Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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Sentenza di oggi della CORTE COSTITUZIONALE n. 154/2014

i ricorrenti sono ufficiali della Guardia di finanza i quali, con decorrenze giuridiche diverse, hanno acquisito il grado di maggiore o maturato i 13 anni di servizio senza demerito dalla nomina a ufficiale, nel periodo oggetto di applicazione del decreto-legge n. 78 del 2010.
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SENTENZA N. 154
ANNO 2014


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Gaetano SILVESTRI Presidente
- Luigi MAZZELLA Giudice
- Sabino CASSESE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, secondo e terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio nel procedimento vertente tra A. M. ed altri e il Ministero dell’economia e delle finanze con ordinanza del 24 luglio 2013, iscritta al n. 244 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 marzo 2014 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 24 luglio 2013 (r.o. n. 244 del 2013), il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, secondo e terzo periodo, del decreto-legge 31 marzo 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione.

1.1.– Il TAR Lazio espone che i ricorrenti sono ufficiali della Guardia di finanza i quali, con decorrenze giuridiche diverse, hanno acquisito il grado di maggiore o maturato i 13 anni di servizio senza demerito dalla nomina a ufficiale, nel periodo oggetto di applicazione del decreto-legge n. 78 del 2010, introduttivo per il personale cosiddetto non contrattualizzato disciplinato all’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), tra cui il personale della Guardia di finanza, il blocco per il triennio 2011-2013:

a) dei meccanismi di adeguamento retributivo previsti dall’art. 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), per gli anni 2011, 2012 e 2013;

b) degli automatismi stipendiali (classi e scatti) correlati all’anzianità di servizio, relativi allo stesso periodo;

c) di ogni effetto economico delle progressioni in carriera, comunque denominate, conseguite nel periodo 2011-2013. Essi hanno agito per l’accertamento del diritto al pieno trattamento retributivo, per il triennio 2011-2013, delle prestazioni di lavoro straordinario svolte, secondo gli importi corrisposti a favore degli ufficiali che hanno conseguito lo stesso grado o la medesima anzianità di servizio in un periodo anteriore al 1° gennaio 2011.

1.2.– Il giudice rimettente ritiene che la norma censurata trovi applicazione in ordine alla retribuzione del lavoro straordinario, nella parte in cui stabilisce che «Per le categorie di personale di cui all’articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti» (secondo periodo), e che, per lo stesso personale, «le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici» (terzo periodo).

Non reputa, infatti, convincente la tesi dei ricorrenti secondo cui la retribuzione del lavoro straordinario non formerebbe oggetto delle disposizioni di blocco introdotte dall’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 e che, conseguentemente, dovrebbe essere calcolata secondo gli importi spettanti ai pari grado promossi al grado di maggiore prima del 1° gennaio 2011 o che, comunque, prima di tale data, abbiano raggiunto i 13 anni di servizio dalla nomina a ufficiale senza demerito.

In particolare, il TAR osserva che l’art. 43, comma 14, della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza) dispone che il compenso per lavoro straordinario, per gli ufficiali dirigenti e cosiddetti omogeneizzati, è di regola determinato in misura proporzionale ad alcune voci del trattamento retributivo fondamentale.

1.3.– Il TAR sostiene la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, secondo e terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte in cui impedisce ai suddetti ufficiali di conseguire la remunerazione del lavoro straordinario nella misura corrispondente alla qualifica conseguita o all’anzianità raggiunta nel corso del triennio oggetto delle misure di contenimento della spesa pubblica.

1.3.1.– Viene prospettata la violazione degli artt. 2, 3 e 36 Cost.

La disciplina censurata determinerebbe, in contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost., un’irragionevole disparità di trattamento all’interno del Corpo della Guardia di finanza: infatti, a parità di grado (e con mansioni conseguentemente corrispondenti), gli appartenenti al Corpo percepirebbero o meno lo stesso trattamento economico accessorio in relazione ad un elemento del tutto aleatorio, costituito dall’anno in cui la relativa promozione è stata conseguita ovvero la prescritta anzianità è stata maturata.

Sarebbe violato, altresì, l’art. 36 Cost., in quanto, in base ad esso, il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, dovendosi presumere che tale sia la retribuzione tabellare prevista per il grado rivestito.

Il giudice rimettente sostiene che, pur non essendovi dubbio che anche la riduzione del passivo del bilancio statale è un valore avente piena copertura costituzionale (vieppiù oggi, dopo il recepimento nell’art. 81 Cost. del principio del pareggio di bilancio), tale obiettivo non può tuttavia essere realizzato a scapito dei principi di uguaglianza formale e sostanziale, ovvero degli altri valori tutelati dalla Costituzione, tra cui quelli definiti dall’art. 36 Cost.

1.3.2.– A parere del TAR Lazio sarebbe, altresì, leso l’art. 97 Cost.

La circostanza per cui il trattamento economico tra colleghi si differenzia non già in virtù delle mansioni svolte e delle conseguenti responsabilità bensì in relazione ad un elemento casuale – rappresentato dal momento in cui la qualifica è stata acquisita o l’anzianità maturata –, non potrebbe che interferire negativamente sui rapporti tra i colleghi stessi, così riverberandosi sull’organizzazione degli uffici ed incidendo negativamente sul loro buon andamento.

1.3.3.– Il giudice rimettente, infine, qualificando il blocco disciplinato dalle disposizioni impugnate come imposizione di natura tributaria, prospetta la violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost.

L’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 introdurrebbe una prestazione patrimoniale, poiché verrebbe trattenuta una parte dei compensi maturati con il grado superiore o la maggiore anzianità. La disposizione censurata imporrebbe agli interessati un peculiare concorso alle spese pubbliche, ovvero, in altri termini, istituirebbe un tributo anomalo, in contrasto con i richiamati parametri costituzionali.

Sarebbe leso il principio di capacità contributiva, poiché il sacrificio sarebbe richiesto non in relazione ad uno specifico indice di ricchezza, ma al dato, economicamente insignificante, del momento in cui la qualifica è stata acquisita o l’anzianità maturata, senza alcuna considerazione del principio di progressività.

Inoltre, il tributo colpirebbe solo una parte dei dipendenti che hanno raggiunto una determinata qualifica o maturato una certa anzianità, e, comunque, soltanto i redditi dei pubblici dipendenti, senza invece gravare, a parità di capacità contributiva, su analoghe categorie di lavoratori o di redditi.

Il giudice rimettente evidenzia che l’eccezionalità della situazione economica che lo Stato deve affrontare è suscettibile, senza dubbio, di consentire al legislatore anche il ricorso a strumenti eccezionali; tuttavia resta cómpito dello Stato garantire anche in queste condizioni il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

2.− È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate.

L’Avvocatura rileva che la norma censurata ha un precedente nell’art. 7 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 14 novembre 1992, n. 438, che ha superato il vaglio di legittimità costituzionale.

A sostegno della non ravvisabilità della asserita violazione degli artt. 3 e 97 Cost., in particolare, viene valorizzato che la norma impugnata ha toccato tutti i dipendenti del settore pubblico, secondo le coordinate perimetrate dalla Corte, e cioè in misura non eccedente «l’obiettivo di realizzare un raffreddamento della dinamica retributiva e non in danno di una sola categoria di pubblici dipendenti» (sentenza n. 223 del 2012). Viene infine rimarcato come la delicata situazione delle finanze pubbliche nazionali, anche nella prospettiva europea, deponga per la legittimità dei sacrifici imposti alle diverse categorie, proprio in applicazione del principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., che non potrebbe, quindi, ritenersi violato.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 24 luglio 2013, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, secondo e terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione.

2.– La norma censurata, nella parte in cui stabilisce, rispettivamente, che «Per le categorie di personale di cui all’articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti», e che, per il medesimo personale, «le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici», impedisce agli ufficiali della Guardia di finanza, che, nel corso del triennio oggetto delle misure di contenimento della spesa pubblica, abbiano acquisito il grado di maggiore o maturato i 13 anni di servizio senza demerito dalla nomina di ufficiale, di conseguire la remunerazione del lavoro straordinario nella misura corrispondente rispettivamente alla qualifica conseguita o all’anzianità raggiunta.

A parere del giudice a quo, ciò comporterebbe la violazione degli artt. 2, 3 e 36 Cost., da un lato, per l’irragionevole disparità di trattamento del personale della Guardia di finanza, atteso che, a parità di grado e con mansioni corrispondenti, gli appartenenti al Corpo percepirebbero diversi trattamenti economici accessori per il lavoro straordinario in relazione ad un elemento cronologico del tutto aleatorio; dall’altro lato, per la lesione del diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, tale dovendo presumersi quella corrispondente alla retribuzione tabellare prevista per il grado rivestito o l’anzianità raggiunta.

Inoltre, sarebbero lesi gli artt. 2, 3 e 53 Cost., in quanto verrebbe imposto un peculiare concorso alle spese pubbliche, colpendo solo i redditi di pubblici dipendenti e, tra essi, solo quelli di coloro che hanno raggiunto una determinata qualifica o maturato una certa anzianità dopo il 1o gennaio 2011. Sarebbe, inoltre, istituito un tributo anomalo, nel cui ambito il sacrificio è richiesto non in relazione ad uno specifico indice di ricchezza, ma a un dato temporale economicamente insignificante, e ciò senza alcuna considerazione del principio di progressività.

La norma censurata, infine, si porrebbe in contrasto con l’art. 97 Cost., in quanto, determinando la differenziazione del trattamento economico non in virtù delle mansioni espletate ma in relazione ad un elemento casuale, interferirebbe sui rapporti tra i colleghi riverberandosi negativamente sul buon andamento degli uffici.

3.– Va premesso che correttamente il giudice rimettente, non aderendo alla prospettazione dei ricorrenti circa l’esclusione dei compensi per il lavoro straordinario dal blocco del trattamento retributivo, ritiene che le disposizioni in questione siano invece applicabili.

Difatti, per coloro che hanno acquisito il grado superiore, va applicato il terzo periodo del comma 21 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010. Tale disposizione sterilizza, appunto, gli effetti economici delle progressioni di carriera senza operare alcuna distinzione tra voci fondamentali e voci accessorie del trattamento retributivo.

Per gli ufficiali cosiddetti “omogeneizzati”, nei cui confronti gli artt. 43, commi 22 e 23, e 43-ter della legge 1o aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza) dispongono un riconoscimento di natura economica e non una progressione di carriera, il blocco deriva dal secondo periodo del comma 21 del citato art. 9, il quale prevede che, per coloro che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione di «classi e scatti» di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Non è illogico ritenere che con tale binomio il legislatore abbia voluto includere tutti i miglioramenti stipendiali, pur se non formalmente definiti come «classi» e «scatti», poiché la natura ancillare del compenso per lavoro straordinario rispetto allo stipendio giustifica che, in mancanza di un’espressa differenziazione, al primo si applichi la medesima disciplina del secondo.

Ciò è particolarmente evidente nel caso in esame, in cui, ai sensi della disciplina di settore, per il personale non dirigente la misura oraria del compenso per il lavoro straordinario è legata ai parametri stipendiali che, a norma dell’art. 2 del decreto legislativo 30 maggio 2003, n. 193 (Sistema dei parametri stipendiali per il personale non dirigente delle Forze di polizia e delle Forze armate, a norma dell’art. 7 della legge 29 marzo 2001, n. 86), articolano il trattamento economico del personale della Guardia di finanza; mentre, per il personale dirigente, l’art. 2170 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare) dispone che il compenso per il lavoro straordinario sia determinato in misura proporzionale alla retribuzione mensile.

Più in generale, la riconducibilità di questa voce non marginale del trattamento economico al blocco previsto dal secondo periodo del comma 21 è suggerita anche dalla ratio cui è ispirato il d.l. n. 78 del 2010, che è volto ad introdurre un meccanismo di raffreddamento della dinamica retributiva nel suo complesso e senza distinzione alcuna.

4.– Tanto premesso sulla ricostruzione del quadro normativo operata dal giudice a quo, può procedersi all’esame dei gruppi di censure prospettate dal giudice rimettente.

5.– La questione di costituzionalità dell’art. 9, comma 21, secondo e terzo periodo, sollevata con riferimento alla violazione degli artt. 2, 3 e 36 Cost., non è fondata.

5.1.– Per le censure relative agli artt. 2 e 3 Cost., valgono, anche nel caso di specie, le considerazioni di questa Corte, che ha ritenuto l’intervento in esame giustificato, nel suo complesso, dalle notorie esigenze di contenimento della spesa pubblica, in presenza del carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario, consentaneo allo scopo prefissato nonché temporalmente limitato dei sacrifici richiesti (sentenza n. 310 del 2013).

Le disposizioni censurate rientrano infatti nel perimetro delineato dalla sentenza n. 304 del 2013, con riferimento a questa normativa, secondo cui «la misura adottata è giustificata dall’esigenza di assicurare la coerente attuazione della finalità di temporanea “cristallizzazione” del trattamento economico dei dipendenti pubblici per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica, realizzata con modalità per certi versi simili a quelle già giudicate da questa Corte non irrazionali ed arbitrarie (sentenze n. 496 e n. 296 del 1993; ordinanza n. 263 del 2002), anche in considerazione della limitazione temporale del sacrificio imposto ai dipendenti (ordinanza n. 299 del 1999)».

5.2.– Questa Corte ha inoltre negato che sia ravvisabile una lesione dell’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, posto che «il legislatore può anche emanare disposizioni che modifichino in senso sfavorevole la disciplina dei rapporti di durata, anche se l’oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, sempre che tali disposizioni “non trasmodino in un regolamento irrazionale, frustrando, con riguardo a situazioni sostanziali fondate sulle leggi precedenti, l’affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da intendersi quale elemento fondamentale dello Stato di diritto” (sentenze n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009)» (sentenza n. 310 del 2013).

5.3.– Con specifico riferimento alla disparità di trattamento con i colleghi che hanno raggiunto il grado superiore o maturato l’anzianità prima del 2011, viene in rilievo uno degli elementi cui è connessa la disciplina economica del rapporto. Infatti coloro che si sono visti riconoscere il migliore trattamento retributivo hanno raggiunto il grado superiore o maturato la maggiore anzianità di servizio prima rispetto ai ricorrenti nel giudizio a quo, per i quali tali condizioni si sono verificate a partire dal 1o gennaio 2011.

Come già affermato da questa Corte, ciò costituisce un elemento che di per sé può giustificare un diverso trattamento retributivo (sentenza n. 304 del 2013).

