazioni circa l’impossibilità di ampliamento del cimitero, invero non dimostrata, questa affermazione riguarda un giudizio futuro e prognostico della situazione dell’area al momento della necessità del suo ampliamento, che esula dalla presente controversia.

Inoltre la scelta operata dal comune nella fattispecie, negando il condono, sembra andare nella direzione opposta.

Il ricorso va conclusivamente rigettato.

Sussistono giustificate ragioni per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Seconda)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Genova nella camera di consiglio del giorno 12 giugno 2014 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Caruso, Presidente
Roberto Pupilella, Consigliere, Estensore
Paolo Peruggia, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 27/08/2014
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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Condoni edilizi, Aduc: tutti hanno responsabilità


Si scrive condono edilizio, si legge la fiera dell’ipocrisia. Non ha dubbi l’Aduc che ribadisce senza mezzi termini il suo pensiero sui condono edilizi.

Si tratta – scrive in una nota stampa – della negazione dello Stato di diritto, premiando i furbi a danno degli onesti, ma di quest’ aspetto sembra che nessuno se ne preoccupi: oggi il pensiero e’ tutto focalizzato sull’attribuzione di responsabilita’ nel classico gioco dello scarica barile.

Quanto alla sollevazione degli amministratori locali, l’Aduc ricorda che “i Sindaci sono responsabili della vigilanza, della requisizione o dell’abbattimento degli immobili abusivi.

Solo nel 2013 sono stati costruiti 26mila immobili illegali, tra ampliamenti e nuove costruzioni (Cresme), in testa Napoli e Salerno.

Dov’erano e cosa facevano i Sindaci?

Si dovrebbero intasare gli Uffici Giudiziari con denunce per omissioni d’atti di ufficio per migliaia di Sindaci?

Il fatto e’ che mancando lo Stato di diritto si ricorre ai condoni.

Che qualcuno si stracci le vesti fa parte della recita”.
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Infatti quando succedono le catastrofe o alluvioni (con morti e danni) dovrebbero indagare nelle responsabilità dei Sindaci e dei Dirigenti del settore tecnico , poiché l'abusivismo edilizio da combattuto con le demolizioni di ogni genere e non che si devono concedere le sanatorie per le opere abusive, specie se si tratta da vicino a vicino o in zone di fiumi/torrenti.
Cmq. anche con le sanatorie edilizie sia i Comuni che lo Stato incamerano dei soldi attraverso le oblazioni e la regolarizzazione della pratica.
panorama
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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Abuso edilizio: quando si prescrive?
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Una costruzione abusiva, ossia costruita senza titolo edilizio (permesso a costruire) dà luogo contemporaneamente tanto ad un reato (abuso edilizio) quanto ad un illecito amministrativo. Il reato è soggetto a prescrizione nei termini che a breve diremo, mentre invece l’illecito amministrativo non si prescrive mai. Ne consegue che il Comune potrebbe ordinare la demolizione del manufatto abusivo (si tratta, infatti della sanzione a carattere amministrativo), mentre diversa risposta potrebbe essere data da un punto di vista penalistico, essendo probabile, dopo il decorso di quattro o cinque anni, che il reato edilizio sia prescritto.


PRESCRIZIONE DEL REATO
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Si tratta di una contravvenzione punita con arresto o ammenda [nota 1]. Il reato si prescrive:

– in 4 anni dal compimento dell’illecito se, da tale momento, non ci sono stati atti interruttivi della prescrizione (cosiddetta prescrizione breve);

– in 5 anni dal compimento dell’illecito (cosiddetta prescrizione ordinaria) se c’è stato un atto interruttivo come, ad esempio, il decreto di citazione a giudizio [nota 2]). Art. 161 cp. Elenco tassativo


Da quando decorrono i termini
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Di solito nel caso di abuso edilizio si ha sempre un accertamento e sequestro. In tal caso è da tale momento che iniziano a decorrere i suddetti termini.

Se invece viene fatto un controllo senza tuttavia apposizione di sigilli, il reato si considera permanente, per cui perdura fino alla sentenza di primo grado. In tal caso, dunque, la prescrizione è di 5 anni dalla sentenza di primo grado.

