Ricorso Legge Pinto.

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mimmo63
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Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da mimmo63 »

Oggi, Un carissimo collega attualmente in servizio, mi informava poiché compartecipanti, che gli è giunta una missiva da parte di un noto Studio Legale di Firenze dove gli comunicava , facendo riferimento al ricorso sulla Legge Pinto, portato avanti 6-7 anni fa, che lo stesso, era stato vinto presso la corte D’Appello di Perugia.
La somma riportata in essa si aggirerebbe circa sui 6800,00 euro per ricorrente oltre naturalmente agli interessi dovuti.
...Naturalmente è sottinteso che la notizia è indirizzata per coloro che all'epoca hanno aderito al ricorso.

“La Legge Pinto nasce come ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo “.


maurizio1962
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da maurizio1962 »

Questa é una buona notizia. L'anno scorso avevo chiesto lumi allo studio SALMASO di Conselve (PD) che dovrebbe rappresentarmi e mi veniva riferito che aspettavano il deposito della Sentenza alla Corte d'Appello di Perugia e “non appena sarà depositata la sentenza ne faremo relativa comunicazione ai ricorrenti e ci attiveremo per la relativa esecuzione”. Se riesci a comunicare qualche riferimento te ne sarei grato così torno a ricontattare lo studio. Intanto grazie e speriamo bene.
mimmo63
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da mimmo63 »

Ciao Maurizio,
Come ho già detto, sono stato informato da un collega con il quale a suo tempo abbiamo aderito insieme alla proposta dello studio legale Frisani di Firenze.
ieri, a lui è giunta comunicazione scritta dove gli viene comunicato che il ricorso è stato vinto citando anche la somma spettante.
Io ad oggi, personalmente non ho ricevuto nulla. Non appena riceverò qualche comunicazione scritta, la pubblicherò.
Mi riferiva inoltre che nella missiva si faceva riferimento a una legge di stato del 2009, dove in parole povere, bisogna attendere un po’ per incassare la somma.

Saluti mimmo63
salvato
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da salvato »

Potrei sapere la motivazione del ricorso, in quanto anche io attendo diverse liquidazioni da Perugia ? Grazie
mimmo63
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da mimmo63 »

Allora, ..Come avevo annunciato nel precedente messaggio, in data Odierna ho ricevuto anch'io la missiva dello studio Legale dove mi si informa, che il ricorso e stato vinto contro il Ministero dell’Economi e delle Finanze e dove lo stesso, è stato condannato a pagare la somma di euro 6688.00 oltre gli interessi legali dalla domanda di equa riparazione sino al saldo, per ciascun ricorrente.
Lo studio, precisa inoltre di non essere in grado di stabilire la tempistica del pagamento visto le novità legislative introdotte con la Legge 14/2009 la quale ha reso la fase esecutiva oltremodo complicata.

Il ricorso si è basato ed è stato vinto, sul fatto che il Tar del Lazio, dal deposito di fissazione dell’udienza alla pronuncia della sentenza, abbia fatto trascorrere 12 anni e mesi 11.

Un caloroso Augurio a tutti per una Santa Pasqua.
Mimmo63
vincent62

Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da vincent62 »

Salve,sono un collega della P.di S. in pensione,leggevo con attenzione la vostra discussione e non ho potuto fare a meno di intervenire visto che,anche io (e altri 4 colleghi)mi trovo nella stessa situazione.A metà 2006,presentammo un ricorso c/o la Corte D'Appello di Roma(per competenza territoriale),per lungaggine processuale(8anni L.Pinto),il quale fu accolto appellato (dalla procura) e rigettato con sentenza depositata verso la fine 2007(Non so precisare bene le date in quanto tutto il materiale cartaceo si trova presso lo studio di un avvocato romano)che stabiliva riconoscere ai ricorrenti la cifra di € 6000 procapite.Ho fatto questa premessa,per dire che a tutt'oggi non abbiamo ricevuto niente di quanto stabilito nel titolo dell'Autorità Giudiziaria,poichè ad esso,hanno avuto seguito n° 2 precetti con messa in mora all'ente debitore,ma a quanto pare continua a non avere motivi di preoccupazione anche di fronte a titoli esecutivi che la condannano ad onorare il pagamento spettante.Nel ringraziarvi e salutarvi,volevo chiedervi se siete a conoscenza di nuove norme di procedura al fine di recuperare queste somme(indebitamente trattenute),di peterle postare(se volete anche privatamente).Ciao Vincenzo
spike91
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da spike91 »

Sono anch'io un ricorrente con lo studio Frisani, l'udienza doveva tenersi a febbraio e su mia richiesta dell'esito lo studio mi rispondeva con la seguente e-mail ''LE COMUNICO CHE IL SUO RICORSO E’ STATO RIASSUNTO DALLA CORTE DI APPELLO DI ROMA A QUELLA DI PERUGIA IN DATA 27.03.2012. ERA STATA FISSATA UDIENZA PER IL 04.02.2013 MA E’ STATA RINVIATA AL 15.04.2013.
CORDIALI SALUTI LA SEGRETERIA STUDIO FRISANI''.
A questo punto vorrei chiedere ai colleghi che hanno ricevuto la missiva che il loro ricorso (ex pianto h24) era stato vinto alla Corte di Perugia se gli veniva specificato in che data era avvenuta l'udienza.
Buona Pasqua a tutti
spike91
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da spike91 »

Un paio di giorni fa ho sentito un collega ricoorente anche lui presso lo Studio Frisani di Firenze in merito alla Legge Pinto per il ricorso dei Piantoni H24, lo stesso mi riferiva che aveva sentito lo studio poco prima e la segretaria gli aveva riferito che il ricorso alla Corte di Appello di Perugia (trasferito li da Roma) era stato vinto e che era stata fissata la somma di Euro 3000 circa ai ricorrenti, ma bisognava ulteriormente delegare lo studio ad ulteriore pratica (a costo zero) per mettere in mora il Ministero e velocizzare la pratica. Questa mattina contattavo lo studio e la segretaria mi confermava quanto precedentemente detto, riferendomi che il rimborso spettava solamente a quei circa 400 ricorrenti che avevano presentato tramite loro l'istanza e di inviargli un paio di deleghe per proseguire.
Vi comunico quanto sopra in quanto loro hanno ''difficoltà'' a contattare tutti i ricorrenti.
Ciao a tutti Spike91
panorama
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da panorama »

SENTENZA N. 36
ANNO 2016


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, promossi dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con ordinanze del 14 ottobre 2013, del 27 febbraio, del 13 maggio (due ordinanze), del 17 aprile e del 3 marzo 2014, rispettivamente iscritte al n. 181 del registro ordinanze 2014 ed ai nn. 8, 9, 10, 11 e 12 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti gli atti di costituzione di Basile Anna Maria, di Bellucci Marcello, di Salsano Pietro, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 12 gennaio 2016 e nella camera di consiglio del 13 gennaio 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;

uditi gli avvocati Ferdinando Emilio Abbate per Basile Anna Maria e Salsano Pietro, e l’avvocato dello Stato Tito Varrone per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 14 ottobre 2013 (r.o. n. 181 del 2014), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

Il rimettente premette di dover decidere il ricorso con cui la parte ha proposto opposizione contro un decreto che, in accoglimento della domanda di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, ha stimato in un anno e dieci mesi il tempo che ha ecceduto la ragionevole durata del processo.

Si è trattato, in particolare, di un procedimento avviato proprio sulla base della legge n. 89 del 2001, a causa della eccessiva durata di un altro giudizio. Il procedimento finalizzato al ristoro del pregiudizio subito, a sua volta, ha avuto una durata complessiva di sette anni e dieci mesi e si è svolto in due gradi.

Il giudice a quo osserva che la durata del periodo oggetto di ristoro è stata determinata in applicazione dell’art. 2, comma 2-ter, introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012.

Tale disposizione stabilisce che «Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni».

Ne consegue che, sottratti i sei anni dalla durata complessiva del primo procedimento avviato in forza della legge n. 89 del 2001, residua il solo periodo già indicato di un anno e dieci mesi.

Il rimettente, dopo avere motivatamente respinto le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, osserva che la giurisprudenza di legittimità formatasi anteriormente alla novella del 2012 e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano indicato in due anni il limite di ragionevole durata complessiva del procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001.

Analoga conclusione si imporrebbe oggi, in base al dettato costituzionale, tenuto conto che il procedimento ha carattere semplificato, si svolge in un unico grado di merito, accerta fatti di immediata evidenza e persegue finalità acceleratorie.