In particolare, si è ritenuto che non esiste un principio di omogeneità di retribuzione a parità di anzianità, ed anzi «è ammessa una disomogeneità delle retribuzioni anche a parità di qualifica e di anzianità», naturalmente in situazioni determinate (sentenza n. 304 del 2013). E in una tale prospettiva non può considerarsi irragionevole un esercizio della discrezionalità legislativa che privilegi esigenze fondamentali di politica economica, a fronte di altri valori pur costituzionalmente rilevanti (da ultimo, sentenze n. 310 e n. 304 del 2013).

5.3.1.– Quanto alla disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, come chiarito dalla citata sentenza n. 310 del 2013, «non può non rilevarsi che le profonde diversità dello stato giuridico (si pensi alla minore stabilità del rapporto) e di trattamento economico escludano ogni possibilità di comparazione».

5.4.– Con riferimento all’art. 36 Cost., poi, questa Corte è ferma nel sostenere che il giudizio sulla conformità a tale parametro costituzionale non può essere svolto per singoli istituti, né giorno per giorno, ma occorre valutare l’insieme delle voci che compongono il trattamento complessivo del lavoratore in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza (sentenze n. 310 e n. 304 del 2013, n. 366 e n. 287 del 2006, n. 470 del 2002 e n. 164 del 1994).

6.– La questione di costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost., in relazione alla presunta natura tributaria della misura in esame, è parimenti non fondata.

I criteri elaborati da questa Corte in ordine alle prestazioni patrimoniali portano ad escludere che tale natura sia ravvisabile nella misura oggetto della norma impugnata. Si è precisato, infatti, che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: una disciplina legale diretta in via prevalente a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; una decurtazione che non comporti una modifica di un rapporto sinallagmatico; una destinazione delle risorse derivanti, connesse ad un presupposto economicamente rilevante, a «sovvenire» le pubbliche spese. Nessuno di questi elementi è rinvenibile nella fattispecie.

In particolare, con la recente sentenza n. 304 del 2013, sempre con riferimento alle disposizione in esame, si è ritenuto che: «La norma censurata […] non ha natura tributaria in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico. Pertanto, in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della stessa natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto per affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a mancare anche il requisito relativo all’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, in quanto la disposizione non realizza un’acquisizione che, anche in via indiretta, venga a fornire copertura a pubbliche spese, ma determina un risparmio di spesa».

7.– Infine, anche la questione di costituzionalità per violazione dell’art. 97 Cost. non è fondata.

La censura, incentrata sulla presunta distorsione delle dinamiche dei rapporti tra colleghi e sulle possibili ripercussioni negative sull’andamento degli uffici, si sostanzia infatti in considerazioni metagiuridiche e meramente ipotetiche.

Comunque, nella più volte ricordata sentenza n. 304 del 2013, si è affermata la non fondatezza della censura relativa al comma 21, formulata in riferimento all’art. 97 Cost., in una prospettiva simile a quella qui in esame, in quanto «“il principio di buon andamento dell’amministrazione non può essere richiamato per conseguire miglioramenti retributivi (ordinanza n. 205 del 1998; sentenza n. 273 del 1997)” (ordinanza n. 263 del 2002)».

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, secondo e terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Giancarlo CORAGGIO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2014.


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Tar Lazio sempre su blocco stipendi, assegni ed accessori.

1) - gli interessati, in qualità di ufficiali delle forze armate che ricoprono il grado di Generale di Corpo d’Armata e di Divisione, hanno chiesto l’accertamento del diritto all’integrale retribuzione secondo il regime di diritto pubblico previsto dalle norme vigenti per i rispettivi ordinamenti dell’Arma e delle Forze Armate in generale,

Ricorso respinto.
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12/06/2014 201406296 Sentenza 1B


N. 06296/2014 REG.PROV.COLL.
N. 07604/2012 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7604 del 2012, proposto da:
C. A., A. G., B. M., B. M., B. A., B. G. B., C. V., C. R., F. N., G. F., G. A., L. M., L. L., M. C., M. P., M. M., P. V., R. P., T. A. e V. E., rappresentati e difesi dagli avv.ti Guido Corso e Guerino Massimo Oscar Fares, con domicilio eletto presso quest’ultimo in Roma, via Bisagno, 14;

contro
Ministero della Difesa, Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi Ministri in carica, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l’accertamento,
del diritto alla corresponsione alle voci retributive che ai ricorrenti non sono state corrisposte a decorrere dal 1 gennaio 2011 ed in particolare:

- le differenze retributive legate alla maturazione delle classi e agli aumenti periodici che sono intervenuti o interverranno nel corso del triennio 2011-2013 (art. 1 del D.L. n. 681 del 1982);

- le somme indebitamente trattenute a causa della riduzione dei trattamenti economici complessivi superiori a 90.000 euro lordi, nella misura del 5 per cento per la parte eccedente il predetto importo fino a 150.000 euro, in ragione del combinato disposto degli artt. 9, comma 2, del decreto legge 31 maggio 2010 n. 78, decreto legge 13 agosto 2011 n. 138, commi 1 e 2;

- le differenze retributive dipendenti dai meccanismi di adeguamento al costo della vita secondo gli indici calcolati dell’ISTAT (art. 24 della L. n. 448/1998);

- le differenze retributive conseguenti al passaggio al grado superiore che è intervenuto o interverrà nel corso del triennio 2011-2013;

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa e di Ministero dell'Economia e delle Finanze;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 maggio 2014 il dott. Francesco Riccio e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con il ricorso, notificato il 17 luglio 2012 e depositato il successivo 29 settembre, gli interessati, in qualità di ufficiali delle forze armate che ricoprono il grado di Generale di Corpo d’Armata e di Divisione, hanno chiesto l’accertamento del diritto all’integrale retribuzione secondo il regime di diritto pubblico previsto dalle norme vigenti per i rispettivi ordinamenti dell’Arma e delle Forze Armate in generale, che è connotato dalle seguenti regole comuni:

a) progressione economica che si sviluppa in classi biennali ed aumenti periodici;

b) adeguamento annuale del trattamento stipendiale agli incrementi medi calcolati dall’ISTAT;

c) attribuzione del trattamento economico corrispondente al grado superiore rivestito in ragione del servizio prestato senza demerito.

Secondo i ricorrenti le suddette regole non hanno trovato applicazione dal 1 gennaio 2011 al 31 dicembre 2013 per effetto di una serie di misure legislative. In particolare, l’art. 9, comma 21 secondo periodo, del D.L. 31 maggio 2010 n. 78 ha inciso sul criterio di cui alla lett. a), l’art. 9, comma 21 primo periodo, del D.L. 31 maggio 2010 n. 78 ha inciso sul criterio di cui alla lett. b) e l’art. 9, comma 1, del D.L. 31 maggio 2010 n. 78 ha inciso sul criterio di cui alla lett. c).

Per la evidente iniquità e contrasto con gli articoli 3, 36, 97 e 53 della costituzione si chiede la rimessione della questione di incostituzionalità delle norme sopra riportate alla Corte Costituzionale.

Nel contempo si pone la questione di incostituzionalità anche dell’art. 16, comma 1 lett. b), del D.L. 6 luglio 2011 n. 98 che consente al Governo, con regolamento, di prorogare fino al 31 dicembre 2014 le superiori disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale delle pubbliche amministrazioni per contrasto, oltre che con gli articoli sopra indicati, anche con gli artt. 23 e 76 della Cost..

In via ulteriore si prospetta altresì la questione di legittimità costituzionale, previa rimessione alla Corte, dell’art. 8, comma 11 bis del D.L. 31 maggio 2010 n. 78, nella parte in cui prevede un fondo di 80 milioni di euro per ciascuno degli anni 2011 e 2012 destinato al finanziamento di misure perequative per il personale delle Forze Armate, senza tener conto dell’anno 2013 e senza tener conto, per l’anno 2012, dell’aumento del numero dei militari aventi diritto al beneficio per contrasto con gli artt. 3, 36 e 97 della Cost..

Nel corso dell’odierna udienza pubblica il difensore delle parti istanti ha dichiarato di rinunciare alla prospettazione delle questioni di incostituzionalità della norma contenuta nell’art. 9, comma 2, del decreto legge n. 78 del 2010 che prevede il taglio delle retribuzioni in ragione dei diversi scaglioni di importo attesa la accertata incostituzionalità della norma richiamata per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 2012.

Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Difesa ed il Ministero dell’Economia e delle Finanze i quali con un’unica memoria dell’Avvocatura dello Stato hanno eccepito la infondatezza delle questioni di incostituzionalità sollevate dai ricorrenti.

In via preliminare, il Collegio non può non rilevare che risulta del tutto fondata l’eccezione sollevata dall’Avvocatura dello Stato secondo cui il presente gravame risulta inammissibile per difetto di competenza del giudice adito in ragione delle sedi di servizio di parte di alcuni ricorrenti, la cui posizione per effetto dell’art. 13, comma 2, del c.p.a. va stralciata dal presente giudizio (G. Antonio, con servizio a Milano, L. Leonardo con servizio a Messina, A. Carmine e B. Giovan Battista con servizio a Napoli, M. Marcello con servizio a Firenze, A. Giovanni con servizio a Padova) e dichiarare pertanto per i suddetti nominativi rispettivamente la competenza del T.A.R. per la Lombardia, del TAR per la Sicilia, del TAR per la Campania, del TAR per la Toscana e del TAR per il Veneto, presso cui le predette parti potranno eventualmente riassumere il giudizio.

Nel merito il Collegio nell’affrontare le questione di incostituzionalità prospettate non può prescindere dalla giurisprudenza recente della Corte Costituzionale.

Con precedenti decisioni, ed in particolare con la sentenza n. 310 del 27 dicembre 2013, il Supremo Giudice delle Leggi ha già statuito, seppure partendo da questioni che sono state sollevate nel corso di giudizi promossi da docenti universitari di ruolo, ordinari, straordinari, associati e ricercatori o comunque da altre categorie similari di dipendenti pubblici non contrattualizzati, sulle questioni di presunta incostituzionalità delle medesime norme in virtù di argomentazioni che rendono quelle sollevate con l’attuale mezzo di gravame manifestamente infondate.

I vizi di incostituzionalità dedotti nel ricorso principale si sviluppano affrontando l’esame complessivo dell’art. 9 del D.L. 31 maggio 2010 n. 78, con particolare riferimento ai commi 1 e 21, rispetto alla sua incidenza sul normale assetto retributivo degli ufficiali delle forze armate dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e dell’arma dei carabinieri.

Da tale raffronto la difesa di parte istante pone in risalto la violazione della norma costituzionale contenuta nell’art. 3 (principi di uguaglianza e ragionevolezza).

L’assunto si fonda sulla mera constatazione che il blocco dei meccanismi di progressione automatica degli stipendi (classi e scatti biennali o trattamento economico superiore legato all’anzianità di servizio senza demerito) finisce per discriminare gli ufficiali che hanno maturato o matureranno il diritto nel triennio rispetto a coloro che tale diritto hanno acquisito un giorno prima del 1 gennaio 2011.

Come rilevato dagli stessi ricorrenti già nella decisione n. 299 del 1993 la Corte Costituzionale ha ritenuto compatibile con il richiamato art. 3 un sistema similare di blocco a condizione che i suddetti sacrifici siano eccezionali, transeunti e consentanei allo scopo prefisso.

Con la citata sentenza n. 310 del 2013 il giudice delle leggi parte dall’assunto secondo il quale è presente in tutte le ordinanze di rimessione degli atti la doglianza della mancanza di ragionevolezza dell’azione legislativa, che è dedotta, nel complesso, insieme alla disparità di trattamento, alla lesione dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione, alla violazione del principio di proporzionalità della retribuzione, alla lesione del principio di promozione della ricerca scientifica e del valore dell’insegnamento.

Il sistema di adeguamento richiamato nell’art. 9, comma 21, primo periodo, funge, dunque, da criterio di determinazione stipendiale indiretto e per relationem, con fini perequativi a favore di categorie non contrattualizzate, all’andamento delle dinamiche retributive degli altri settori del pubblico impiego.

L’argomento ermeneutico sopra illustrato è di per sè idoneo a fugare ogni dubbio di incostituzionalità per ciò che riguarda la violazione degli artt.3 e 36 della costituzione in considerazione che il Governo ed il Parlamento non solo hanno adottato misure restrittive nei confronti del personale non contrattualizzato, ma hanno previsto, in termini di bilanciamento assoluto su tutto il pubblico impiego, il blocco dei rinnovi dei contratti degli altri dipendenti pubblici dei vari comparti di contrattazione.

Infatti, al riguardo la Corte con molta chiarezza espositiva ribadisce che “nell’esaminare la disciplina di blocco, senza possibilità di successivo recupero, del suddetto meccanismo di adeguamento, occorre ricordare che il d.l. n. 78 del 2010, al comma 17, dello stesso art. 9, coerentemente con la norma in esame, ha stabilito, tra l’altro, che «Non si dà luogo, senza possibilità di recupero, alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012» del personale contrattualizzato.”.

Alla luce delle premesse sopra evidenziate la Corte trae alcune rilevanti conclusioni sugli aspetti di incostituzionalità dell’art. 9 del D.L. n. 78 del 2010.

Nella specie, quanto all’adeguamento, il blocco è stato previsto per la durata di tre anni (poi prorogato sino al 31 dicembre 2014), con l’espressa esclusione di successivi recuperi.

In proposito, va ricordato che, come in passato (art. 7 del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384, recante «Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali», convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438), la scelta del legislatore è stata quella di realizzare una economia di spesa e non un semplice rinvio della stessa, come si verificherebbe se i tagli fossero recuperabili.

Ed al riguardo è opportuno ricordare che l’esclusione della possibilità di recupero è stata prevista anche per il blocco delle procedure previste per il personale contrattualizzato, stabilito dal comma 17 del medesimo art. 9 del d.l. n. 78 del 2010.

Peraltro il quarto periodo del comma 21 stabilisce che «Per il personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici».

Rileva, quindi, anche nel caso in esame, quanto affermato dalla Corte con la sentenza n. 189 del 2012, laddove si è individuata la ratio legis dell’art. 9, comma 17, nella necessità di evitare che il risparmio della spesa pubblica derivante dal temporaneo divieto di contrattazione possa essere vanificato da una successiva procedura contrattuale o negoziale che abbia ad oggetto il trattamento economico relativo proprio a quello stesso triennio 2010-2012, trasformandosi così in un mero rinvio della spesa.

A maggior ragione valgono tali considerazioni, circa la razionalità del sistema, per la misura incidente sulle classi e sugli scatti, poiché le disposizioni censurate non modificano il meccanismo di progressione economica che continua a decorrere, sia pure articolato, di fatto, in un arco temporale maggiore, a seguito dell’esclusione del periodo in cui è previsto il blocco.

Con particolare riferimento poi alla ragionevolezza dello sviluppo temporale delle misure, non ci si può esimere dal considerare l’evoluzione che è intervenuta nel complessivo quadro, giuridico-economico, nazionale ed europeo.