Se nessuno dice nulla?
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Il momento in cui si consuma di tale reato ha inizio con l’avvio dei lavori e perdura per tutto il tempo di realizzazione, sino all’effettiva cessazione dell’attività edificatoria abusiva.

Inoltre, secondo la Cassazione, la cessazione di tale attività abusiva si avrà con l’ultimazione dei lavori per completamento dell’opera. È da tale momento che decorrono i termini se non interviene l’autorità.

Mettiamo che Tizio compia oggi un abuso edilizio e nessuno se ne accorge. Tra 50 anni, il vicino invidioso fa una segnalazione alle autorità dell’opera abusiva in questione. In tal caso inizia il procedimento penale, e se Tizio riesce a dimostrare che il manufatto è stato costruito 50 anni fa, per lui scatterà la prescrizione.

ILLECITO AMMINISTRATIVO
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Come detto, l’abuso edilizio è parallelamente non solo un reato, ma anche un illecito amministrativo (che può portare anche alla demolizione dell’opera, ma non certo alla sanzione penale). Con riferimento ad esso, invece, la prescrizione non scatta mai.

Per giurisprudenza costante l’esercizio dei poteri amministrativi repressivi in materia di abusi edilizi non incontra alcun termine di decadenza o di prescrizione [nota 3].

Ne discende che la irrogazione della sanzione amministrativa della demolizione di opere abusive non incontra limiti di prescrizione e, quindi, una volta che venga accertata l’esistenza dell’opera abusiva, è legittima l’adozione del provvedimento di demolizione [nota 4].

In tali evenienze si esige, però, che l’amministrazione comunale dia conto puntualmente delle ragioni di pubblico interesse che depongono per la demolizione del fabbricato, diverse da quelle finalizzate al mero ripristino della legalità, tenendo peraltro in debita considerazione gli interessi privati maturati nel frattempo. Il decorso del tempo, in altri termini, oltre a produrre gli effetti che l’ordinamento riconosce e consacra dando vita a istituti ampiamente disciplinati in ogni settore del diritto, ivi compreso l’ordinamento amministrativo, determina l’esigenza di motivare in modo più forte i provvedimenti di natura repressiva [nota 5].

Natura del reato
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Si tratta di una contravvenzionale a forma libera, in quanto può essere realizzata attraverso qualunque condotta diretta alla realizzazione di opere edili.

Possono essere chiamati a rispondere del reato il titolare del permesso di costruire, il committente e il costruttore. Oltre ad essi possono essere considerati responsabili anche coloro che, pur non rivestendo nessuna di tali qualifiche, abbiano contribuito con la loro condotta alla consumazione del reato e, pertanto, alla realizzazione dell’opera edilizia abusiva [nota 6]: ad esempio, l’esecutore materiale dei lavori, anche se muratore od operaio, o il proprietario o il comproprietario, non formalmente committente delle opere abusive, avendo lo stesso un potere di veto sull’esecuzione di opere non assentite sull’area in comunione.
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[nota 1] Art. 44 Dpr 380/01.

[nota 2] Art. 160 cod. pen: altri atti interruttivi della prescrizione sono la sentenza di condanna, il decreto di condanna, l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e quella di convalida del fermo o dell’arresto, l’interrogatorio reso davanti al pubblico ministero o al giudice, l’invito a presentarsi al pubblico ministero per rendere l’interrogatorio, il provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per la decisione sulla richiesta di archiviazione, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione della udienza preliminare, l’ordinanza che dispone il giudizio abbreviato, il decreto di fissazione della udienza per la decisione sulla richiesta di applicazione della pena, la presentazione o la citazione per il giudizio direttissimo, il decreto che dispone il giudizio immediato, il decreto che dispone il giudizio e il decreto di citazione a giudizio.

[nota 3] Cons. St. sent. n. 2529/2004 e n. 4607/2009.

[nota 4] Tar Emilia Romagna Bologna sent. n. 116/2003.

[nota 5] Tar Campania, Napoli, sent. n. 532/2009.

[nota 6] Cass. sent. n. 11093/2010.
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Re: Rigetto domanda condono edilizio su zona demaniale mar

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ecco cosa s'intende per:


(SCIA) certificata d’inizio attività, di cui all’art. 19 della legge n. 241 del 1990
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