Il legislatore, prescrivendo anche per tale procedimento un termine di durata ragionevole pari a sei anni, avrebbe violato gli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.

Né il giudice potrebbe interpretare l’art. 2, comma 2-ter, in senso conforme alla Costituzione, perché esso si applica «ad ogni procedimento civile per cui non sia disposto diversamente, e non solo al giudizio ordinario di cognizione; tanto è vero che, per alcune procedure speciali, come quella esecutiva, e quella concorsuale, la legge ha previsto termini diversi e specifici».

La Corte rimettente censura, sulla base dei medesimi parametri e per analoghe ragioni, anche l’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.

Il giudice a quo afferma che, una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale del termine complessivo di sei anni, dovrebbe trovare applicazione questa norma, parimenti sospetta di illegittimità costituzionale, e precisa che, nel caso di specie, il giudizio, sommando le fasi di merito e di legittimità, avrebbe dovuto avere la durata di quattro anni.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili.

Con riferimento all’art. 2, comma 2-ter, l’Avvocatura eccepisce che il giudice a quo avrebbe potuto adottare un’interpretazione costituzionalmente orientata, in base alla quale ritenere che il limite di sei anni di durata complessiva del procedimento non sia vincolante, quando quest’ultimo ha carattere semplificato.

Inoltre la questione sarebbe inammissibile perché non potrebbe dar luogo a un intervento di questa Corte a “rime obbligate”.

3.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, la quale rileva, anzitutto, che l’art. 2, comma 2-ter, sarebbe applicabile solo ai procedimenti svoltisi in tre gradi di giudizio, in quanto la disposizione andrebbe letta in collegamento con l’art. 2, comma 2-bis, che stabilisce i termini di ragionevole durata del processo con riguardo al primo, al secondo e al terzo grado di giudizio.

Ne seguirebbe che il rito previsto dalla legge n. 89 del 2001, strutturato in due soli gradi, si sottrarrebbe alla previsione impugnata e continuerebbe ad essere soggetto al limite di durata di due anni, enunciato dalla Corte EDU.

Se tale interpretazione non fosse condivisa, la Corte dovrebbe accogliere la questione di legittimità costituzionale.

4.– Con ordinanza del 27 febbraio 2014 (r.o. n. 8 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.

Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001 e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni e sette mesi.

Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.

5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate.

Dopo avere ribadito le eccezioni di inammissibilità svolte nel precedente giudizio con riguardo alla questione vertente sull’art. 2, comma 2-ter, la difesa dello Stato rileva che è sopraggiunta la sentenza della Corte di cassazione, sesta sezione civile, 6 novembre 2014, n. 23745, con la quale è stato statuito che il termine di sei anni ivi previsto si applica ai soli processi strutturati su tre gradi di giudizio. Il procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001 non sarebbe perciò disciplinato da tale disposizione e spetterebbe al giudice decidere quale ne sia la ragionevole durata.

Per tali ragioni, la questione sarebbe non fondata.

6.– Con ordinanza del 13 maggio 2014 (r.o. n. 9 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.

Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, cinque anni e dieci mesi.

Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni.

7.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.

8.– Con ordinanza del 13 maggio 2014 (r.o. n. 10 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.

Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni, nove mesi e sedici giorni.

Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni.

9.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti del tutto analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.

10.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, che chiede l’accoglimento delle questioni, sviluppando argomenti analoghi a quelli proposti dal giudice a quo. La parte aggiunge che la dichiarazione di illegittimità costituzionale sarebbe a “rime obbligate”, poiché la giurisprudenza della Corte EDU ha fissato in due anni il termine di ragionevole durata complessiva della procedura prevista dalla legge n. 89 del 2001, escludendo la compatibilità con la CEDU di un termine più lungo, in ragione della semplicità dell’accertamento e delle finalità cui esso risponde.

11.– Con ordinanza del 17 aprile 2014 (r.o. n. 11 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2 -ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.

Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, quattro anni, otto mesi e quindici giorni.

Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.

12.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli enunciati nei precedenti giudizi.

13.– Con ordinanza del 3 marzo 2014 (r.o. n. 12 del 2015), la Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU.

Il giudice a quo deve decidere su una domanda proposta ai sensi della legge n. 89 del 2001, e relativa a un procedimento durato, in un unico grado, due anni e otto mesi.

Con argomenti analoghi a quelli già esposti, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale del comma 2-ter dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, e del comma 2-bis del medesimo articolo, nella parte in cui determina la durata ragionevole del primo grado di un processo in tre anni e quella del giudizio di legittimità in un anno.

14.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, e, nel merito, non fondate, con argomenti analoghi a quelli sviluppati nei precedenti giudizi.

15.– Si è costituita nel processo incidentale la parte del giudizio principale, svolgendo considerazioni analoghe a quelle formulate dalla parte privata nel giudizio iscritto al n. 181 del registro ordinanze 2014.

16.– Con due memorie di analogo tenore, le parti private dei giudizi iscritti al n. 181 del registro ordinanze 2014 e al n. 12 del registro ordinanze 2015 hanno evidenziato che il più recente indirizzo della Corte di cassazione esclude l’applicabilità dell’art. 2, comma 2-ter, ai procedimenti che non sono strutturati in tre gradi di giudizio, e in particolare a quelli disciplinati dalla legge n. 89 del 2001.

Considerato in diritto

1.– La Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con sei ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 181 del 2014 e nn. 8, 9, 10, 11 e 12 del 2015), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

L’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001 assicura un’equa riparazione a chi abbia subito un danno conseguente all’irragionevole durata di un processo.

Le disposizioni oggetto di censura sono state introdotte dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012, al fine di adottare una disciplina legale dei termini entro cui il giudizio deve reputarsi rispettoso del principio della ragionevole durata del processo, enunciato dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.

L’art. 2, comma 2-bis, stabilisce, a tale proposito, che il termine è considerato ragionevole se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, due in secondo grado e un anno nel giudizio di legittimità.

L’art. 2, comma 2-ter, aggiunge che «Si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni».

I rimettenti sono chiamati a pronunciarsi su domande di condanna all’equa riparazione, conseguenti all’eccessiva protrazione di procedimenti regolati a loro volta dalla legge n. 89 del 2001, e sostengono di dover applicare le norme impugnate.

Per tale peculiare ipotesi, i giudici a quibus ritengono che entrambi i termini indicati dalle disposizioni censurate siano incompatibili con quanto previsto, sulla base dell’art. 6 della CEDU, dalla Corte europea del diritti dell’uomo e dalla stessa giurisprudenza di legittimità consolidatasi prima della novella recata dal d.l. n. 83 del 2012, anche in forza dell’art. 111, secondo comma, Cost.

La Corte europea avrebbe infatti reiteratamente affermato che grava un peculiare onere di diligenza sullo Stato già inadempiente all’obbligo di assicurare la ragionevole durata di un processo. Per questa ragione, il diritto all’equa riparazione dovuta a causa dell’eccessiva protrazione di un procedimento disciplinato dalla legge n. 89 del 2001 andrebbe soddisfatto con particolare celerità, mentre non sarebbero a tal fine adeguati i termini previsti in via generale, con riferimento alla durata dell’ordinario processo di cognizione.

In applicazione di questi principi, la giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto congruo il termine di durata di un anno, per l’unico grado di merito del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, e quello di un ulteriore anno, relativamente al giudizio di legittimità previsto da tale legge, per complessivi due anni (da ultimo, Corte di cassazione, sezioni unite civili, 19 marzo 2014, n. 6312).

I rimettenti, reputando tali termini conformi all’art. 111, secondo comma, Cost. e all’art. 6 della CEDU, denunciano le disposizioni censurate, anche con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., «nella parte in cui si applicano anche ai procedimenti di equa riparazione» previsti dalla legge n. 89 del 2001.

2.– I giudizi vertono sulle medesime disposizioni e pongono analoghe questioni, sicché ne appare opportuna la riunione, ai fini di una decisione congiunta.

3.– L’art. 2, comma 2-bis, viene impugnato da alcuni rimettenti (r.o. n. 181 del 2014 e nn. 8, 11 e 12 del 2015), sia nella parte in cui indica la «ragionevole» durata del procedimento di primo grado, sia in quella relativa al giudizio di legittimità. Tuttavia, solo nel caso dell’ordinanza di rimessione iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2014 il rimettente dà conto dello svolgimento del giudizio di cassazione, nell’ambito del procedimento regolato dalla cosiddetta legge Pinto, per il quale è chiesta l’equa riparazione, mentre dalle ordinanze iscritte ai nn. 8, 11 e 12 del registro ordinanze 2015 risulta che tale ricorso non ha avuto luogo.