La recente riforma dell’art. 81 Cost., a cui ha dato attuazione la legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), con l’introduzione, tra l’altro, di regole sulla spesa, e dell’art. 97, primo comma, Cost., rispettivamente ad opera degli artt. 1 e 2 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), ma ancor prima il nuovo primo comma dell’art. 119 Cost., pongono l’accento sul rispetto dell’equilibrio dei bilanci da parte delle pubbliche amministrazioni, anche in ragione del più ampio contesto economico europeo.

Non è senza significato che la direttiva 8 novembre 2011, n. 2011/85/UE (Direttiva del Consiglio relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri), evidenzi come «la maggior parte delle misure finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il ciclo di bilancio annuale» e che “Una prospettiva annuale non costituisce pertanto una base adeguata per politiche di bilancio solide» (20° Considerando), tenuto conto che, come prospettato anche dalla difesa dello Stato, vi è l’esigenza che misure strutturali di risparmio di spesa non prescindano dalle politiche economiche europee”.

Ebbene, il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, attraverso cui può attuarsi una politica di riequilibrio del bilancio, implicano sacrifici gravosi, quali quelli in esame, che trovano giustificazione nella situazione di crisi economica. In particolare, in ragione delle necessarie attuali prospettive pluriennali del ciclo di bilancio, tali sacrifici non possono non interessare periodi, certo definiti, ma più lunghi rispetto a quelli presi in considerazione dalle richiamate sentenze di questa Corte, pronunciate con riguardo alla manovra economica del 1992.

Le norme impugnate, dunque, superano il vaglio di ragionevolezza, in quanto mirate ad un risparmio di spesa che opera riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego, in una dimensione solidaristica − sia pure con le differenziazioni rese necessarie dai diversi statuti professionali delle categorie che vi appartengono − e per un periodo di tempo limitato, che comprende più anni in considerazione della programmazione pluriennale delle politiche di bilancio.

Altra argomentazione prospettata dalle parti istanti è la dedotta violazione dell’art. 36 della costituzione poiché l’obbligo di osservanza del principio enunciato nel predetto articolo non può mai giustificare il mancato riconoscimento di un compenso economico rapportato alle mansioni effettivamente svolte.

Tale violazione sarebbe duplice: sia rispetto ai colleghi che hanno la promozione prima del 1 gennaio 2011, sia rispetto ai colleghi che, nel triennio, hanno avuto ed avranno la stessa retribuzione di coloro che, nel triennio, hanno ottenuto il grado superiore.

Si sottolinea al riguardo che nell’ambito militare la progressione di carriera si fonda su un dato costante ed inderogabile: l’anzianità di servizio senza demerito.

In ordine alla prospettata lesione dell’art. 36 Cost., la Corte rileva come, secondo i principi affermati con le sentenze n. 120 del 2012 e n. 287 del 2006, allo scopo di verificare la legittimità delle norme in tema di trattamento economico dei dipendenti, “occorra far riferimento, non già alle singole componenti di quel trattamento, ma alla retribuzione nel suo complesso, dovendosi avere riguardo – in sede di giudizio di non conformità della retribuzione ai requisiti costituzionali di proporzionalità e sufficienza – al principio di onnicomprensività della retribuzione medesima. Pertanto tale parametro, ex se ed in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., non risulta violato, non incidendo le disposizioni in esame sulla struttura della retribuzione dei docenti universitari (nel caso di specie dei militari) nel suo complesso, né emergendo una situazione che leda le tutele socio-assistenziali degli interessati e dunque l’art. 2 Cost.”.

Allo stesso modo in conclusione si sofferma sul dato della casualità degli effetti delle disposizioni normative in discussione:

“Viene infine dedotto uno specifico profilo di illegittimità, connesso ai differenti effetti del blocco in ragione della diversa anzianità di servizio maturata.

In proposito, va in primo luogo rilevato che l’urgenza e l’ampiezza della manovra economica contenuta nel d.l. n. 78 del 2010, in cui si inscrivono le norme censurate, ha interessato l’intero comparto del pubblico impiego: la sua stessa struttura non rendeva, dunque, possibile una frantumazione delle misure previste.

D’altro canto, considerato che la materia attiene a scelte di politica economica e sociale, che non spetta alla Corte valutare (sentenza n. 119 del 2012) se non nei limiti della evidente irragionevolezza, non emergono elementi che possano indurre ad una tale conclusione.

Va infatti osservato che il sacrificio imposto al personale interessato, se pure particolarmente gravoso per quello più giovane, appare, in quanto temporaneo, congruente con la necessità di risparmi consistenti ed immediati.

Del resto, nel senso della non irragionevolezza di un analogo blocco degli incrementi retributivi, si è già pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 245 del 1997, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, del d.l. n. 384 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 438 del 1992, questione prospettata negli stessi termini dall’allora rimettente.”

Sotto altro aspetto la soppressione dei diritti economici degli ufficiali viene interpretata dalle parti istanti come una ulteriore trattenuta fiscale imposta dal legislatore sul trattamento economico complessivo al fine di prospettare la violazione dell’art. 53 della costituzione sotto l’aspetto della lesione dei principi generali dell’universalità e dell’uguaglianza.

La predetta questione è risolta dalla Corte Costituzionale alla radice affermando che alle disposizioni in esame, non può riconoscersi natura tributaria, atteso che non danno luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinata a reperire risorse per l’erario.

La giurisprudenza della Corte, da ultimo (sentenza n. 223 del 2012), ha precisato che gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria sono tre: la disciplina legale deve essere diretta in via prevalente a procurare una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo; la decurtazione non deve comportare una modifica di un rapporto sinallagmatico; le risorse derivanti, che devono essere connesse ad un presupposto economicamente rilevante, vanno destinate a «sovvenire» le pubbliche spese.

Conseguentemente, non possono trovare ingresso le censure relative al mancato rispetto dei principi di progressività e di capacità contributiva.

Alla luce della complessa e dettagliata motivazione della Corte Costituzionale non residuano margini per prospettare ulteriori questioni di illegittimità costituzionali delle norme contenute nel più vote citato art. 9, commi 1 e 21, del D.L. n. 78/2010.

La stessa difesa delle parti istanti, avendo constatato nelle ultime pronunce della Corte Costituzionale – ed in particolare nella sentenza n. 310 del 2013 sopra diffusamente riportata – un aspetto preclusivo e dirimente in tema di rimessione degli atti al giudice delle leggi, ha con la memoria di replica depositata il 14 aprile 2014 insistito nella prospettazione della violazione degli artt. 3, 23, 36 e 53 della Costituzione, ribadendo la natura tributaria della decurtazione operata sulle retribuzioni del personale non contrattualizzato della p.a.

Poichè non vengono forniti elementi argomentativi ulteriori e sufficienti a sovvertire le motivazioni già espresse dalla Corte Costituzionale nelle sentenze sopra richiamate, il Collegio ritiene che non occorrano altre precisazioni per considerare la questione manifestamente infondata.

Allo stesso modo deve essere valutata la questione di incostituzionalità prospettata con il ricorso principale relativamente all’art. 16, comma 1, lett. b) del D.L. n. 98 del 2011 convertito in L. n. 111/2011 che autorizza il Governo con uno o più regolamenti ex art. 17, comma 2, della legge n. 400 del 1998 a prorogare il blocco delle retribuzioni anche per il 2014.

Sul tema si condivide la tesi dell’Avvocatura dello Stato secondo cui la questione di incostituzionalità è manifestamente infondata poiché, non avendo le misure legislative prorogate natura tributaria, la riserva di legge è relativa; pertanto, il legislatore con la norma dell’art. 16, convertito in legge dal Parlamento, ha correttamente demandato ad una fonte regolamentare – quindi sub primaria – la sola valutazione della proroga delle misure restrittive per l’anno 2014 senza che alla stessa fonte normativa fosse demandata l’individuazione di diverse od ulteriori misure restrittive già delineate ed approvate dal Parlamento.

Del tutto inconferente ed irrilevante è la diversa questione connessa alla prospettata incostituzionalità dell’art. 8, comma 11 bis, del D.L. 31 maggio 2010 n. 78, nella parte in cui prevede un fondo di 80 milioni di euro per ciascuno degli anni 2011 e 2012 destinato al finanziamento di misure perequative per il personale delle Forze armate, senza tener conto dell’anno 2013 e senza tener conto dell’aumento del numero dei militari aventi diritto, per contrasto con gli articoli 3, 36 e 97 della costituzione.

La prospettazione della relativa eccezione di incostituzionalità oltre ad essere generica è del tutto priva di una logica argomentativa idonea a sovvertire quello che è nello spirito e nella funzione la particolarità della disposizione normativa contenuta nell’articolo da ultimo citato che nella sostanza assume una valenza di beneficio compensativo a favore per il personale non contrattualizzato delle Forze armate.

Il fondo disponibile dipende essenzialmente dalle risorse finanziarie reperite dal Governo e non dal numero delle persone incise dalla manovra di contenimento della spesa pubblica.

Va, infine, rilevato che, sebbene con ordinanza collegiale n. 7532 del 24 luglio 2013 la seconda Sezione di questo Tribunale abbia rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, del d.l. 31 marzo 2010, n. 78, convertito con modificazioni nella l. 30 luglio 2010, n. 122, per contrasto con gli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, quanto in essa riportato non solo non è pienamente pertinente con il caso in esame, ma risulta del tutto superato dalla successiva sentenza n. 310 del 2013 della Corte Costituzionale di cui si è dato contezza in precedenza.

Per tutte le ragioni sopra esposte il Collegio dichiara parzialmente inammissibile per incompetenza ex art. 13, comma 2, del c.p.a. il ricorso laddove proposto dai sig.ri G. Antonio, L. Leonardo, A. Carmine, B. Giovan Battista, M. Marcello e A. Giovanni, e per le altre parti lo respinge perché infondato.

Per la natura delle questioni sollevate sussistono giusti motivi per compensare fra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in parte, lo dichiara inammissibile per incompetenza a decidere sulla presente controversia per i ricorrenti indicati in parte motiva, indicando rispettivamente i TT.AA.RR. per la Lombardia, per la Sicilia, per la Campania, per la Toscana e per il Veneto, quali giudici competenti, e per ogni altra parte lo respinge.

Compensa integralmente tra la parti le spese di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Silvio Ignazio Silvestri, Presidente
Francesco Riccio, Consigliere, Estensore
Floriana Rizzetto, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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12/06/2014 201406295 Sentenza 1B


N. 06295/2014 REG.PROV.COLL.
N. 07605/2012 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Bis)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7605 del 2012, proposto da:
OMISSIS, rappresentati e difesi dagli avv.ti Guerino Massimo Oscar Fares e Guido Corso, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Bisagno, 14;

contro
Ministero della Difesa, Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona dei rispettivi Ministri in carica, rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l’accertamento,
del diritto alla corresponsione alle voci retributive che ai ricorrenti non sono state corrisposte a decorrere dal 1 gennaio 2011 ed in particolare:
- le differenze retributive legate alla maturazione delle classi e agli aumenti periodici che sono intervenuti o interverranno nel corso del triennio 2011-2013 (art. 1 del D.L. n. 681 del 1982);
- le differenze retributive dipendenti dai meccanismi di adeguamento al costo della vita secondo gli indici calcolati dell’ISTAT (art. 24 della L. n. 448/1998);
- le differenze retributive conseguenti al passaggio al grado superiore che è intervenuto o interverrà nel corso del triennio 2011-2013 al compimento di quindici o tredici anni di servizio;

OMISSIS.

FATTO e DIRITTO

Con il ricorso, notificato il 17 luglio 2012 e depositato il successivo 29 settembre, gli interessati, in qualità di ufficiali delle forze armate che ricoprono il grado di Maggiore o di Capitano, hanno chiesto l’accertamento del diritto all’integrale retribuzione secondo il regime di diritto pubblico previsto dalle norme vigenti per i rispettivi ordinamenti dell’Arma e delle Forze Armate in generale....

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Bis)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Compensa integralmente tra la parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2014 con l'intervento dei magistrati:
Silvio Ignazio Silvestri, Presidente
Francesco Riccio, Consigliere, Estensore
Floriana Rizzetto, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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TAR LAZIO

12/06/2014 201406294 Sentenza 1B

FATTO e DIRITTO
Con il ricorso, notificato il 17 luglio 2012 e depositato il successivo 29 settembre, gli interessati, in qualità di ufficiali delle forze armate che ricoprono il grado di Generale di Brigata e di Colonnello, hanno chiesto l’accertamento del diritto all’integrale retribuzione secondo il regime di diritto pubblico previsto dalle norme vigenti per i rispettivi ordinamenti dell’Arma e delle Forze Armate in generale
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12/06/2014 201406293 Sentenza 1B

FATTO e DIRITTO
Con il ricorso, notificato il 2 gennaio 2013 e depositato il successivo 24 gennaio, gli interessati, in qualità di ufficiali delle forze armate che ricoprono il grado di Generale di Brigata, di Capitano di Vascello e di Colonnello, hanno chiesto l’accertamento del diritto all’integrale retribuzione secondo il regime di diritto pubblico previsto dalle norme vigenti per i rispettivi ordinamenti dell’Arma e delle Forze Armate in generale
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12/06/2014 201406292 Sentenza 1B

FATTO e DIRITTO
Con il ricorso, notificato il 2 gennaio 2013 e depositato il successivo 24 gennaio, gli interessati, in qualità di ufficiali delle forze armate, della Guardia di Finanza, dell’Esercito e dell’Arma dei Carabinieri che ricoprono il grado di Colonnello o Tenente Colonnello, hanno chiesto l’accertamento del diritto all’integrale retribuzione secondo il regime di diritto pubblico previsto dalle norme vigenti per i rispettivi ordinamenti dell’Arma e delle Forze Armate in generale
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12/06/2014 201406291 Sentenza 1B

FATTO e DIRITTO
Con il ricorso, notificato il 2 gennaio 2013 e depositato il successivo 24 gennaio, gli interessati, in qualità di ufficiali delle forze armate dell’Esercito Italiano e della Guardia di Finanza che ricoprono il grado di Maggiore o di capitano, hanno chiesto l’accertamento del diritto all’integrale retribuzione secondo il regime di diritto pubblico previsto dalle norme vigenti per i rispettivi ordinamenti dell’Arma e delle Forze Armate in generale
--------------------------------------------------------------------------------------------------------

12/06/2014 201406290 Sentenza 1B

FATTO e DIRITTO
Con il ricorso, notificato il 2 gennaio 2013 e depositato il successivo 24 gennaio, gli interessati, in qualità di ufficiali delle forze armate che ricoprono il grado di Generale di Divisione Area, hanno chiesto l’accertamento del diritto all’integrale retribuzione secondo il regime di diritto pubblico previsto dalle norme vigenti per i rispettivi ordinamenti dell’Arma e delle Forze Armate in generale
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Tutte uguali
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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STIPENDI 2015: LO SBLOCCO CON LA “SORPRESA” ?! (leggi)

sabato 14 giugno 2014

http://www.ilnuovogiornaledeimilitari.i ... co-con-la-" onclick="window.open(this.href);return false;“sorpresa”--_leggi_
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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Statali: La trattenuta sul tfs è legittima
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La Corte Costituzionale si è pronunciata a favore del prelievo contributivo sulla buonuscita degli statali.

Si chiude una vicenda che aveva visto un crescendo di ricorsi con protagonisti una miriade di studi legali, sindacati in cerca di facile consenso e i dipendenti pubblici di grado elevato.

La Corte Costituzionale con sentenza n.244/2014, depositata il 28/10/2014 ha definitivamente risolto la legittimità della trattenuta del 2.50% sul tfs dei dipendenti pubblici pronunciandosi sul ricorso del Tribunale di R Emilia

L’indennità di buonuscita – o trattamento di fine sevizio (TFS) è finanziata dal 9,60% sull’80% della retribuzione lorda di cui il 2.5% a carico del dipendente.

La riforma delle pensioni del 1995, la riforma Dini aveva stabilito che a decorrere dall’anno successivo, il 1996, dovesse essere esteso a tutti i dipendenti pubblici il Tfr.

Per motivi essenzialmente economici si dovette arrivare al 1999 quando dopo un accordo con i sindacati, l’art. 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 20 dicembre 1999 dispose il passaggio al trattamento di fine rapporto (TFR), ai sensi dell’art. 2120 del codice civile, anche per il personale delle pubbliche amministrazioni assunto dal 1.1.2001.

Si dette così vita ad un duplice regime: TFS, per i dipendenti assunti ante 2001 e TFR per i dipendenti assunti dopo.

Restarono esclusi dal passaggio i cosiddetti non contrattualizzati, cioè quei dipendenti pubblici di grado elevato, magistrati, prefetti, avvocati dello Stato ecc, il cui trattamento economico non è disciplinato da CCNL bensì dalla legge.

Dal 2001 al 2011 è filato tutto tranquillo, senza eccezioni di sorta da nessuna parte su questa disparità di regime di fine rapporto di lavoro, finchè quando, per completare l’estensione delle regole civilistiche in materia di trattamento di fine rapporto ai pubblici dipendenti, il governo emanò il decreto-legge 78/2010.

Questo decreto legge dispose, con effetto dal 1° gennaio 2011, il computo dei trattamenti di fine servizio, con applicazione dell’aliquota del 6,91 per cento per tutti.

Detta disposizione, nulla aveva specificato in ordine alla vigenza, o meno, della trattenuta del 2,50%, che le Amministrazioni avevano di fatto continuato ad operare nei confronti del dipendente.

Naturalmente su retribuzioni alte il 2.5% è piuttosto considerevole per cui cominciarono a fioccare dei ricorsi, anche da parte di alcuni magistrati, chiedendo la disapplicazione della trattenuta e la restituzione di quanto riscosso.

I magistrati si dettero ragione e la cosa finì inevitabilmente alla Corte Costituzionale.

La Suprema Corte, con sentenza n. 223 del 2012, dichiarò l’illegittimità dell’ art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte, appunto, “in cui non esclude[va] l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50%”.

Per dare attuazione alla sentenza, e mettersi al riparo da un’ingente esborso, il governo emanò il decreto-legge 29 ottobre 2012, n. 185 che cancellò totalmente la norma contestata, con il ripristino del regime di TFS per i dipendenti pubblici.

Il d.l. n. 185 del 2012 è decaduto per mancata conversione in legge, ma i suoi effetti sono stati fatti salvi dalla legge n. 228 del 2012.

Questa legge è stata impugnata perché introdurrebbe una «disparità di trattamento tra costoro (cui continua/riprende a essere applicato un prelievo del 2,5% sull’80% della retribuzione) e i dipendenti privati (per i quali non è previsto nessun prelievo a titolo previdenziale, ma solo un accantonamento del 6,91% sull’intera retribuzione, non tassabile);
e tra i dipendenti pubblici assunti prima del 2001 (per i quali è stato ripristinato il TFS) e quelli assunti post 2001, per i quali è in vigore la disciplina del T.F.R., ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 20 dicembre 1999»;
inoltre, perché consentirebbe allo Stato «una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato», violando gli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Secondo la Corte Costituzionale invece non sussiste nessuna violazione di questi articoli.

Il trattamento di fine servizio è, infatti, diverso e – come sottolineato dalla stessa sentenza n. 223 del 2012 rispetto al trattamento di fine rapporto, per cui il fatto che il dipendente –partecipi al suo finanziamento, con il contributo del 2,50% (sull’80% della sua retribuzione), non costituisce una disparità di trattamento rispetto al dipendente che ha diritto al trattamento di fine rapporto.

Per altro verso, il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi.

Né parimenti sono illegittimi l’ estinzione dei giudizi in corso, atteso che l’interesse dei ricorrenti alla restituzione del contributo del 2,50% è venuto meno con il ripristino della vecchia legge sul TFS, che prevede il contributo in questione.

Neppure può dirsi, poi, irragionevole la diversità di trattamento tra i dipendenti che, nelle more, abbiano ottenuto la restituzione del 2,50% con sentenza passata in giudicato essendo ciò inevitabilmente dovuto alla successione delle disposizioni e al principio generale che le sentenze non si toccano.

In conclusione, la Corte ritiene che tutte le questioni sollevate sono infondate.

Ecco qui sotto la sentenza.
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SENTENZA N. 244

ANNO 2014

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Paolo Maria NAPOLITANO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 98 e 99, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), promosso dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia nel procedimento civile vertente tra Marchiò Anna ed altri e il Ministero della giustizia ed altro con ordinanza del 5 marzo 2013, iscritta al n. 108 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti gli atti di costituzione di Marchiò Anna ed altri, nonché gli atti di intervento dell’INPS e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 7 ottobre 2014 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;

uditi gli avvocati Pasquale Lattari per Marchiò Anna ed altri, Piera Messina per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.‒ Con ordinanza depositata il 5 marzo 2013 – emessa nel corso di una controversia promossa nei confronti del Ministero della giustizia ed altro da alcuni dipendenti, per ottenere la cessazione della trattenuta (del 2,50%) operata a loro carico in conto del trattamento di fine servizio (TFS) e la restituzione delle somme, a tale titolo, trattenute dal 1° gennaio 2011 – l’adito Tribunale ordinario di Reggio Emilia, motivatane la rilevanza al fine del decidere, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 98 e 99, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013).

1.1.− Il comma 98 del predetto art. 1 della legge n. 228 del 2012 – nel prevedere che «Al fine di dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012 e di salvaguardare gli obiettivi di finanza pubblica, l’articolo 12, comma 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, è abrogato a decorrere dal 1° gennaio 2011 […]» – contrasterebbe, secondo il rimettente, con gli artt. 3 e 36, primo comma, Cost., in quanto il ripristino del precedente regime del TFS per i dipendenti pubblici introdurrebbe una «disparità di trattamento tra costoro (cui continua/riprende a essere applicato un prelievo del 2,5% sull’80% della retribuzione) e i dipendenti privati (per i quali non è previsto nessun prelievo a titolo previdenziale, ma solo un accantonamento del 6,91% sull’intera retribuzione, non tassabile); e tra i dipendenti pubblici assunti prima del 2001 (per i quali è stato ripristinato il TFS) e quelli assunti post 2001, per i quali è in vigore la disciplina del T.F.R., ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 20 dicembre 1999»;
inoltre, perché consentirebbe allo Stato «una riduzione dell’accantonamento, irragionevole perché non collegata con la qualità e quantità del lavoro prestato».

1.2.− A sua volta, la disposizione di cui al successivo comma 99 del medesimo art. 1 della su citata legge – con il prescrivere che «I processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5% della base contributiva utile prevista dall’articolo 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152, e dall’articolo 37 del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 si estinguono di diritto» – violerebbe:

– gli artt. 101, 102 e 104 Cost., «interferendo con funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario»;

– gli artt. 3 e 24 Cost., per la sostanziale vanificazione, che attuerebbe, del diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale, e per l’ingiustificata disparità di trattamento, che ne deriverebbe, «tra coloro che hanno già adito l’autorità giudiziaria ottenendo una pronuncia favorevole alla restituzione del prelievo forzoso del 2,50% […], coloro che sono sub iudice in questo momento, ovvero non l’hanno ancora adito»;

– con gli artt. 3, 24, 102 e 113 Cost., sul presupposto che la compensazione delle spese, conseguentemente alla estinzione automatica dei giudizi pendenti realizzi una illegittima interferenza del potere legislativo nella sfera della giurisdizione, non potendo il giudice decidere sulle spese in senso favorevole al ricorrente.

Solo nel dispositivo dell’ordinanza di rinvio è menzionato anche l’art. 35, secondo comma, Cost., con riferimento al quale non v’è, dunque, prospettazione di questione alcuna.

2.− In questo giudizio si sono costituite le parti private, con argomentazioni adesive alla prospettazione del Tribunale rimettente.

2.1.− È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri che, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle censure riferite al comma 99 dell’art. 1 della citata legge n. 228 del 2012 per essere il giudice a quo chiamato a decidere su ricorsi proposti successivamente all’intervenuta abrogazione della legge 30 luglio 2010, n. 122 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica) e non già “pendenti” alla data di entrata in vigore della disposizione abrogativa; ed ha, comunque, contestato, nel merito, la fondatezza delle questioni sollevate sotto ogni profilo della loro prospettazione.

2.2.− Ha depositato, altresì, atto di intervento l’INPS, che – nella dichiarata sua qualità di terzo portatore di un interesse qualificato concreto ed attuale inerente al rapporto sostanziale sub iudice – ha contestato, a sua volta, la fondatezza di ogni censura formulata dal rimettente.

Considerato in diritto

1.‒ Con riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 24, 35, secondo comma (menzionato, per altro solo nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione), 36, primo comma, 101, 102, 104 e 113 della Costituzione, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia dubita della legittimità dell’art. 1, commi 98 e 99, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013).

2.− Le disposizioni censurate costituiscono l’ultimo segmento di una complessa sequenza normativa in tema di trattamento previdenziale dei pubblici dipendenti.

2.1.− Inizialmente tale trattamento era costituito esclusivamente dalla indennità di buonuscita disciplinata per i dipendenti del comparto statale dal d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato) e dalla indennità premio di servizio, riconosciuta ai dipendenti del comparto locale dalla legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali).

L’indennità di buonuscita – o così detto trattamento di fine sevizio (TFS) – di cui, in particolare, agli artt. 37 e 38 del citato d.P.R. n. 1032 del 1973, era – ed è tuttora (nei limiti di cui si dirà) – corrisposta da un fondo finanziato, tra l’altro, da un contributo del 9,60% sull’80% della retribuzione lorda a carico dell’Amministrazione di appartenenza, con diritto, della stessa, di rivalersi sul dipendente del 2,50% di tale importo.

2.2.− L’art. 2 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 20 dicembre 1999, recante «Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti» (nel testo modificato dall’art. 1 del successivo d.P.C.m. 2 marzo 2001, identicamente denominato) – dando concreta attuazione alle previsioni già contenute nella legge 8 agosto 1995 n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), rimaste sino a quel momento inattuate – ha disposto il passaggio al regime del trattamento di fine rapporto (TFR), di cui all’art. 2120 del codice civile, nei confronti del personale delle pubbliche amministrazioni assunto (a tempo indeterminato) successivamente al 31 dicembre 2000;
dando così luogo ad un duplice regime: TFS, per i dipendenti assunti ante 2001 e TFR per i dipendenti assunti a partire dall’1 gennaio di detto anno.

2.3.− Per completare l’estensione delle regole civilistiche in materia di trattamento di fine rapporto ai pubblici dipendenti, il successivo decreto-legge 31 maggio 2010 n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, sub art. 12, comma 10, aveva testualmente così disposto: «Con effetto sulle anzianità contributive maturate a decorrere dal 1° gennaio 2011, per i lavoratori alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione […] per i quali il computo dei predetti trattamenti di fine servizio, comunque denominati, in riferimento alle predette anzianità contributive non è già regolato in base a quanto previsto dall’articolo 2120 del codice civile in materia di trattamento di fine rapporto, il computo dei trattamenti di fine servizio si effettua secondo le regole di cui al citato articolo 2120 del codice civile, con applicazione dell’aliquota del 6,91 per cento».

2.4.− Detta disposizione, nel determinare l’applicazione (nell’esteso regime del TFR) dell’aliquota del 6,91%, nulla aveva specificato in ordine alla vigenza, o meno, della trattenuta del 2,50%, che l’Amministrazione aveva di fatto continuato, comunque, ad operare nei confronti del dipendente.

Da qui l’intervento di questa Corte che, con sentenza n. 223 del 2012, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, nella parte, appunto, «in cui non esclude[va] l’applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva prevista dall’art. 37, comma 1, del d.P.R. 29 dicembre 1973 n. 1032».

2.5.− Al dichiarato fine di dare attuazione alla predetta sentenza, ed a quello di salvaguardare gli obiettivi di finanza pubblica, è stato, quindi, emanato il decreto-legge 29 ottobre 2012, n. 185 (Disposizioni urgenti in materia di trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici), prevedente l’abrogazione in toto dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, con sostanziale ripristino del regime di TFS per i dipendenti pubblici da questo interessati.

2.6.− Il d.l. n. 185 del 2012 è decaduto per mancata conversione in legge, ma i suoi effetti sono stati fatti salvi dalla legge n. 228 del 2012 ora appunto in esame.

3.− Nel riprodurre il contenuto del d.l. n. 185 del 2012 (non convertito), l’art. 1 della legge 228 del 2012, nei censurati suoi commi 98 e 99, rispettivamente, conferma ora l’abrogazione dell’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010, disponendo che «I trattamenti di fine servizio, comunque denominati, liquidati in base alla predetta disposizione prima della data di entrata in vigore del decreto-legge 29 ottobre 2012, n. 185, sono riliquidati d’ufficio entro un anno dalla predetta data ai sensi della disciplina vigente prima dell’entrata in vigore del citato articolo 12, comma 10 […]» (comma 98); e, contestualmente, reitera la previsione della estinzione di diritto dei «processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio del 2,50 per cento della base contributiva utile prevista dall’articolo 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152 e dall’articolo 37 del testo unico […] di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032», stabilendo che «le sentenze eventualmente emesse, fatta eccezione per quelle passate in giudicato, restano prive di effetti» (comma 99).