Ne consegue, solo per queste ultime, l’inammissibilità per difetto di rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte relativa al termine di ragionevole durata del giudizio di legittimità.

4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, perché i giudici a quibus avrebbero omesso di adottare un’interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni impugnate. Queste ultime, in tale prospettiva, si limiterebbero ad introdurre un «parametro cui il giudice deve attenersi senza esserne vincolato in termini assoluti», potendone invece prescindere alla luce della natura del procedimento.

L’eccezione è manifestamente infondata.

L’obbligo di addivenire ad un’interpretazione conforme alla Costituzione cede il passo all’incidente di legittimità costituzionale ogni qual volta essa sia incompatibile con il disposto letterale della disposizione e si riveli del tutto eccentrica e bizzarra, anche alla luce del contesto normativo ove la disposizione si colloca (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). L’interpretazione secondo Costituzione è doverosa ed ha un’indubbia priorità su ogni altra (sentenza n. 49 del 2015), ma appartiene pur sempre alla famiglia delle tecniche esegetiche, poste a disposizione del giudice nell’esercizio della funzione giurisdizionale, che hanno carattere dichiarativo. Ove, perciò, sulla base di tali tecniche, non sia possibile trarre dalla disposizione alcuna norma conforme alla Costituzione, il giudice è tenuto ad investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale.

I commi 2-bis e 2-ter dell’art. 2, nell’affermare che il termine ivi indicato «Si considera rispettato», sono univoci e non possono che essere intesi nel senso che tale termine va ritenuto ragionevole. Ciò appare tanto più vero, se si tiene a mente che questa affermazione è stata fatta nell’ambito di un intervento normativo segnato dall’intento del legislatore di sottrarre alla discrezionalità giudiziaria la determinazione della congruità del termine, per affidarla invece ad una previsione legale di carattere generale.

Si può aggiungere fin d’ora che, in tal modo, e in coerenza con quest’ultima finalità, è stato regolato l’insieme dei processi civili di cognizione, e dunque anche il procedimento previsto dalla legge n. 89 del 2001, cui la giurisprudenza di legittimità ha costantemente attribuito tale natura. Difatti, lo stesso art. 2, comma 2-bis, di tale legge reca previsioni speciali esclusivamente per il procedimento di esecuzione forzata e per le procedure concorsuali.

5.– L’Avvocatura generale dello Stato ha, altresì, eccepito l’inammissibilità delle questioni perché ad esse non corrisponderebbe una soluzione costituzionalmente obbligata, spettando al legislatore individuare il termine congruo di durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, una volta dichiarati illegittimi i termini ora previsti dalle disposizioni censurate.

L’eccezione è infondata.

I rimettenti, sulla scia della consolidata giurisprudenza europea, si limitano a denunciare l’illegittimità costituzionale della scelta del legislatore di equiparare la ragionevole durata complessiva dei procedimenti regolati dalla legge n. 89 del 2001 a quella di ogni altro procedimento civile di cognizione, quando, invece, gli artt. 3 e 111 Cost. e l’art. 6 della CEDU imporrebbero che essa sia più contenuta. In tale prospettiva, i giudici a quibus non sono certamente tenuti ad indicare quali termini siano adeguati al caso di specie, né l’eventuale discrezionalità del legislatore nel rimodularli può essere d’ostacolo alla rimozione di norme che, in ipotesi, determinano un vulnus alla Costituzione.

Peraltro, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e quella della Corte di cassazione antecedente alla novella introdotta dal d.l. n. 83 del 2012 ben possono soccorrere l’interprete nella immediata individuazione del termine di durata ragionevole, ove l’intervento del legislatore ritardi o manchi del tutto.

6.– L’Avvocatura ha poi osservato che l’art. 2, comma 2-ter, non sarebbe applicabile ai procedimenti previsti dalla legge n. 89 del 2001, perché essi sono articolati su due gradi di giudizio, mentre il termine di sei anni previsto da tale norma, e che si considera «comunque» ragionevole, esigerebbe che il processo si sia svolto in tre gradi.

In effetti, appare chiaro il collegamento tra l’art. 2, comma 2-bis, ed il successivo comma 2-ter. La prima disposizione contiene la ragionevole durata del processo entro tre anni per il primo grado, due per il secondo e uno per il giudizio di legittimità, per un totale di sei anni. La seconda norma, riferendosi proprio a quest’ultimo arco temporale, permette di compensare le violazioni determinatesi in una fase con l’eventuale recupero goduto in un’altra, a condizione che non si superi il limite complessivo di sei anni.

L’art. 2, comma 2-ter, pertanto, benché sia in linea astratta riferibile a qualunque procedimento civile di cognizione, non potrà in concreto trovare applicazione nel procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, che non è strutturato in tre gradi di giudizio. In questa direzione si è infatti pronunciata la Corte di cassazione (a partire dalla sentenza della sesta sezione civile, 6 novembre 2014, n. 23745).

Ne consegue che le questioni relative all’art. 2, comma 2-ter, sono inammissibili per difetto di rilevanza, posto che i rimettenti non sono chiamati ad applicare tale disposizione.

7.– Sono invece ammissibili le questioni relative all’art. 2, comma 2-bis, nei limiti di quanto già precisato al punto 3. del Considerato in diritto, poiché i giudici a quibus che hanno compiutamente descritto la fattispecie sono tenuti all’applicazione della norma, sia nel caso in cui il limite ivi indicato non sia stato superato (ciò che li obbligherebbe a rigettare la domanda di equa riparazione), sia per l’ipotesi contraria, ai fini della quantificazione dell’indennizzo previsto dall’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001.

8.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel primo e unico grado di merito, è fondata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.

Dalla giurisprudenza europea consolidata si evince (sentenza n. 49 del 2015) il principio di diritto, secondo cui lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto all’equa riparazione del danno da ritardo maturato in altro processo in termini più celeri di quelli consentiti nelle procedure ordinarie, che nella maggior parte dei casi sono più complesse, e che, comunque, non sono costruite per rimediare ad una precedente inerzia nell’amministrazione della giustizia (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 6 marzo 2012, Gagliano Giorgi contro Italia; sentenza 27 settembre 2011, CE.DI.SA Fortore snc Diagnostica Medica Chirurgica contro Italia; sentenza 21 dicembre 2010, Belperio e Ciarmoli contro Italia).

Ne consegue che l’art. 6 della CEDU, il cui significato si forma attraverso il reiterato ed uniforme esercizio della giurisprudenza europea sui casi di specie (sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), preclude al legislatore nazionale, che abbia deciso di disciplinare legalmente i termini di ragionevole durata dei processi ai fini dell’equa riparazione, di consentire una durata complessiva del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 pari a quella tollerata con riguardo agli altri procedimenti civili di cognizione, anziché modellarla sul calco dei più brevi termini indicati dalla stessa Corte di Strasburgo e recepiti dalla giurisprudenza nazionale.

Quest’ultima, in applicazione degli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., alla luce dell’interpretazione data dal giudice europeo all’art. 6 della CEDU, aveva in precedenza determinato il termine ragionevole di cui si discute, per il caso di procedimento svoltosi in entrambi i gradi previsti, in due anni, che è il limite di regola ammesso dalla Corte EDU.

Inoltre, questa Corte ha recentemente precisato che la discrezionalità del legislatore nella costruzione del rimedio giudiziale in questione, e in particolar modo nella specificazione dei criteri di quantificazione della somma dovuta, non si presta «in linea astratta ad incidere sull’an stesso del diritto, anziché sul quantum» (sentenza n. 184 del 2015), come invece accadrebbe se, per effetto della norma censurata, dovesse venire integralmente rigettata la domanda di equa riparazione.

Ne consegue che la disposizione impugnata, imponendo di considerare ragionevole la durata del procedimento di primo grado regolato dalla legge n. 89 del 2001, quando la stessa non eccede i tre anni, viola gli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., posto che questo solo termine comporta che la durata complessiva del giudizio possa essere superiore al limite biennale adottato dalla Corte europea (e dalla giurisprudenza nazionale sulla base di quest’ultima) per un procedimento regolato da tale legge, che si svolga invece in due gradi.

L’art. 2, comma 2-bis, va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001.

Resta assorbita la censura relativa all’art. 3, primo comma, Cost.

9.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, nella parte in cui determina in un anno la ragionevole durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, non è fondata.

Il termine annuale scelto dal legislatore è conforme alle indicazioni di massima provenienti dalla Corte europea e recepite dalla giurisprudenza nazionale. Inoltre, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della previsione concernente la durata del processo di primo grado fa sì che la ragionevole durata complessiva di un procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001, in concreto articolatosi su due gradi di giudizio, sia inferiore a quella stabilita per gli altri procedimenti ordinari di cognizione, e comunque possa essere contenuta nel tetto di due anni, in conformità agli artt. 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost.

Una volta accertata tale conformità, va considerato, per quanto concerne l’art. 3, primo comma, Cost., che rientra nel margine di apprezzamento discrezionale del legislatore equiparare la durata del procedimento regolato dalla legge n. 89 del 2001 nel giudizio di impugnazione a quella considerata ragionevole in via generale per i giudizi davanti alla Corte di cassazione, anche alla luce delle peculiarità proprie del giudizio di legittimità.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui si applica alla durata del processo di primo grado previsto dalla legge n. 89 del 2001;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con le ordinanze iscritte ai nn. 8, 11 e 12 del registro ordinanze 2015;

3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-ter, della legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con le ordinanze indicate in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui si applica alla durata del giudizio di legittimità previsto dalla legge n. 89 del 2001, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione civile, con l’ordinanza iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2014.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2016.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 19 febbraio 2016.
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Re: Ricorso Legge Pinto.

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Il CdS accogliendo la tesi del Ministero della Giustizia chiarisce nei ricorsi riuniti:

1) - E’ invece nel giusto l’ Amministrazione quando deduce, in sostanza e tenuto conto dell’insieme delle argomentazioni difensive, che la sentenza impugnata ha comunque definito la misura delle penalità in modo non equo e cioè eccessivo.

2) - Per quanto riguarda la misura delle penalità, infatti, la Giurisprudenza della Sezione reputa conforme a equità il parametro dell’interesse legale peraltro ora esplicitamente indicato dall’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., come modificato dalla legge n. 208 del 2015.

3) - In tal senso è stato appunto chiarito che “ poiché la penalità di mora non deve risolversi in una ragione di ingiustificato arricchimento per il creditore, è eccessivo e non conforme a equità il parametro dell'interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, aumentato di tre punti percentuali, dovendosi sostituirlo con quello dell’interesse legale, peraltro ora esplicitamente indicato dall’art. 114 comma 4 lett. e) Cod. proc. amm. secondo le modifiche appunto introdotte dalla predetta legge di stabilità per il 2016. ( cfr. IV Sez. n. 1444 del 2016).

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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201603846
- Public 2016-09-12 -

Pubblicato il 12/09/2016

N. 03846/2016REG.PROV.COLL.
N. 05327/2013 REG.RIC.
N. 05542/2013 REG.RIC.
N. 05582/2013 REG.RIC.
N. 05584/2013 REG.RIC.
N. 05586/2013 REG.RIC.
N. 05807/2013 REG.RIC.
N. 07082/2013 REG.RIC.
N. 07083/2013 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5327 del 2013, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro
Elsa Verelli, rappresentata e difesa dall'avvocato Giunio Massa , con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio N. 45;

sul ricorso numero di registro generale 5542 del 2013, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro
Nettuno Morra, rappresentato e difeso dall'avvocato Giunio Massa , con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio N. 45;

sul ricorso numero di registro generale 5582 del 2013, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro
Caterina Usai Mirra, rappresentata e difesa dall'avvocato Giunio Massa , con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio N. 45;

sul ricorso numero di registro generale 5584 del 2013, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro
Giunio Massa, rappresentato e difeso dall'avvocato Giunio Massa , con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio N. 45;

sul ricorso numero di registro generale 5586 del 2013, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro
Gigliola Di Palermo, rappresentata e difesa dall'avvocato Giunio Massa , con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio N. 45;

sul ricorso numero di registro generale 5807 del 2013, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro
Maurizio Napoli, rappresentato e difeso dall'avvocato Giunio Massa , con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio N. 45;

sul ricorso numero di registro generale 7082 del 2013, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro
Vittorio Riccardi, rappresentato e difeso dall'avvocato Giunio Massa , con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio N. 45;

sul ricorso numero di registro generale 7083 del 2013, proposto da:
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro
Mario Menicagli, rappresentato e difeso dall'avvocato Giunio Massa , con domicilio eletto presso Erica Deuringer in Roma, via Polibio N. 45;

per la riforma

quanto al ricorso n. 5327 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 00083/2012, resa tra le parti, concernente esecuzione del giudicato sentenza della corte suprema di cassazione n.23821/2011 - riconoscimento equo indennizzo
quanto al ricorso n. 5542 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 05338/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del giudicato sentenza n.9262/12 della corte suprema di cassazione - riconoscimento equo indennizzo per eccessiva durata del processo (legge pinto)
quanto al ricorso n. 5582 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 04231/2013, resa tra le parti, concernente ottemperanza sentenza n.6174/2012 della corte di cassazione - riconoscimento equo indennizzo per eccessiva durata del processo - legge pinto
quanto al ricorso n. 5584 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 05749/2013, resa tra le parti, concernente ottemperanza sentenza n.6173/2012 della corte di cassazione - riconoscimento equo indennizzo per eccessiva durata del processo - legge pinto
quanto al ricorso n. 5586 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 04019/2013, resa tra le parti, concernente ottemperanza sentenza n.2357/2012 della corte di cassazione - riconoscimento equo indennizzo per eccessiva durata del processo - legge pinto
quanto al ricorso n. 5807 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 06202/2013, resa tra le parti, concernente esecuzione del decreto di condanna della sentenza della corte suprema della cassazione n.6169/12 equa riparazione (legge pinto)
quanto al ricorso n. 7082 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 06891/2013, resa tra le parti, concernente ottemperanza sentenza n.3345/12 della corte suprema di cassazione - pagamento somme a titolo di equa riparazione - l. 89/2001
quanto al ricorso n. 7083 del 2013:
della sentenza del T.a.r. Lazio - Roma: Sezione I n. 06889/2013, resa tra le parti, concernente ottemperanza sentenza n.3343/12 della corte suprema di cassazione - pagamento somme a titolo di equa riparazione - l. 89/2001

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Elsa Verelli e di Nettuno Morra e di Caterina Usai Mirra e di Giunio Massa e di Gigliola Di Palermo e di Maurizio Napoli e di Vittorio Riccardi e di Mario Menicagli;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2016 il Cons. Antonino Anastasi e uditi per le parti l'avvocato dello Stato Verdiana Fedeli Massa e l'avvocato Massa;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con le sentenze in epigrafe indicata il Tribunale ha ordinato all’Amministrazione di eseguire le sentenze della Suprema Corte di Cassazione con le quali era stato riconosciuto alle parti oggi appellate l’indennizzo previsto dalla legge n. 89 del 2001 ( c.d. legge Pinto) a causa della violazione dei termini di ragionevole durata del processo.

Con le medesime sentenze il Tribunale ha condannato l’Amministrazione al pagamento di penalità di mora ( c.d. astreinte) commisurate all’interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della B.C.E. aumentato di tre punti percentuali.

Le sentenze, nel capo appunto relativo a tali penalità, furono impugnate con gli atti di appello all’esame dall’Amministrazione la quale ha sostenuto l’inapplicabilità delle sanzioni e in via subordinata che il Tribunale ha errato nell’applicare le sanzioni (e nell’individuare la misura delle stesse) in via sostanzialmente automatica.

Con ord.za collegiale n. 754 del 2014 la Sezione, riuniti gli appelli, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale relativa alla legge Pinto nella parte in cui stabilisce – a seguito di apposita novella – che la corresponsione dell’indennizzo avviene nel limite delle risorse disponibili.

Successivamente con sentenza n. 462 del 2014 la Sezione – sulla base di quanto stabilito dall’Adunanza Plenaria n. 15 del 2014 - ha respinto gli appelli nella parte volta a predicare l’inapplicabilità delle penalità di mora nel caso di condanne a prestazioni pecuniarie.

Con sentenza n. 157 del 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione sollevata.

Con decreti monocratici del Presidente della Sezione gli appelli nn. 5809/2013, 5818/2013 e 5821/2013 ( inizialmente riuniti a quelli di cui in epigrafe) sono stati dichiarati estinti.

Per l’effetto resta da decidere – quanto agli appelli riuniti in epigrafe indicati - il motivo di impugnazione col quale l’Amministrazione deduce che il Tribunale ha errato nell’applicare le sanzioni (e nell’individuare la misura delle stesse) in via sostanzialmente automatica, non tenendo cioè conto delle oggettive difficoltà in cui versa il bilancio pubblico.