Nella prospettazione del rimettente, la riferita normativa violerebbe:

– gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto, a suo avviso, «il ripristino del precedente regime del TFS per i dipendenti pubblici reintroduce una disparità di trattamento tra costoro (cui continua/riprende ad essere applicato un prelievo del 2,5% sull’80% della retribuzione) ed i dipendenti privati (per i quali non è previsto nessun prelievo a titolo previdenziale, ma solo un accantonamento del 6,91 sull’intera retribuzione, non tassabile); e tra i dipendenti pubblici assunti prima del 2001 (per i quali è stato ripristinato il TFS) e quelli assunti post 2001, per i quali è in vigore la disciplina del TFR, ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 20 dicembre 1999»;

– gli artt. 101, 102 e 104 Cost. «interferendo con funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario»;

– gli artt. 3 e 24 Cost. poiché verrebbe «sostanzialmente vanificato il diritto del cittadino alla tutela giurisdizionale» e si creerebbe «una disparità ingiustificata di trattamento tra coloro che hanno già adito l’autorità giudiziaria, ottenendo una pronuncia favorevole alla restituzione del prelievo forzoso del 2,50% […], coloro che sono sub iudice in questo momento, ovvero non l’hanno ancora adito»;

– gli artt. 3, 24, 102 e 113 Cost., poiché l’estinzione necessariamente automatica di tutti i giudizi pendenti, con la compensazione delle spese realizzerebbe «una illegittima interferenza del potere legislativo nella sfera della giurisdizione, […] non potendo il giudice decidere sulle spese in senso favorevole al ricorrente», con relativa soppressione del diritto dell’interessato a essere «tenuto indenne dal pagamento, al proprio difensore, delle spese processuali sostenute».

4.− Con diffuse argomentazioni adesive alla motivazione dell’ordinanza di rimessione, la difesa delle parti private ha auspicato la declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate.

Ad opposte conclusioni è pervenuta, invece, l’Avvocatura generale dello Stato, per l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri. La difesa statale ha, in via pregiudiziale, per altro, eccepito che le censure riferite alle disposizioni processuali, di cui al comma 99, sarebbero «irrilevanti, perché i ricorrenti hanno promosso il giudizio, nel corso del quale è stata sollevata la questione di costituzionalità, in data 9 novembre 2012, quando era già in vigore il decreto-legge n. 185 del 2012 […] che, ripristinando l’indennità di buonuscita, rendeva infondata la domanda di restituzione del contributo del 2,50%».

5.− Preliminarmente va confermata l’ordinanza adottata nel corso dell’udienza pubblica, ed allegata alla presente sentenza, con la quale è stato dichiarato ammissibile l’intervento dell’INPS, che ha concluso anch’esso per la non fondatezza delle questioni sollevate dal rimettente.

6.− In via ancora preliminare, va respinta l’eccezione di inammissibilità per irrilevanza, come sopra articolata dall’Avvocatura generale dello Stato.

La tesi per cui i ricorsi promossi nella già intervenuta vigenza della norma di ripristino del TFS avrebbero dovuto essere respinti in applicazione della stessa ne presuppone infatti la legittimità costituzionale.
Ma ciò è proprio quel che il rimettente, come detto, per più profili contesta; per cui l’eccezione in esame si risolve, e confluisce, nella contestazione della fondatezza delle questioni sollevate da quel Tribunale.

7.− Nel merito, nessuna censura è fondata.

7.1.− Non sussiste, in primo luogo, la denunciata duplice violazione degli artt. 3 e 36 Cost.
Il trattamento di fine servizio è, infatti, diverso e – come sottolineato dalla stessa sentenza n. 223 del 2012 – normalmente “migliore” rispetto al trattamento di fine rapporto disciplinato dall’art. 2120 cod. civ., per cui il fatto che il dipendente – che (in conseguenza del ripristinato regime ex art. 37 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032) ha diritto all’indennità di buonuscita – partecipi al suo finanziamento, con il contributo del 2,50% (sull’80% della sua retribuzione), non integra un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al dipendente che ha diritto al trattamento di fine rapporto. Per altro verso, il fatto che alcuni dipendenti delle pubbliche amministrazioni godano del trattamento di fine servizio ed altri del trattamento di fine rapporto è conseguenza del transito del rapporto di lavoro da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato e della gradualità che, con specifico riguardo agli istituti in questione, il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha ritenuto di imprimervi.

7.2.− Del pari insussistente è, poi, per ogni denunciato suo aspetto, la violazione degli altri parametri (artt. 24, 101, 102, 104 e 113 Cost.) evocati dal rimettente.

Non illegittima è, in primo luogo, infatti, la disposta estinzione dei giudizi in corso, atteso che l’interesse dei ricorrenti alla restituzione del contributo del 2,50% – che essi assumevano illegittimamente prelevato dalle rispettive retribuzioni in aggiunta all’accantonamento dell’aliquota del 6,91%, nel quadro del regime codicistico del TFR, loro esteso dal citato d.l. n. 78 del 2010 – è venuto meno con il ripristino (ad opera della normativa impugnata) del previgente regime di TFS, nel cui contesto quel contributo concorre a finanziare il fondo erogatore dell’indennità di buonuscita.

Come, infatti, da questa Corte già affermato, il legislatore, intervenendo a regolare una data materia, può anche incidere sui giudizi in corso, dichiarandoli estinti, senza ledere il diritto alla tutela giurisdizionale garantito dall’art. 24 Cost., ove la nuova disciplina, lungi dal tradursi in una sostanziale vanificazione dei diritti azionati, sia tale da realizzare, come nella specie, le pretese fatte valere dagli interessati, così eliminando le basi del preesistente contenzioso (sentenze n. 223 del 2001 e n. 310 del 2000).

7.3.− Neppure può dirsi, poi, irragionevole la diversità di trattamento tra i dipendenti che, nelle more, abbiano ottenuto la restituzione del 2,50% con sentenza passata in giudicato (restituzione divenuta «indebita» a seguito dell’abrogazione dell’art. 12, comma 10, del citato d.l. n. 78 del 2010) e quelli che non l’abbiano ottenuta per il sopravvenuto ripristino dell’indennità di buonuscita. Ciò essendo inevitabilmente dovuto alla successione di diverse disposizioni normative ed al generale principio di intangibilità del giudicato.

7.4.− La disposta estinzione dei giudizi in corso non si accompagna, nella norma impugnata, alla previsione di una automatica compensazione delle correlative spese di lite, della quale il rimettente non ha, quindi, fondatamente ragione di dolersi.

7.5.− All’apodittico riferimento all’art. 35, comma secondo, Cost., contenuto nel solo dispositivo dell’ordinanza di rinvio, non è, infine riconducibile alcun sostanziale profilo di censura che possa qui venire in esame.

8.− In conclusione, le questioni sollevate sono, per ogni aspetto e profilo, non fondate.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 98 e 99, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 35, secondo comma, 36, primo comma, 101, 102, 104 e 113 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2014.
F.to:
Paolo Maria NAPOLITANO, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 ottobre 2014.


Allegato:
Ordinanza emessa all’udienza del 7 ottobre 2014

ordinanza letta all’udienza del 7 ottobre 2014, allegata a Corte cost. 28 ottobre 2014, n. 244

ORDINANZA
Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia, depositata il 5 marzo 2013 (reg. ord. n. 108 del 2013);
rilevato che in tale giudizio è intervenuto l’INPS − Istituto nazionale della previdenza sociale, in persona del Presidente e legale rappresentante p.t., con atto depositato il 6 giugno 2013;
considerato che il suddetto Istituto non è parte del giudizio principale;
che, per costante giurisprudenza di questa Corte, nei giudizi in via incidentale sono legittimati ad intervenire i soggetti che, pur non essendo parti del giudizio principale, siano tuttavia portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (tra le tante, ordinanze nn. 318, 134 e 116 del 2013);
che, nel caso specifico, l’Istituto nazionale della previdenza sociale è portatore di un siffatto interesse qualificato, suscettibile di essere inciso dall’esito del processo principale, in quanto ente erogatore del trattamento di fine servizio per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni ripristinato dalla normativa oggetto del giudizio di costituzionalità.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara ammissibile l’intervento dell’INPS − Istituto nazionale della previdenza sociale.
F.to: Paolo Maria Napolitano, Presidente
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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Unica strada per coloro che sono stati assunti prima del 2001 di avere il tfr e quindi di non essere più assoggettato al pagamento del contributo sulla buonuscita, è quella di aderire al Fondo pensione Perseo Sirio. ( IL FONDO PENSIONE DEI LAVORATORI DELLA P.A. E DELLA SANITA’)

Infatti l’adesione è possibile sono a condizione della trasformazione del proprio Tfs in tfr. In questo caso non solo si risparmierà, ma si avrà diritto altresì ad un contributo aggiuntivo dell’1,5% calcolato sulle retribuzioni utili ai fini della buonuscita.

Cmq., cercando su internet ve ne sono delle altre per cui bisogna confrontare.
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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notizia del giorno 8 novembre u.s.
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Dipendenti Pubblica amministrazione, la trattenuta del 2,5% è illegittima


TERMOLI. Sarebbe illegittima la trattenuta del 2,5% sull’80% della retribuzione lorda percepita dai dipendenti pubblici; a deciderlo è il giudice del lavoro di Larino che ha accolto il ricorso della Cisl-Fp (Funzione Pubblica).

Per il giudice la decurtazione sarebbe anche discriminatoria, perché applicata solo al personale dipendente pubblico e così, se l’appello dovesse confermare la notizia, il Governo dovrà restituire quanto trattenuto a tutti i dipendenti che ne faranno richiesta.

A darne notizia è l’Ansa che aggiunge: “La decisione del giudice è stata accolta con soddisfazione da parte della segreteria Cisl Funzione Pubblica Abruzzo e Molise”.

“La trattenuta del 2,5% è illegittima – spiegano i legali – perché in palese contrasto con la disciplina del trattamento di fine rapporto, come prevista dall’art. 2120 c.c. nonché con i principi sanciti dal nostro ordinamento costituzionale. La Cisl Fp Abruzzo e Molise si è fatta portatrice degli interessi dei propri iscritti, dipendenti della Pa che ogni mese si vedono decurtare lo stipendio illegittimamente, portando all’attenzione del giudice le proprie ragioni, richiamate anche dalla sentenza 223 della Corte di Cassazione del 23.10.2012”.
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

Messaggio da Udin1962 »

Quindi anche in questo caso, lettera raccomandata? Oppure? Ricorso collettivo?
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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La Corte Costituzionale questa volta si pronuncia sul personale della carriera prefettizia.

1) - ricorso proposto contro il Ministero dell’interno da alcuni appartenenti al personale della carriera prefettizia, i quali, già viceprefetti aggiunti, erano stati promossi viceprefetti con decorrenza dal 1° gennaio 2012, per l’accertamento del diritto a percepire, a decorrere da tale data, il trattamento economico corrispondente alla superiore qualifica loro conferita, in difetto dell’adozione, da parte dell’amministrazione, di provvedimenti al riguardo.
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SENTENZA N. 96
ANNO 2016


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio nel procedimento vertente tra A.F. ed altri e il Ministero dell’interno, con ordinanza del 28 maggio 2014, iscritta al n. 220 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti l’atto di costituzione di A.F. ed altri, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 5 aprile 2016 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

udito l’avvocato Luigi Strano per A.F. ed altri e l’avvocato dello Stato Paolo Grasso per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 28 maggio 2014, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui stabilisce, al terzo periodo, che «Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici».

1.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto, di essere investito del ricorso proposto contro il Ministero dell’interno da alcuni appartenenti al personale della carriera prefettizia, i quali, già viceprefetti aggiunti, erano stati promossi viceprefetti con decorrenza dal 1° gennaio 2012, per l’accertamento del diritto a percepire, a decorrere da tale data, il trattamento economico corrispondente alla superiore qualifica loro conferita, in difetto dell’adozione, da parte dell’amministrazione, di provvedimenti al riguardo.

Il Tribunale amministrativo regionale precisa che i ricorrenti fondano l’azionata pretesa sull’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139 (Disposizioni in materia di rapporto di impiego del personale della carriera prefettizia, a norma dell’articolo 10 della L. 28 luglio 1999, n. 266), secondo cui «Le promozioni alla qualifica di viceprefetto decorrono agli effetti giuridici ed economici dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze», sostenendo, al contempo, l’inapplicabilità ai viceprefetti delle misure di contenimento della spesa in materia di pubblico impiego previste dal censurato art. 9, comma 21, del d.l., n. 78 del 2010. Tale inapplicabilità si fonderebbe, riferisce ancora il rimettente, su due argomenti. In primo luogo, il rapporto di impiego del personale della carriera prefettizia è retto dallo specifico ordinamento dettato dal d.lgs n. 139 del 2000, il cui art. 29 prevede una procedura di negoziazione per la definizione degli aspetti giuridici ed economici, che si conclude con l’approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, dell’ipotesi di accordo sottoscritta dalle delegazioni della parte pubblica e delle organizzazioni sindacali, successivamente trasfusa in un decreto del Presidente della Repubblica. Quest’ultimo atto è identificabile, nella specie, nel d.P.R. 23 maggio 2011, n. 105 (Recepimento dell’accordo sindacale relativo al biennio economico 2008-2009, riguardante il personale della carriera prefettizia), successivo al d.l. n. 78 del 2010. Risulterebbe «evidente che la disciplina contrattuale» contenuta in tale d.P.R., «letta in combinato disposto con l’art. 7» del d.lgs. n. 139 del 2000, «si pone quale fonte regolamentare speciale, che stabilisce una disciplina derogatoria rispetto a quella prevista dall’art. 9, comma 21, del D.L. 78/2010». In secondo luogo, la reclamata retribuzione non potrebbe essere negata dal Ministero dell’interno, pena l’incostituzionalità dell’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, per violazione degli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 Cost.

1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il Tribunale rimettente afferma anzitutto che l’assunto dei ricorrenti circa l’inapplicabilità della disposizione censurata al personale della carriera prefettizia non è condivisibile.

A tale proposito, il giudice a quo asserisce che «non si ravvisano ragioni per ritenere inapplicabile l’art. 9, comma 21», terzo periodo, al detto personale – che è espressamente menzionato dall’art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), al quale la disposizione impugnata fa rinvio – e, in particolare, alle promozioni a viceprefetto, ove si consideri che gli artt. 7, comma 4, e 8, comma 4, del d.lgs. n. 139 del 2000, definiscono espressamente i passaggi dalla qualifica di viceprefetto aggiunto a quella di viceprefetto «promozioni», in termini di progressioni di carriera.

Né potrebbe condurre ad una diversa soluzione – sempre secondo il rimettente – il d.P.R. n. 105 del 2011, atteso che questo ha ad oggetto il recepimento di un accordo sindacale relativo ad un periodo (il biennio economico 2008-2009) precedente e, quindi, diverso da quello cui fa riferimento l’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010.

Il rimettente aggiunge che lo stesso TAR Lazio aveva già affrontato, con l’ordinanza n. 6161 del 2012, una questione simile, ovvero se l’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, potesse o no derogare alla speciale disciplina del rapporto di impiego del personale della carriera diplomatica, affermando come lo stesso «per il tenore delle prescrizioni in esso contenute, e per la finalità che esso persegue […] si prefigga lo scopo di intervenire su tutti i rapporti d’impiego con le pubbliche amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte principale che li disciplina».

Ritenuta l’applicabilità al personale della carriera prefettizia dell’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, il giudice a quo sostiene che «acquista rilevanza – ai fini del decidere – la questione prospettata dai ricorrenti sulla costituzionalità del ripetuto art. 9, comma 21, nella parte di interesse […], risultando chiaro come tale previsione non abbia consentito ai ricorrenti di ottenere, a seguito dell’intervenuta promozione a vice prefetto, la retribuzione corrispondente alla nuova qualifica».

1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente ritiene che la disposizione censurata si ponga in contrasto con la Costituzione per vari motivi, «tra loro subordinati».

1.3.1.– Secondo il giudice a quo, l’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, violerebbe anzitutto l’art. 36 Cost., là dove prevede, al primo comma, che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro».

A tale proposito, il TAR Lazio, dopo avere premesso che, ai sensi dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 139 del 2000, alle tre qualifiche di prefetto, viceprefetto e viceprefetto aggiunto in cui si articola la carriera prefettizia corrispondono compiti e funzioni differenti, caratterizzati dai diversi livelli di responsabilità correlati a ciascuna qualifica, «ai quali non possono non corrispondere retribuzioni differenti», afferma che il mantenimento al personale promosso viceprefetto della retribuzione da esso già percepita nella qualità di viceprefetto aggiunto lede l’invocato principio della necessaria corrispondenza tra la retribuzione spettante e la quantità e qualità del lavoro prestato.

Sempre ad avviso del rimettente, la previsione di differenti livelli di retribuzione in relazione alla qualifica del dipendente e, quindi, alla qualità del servizio da lui prestato, salvaguarderebbe non solo la professionalità del lavoratore ma anche, in ossequio a criteri di ragionevolezza, l’equilibrio del sinallagma tra le prestazioni.

Il giudice a quo afferma ancora che la violazione del principio di proporzionalità della retribuzione non è esclusa dal fatto che il trattamento economico del personale della carriera prefettizia prevede – come risulta anche dal d.P.R. n. 105 del 2011 – oltre a quella stipendiale, anche ulteriori voci retributive quali le retribuzioni di posizione e di risultato, atteso che la voce stipendiale corrisposta ai ricorrenti risulta, in ogni caso, non conforme al detto principio, perché inferiore a quella che gli stessi avrebbero conseguito in mancanza della disposizione impugnata.

Infine, l’esistenza nell’ordinamento di deroghe al principio di proporzionalità della retribuzione previsto dall’art. 36 Cost. non varrebbe – sempre secondo il rimettente – a legittimare l’introduzione di ulteriori previsioni derogatorie, «specie se non ispirate e supportate dal principio della ragionevolezza».

1.3.2.– La disposizione impugnata violerebbe poi l’art. 3 Cost. sotto due profili.

In primo luogo, per il trattamento irragionevolmente deteriore da essa riservato agli appartenenti al personale della carriera prefettizia che conseguono la promozione a viceprefetto negli anni 2011, 2012 e 2013 rispetto agli appartenenti allo stesso personale che la conseguono in un periodo diverso.

Tale irragionevole disparità di trattamento insorgerebbe «non solo in relazione alla data in cui è disposta la promozione – creando un regime differenziato tra i promossi in tale periodo ed i promossi in un periodo diverso – ma anche all’interno stesso della qualifica, nel senso che quest’ultima risulta così caratterizzata da personale che – pur espletando il medesimo servizio – viene retribuito in modo differente e ciò esclusivamente sulla base di circostanze del tutto casuali, ossia pienamente svincolate dal lavoro prestato».

La menzionata disparità di trattamento sarebbe ancora più grave, ove si considerasse la condizione del personale che, oltre a essere promosso nel triennio indicato, fosse anche posto in quiescenza nel corso dello stesso per il raggiungimento del limite di età, atteso che, in tale caso, «il pregiudizio economico subito si riflette anche sul regime pensionistico».

In secondo luogo, l’art. 3 Cost. sarebbe violato anche in ragione del deteriore trattamento riservato dalla disposizione impugnata agli appartenenti al personale della carriera prefettizia che conseguono la promozione a viceprefetto negli anni 2011, 2012 e 2013 rispetto ai dipendenti del settore privato, per i quali le progressioni di carriera disposte nello stesso periodo hanno effetto, per i predetti anni, anche ai fini economici.

Il giudice rimettente sottolinea ancora che l’art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2 e 3, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), ha prorogato le disposizioni dell’impugnato art. 9, comma 21, fino al 31 dicembre 2014. Per effetto di tale proroga, le misure di «sacrificio economico» previste dall’art. 9, comma 21, tenuto conto della loro durata di quattro anni e del fatto che «seri dubbi possono nutrirsi sul periodo in cui [avranno] termine», avrebbero «praticamente perso il carattere di contingibilità», in contrasto con quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui le normative che hanno lo scopo di «realizzare con immediatezza, un contenimento della spesa pubblica» possono ritenersi legittime solo «in quanto eccezionali e temporalmente limitate, ossia a condizione che i sacrifici siano transeunti e non arbitrari» (sono citate la sentenza n. 245 del 1997 e l’ordinanza n. 299 del 1999). Il giudice a quo rammenta al riguardo che, nel corso dell’iter di approvazione della normativa censurata, le Commissioni parlamentari riunite I e IX avevano espresso il parere che, in base agli artt. 3, 36, 39 e 97 Cost., «non [è] ipotizzabile un ulteriore allungamento temporale» delle previste misure, come, invece, è stato successivamente disposto.

1.3.3.– L’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, si porrebbe in contrasto anche con l’art. 53 Cost., là dove stabilisce, al primo comma, il principio della capacità contributiva, in quanto imporrebbe una prestazione patrimoniale – identificabile con «l’aumento retributivo connesso al conseguimento di una qualifica più alta» – soltanto ad alcuni contribuenti, «prescindendo da criteri di ragionevolezza».

Al riguardo, il Tribunale rimettente asserisce che «alcuni dipendenti – per il solo fatto di essere stati promossi in un determinato periodo – […] risultano privati di somme che altrimenti avrebbero percepito, ai sensi di legge […], subendo così un vero e proprio prelievo, in netto spregio dei criteri di progressività fissati a livello costituzionale».

Lo stesso Tribunale afferma che, ancorché sia a conoscenza dell’orientamento contrario espresso dalla Corte costituzionale con riguardo ad una previsione simile (è citata la sentenza n. 304 del 2013), reputa che la disposizione censurata abbia natura tributaria, in quanto «comporta un’inequivoca decurtazione o prelievo a carico del dipendente pubblico».

1.3.4.– L’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, violerebbe, infine il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., in quanto «determina scontento nel personale, a scapito del corretto e proficuo espletamento delle proprie mansioni e, dunque, a detrimento dell’efficienza nell’Amministrazione».

2.– Con atto depositato il 30 dicembre 2014, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.

La difesa dello Stato rappresenta che l’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 è già stato più volte sottoposto al giudizio della Corte costituzionale che, con le sentenze n. 304 del 2013 (relativa, in particolare, al personale della carriera diplomatica) e n. 154 del 2014 (resa in un giudizio promosso nell’ambito di un procedimento originato dal ricorso di alcuni appartenenti alla Guardia di finanza), ha dichiarato non fondate questioni di legittimità costituzionale sollevate, nei confronti della detta impugnata disposizione, proprio in riferimento agli artt. 3, 36, 53 e 97 Cost. (oltre che all’art. 2 Cost.).

L’Avvocatura generale dello Stato, dopo avere diffusamente esposto il contenuto della motivazione delle citate sentenze, afferma che «Analoghe considerazioni sembrano […] poter interessare anche la presente questione di legittimità costituzionale riferita al medesimo art. 9, comma 21, del richiamato d.l. n. 78/2010».

3.– Con atto depositato lo stesso 30 dicembre 2014, si sono costituiti i ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo alla Corte costituzionale di dichiarare, in via preliminare, l’irrilevanza delle questioni sollevate e, nel merito, «ove occorra», l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, e dell’art. 1 del d.P.R. n. 122 del 2013 per contrasto con gli artt. 2, 3, 36, 53 e 97 Cost.

3.1.– Quanto all’irrilevanza delle questioni, gli intervenienti deducono che l’impugnato art. 9, comma 21, non è – contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale rimettente – ad essi applicabile.

Tale conclusione troverebbe fondamento, in primo luogo, nella specialità dell’ordinamento della carriera prefettizia e, in particolare, dell’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 139 del 2000 – che, tenendo conto della necessaria corrispondenza, nel detto ordinamento, tra qualifica conferita e funzioni proprie della stessa, prevede che le promozioni alla qualifica di viceprefetto hanno effetto anche ai fini economici – rispetto alla, pur successiva, previsione generale dell’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010.

Alla stessa conclusione si potrebbe inoltre pervenire, in secondo luogo, in ragione dell’applicabilità ai ricorrenti – tutti chiamati a ricoprire, come risulta dalla documentazione presente nel fascicolo di parte del giudizio davanti al Tribunale rimettente, ruoli dirigenziali rimasti vacanti, corrispondenti alla qualifica di viceprefetti – della previsione dell’art. 9, comma 2, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010 (secondo cui «A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 31 dicembre 2013, nell’ambito delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modifiche e integrazioni, i trattamenti economici complessivi spettanti ai titolari degli incarichi dirigenziali, anche di livello generale, non possono essere stabiliti in misura superiore a quella indicata nel contratto stipulato dal precedente titolare ovvero, in caso di rinnovo, dal medesimo titolare, ferma restando la riduzione prevista nel presente comma»), la quale, derogando al blocco degli effetti economici delle progressioni di carriera previsto dall’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, prevede, come unico limite stipendiale applicabile ai ricorrenti, l’importo già corrisposto al precedente titolare del ruolo dirigenziale. La difesa degli intervenienti aggiunge che tale impostazione era stata fatta propria anche dalla circolare del Ministero dell’economia e delle finanze 15 aprile 2011, n. 12 (Applicazione dell’art. 9, D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122, recante “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica”). La stessa interpretazione era stata condivisa anche dal Ministero dell’interno, Dipartimento per le politiche del personale dell’amministrazione civile, con il decreto del 14 giugno 2012 (concernente i viceprefetti promossi con decorrenza 1° gennaio 2011), ma era stata poi abbandonata in conseguenza del diverso avviso espresso dal suddetto Ministero dell’economia e delle finanze, che aveva successivamente ritenuto – sempre secondo la difesa degli intervenienti – che la disciplina dell’art. 9, comma 2, del d.l. n. 78 del 2010, si riferisce «soltanto alle ipotesi di modifica nella titolarità degli uffici dirigenziali dovute ad “esigenze funzionali ed organizzative” delle amministrazioni, ma non al conferimento di nuovi e diversi incarichi dirigenziali per effetto di promozioni e progressioni di carriera comunque denominate».

3.2.– Quanto al merito delle sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo – qualora ritenuto applicabile nel giudizio a quo – gli intervenienti affermano di fare proprie le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione, con particolare riferimento a quelle relative alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost.

Con riguardo alla lesione del primo di tali parametri costituzionali, gli intervenienti sottolineano che il blocco degli effetti economici delle progressioni di carriera imposto dalla disposizione impugnata e successivamente prorogato, dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.P.R. n. 122 del 2013, sino al 31 dicembre 2014, «appare del tutto sproporzionato rispetto alle invocate esigenze di carattere eccezionale poste a fondamento del D.L. 78/2010».

A sostegno della violazione dell’art. 36 Cost., la difesa degli intervenienti rimarca ancora una volta la «rigida corrispondenza tra grado e funzioni proprie della qualifica, che caratterizza l’ordinamento della carriera prefettizia».

Gli intervenienti deducono poi che le motivazioni poste dalla Corte costituzionale a fondamento delle sentenze n. 310 e n. 304 del 2013 – con le quali è stata dichiarata, tra l’altro, l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, relativamente al blocco degli effetti economici delle progressioni di carriera del personale, rispettivamente, dell’università “non contrattualizzato” e della carriera diplomatica – non sono estensibili alle questioni qui in considerazione.

A tale proposito, essi precisano che, per i docenti universitari, il «sistema di adeguamento stipendiale» si fonda su un meccanismo di classi e scatti legati esclusivamente all’anzianità di servizio, mentre per il personale della carriera diplomatica la stessa Corte costituzionale ha fondato il rigetto delle questioni scrutinate sul fatto che «nell’ordinamento di tale personale non è prevista l’obbligatoria corrispondenza tra grado e funzioni e, conseguentemente, tra grado e trattamento economico collegato all’esercizio delle funzioni».

La difesa degli intervenienti precisa che, nell’ordinamento della carriera prefettizia, «la posizione funzionale è strettamente vincolata alla qualifica ricoperta, senza possibilità di deroga alcuna» (ai sensi degli artt. 2, 10 e 12 del d.lgs. n. 139 del 2000), neppure eccezionale o provvisoria. Pertanto, diversamente da quanto può avvenire nell’ambito della carriera diplomatica, gli appartenenti al personale della carriera prefettizia che sono stati nominati a una qualifica superiore (nella specie, a quella di viceprefetti) non possono essere adibiti a funzioni proprie della qualifica di provenienza.

La stessa difesa rappresenta ancora la differenza esistente tra i due ordinamenti delle carriere prefettizia e diplomatica quanto all’accesso ad una qualifica superiore. Infatti, mentre nell’ordinamento della carriera prefettizia l’accesso alla qualifica di viceprefetto ha luogo a seguito del corso-concorso disciplinato dall’art. 7 del d.lgs. n. 139 del 2000, per gli appartenenti al personale della carriera diplomatica «è previsto […] un sistema di formazione periodica permanente, cosicché per essi la selezione alle qualifiche superiori avviene nell’ambito di soggetti già precedentemente formati ed accertati idonei, dei quali, dopo la nomina, è legittimo, come rilevato dalla Corte, l’utilizzo provvisorio in funzioni della qualifica di provenienza, a differenza che per i viceprefetti».