Gli appelli sono fondati nei limiti che si espongono.

Ferma restando l'assenza di preclusioni astratte sul piano dell'ammissibilità, in concreto le allegate difficoltà del bilancio pubblico non possono giustificare una totale esenzione dell’Amministrazione inadempiente dalle penalità di mora, vista anche l’attuale possibilità del ricorso al conto sospeso.

Quanto esposto induce a disattendere i rilievi mossi al riguardo dall’appellante.

E’ invece nel giusto l’ Amministrazione quando deduce, in sostanza e tenuto conto dell’insieme delle argomentazioni difensive, che la sentenza impugnata ha comunque definito la misura delle penalità in modo non equo e cioè eccessivo.

Per quanto riguarda la misura delle penalità, infatti, la Giurisprudenza della Sezione reputa conforme a equità il parametro dell’interesse legale peraltro ora esplicitamente indicato dall’art. 114, comma 4, lett. e), c.p.a., come modificato dalla legge n. 208 del 2015. In tal senso è stato appunto chiarito che “ poiché la penalità di mora non deve risolversi in una ragione di ingiustificato arricchimento per il creditore, è eccessivo e non conforme a equità il parametro dell'interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea, aumentato di tre punti percentuali, dovendosi sostituirlo con quello dell’interesse legale, peraltro ora esplicitamente indicato dall’art. 114 comma 4 lett. e) Cod. proc. amm. secondo le modifiche appunto introdotte dalla predetta legge di stabilità per il 2016. ( cfr. IV Sez. n. 1444 del 2016).

In conclusione gli appelli vanno accolti in parte e le sentenze impugnate vanno riformate nel senso che le penalità di mora ivi previste sono quantificate in misura corrispondente all’interesse legale.

Le spese del giudizio di appello sono compensate, fermo restando quanto disposto dal Tribunale per le spese del primo grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)
definitivamente pronunciando, accoglie in parte gli appelli dell’Amministrazione e riforma le sentenze impugnate nei sensi di cui in motivazione.

Le spese di questo grado del giudizio sono compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2016 con l'intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi, Presidente, Estensore
Nicola Russo, Consigliere
Raffaele Greco, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere


IL PRESIDENTE, ESTENSORE
Antonino Anastasi





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Re: Ricorso Legge Pinto.

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Allego,

Ordinanza della Cassazione Civile Sez. 2^ n. 26074/17 del 02/11/2017, relativa alla equa riparazione (cd. Legge Pinto) lunga durata di un processo.
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da panorama »

Egr. colleghi tutti, copiate questa sentenza della Corte Costituzionale e inviatela ai vostri avvocati per quanto riguarda la c.d.. "equa riparazione" Legge Pinto sulla lunga durata dei processi.
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1) - quattro ordinanze di analogo tenore, della Corte di cassazione, sezione sesta civile.

La Corte Costituzionale precisa:

2) - Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, è fondata.

3) - Secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU, i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che il procedimento diventi eccessivamente lungo; tuttavia, per i paesi dove esistono già violazioni legate alla sua durata, per quanto auspicabili per l’avvenire, possono rivelarsi inadeguati (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).

4) - Alla stregua delle considerazioni che precedono si deve concludere che, nonostante l’invito rivolto da questa Corte con la sentenza n. 30 del 2014, il legislatore non ha rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato e che, pertanto, l’art. 4 della legge n. 89 del 2001 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto (analogamente, sentenza n. 3 del 1997).

5) - Infatti, «[p]osta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma […] omette di prevedere. […] Spetterà, infatti,
- ) - da un lato,
ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione;

- ) - e, dall’altro,
al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione» (sentenza n. 113 del 2011).

N.B.: rileggi il punto n. 5.

e per il resto, leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA N. 88
ANNO 2018

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Frano MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANO’ ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – promossi dalla Corte di cassazione, sezione sesta civile, con due ordinanze del 20 dicembre 2016, e con ordinanze del 16 febbraio e del 23 gennaio 2017, iscritte rispettivamente ai nn. 68, 69, 73 e 148 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 20, 21 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di G. D. e altri e di G.A. F., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella udienza pubblica del 20 marzo e nella camera di consiglio del 21 marzo 2018 il Giudice relatore Aldo Carosi;

uditi gli avvocati Stefano Viti per G. D. e altri, Andrea Saccucci per G.A. F. e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 10 dicembre 2016 (reg. ord. n. 68 del 2017) la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

L’art. 4 della legge n. 89 del 2001 (cosiddetta legge Pinto), nella versione censurata, prevede che «[l]a domanda di riparazione può essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva».

Il rimettente riferisce di alcuni ricorrenti che si erano rivolti alla Corte d’appello di Perugia per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale loro derivato dall’irragionevole durata del giudizio instaurato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio in data 13 marzo 1997 e definito con decreto di perenzione del 14 gennaio 2013. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda inammissibile, pronuncia confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che il decreto di perenzione non era ancora divenuto definitivo.

Adito per la cassazione del decreto che aveva deciso sull’opposizione, il giudice a quo condivide l’interpretazione dell’art. 4 della legge n. 89 del 2011 seguita dalla Corte d’appello e ormai assurta a “diritto vivente”, che esclude la proponibilità della domanda di equa riparazione durante la pendenza del giudizio presupposto, nondimeno dubita della sua legittimità costituzionale, così come sarebbe stato ritenuto, ma non dichiarato, da questa Corte nella sentenza n. 30 del 2014, laddove ha ravvisato nel differimento dell’esperibilità del rimedio all’esito del giudizio presupposto un pregiudizio alla sua effettività, sollecitando l’intervento del legislatore.

Poiché il vulnus costituzionale riscontrato non sarebbe stato ovviato dai rimedi preventivi introdotti dall’art. 1, comma 777, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» – volti a prevenire l’irragionevole durata del processo ma non incidenti sull’effettività della tutela indennitaria una volta che la soglia dell’eccessiva durata sia stata oltrepassata – sarebbe rimasto inascoltato il monito impartito da questa Corte e irrisolto il problema del differimento, perdurando i profili di illegittimità in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., aggravati dalla non reiterabilità della domanda di equa riparazione prematuramente proposta, sebbene, frattanto, il giudizio presupposto sia stato irretrattabilmente definito.

La questione sarebbe rilevante in quanto i ricorrenti hanno proposto domanda di equa riparazione prima che divenisse definitivo il decreto di perenzione e, perciò, si sono visti precludere l’accesso alla tutela indennitaria.

2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione.

Ad avviso dell’interveniente, il rimettente si sarebbe limitato a evocare i parametri costituzionali asseritamente violati, senza indicare i motivi del preteso contrasto. Né sarebbe sufficiente richiamare gli argomenti sviluppati nell’ambito del precedente giudizio di costituzionalità conclusosi con la sentenza n. 30 del 2014, stante il divieto di motivazione per relationem. Peraltro, la questione di legittimità costituzionale sollevata divergerebbe da quella precedentemente scrutinata, rendendo inevitabilmente necessario chiarire le ragioni delle censure.

Inoltre, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, il rimettente avrebbe erroneamente identificato la norma da censurare, atteso che il divieto di riproposizione della domanda respinta sarebbe previsto dall’art. 3, comma 6, della legge n. 89 del 2001, e, comunque, non avrebbe esperito un tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto degli artt. 3, comma 6, e 4 della legge Pinto, tale da limitare il divieto di riproposizione della domanda alla sola ipotesi di reiezione nel merito e non per ragioni processuali, che di principio non sarebbero suscettibili di giudicato.

Ancora, l’interveniente sostiene che il giudice a quo non avrebbe indicato la ragione ostativa all’esame nel merito della domanda di equa riparazione nel caso in cui la condizione della definizione del giudizio presupposto fosse sopravvenuta nelle more, né avrebbe motivato sulla legittimità costituzionale dell’imputazione alla parte degli effetti della mancata diligenza professionale del difensore nell’accertare la sussistenza del requisito previsto.

In ultimo, l’intervento additivo richiesto rivestirebbe connotati di manipolatività in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, sconfinando inevitabilmente nella discrezionalità del legislatore, così come già ritenuto dalla sentenza n. 30 del 2014.

Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato evidenzia, anzitutto, che, in ossequio alla sollecitazione contenuta nella sentenza n. 30 del 2014, la legge n. 208 del 2015 avrebbe introdotto una serie di ulteriori rimedi volti a prevenire l’irragionevole durata del processo nell’ottica di effettività della tutela richiesta dalla Corte EDU. Inoltre, esclude che l’attuale disciplina, connotata dalla combinazione di strumenti di snellimento e accelerazione del procedimento con il riconoscimento dell’indennizzo, violi gli artt. 6 e 13 CEDU solo perché la domanda di equa riparazione non può essere proposta prima della definitività del provvedimento di chiusura del giudizio presupposto. Infine, gli artt. 3, comma 6, e 4, della legge n. 89 del 2001 ben potrebbero essere intesi nel senso di non precludere definitivamente la riproposizione della domanda respinta per motivi meramente processuali.

3.– Si sono costituiti alcuni dei ricorrenti nel giudizio a quo, invocando una pronuncia additiva che consenta l’esperibilità del rimedio indennitario anche in pendenza del giudizio presupposto, attesa l’irragionevole compressione del diritto di azione nel caso in cui, benché ancora non concluso, esso si sia protratto oltre ogni limite di ragionevolezza, in violazione degli artt. 3, 24 e 111 (espressivo del principio del giusto processo) Cost., nonché degli artt. 6 e 13 CEDU, come interpretati dalla Corte di Strasburgo (si cita la sentenza 21 luglio 2009, Lesjak contro Slovenia).

I ricorrenti costituiti hanno depositato memoria illustrativa in prossimità dell’udienza di discussione, replicando alle difese svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri e ulteriormente argomentando in merito alla fondatezza della questione.

4.– Con ordinanza del 20 dicembre 2016 (reg. ord. n. 69 del 2017) la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 convertito nella legge n. 134 del 2012 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.

Il rimettente riferisce di essere stato adito da un ricorrente che si era rivolto alla Corte d’appello di Lecce per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale derivatogli dall’irragionevole durata del giudizio iniziato dinanzi al TAR della Puglia in data 17 ottobre 2001 e definito con sentenza del Consiglio di Stato del 16 maggio 2013. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda inammissibile, pronuncia confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che la sentenza non era ancora passata in giudicato.

In punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, il rimettente svolge argomenti del tutto coincidenti con quelli sviluppati nell’ordinanza iscritta al n. 68 del reg. ord. 2017.

5.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione per i medesimi motivi illustrati nell’atto di intervento afferente all’ordinanza iscritta al n. 68 del reg. ord. dell’anno 2017.

6.– Si è costituito il ricorrente nel giudizio a quo, invocando una pronuncia additiva che consenta l’esperibilità del rimedio indennitario in pendenza del giudizio presupposto o la valutazione della sua definitività al momento della decisione sulla domanda di equa riparazione anziché a quello del deposito del ricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa in prossimità dell’udienza di discussione, replicando alle difese svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri e ulteriormente argomentando in merito alla fondatezza della questione.

7.– Con ordinanza del 16 febbraio 2017 (reg. ord. n. 73 del 2017) la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 convertito nella legge n. 134 del 2012 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.

Il rimettente riferisce di essere stato adito da un ricorrente che si era rivolto alla Corte d’appello di Perugia per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale derivatogli dall’irragionevole durata del giudizio svoltosi dinanzi al Giudice di pace e, successivamente, davanti al Tribunale di Civitavecchia dal 29 aprile 2006 al 23 ottobre 2014, allorquando il giudizio d’appello era stato cancellato dal ruolo e contestualmente dichiarato estinto. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda di equa riparazione improponibile, pronuncia confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che, in virtù dell’art. 181 codice di procedura civile nella versione applicabile ratione temporis, la dichiarazione di estinzione non poteva ritenersi avvenuta contestualmente alla cancellazione dal ruolo, ma solo all’esito del decorso del termine stabilito dall’art. 307 cod. proc. civ. per l’eventuale riassunzione.

Il rimettente ritiene che la decisione impugnata debba essere confermata, seppur correggendone la motivazione, e solleva la descritta questione di legittimità costituzionale, svolgendo argomenti, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, del tutto coincidenti con quelli sviluppati nelle ordinanze iscritte ai nn. 68 e 69 del reg. ord. dell’anno 2017 e chiedendo che la norma sia dichiarata illegittima «nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione alla previa definizione del procedimento presupposto».

8.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione per i medesimi motivi illustrati negli atti di intervento afferenti alle ordinanze iscritte ai nn. 68 e 69 del reg. ord. 2017.

9.– Con ordinanza del 23 gennaio 2017 (reg. ord. n. 148 del 2017) la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001 – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del d.l. n. 83 del 2012 convertito nella legge n. 134 del 2012 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.

Il rimettente riferisce di essere stato adito da una ricorrente che si era rivolta alla Corte d’appello di Perugia per ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale derivatole dall’irragionevole durata del giudizio svoltosi dinanzi al Tribunale di Roma. L’adita Corte d’appello aveva dichiarato la domanda di equa riparazione improponibile, pronuncia confermata dalla medesima Corte d’appello in sede di opposizione, atteso che la sentenza non risultava notificata e dunque occorreva attendere il decorso del termine “lungo” di cui all’art. 327 cod. proc. civ. perché passasse in giudicato, a nulla rilevando la transazione intervenuta con una delle controparti.

Il rimettente, condividendo l’irrilevanza della transazione non rifluita nel processo, a seguito di quanto dedotto dalla ricorrente in ordine all’incostituzionalità dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001, solleva la descritta questione di legittimità, svolgendo argomenti, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, del tutto coincidenti con quelli sviluppati nelle ordinanze iscritte ai nn. 68, 69 e 73 del reg. ord. 2017 e chiedendo che la norma sia dichiarata illegittima «nella parte in cui subordina al passaggio in giudicato del provvedimento che ha definito il procedimento presupposto la proponibilità della domanda di equo indennizzo».

10.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza della questione per i medesimi motivi illustrati negli atti di intervento afferenti alle ordinanze iscritte ai nn. 68, 69 e 73 del reg. ord. 2017.

Considerato in diritto

1.– Con quattro ordinanze di analogo tenore, la Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – in riferimento agli artt. 3, 24, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

La disposizione censurata, nel significato ormai assurto a “diritto vivente”, preclude la proposizione della domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione della ragionevole durata si assume essersi verificata (sentenza n. 30 del 2014; Corte di cassazione, sesta sezione civile, sentenze 1° luglio 2016, n. 13556, 12 ottobre 2015, n. 20463, 2 settembre 2014, n. 18539; seconda sezione civile, sentenza 16 settembre 2014, n. 19479).

In sostanza, la Corte di cassazione censura la norma proprio nella parte in cui condiziona la proponibilità della domanda di equa riparazione alla previa definizione del procedimento presupposto.

Il rimettente evidenzia come già la sentenza n. 30 del 2014 di questa Corte, nello scrutinare analoga questione di legittimità costituzionale, abbia ravvisato nel differimento dell’esperibilità del rimedio un pregiudizio alla sua effettività, sollecitando l’intervento correttivo del legislatore. Il vulnus costituzionale riscontrato, tuttavia, non sarebbe stato ovviato dai rimedi preventivi frattanto introdotti dall’art. 1, comma 777, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», volti a prevenire l’irragionevole durata del processo ma non incidenti sull’effettività della tutela indennitaria una volta che essa sia maturata; pertanto, il monito allora impartito sarebbe rimasto inascoltato, perdurando l’illegittimità costituzionale del differimento aggravata dalla definitiva improponibilità della domanda di equa riparazione prematuramente avanzata.

2.– I giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia, avendo a oggetto questioni relative alla medesima norma, censurata in riferimento a parametri coincidenti.

3.– Prima di affrontare il merito delle questioni proposte occorre esaminare le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato.

3.1.– La difesa statale assume che i rimettenti si sarebbero limitati a evocare i parametri asseritamente violati, senza indicare i motivi di contrasto, se non per relationem.

L’eccezione è fondata limitatamente all’art. 24 Cost., la cui violazione non è argomentata.

Viceversa, con riguardo ai residui parametri, coincidenti con quelli alla cui stregua la norma è stata scrutinata da questa Corte nella precedente occasione, le ordinanze di rimessione riproducono per sintesi, riportandone ampi stralci, il contenuto della sentenza n. 30 del 2014, dimostrando di aderirvi. Inoltre, confrontandosi con la normativa sopravvenuta e giudicandola inidonea a emendare il vizio precedentemente riscontrato e a prestare ossequio al monito all’epoca impartito, i rimettent individuano in maniera sufficientemente chiara e adeguata le ragioni che lo inducono a dubitare della legittimità costituzionale della norma oggetto del presente giudizio.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, si deve escludere che si tratti di un caso di motivazione per relationem, «essendo pienamente ottemperato l’obbligo che questa Corte ritiene incombere sul rimettente di “rendere espliciti, facendoli propri, i motivi della non manifesta infondatezza” (ex plurimis, sentenze n. 7 del 2014, n. 234 del 2011 e n. 143 del 2010; ordinanze n. 175 del 2013, n. 239 e n. 65 del 2012)» (sentenza n. 10 del 2015).