Gli intervenienti affermano, inoltre, che la disparità del trattamento economico degli appartenenti alla carriera prefettizia promossi alla qualifica di viceprefetto negli anni 2011, 2012 e 2013 rispetto ai colleghi che hanno conseguito l’identica qualifica prima del 2011 non può trovare giustificazione neppure in ragione dell’ulteriore elemento valorizzato dalla Corte costituzionale nelle menzionate sentenze n. 310 e n. 304 del 2013 costituito dalla maggiore anzianità di servizio di questi ultimi. Al riguardo, essi osservano che «nell’ordinamento della carriera prefettizia di cui al D.Lgs. 139/2000 l’anzianità di servizio non ha alcuna rilevanza, né ai fini della progressione in carriera né per la progressione economica», che è collegata alle diverse posizioni funzionali, non potendosi «escludere il caso di funzionari che, pur in possesso di un’anzianità relativa (nella qualifica) minore, godano di trattamenti superiori rispetto a funzionari più anziani ma ricoprenti posizioni funzionali meno retribuite». In realtà, «l’anzianità di servizio potrebbe giustificare una disparità di trattamento economico soltanto in un sistema di progressione per classi e scatti, che è del tutto estraneo alla disciplina della carriera prefettizia».

Non sarebbe riferibile alla carriera prefettizia neppure l’argomentazione, utilizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 304 del 2013, che fa leva sul fatto che il trattamento economico e funzionale del personale della carriera diplomatica non sarebbe uguale per tutti i dipendenti del medesimo grado. Infatti, escluso che al personale della carriera prefettizia siano applicabili speciali indennità e misure di favore quali quelle previste per il personale della carriera diplomatica in relazione al servizio prestato all’estero (ai sensi degli artt. 170 e seguenti del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18, recante «Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri»), «deve peraltro escludersi che la disparità di trattamento tra personale della carriera prefettizia che riveste la medesima qualifica possa fondatamente trovare legittimazione nelle differenze retributive concernenti le voci stipendiali di retribuzione di posizione e di risultato, considerato che si tratta di importi irrisori che non possono in alcun modo compensare il minor trattamento economico corrisposto per la voce relativa allo stipendio tabellare della qualifica inferiore».

4.– Il 26 gennaio 2016, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria con la quale, anche alla luce delle motivazioni della sopravvenuta sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 2015, concernente anch’essa la «tematica in questione», ha ribadito la richiesta di dichiarare l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza delle questioni sollevate.

5.– Il 15 marzo 2016, anche i ricorrenti nel giudizio a quo hanno depositato una memoria con la quale, nel replicare a quanto dedotto nell’atto di intervento e nella memoria del Presidente del Consiglio dei ministri, ribadiscono le deduzioni e le conclusioni già rassegnate nel proprio atto di costituzione in giudizio, con riguardo sia all’inapplicabilità dell’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, sia alla fondatezza, nel merito, delle questioni sollevate. A tale ultimo proposito, gli intervenienti riaffermano che le motivazioni poste a fondamento delle sentenze della Corte costituzionale n. 154 del 2014, n. 310 e n. 304 del 2013 non sono riferibili alle progressioni di carriera del personale della carriera prefettizia, stante le peculiarità di questa, ed asseriscono che «le medesime ragioni di specificità indicate nella […] sentenza [della stessa Corte n. 178 del 2015] con riferimento a taluni settori [del pubblico impiego] sono certamente riferibili anche alla carriera prefettizia e non consentono in nessun modo accostamenti alla indistinta categoria del pubblico impiego contrattualizzato». La difesa degli intervenienti sottolinea infine che «in un regime pensionistico di carattere contributivo, i minori contributi versati durante il periodo di blocco, comporteranno una perdita definitiva sulle somme percepite a titolo di pensione».

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 28 maggio 2014, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui stabilisce, al terzo periodo, che «Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici». Ne consegue che le questioni sollevate hanno a oggetto in via esclusiva il terzo periodo del comma 21 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, che tale disposizione detta, non gli altri periodi dello stesso comma 21.

2.– In via preliminare, sono da considerare inammissibili le deduzioni svolte dalle parti private costituite dirette a estendere il thema decidendum – quale definito nell’ordinanza di rimessione – anche alla disposizione dell’art. 1 del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2 e 3, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111), nonché alla violazione dell’art. 2 Cost. In base alla costante giurisprudenza di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 231 e n. 83 del 2015).

3.– Quanto alla rilevanza delle questioni sollevate e all’ammissibilità delle stesse, si devono ritenere infondate le eccezioni presentate dagli intervenienti circa la non applicabilità dell’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, alle promozioni a viceprefetti, in quanto derogato dalla speciale disciplina che regola la carriera prefettizia e, in particolare, dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 19 maggio 2000, n. 139 (Disposizioni in materia di rapporto di impiego del personale della carriera prefettizia, a norma dell’articolo 10 della L. 28 luglio 1999, n. 266). Quest’ultimo, piuttosto che un’eccezione alla regola sancita dalla disposizione impugnata – che, come già ritenuto da questa Corte, trova applicazione «in tutti i rapporti di impiego con le pubbliche amministrazioni, quale sia la loro struttura e la fonte che li disciplina» (sentenza n. 304 del 2013) – indica una delle situazioni in cui si producono gli effetti economici delle progressioni di carriera e prevede la decorrenza degli stessi «dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello nel quale si sono verificate le vacanze».

Non è condivisibile la posizione dei ricorrenti che individuano un’altra deroga, rispetto alla disposizione censurata, nell’art. 9, comma 2, (quarto periodo), dello stesso d.l. n. 78 del 2010. Per le ipotesi di conferimento – come nella specie – di incarichi dirigenziali vacanti, esso prevede come unico limite del trattamento economico l’importo indicato nel contratto stipulato dal precedente titolare dell’incarico. Il Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, Segretariato generale per gli ordinamenti del personale e l’analisi dei costi del lavoro pubblico, Ufficio IX, con la nota prot. n. 0068772 del 7 agosto 2012, ha valutato che l’essere preposto a un diverso ufficio dirigenziale nel triennio che intercorre fra il 2011 e il 2013 - situazione da cui può dipendere il riconoscimento di un trattamento economico superiore a quello spettante nel 2010 - «va riferita a quelle ipotesi di modifica nella titolarità degli uffici dirigenziali dovute ad esigenze funzionali ed organizzative delle amministrazioni, ma non al conferimento di nuovi e diversi incarichi dirigenziali per effetto di promozioni o progressioni di carriera comunque denominate, per le quali vige il divieto previsto dal citato comma 21, terzo e quarto periodo».

Si può dunque affermare che il Tribunale rimettente ha fornito una valutazione non implausibile sulla rilevanza delle questioni sollevate e sull’applicabilità nel giudizio a quo dell’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo.

4.– Il TAR Lazio ha denunciato la violazione dell’art. 36, primo comma, Cost., nella parte in cui prevede che «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro».

L’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, prevede, per i funzionari della carriera prefettizia che siano stati promossi, negli anni 2011, 2012 e 2013, alla qualifica superiore di viceprefetto, un trattamento economico pari, per tali anni, a quello già percepito nella qualifica inferiore di viceprefetto aggiunto, nonostante alla qualifica superiore corrisponda l’esercizio di funzioni e compiti diversi, connotati da un maggiore livello di responsabilità, e, quindi, una maggiore quantità e qualità del lavoro prestato.

La questione non è fondata.

Questa Corte si è ripetutamente pronunciata sul punto della necessità di una valutazione complessiva della retribuzione, ai fini del giudizio sulla sufficienza e la proporzionalità della stessa al lavoro prestato. A proposito di questioni analoghe, relative al personale delle carriere della Guardia di finanza, dell’università (professori e ricercatori universitari) e della carriera diplomatica (sentenze, rispettivamente, n. 154 del 2014, n. 310 e n. 304 del 2013), tale orientamento è stato confermato e rappresenta un imprescindibile riferimento nella valutazione del caso in esame. Esso induce a escludere che lo svolgimento, in conseguenza della promozione a viceprefetti, di funzioni superiori, in assenza della corresponsione dell’aumento di stipendio previsto in relazione a tale qualifica, renda di per sé – come mostra invece di ritenere il rimettente – il trattamento economico dei detti funzionari non conforme al principio costituzionale di proporzionalità della retribuzione, atteso che il temporaneo blocco degli effetti economici della promozione, previsto dalla disposizione impugnata, non incide sulla struttura della retribuzione dei viceprefetti considerata nel suo complesso.

Nel valutare la conformità del trattamento economico dei viceprefetti promossi nell’arco temporale cha va dal 2011 al 2013 all’anzidetto requisito, oltre che a quello della sufficienza, si deve inoltre tenere conto dell’esistenza di due componenti che, aggiungendosi a quella stipendiale di base, sono volte a compensare l’una le funzioni esercitate e l’altra i risultati conseguiti (artt. 19, 20 e 21 del d.lgs. n. 139 del 2000 e artt. 3, 5 e 6 del d.P.R. 23 maggio 2011, n. 105, recante «Recepimento dell’accordo sindacale relativo al biennio economico 2008-2009, riguardante il personale della carriera prefettizia»). Una valutazione complessiva della retribuzione dei viceprefetti promossi negli anni 2011, 2012 e 2013, anche sotto quest’ultimo aspetto, conduce, perciò, alla conclusione che è rispettato il criterio di corrispettività, poiché i compensi previsti sono specularmente commisurati al contenuto effettivo delle mansioni svolte e degli esiti raggiunti nell’esercitarle.

5.– Con la seconda questione sollevata, il Tribunale rimettente prospetta la violazione dell’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’irragionevole deteriore trattamento che l’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, riserva ai viceprefetti promossi negli anni 2011, 2012 e 2013. Questi, poiché la promozione è inefficace ai fini economici, continuano a percepire il trattamento relativo alla precedente qualifica di viceprefetto aggiunto, mentre i viceprefetti promossi prima del 2011, a parità di qualifica e nell’esercizio di funzioni analoghe, percepiscono un più elevato trattamento economico.

La questione non è fondata.

Nell’affrontare questioni analoghe, questa Corte ha valorizzato il criterio oggettivo che si ricava dalla maggiore anzianità di servizio dei soggetti destinatari di un miglior trattamento economico corrispondente all’ottenuta promozione (sentenza n. 304 del 2013), criterio cui si affianca quello della maggiore anzianità nel grado (sentenza n. 154 del 2014). In entrambi i casi, l’elemento temporale si pone quale discrimine fra due diverse fasi nell’evoluzione della carriera, cui possono corrispondere due diversi trattamenti economici.

Né si può omettere di ricordare che esigenze di politica economica giustificano interventi che, come quello in esame, comprimono solo temporaneamente gli effetti retributivi della progressione in carriera.

6.– Con la terza questione sollevata, il TAR Lazio prospetta la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole deteriore trattamento che l’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, riserva ai funzionari della carriera prefettizia promossi viceprefetti negli anni dal 2011 al 2013, rispetto ai dipendenti del settore privato, per i quali le progressioni di carriera disposte nel medesimo triennio hanno effetto, per lo stesso periodo, anche ai fini economici.

La questione non è fondata.

Il confronto fra lavoratori del settore privato e dipendenti pubblici, destinatari, questi ultimi, di misure di contenimento della spesa, è già stato oggetto di valutazione da parte di questa Corte, che si è espressa per l’incomparabilità sotto questo profilo delle due categorie, segnate dalla profonda diversità delle discipline rispettivamente applicabili (sentenze n. 154 del 2014 e n. 304 del 2013).

La Corte ha inoltre già affermato la legittimità di misure temporanee e contingenti, che, ispirate a un principio solidaristico che riguarda la totalità dei pubblici dipendenti (sentenza n. 310 del 2013), hanno visto le amministrazioni di volta in volta interessate fronteggiare scelte organizzative immediate e necessitate. Anche i viceprefetti sono stati attirati nell’orbita di tali misure.

7.– Con la quarta questione sollevata, il giudice a quo lamenta la violazione del principio della capacità contributiva che si legge nell’art. 53, primo comma, Cost.. L’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, imporrebbe una prestazione patrimoniale tributaria – consistente nel (non corrisposto) aumento retributivo che il dipendente pubblico avrebbe avuto il diritto di percepire, a norma di legge, in conseguenza della progressione di carriera – a carico soltanto di alcuni contribuenti, per il solo fatto di essere gli stessi appartenenti al personale di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001 promossi negli anni 2011, 2012 e 2013.
Ciò comporterebbe l’introduzione di criteri irragionevoli di imposizione.

La questione non è fondata.

Anche in relazione a quest’ultimo parametro invocato dal giudice rimettente, è opportuno richiamare i precedenti, più volte citati, di questa Corte, che hanno rigettato identiche questioni, in quanto la norma censurata non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico, né un’acquisizione di risorse al bilancio dello Stato. Essa è priva pertanto degli elementi che connotano indefettibilmente la prestazione tributaria (sentenze n. 70 del 2015; n. 154 del 2014, n. 310 e n. 304 del 2013).

Esclusa quindi la natura di prelievo fiscale della misura prevista dalla disposizione impugnata, cade la censura che riguarda l’art. 53 Cost.

8.– Con la quinta questione sollevata il Tribunale rimettente deduce che l’impugnato art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, víoli l’art. 97 Cost. perché «determina scontento nel personale, a scapito del corretto e proficuo espletamento delle proprie mansioni e, dunque, a detrimento dell’efficienza nell’amministrazione».

La questione non è fondata.

Con univoca e costante giurisprudenza questa Corte ha affermato che il principio del buon andamento della pubblica amministrazione non può essere associato alle politiche di incrementi retributivi (sentenza n. 273 del 1997; ordinanze n. 263 del 2002, n. 368 del 1999 e n. 205 del 1998). Gli incrementi retributivi del personale dipendente non sono legati da un vincolo funzionale all’efficiente organizzazione dell’amministrazione, poiché si collocano in altra e diversa dimensione evolutiva dei rapporti di lavoro.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, 53 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 aprile 2016.

F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2016.
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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Dobbiamo aspettarci una nuova pronuncia della Corte Costituzionale in cui nuovamente DIVIDE la classe alta da quella bassa.
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1) - Per quanto attiene al merito della questione,
- ) - si procederà con separata ordinanza alla sospensione del processo in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sulla stessa questione, già sollevata da altro giudice,
- ) - evidenziando che la sentenza della Corte Cost.304/2013 peraltro ampiamente richiamata dal ricorrente ha vagliato le questioni di merito sollevate con i medesimi parametri costituzionali richiamati dal ricorrente nel presente ricorso (art. 2,3,36 e 38 Cost.).