3.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta altresì che il rimettente abbia erroneamente individuato nel solo art. 4 della legge n. 89 del 2001 la disposizione da censurare, considerato che il divieto di riproposizione della domanda respinta, che la precluderebbe definitivamente, sarebbe previsto dall’art. 3, comma 6, della medesima legge, del quale, peraltro, sarebbe possibile un’interpretazione adeguatrice che restringa la preclusione alla sola reiezione nel merito e non per ragioni processuali.

Nella fattispecie, tuttavia, alla luce delle vicende descritte dalle ordinanze di rimessione, la Corte di cassazione è chiamata a fare applicazione esclusivamente della norma denunciata, atteso che si troverebbe a confermare la reiezione di domande di equa riparazione improponibili per la pendenza del giudizio presupposto e non perché reiterate, sebbene in tutto o in parte respinte, in spregio al divieto previsto dall’art. 3, comma 6, della legge n. 89 del 2001.

Correttamente, pertanto, i rimettenti non hanno incluso nella denuncia di incostituzionalità una norma che non doveva applicare, neppure in combinato disposto con quella della cui legittimità dubita.

3.3.– L’Avvocatura generale dello Stato rimprovera ai rimettenti di non aver valutato la possibilità di ritenere che, se sopravvenuta in corso di causa – come nei giudizi a quibus – la conclusione del giudizio presupposto consenta di sindacare nel merito la domanda di indennizzo, trattandosi di una condizione dell’azione la cui sussistenza andrebbe valutata al momento della decisione. Ne conseguirebbe l’irrilevanza delle questioni proposte.

L’eccezione non è fondata.

L’impostazione dei giudici rimettenti trova conforto tanto sul piano del diritto vivente – visto che, per come viene intesa, la disposizione preclude «la proposizione della domanda» (sentenza n. 30 del 2014) di equa riparazione – quanto su quello letterale, laddove, sia nella rubrica che nel precetto, l’art. 4 della legge n. 89 del 2001 fa richiamo alla sua “proponibilità”.

Inoltre, la definizione del giudizio presupposto non attiene al contenuto intrinseco della domanda, ma risulta a esso esterna, con ciò dovendosi escludere che si tratti di una condizione dell’azione.

Né, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il giudice a quo è tenuto a motivare l’impraticabilità dell’interpretazione adeguatrice prospettata dall’Avvocatura, incompatibile con il diritto vivente (sentenza n. 203 del 2016).

4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, è fondata.

Scrutinando la stessa questione di legittimità costituzionale, questa Corte aveva già riscontrato la lesione dei citati parametri, evidenziando «la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, […] la “priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario” […e] che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia» (sentenza n. 30 del 2014).

L’art. 1, commi 777, 781 e 782, della legge n. 208 del 2015 ha modificato la legge n. 89 del 2001, tra l’altro introducendo una serie di rimedi preventivi il cui mancato esperimento rende inammissibile la domanda di equa riparazione (art. 2, comma 1, della legge Pinto, come modificata) – per i processi che al 31 ottobre 2016 non abbiano ancora raggiunto una durata irragionevole né siano stati assunti in decisione (art. 6, comma 2-bis, della legge Pinto come modificata) – e che, in relazione alle diverse tipologie processuali, consistono o nell’impiego di riti semplificati già previsti dall’ordinamento (art. 1-ter, comma 1, della legge Pinto come modificata) o nella formulazione di istanze acceleratorie (art. 1-ter, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge Pinto come modificata).

Secondo la costante giurisprudenza della Corte EDU, i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che il procedimento diventi eccessivamente lungo; tuttavia, per i paesi dove esistono già violazioni legate alla sua durata, per quanto auspicabili per l’avvenire, possono rivelarsi inadeguati (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).

Già tale rilievo mina in radice l’idoneità dell’iniziativa assunta dal legislatore a sopperire alla carenza di effettività precedentemente riscontrata, posto che i rimedi introdotti non sono destinati a operare in tutte le ipotesi – tra cui quelle al vaglio nei giudizi a quibus – nelle quali, al 31 ottobre 2016, la durata del processo abbia superato la soglia della ragionevolezza.

A ciò si aggiunga che la Corte EDU «ha riconosciuto in numerose occasioni che questo tipo di mezzo di ricorso è “effettivo” nella misura in cui esso velocizza la decisione da parte del giudice competente» (Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia).

Nella fattispecie, da un lato, tutti i rimedi preventivi introdotti, alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, dall’altro, per espressa previsione normativa, «[r]estano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti» (art. 1-ter, comma 7, della legge Pinto come modificata).

Tali rilievi, evidentemente, ne pregiudicano la concreta efficacia acceleratoria.

La conclusione trova conforto in quanto recentemente affermato dalla Corte EDU (sentenza 22 febbraio 2016, Olivieri e altri c. Italia), pronunciando in ordine all’istanza di prelievo alla cui formulazione l’art. 54 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, subordinava la proponibilità della domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo amministrativo. Tale istanza, che costituisce l’archetipo di gran parte dei rimedi preventivi di nuova introduzione, è stata ritenuta dalla Corte EDU priva di effettività.

Alla stregua delle considerazioni che precedono si deve concludere che, nonostante l’invito rivolto da questa Corte con la sentenza n. 30 del 2014, il legislatore non ha rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato e che, pertanto, l’art. 4 della legge n. 89 del 2001 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto (analogamente, sentenza n. 3 del 1997).

D’altronde, se i parametri evocati presidiano l’interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia, rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l’attivazione dello strumento – l’unico disponibile, fino all’introduzione di quelli preventivi di cui s’è detto – volto a rimediare alla sua lesione, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina.

L’invocata pronuncia additiva non può essere impedita dalle peculiarità con cui la legge Pinto conforma il diritto all’equa riparazione, collegandolo, nell’an e nel quantum, all’esito del giudizio in cui l’eccessivo ritardo è maturato (sentenza n. 30 del 2014).

Infatti, «[p]osta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma […] omette di prevedere. […] Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione» (sentenza n. 113 del 2011).

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2018.

F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Filomena PERRONE, Cancelliere


Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2018.
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Re: Ricorso Legge Pinto.

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Ufficio Stampa della Corte costituzionale

Comunicato del 26 aprile 2018


PROCESSI LUNGHI: L’INDENNIZZO PUO’ ESSERE CHIESTO
ANCHE DURANTE IL GIUDIZIO


La “legge Pinto” - nata per prevenire e indennizzare i ritardi causati dalla lentezza della giustizia - è costituzionalmente illegittima là dove non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento in cui è maturato l’irragionevole ritardo.

Dopo il forte monito contenuto nella sentenza n. 30 del 2014, la Corte costituzionale ha censurato l’articolo 4 della legge n. 89 del 2011 con riferimento ai principi di ragionevolezza e di ragionevole durata del processo (articoli 3 e 111 della Costituzione) nonché ai principi sanciti negli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La disposizione censurata con la sentenza n. 88 depositata oggi (relatore Aldo Carosi), non offre infatti alcuna tutela proprio nei casi più gravi, nei quali non vi è neppure certezza che la sentenza, ancorché in ritardo, possa comunque arrivare.

Posta di fronte a una grave lesione di un diritto fondamentale, la Corte è stata costretta a porvi rimedio, rinviando alla prudenza interpretativa dei giudici di merito la possibilità di applicare in modo costituzionalmente corretto la legge Pinto, come modificata dalla pronuncia di incostituzionalità. Ferma restando l’auspicata opportunità che il legislatore provveda a integrare il testo così modificato, in modo da rendere maggiormente funzionale la tutela del diritto alla ragionevole durata del processo.

In proposito, la sentenza afferma: «Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione».


Roma, 26 aprile 2018


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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da naturopata »

Con una importante pronuncia, la 34/2019 la Corte Costituzionale ha recepito una precedente statuizione della Corte Europea, ovvero che l'assenza dell'istanza di prelievo, non preclude la richiesta del risarcimento per la durata dei processi, ma può, al limite, variarne l'importo al ribasso.
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Re: Ricorso Legge Pinto.

Messaggio da panorama »

La Corte Costituzionale con la qui sotto sentenza, richiama tra l'altro, la recente sentenza n. 34 del 2019, precisando quanto segue:

1) - Le stesse considerazioni valgono ora per l’istanza di accelerazione del processo penale.
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SENTENZA N. 169
ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente
SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, promossi dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, con tre ordinanze del 31 gennaio e una del 16 marzo 2018, iscritte rispettivamente ai nn. 51, 52, 53 e 68 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 13 e 18, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2019 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.

Ritenuto in fatto

1.– Con quattro ordinanze di contenuto sostanzialmente identico (iscritte ai numeri 51, 52, 53 e 68 del r.o. 2018) – emesse nel corso di altrettanti procedimenti di impugnazione dei decreti con i quali la Corte distrettuale competente aveva rigettato l’opposizione avverso la declaratoria di diniego del diritto ad ottenere un’equa riparazione per l’irragionevole durata dei rispettivi giudizi penali, per non avere la parte interessata presentato «istanza di accelerazione» nel termine di legge – l’adita Corte di cassazione, sezione seconda civile, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione e in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, 13 e 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2–quinquies, lettera e), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), cosiddetta “legge Pinto”, nel testo (vigente ratione temporis) introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, nella parte appunto in cui, relativamente ai giudizi penali nei quali il termine di durata ragionevole di cui all’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 sia superato in epoca successiva alla sua entrata in vigore, subordina, per la loro intera durata, la proponibilità della correlativa domanda di equa riparazione alla presentazione dell’istanza di accelerazione.

Secondo la Corte rimettente, il censurato art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della “legge Pinto” – con il disporre che non è riconosciuto alcun indennizzo quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione nel processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di durata ragionevole – si porrebbe, infatti, in contrasto con le evocate disposizioni convenzionali, come interpretate dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in particolare nelle sentenze 2 giugno 2009, Daddi contro Italia, e 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia) e, per interposizione, con l’art. 117, primo comma, Cost., poiché la così introdotta condizione ostativa al riconoscimento dell’indennizzo in questione, nei confronti dei ricorrenti – imputati in processi penali protrattisi oltre il correlativo termine di ragionevole durata – violerebbe il diritto ad ottenere l’equa riparazione loro dovuta ex lege n. 89 del 2001, posto che l’«istanza di accelerazione» non è di per sé idonea a consentire una efficace sollecitazione della decisione di merito, risolvendosi nella mera dichiarazione di un interesse altrimenti già presente nel processo ed avente copertura costituzionale.

2.– In tutti i riferiti quattro giudizi incidentali è intervenuto – con atti (di identico contenuto) ritualmente depositati – il Presidente del Consiglio dei ministri per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato.

L’Avvocatura ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione con riferimento all’art. 46 CEDU, per la non vincolatività di «un ipotetico principio di diritto» enunciato dalla Corte EDU «in altri giudizi tra altri soggetti».

Nel merito, ha concluso per la non fondatezza della questione, argomentando che l’istanza di accelerazione non impone un onere gravoso e sproporzionato sulle parti, essendo richiesta ai loro difensori una minima diligenza professionale; e sostenendo che l’ordinamento nazionale non è tenuto ad adeguarsi pedissequamente all’interpretazione delle norme CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo, essendo sempre riconosciuto al legislatore, al giudice comune e a questa Corte un «margine di apprezzamento e di adeguamento» nazionale (è richiamata la sentenza n. 236 del 2011).

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, sezione seconda civile – con le quattro ordinanze di cui si è in narrativa detto e che, per la sostanziale coincidenza del petitum, possono riunirsi per essere unitariamente decise – solleva questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), cosiddetta “legge Pinto”, come introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134: disposizione (quella sub lettera e) poi implicitamente abrogata, perché non riprodotta nell’art. 2, comma 2-quinquies, come riformulato dall’art. 1, comma 777, lettera c), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)».

2.– Nel testo vigente ratione temporis e applicabile nei giudizi a quibus, la disposizione denunciata stabiliva che «[n]on è riconosciuto alcun indennizzo: […] e) quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini [di sua ragionevole durata] di cui all’articolo 2-bis [recte: all’art. 2, comma 2-bis]» della “legge Pinto”.

Secondo la Corte rimettente, l’effetto ostativo alla concessione dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001 – in tal modo attribuito alla (omessa presentazione della) «istanza di accelerazione», di per sé inidonea ad assicurare una sollecita definizione del processo e in non altro risolventesi che nell’imporre una “prenotazione” degli effetti della riparazione per l’irragionevole durata del processo – comporterebbe che all’interessato non sia consentito né di impedire che si verifichi o protragga la violazione del termine di ragionevole durata del processo né di ottenere riparazione per la subita violazione di quel termine.

Dal che, quindi, il sospetto di violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, 13 e 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (in particolare con le sentenze 2 giugno 2009, Daddi contro Italia e 22 febbraio 2016, Olivieri e altri contro Italia).

3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha preliminarmente contestato la deducibilità, nella specie, di una violazione dell’art. 46, paragrafo 1, CEDU. Ma tale contestazione, ancorché formulata in termini di eccezione di inammissibilità, non rileva come tale, attenendo più propriamente al merito della sollevata questione.

4.– Nel merito, la questione è fondata per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU, restando assorbita ogni altra censura.

4.1.– Con la recente sentenza n. 34 del 2019, questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale di norma analoga a quella ora in esame (art. 54, comma 2, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, recante «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria», convertito, con modificazioni, nella legge 6 agosto 2008, n. 133, come successivamente modificato): norma che, con riferimento al processo amministrativo, a sua volta prevedeva che la mancata presentazione della «istanza di prelievo» costituisse motivo di improponibilità della domanda di indennizzo ex “legge Pinto”.

In quel caso si è osservato che, per «costante giurisprudenza della Corte EDU» (il riferimento va appunto alle ricordate sentenze Daddi e Olivieri, ma anche alla sentenza della Grande Camera 29 marzo 2006, Scordino contro Italia), i rimedi preventivi, volti ad evitare che la durata del procedimento diventi eccessivamente lunga, sono ammissibili, o addirittura preferibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma solo se “effettivi” e, cioè, solo se e nella misura in cui velocizzino la decisione da parte del giudice competente. Alternativamente alla durata ragionevole del processo, il rimedio interno deve comunque allora garantire l’adeguata riparazione della violazione del precetto convenzionale.

E, in applicazione di tali principi, questa Corte ha conseguentemente affermato che «l’istanza di prelievo […] non costituisce un adempimento necessario ma una mera facoltà del ricorrente […], con effetto puramente dichiarativo di un interesse già incardinato nel processo e di mera “prenotazione della decisione” (che può comunque intervenire oltre il termine di ragionevole durata del correlativo grado di giudizio), risolvendosi in un adempimento formale, rispetto alla cui violazione la, non ragionevole e non proporzionata, sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo risulta non in sintonia né con l’obiettivo del contenimento della durata del processo né con quello indennitario per il caso di sua eccessiva durata».

4.2.– Le stesse considerazioni valgono ora per l’istanza di accelerazione del processo penale.

Nel contesto della disposizione qui censurata, la suddetta istanza, non diversamente dall’istanza di prelievo nel processo amministrativo, non costituisce infatti un adempimento necessario ma una mera facoltà dell’imputato e non ha – ciò che è comunque di per sé decisivo − efficacia effettivamente acceleratoria del processo. Atteso che questo, pur a fronte di una siffatta istanza, può comunque proseguire e protrarsi oltre il termine di sua ragionevole durata, senza che la violazione di detto termine possa addebitarsi ad esclusiva responsabilità del ricorrente.

4.3.– La mancata presentazione dell’istanza di accelerazione nel processo presupposto può eventualmente assumere rilievo (come indice di sopravvenuta carenza o non serietà dell’interesse al processo del richiedente) ai fini della determinazione del quantum dell’indennizzo ex lege n. 89 del 2001, ma non può condizionare la stessa proponibilità della correlativa domanda, senza con ciò venire in contrasto con l’esigenza del giusto processo, per il profilo della sua ragionevole durata, e con il diritto ad un ricorso effettivo, garantiti dagli evocati parametri convenzionali, la cui violazione comporta, appunto, per interposizione, quella dell’art. 117, primo comma, Cost.

4.4.– Va, dunque, dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma denunciata.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nel testo introdotto dall’art. 55, comma 1, lettera a), n. 2, del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2019.

F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere


Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2019.
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