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LAZIO SENTENZA 322 03/11/2017
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
LAZIO SENTENZA 322 2017 PENSIONI 03/11/2017



Sent.322/2017


REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE DEI CONTI
Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio
in composizione monocratica, nella persona del Giudice Unico nella materia pensionistica Cons. Anna Bombino

ha pronunciato la seguente
SENTENZA PARZIALE

sul ricorso iscritto al n. 74738 del Registro di Segreteria, presentato dal sig. M. A. L. (CF: omissis), nato il omissis ivi residente in via omissis , rappresentato e difeso dagli avv.ti Giovanni C. Sciacca e Vittoria E. Sardella ed elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma via di Porta Pinciana 6;

NEI CONFRONTI DI

- L’inps in persona del Presidente pro-tempore;

- Il Ministero dell’Economia e delle Finanze in persona del Ministro protempore;

- il Ministero degli Affari Esteri in persona del Ministro protempore

AVVERSO

1) il trattamento pensionistico diretto ordinario di anzianità attribuitogli, calcolato sulla base delle retribuzione di ministro plenipotenziario anziché di ambasciatore;

2) ogni altro atto precedente, connesso e pregiudiziale.

UDITI, nella pubblica udienza del 26 ottobre 2017, l’avv. Giovanni Crisostomo Sciacca per il ricorrente, l’avv. Manuela Massa per l’INPS; nessuno è presente per il Ministero degli Affari Esteri.

FATTO

Il ricorrente funzionario diplomatico del Ministero degli Affari Esteri è stato promosso con decreto n.13 del 17.5.2013 al grado di ambasciatore con decorrenza dal 2.1.2013, ai soli effetti giuridici, ma non economici, per cui ha percepito gli emolumenti di ministro plenipotenziario sino alla cessazione dal servizio avvenuta il 30.12.2013.

Rappresenta che numerosi diplomatici in servizio hanno investito il TAR della questione stipendiale determinata sulla base della disciplina introdotta dall’art. 9 comma 21 del D.L. 31.5.2010 n.78, convertito con legge con modif. legge 30.7.2010 n.122 per asserita violazione degli artt. 2,3,36 e 97 Cost., e che la Corte Costituzionale con sentenza n. 304/2013 ha confermato la legittimità delle stesse evidenziando che la misura adottata sarebbe giustificata dall’esigenza di assicurare la coerente attuazione della finalità di temporanea “cristallizzazione” del trattamento economico dei dipendenti pubblici per inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica.

Ha rilevato la sussistenza di profili di illegittimità costituzionale delle norme applicate sul presupposto che la pronuncia della Corte Costituzionale non avrebbe affrontato la questione trascurata dal legislatore riguardo la peculiare posizione di coloro che nominati ambasciatori nel triennio sono stati collocati a riposo nello stesso arco di tempo ricevendo un trattamento economico parametrato sullo stipendio di plenipotenziario e non già di ambasciatore, pur avendo conseguito la promozione nello stesso arco temporale, con effetti discriminanti rispetto a coloro che trovandosi nelle medesime condizioni, ma rimasti in servizio, avranno riconosciuta una pensione maggiore dopo la cessazione del “ blocco ” disposto dalla normativa censurata.

Secondo l’assunto attoreo la norma de qua è lesiva dei principi della adeguatezza e proporzionalità della retribuzione (art. 38 Cost.), della ragionevolezza e della uguaglianza di trattamento tra situazioni omogenee estendendo in via permanente e non temporale la misura restrittiva in essa contenuta (2011-2014) per coloro che sono stati promossi nel triennio e collocati a riposo nello stesso periodo, rispetto a coloro che sono stati promossi prima del 2011 e dopo il 2014. Pertanto ha chiesto il riconoscimento del diritto a percepire un trattamento pensionistico correlato allo stipendio di ambasciatore, previa rimessione degli atti alla Corte Costituzionale della norma de qua per contrasto con gli artt. 38, 36 3 e 2 della Cost..
L’INPS nella memoria difensiva ha dedotto:

- il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti, in favore del giudice amministrativo, vertendo la questione sul riconoscimento del diverso trattamento stipendiale se pure ai fini previdenziali e di quiescenza.

- il difetto di legittimazione passiva in relazione alla questione dedotta in giudizio spettando eventualmente al Ministero degli Affari esteri l’attribuzione del trattamento anche economico legato alla promozione di ambasciatore;

- l’irrilevanza e manifesta infondatezza della dedotta questione di legittimità delle norme applicate, già oggetto di scrutinio costituzionale, evidenziando tuttavia che con ordinanza 1/2017 la questione di costituzionalità della norma de qua è stata di nuovo rimessa al vaglio della Corte dalla Sezione Liguria della Corte dei Conti con ord. N. 1/2017.

L’Amministrazione resistente ha eccepito e dedotto:

- La carenza di giurisdizione della Corte dei Conti in favore del giudice amministrativo, sulla scorta dell’orientamento della S.C. in fattispecie analoga a quella che occupa la sezione, evidenziando che nella fattispecie si contesta la mancata attribuzione di un trattamento di attività e non di quiescenza derivante da quanto stabilito dalla norma applicata al ricorrente (cfr. Corte cassazione SS.UU. n. 11566/07 e ord. 8929/2014).

- L’Inammissibilità del ricorso per genericità in assenza della specificazione del petitum avendo il ricorrente chiedendo la verifica costituzionale delle stesse;

- L’Infondatezza della questione di legittimità costituzionale ritenendo errato il presupposto sul quale è fondata la pretesa attorea circa l’asserita sussistenza di un “vuoto” normativo tenuto conto che, per il personale in questione, il trattamento pensionistico è commisurato ai sensi dell’art. 13 comma 1 lett. a) all’ultimo stipendio percepito all’atto del pensionamento e che tale norma non è stata oggetto di censura da parte del ricorrente.

Il Ministero dell’Economia non ha svolto alcuna attività defenzionale.

Alla udienza pubblica del 26 ottobre 2017 le parti presenti si sono riportate agli scritti depositati in atti concludendo come da verbale in atti.

DIRITTO

L’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalle Amministrazioni resistenti riguardo la natura stipendiale degli emolumenti rivendicati è infondata.

Il ricorrente ha contestato la determinazione del trattamento pensionistico che è stata determinata sulla base dello stipendio di funzionario plenipotenziario anziché di quello di ambasciatore, grado cui è stato promosso nel periodo temporale (2011-2013) di vigenza della norma censurata.

Il ricorrente ha chiesto infatti la valorizzazione in quiescenza del trattamento economico collegato alla progressione di carriera da cui è scaturita la promozione ad ambasciatore e per la quale lo stesso non ha mosso alcuna doglianza.

Il petitum e la causa petendi del gravame riguardano il quantum del diritto a pensione e, come tale, rientrano nella cognizione del giudice delle pensioni.

Anche la Corte di Cass. SS.UU. nella pronuncia 8.4.2010 n.8317 ha affermato il seguente principio di diritto: “La Corte dei Conti, in sede di giurisdizione esclusiva sui provvedimenti inerenti al diritto , alla misura e alla decorrenza della pensione dei pubblici dipendenti (nonché degli altri assegni che ne costituiscono parte integrante), ha il potere-dovere di delibare gli atti amministrativi intervenuti nel pregresso rapporto d’impiego inerenti allo “status” del dipendente ed al suo trattamento economico, al solo fine di stabilirne la rilevanza sul trattamento di quiescenza, senza con ciò invadere la giurisdizione del giudice competente a conoscere della misura del trattamento economico spettante in sinallagma con il rapporto di lavoro (id. Cass. 14.6.2005 n. 12722; Corte conti sez. I n.465/2009; conforme Corte conti Sez. Lombardia 24 marzo 2006 n.209).

Conseguentemente, vi è giurisdizione della Corte dei Conti ove i fatti dedotti e l’oggetto della domanda sono direttamente attinenti al rapporto previdenziale e il rapporto d’impiego, nell’ottica della domanda, funga da presupposto esterno del rapporto previdenziale, rilevante incidenter tantum e sempre che non venga in discussione la legittimità di atti amministrativi inerenti detto rapporto pubblico.

Nel caso di specie, l’interessato ha chiesto il riconoscimento della pensione più elevata parametrata sullo stipendio corrispondente al grado già conseguito in costanza di servizio, in vigenza della norma impugnata.

Parimenti infondata è l’eccezione di inammissibilità del ricorso per genericità del petitum evidenziandosi dalla disamina del contenuto del ricorso il bene della vita atteso dal ricorrente, costituito dal diritto al conseguimento del trattamento pensionistico a vita più favorevole, parametrato sullo stipendio corrispondente alla posizione giuridica di ambasciatore, conseguita, nel 2013, ai soli effetti giuridici.

L’eccezione di difetto di legittimazione passiva dell’INPS è infondata per due ordini di ragioni.

La domanda è riferita al riconoscimento del trattamento pensionistico più favorevole (e non stipendiale ); ciò affermato, in tal caso, sussiste una competenza concorrente dell’Istituto e dell’Amministrazione datrice di lavoro, in ordine alla pretesa attorea sul presupposto che le attribuzioni di ordinatore secondario di spesa costituiscono una mera ripartizione di competenza tra apparati della P.A. comunque costituenti nel loro complesso il soggetto obbligato passivo (ex multis Corte conti Liguria n.34/2009;Veneto n. n.489/2006; Corte conti Sez. III n.175/A/2001).

Per quanto attiene al merito della questione, si procederà con separata ordinanza alla sospensione del processo in attesa della pronuncia della Corte costituzionale sulla stessa questione, già sollevata da altro giudice, evidenziando che la sentenza della Corte Cost.304/2013 peraltro ampiamente richiamata dal ricorrente ha vagliato le questioni di merito sollevate con i medesimi parametri costituzionali richiamati dal ricorrente nel presente ricorso (art. 2,3,36 e 38 Cost.).

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, in composizione monocratica, parzialmente pronunciando respinge tutte le eccezioni formulate dalle Amministrazioni controinteressate.

1) Dichiara la giurisdizione della Corte dei conti sul ricorso in epigrafe;

2) Dichiara l’ammissibilità del ricorso stesso;

3) Dichiara la legittimazione passiva dell’INPS;

4) Dispone con separata ordinanza la sospensione del processo.

Spese al definitivo.

Così deciso a Roma, nella Camera di Consiglio del 26 ottobre 2017
IL GUP
F.to Anna Bombino


Depositata in Segreteria 03/11/2017


Il Dirigente
Dott. Paola Lo Giudice
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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I ricorrenti, assunti dopo il 31 dicembre 2000 e sin dall’inizio in regime di trattamento di fine rapporto (TFR), hanno chiesto di accertare l’illegittimità della trattenuta del 2,50 per cento operata dal datore di lavoro pubblico a carico della loro retribuzione lorda mensile.
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SENTENZA N. 213
ANNO 2018


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
- Luca ANTONINI ”
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 19, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), promossi dal Tribunale ordinario di Perugia, in funzione di giudice del lavoro, con tre ordinanze del 21 aprile 2017, iscritte rispettivamente ai numeri da 125 a 127 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale Umbria (ARPA Umbria) e, nel giudizio di cui al reg. ord. n. 126 del 2017, dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e, nei giudizi di cui al reg. ord. n. 125 e n. 127 del 2017, dell’INPS;

udito nell’udienza pubblica del 9 ottobre e nella camera di consiglio del 10 ottobre 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Donato Antonucci per l’ARPA Umbria, Flavia Incletolli per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gianfranco Pignatone Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanze di analogo contenuto, depositate il 21 aprile 2017 e iscritte al n. 125, al n. 126 e al n. 127 del registro ordinanze 2017, il Tribunale ordinario di Perugia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 19, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), «nella parte in cui, demandando a un d.p.c.m. la definizione della struttura retributiva e contributiva dei dipendenti pubblici passati, ex lege, dal precedente regime del TFS o dell’IBU al regime del TFR, ha imposto il vincolo dell’invarianza della retribuzione netta nonostante la cessazione del prelievo contributivo a titolo di rivalsa», previsto dall’art. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), per i dipendenti pubblici in regime di indennità di buonuscita (IBU) e dall’art. 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali), per i dipendenti degli enti locali in regime di indennità premio di servizio.

1.1.– Il rimettente espone di dover decidere sui ricorsi proposti da dipendenti della Provincia di Perugia (nel giudizio di cui al reg. ord. n. 125 del 2017), dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale Umbria (ARPA Umbria, nel giudizio di cui al reg. ord. n. 126 del 2017) e del Comune di Bastia Umbria (nel giudizio di cui al reg. ord. n. 127 del 2017). I ricorrenti, assunti dopo il 31 dicembre 2000 e sin dall’inizio in regime di trattamento di fine rapporto (TFR), hanno chiesto di accertare l’illegittimità della trattenuta del 2,50 per cento operata dal datore di lavoro pubblico a carico della loro retribuzione lorda mensile.

Il giudice a quo prende le mosse dalla ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

L’art. 2, comma 5, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), ha assoggettato alle disposizioni sul trattamento di fine rapporto, contenute nell’art. 2120 del codice civile, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, dei lavoratori assunti dal 1° gennaio 1996 alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

In virtù dell’art, 2, comma 6, della legge n. 335 del 1995, la contrattazione collettiva, nell’àmbito dei singoli comparti, è chiamata a definire le modalità di attuazione di tali previsioni, «con riferimento ai conseguenti adeguamenti della struttura retributiva e contributiva del personale», anche ai fini della disciplina delle forme pensionistiche complementari. Le modalità di esecuzione sono definite da un «decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro del tesoro e con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale».

L’art. 2, comma 7, della legge n. 335 del 1995 ha demandato alla contrattazione collettiva nazionale, nell’àmbito dei singoli comparti, la definizione delle modalità per l’applicazione della disciplina del trattamento di fine rapporto ai lavoratori già occupati alla data del 31 dicembre 1995, affidando a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, secondo la procedura prevista dal citato art. 2, comma 6, il compito definire le modalità di esecuzione.

L’art. 26, comma 19, della legge n. 448 del 1998 ha poi rinviato a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, emanato secondo le procedure delineate dall’art. 2, commi 6 e 7, della legge n. 335 del 1995, la disciplina degli aspetti concernenti «l’accantonamento, la rivalutazione e la gestione dell’1,5 per cento dell’aliquota contributiva relativa all’indennità di fine servizio prevista dalle gestioni previdenziali di appartenenza da destinare alla previdenza complementare del personale che opta per la trasformazione dell’indennità di fine servizio in trattamento di fine rapporto, nonché i criteri per l’attribuzione ai fondi della somma di cui al comma 18».

Il decreto in oggetto avrebbe dovuto inoltre «definire, ferma restando l’invarianza della retribuzione complessiva netta e di quella utile ai fini pensionistici, gli adeguamenti della struttura retributiva e contributiva conseguenti all’applicazione del trattamento di fine rapporto, le modalità per l’erogazione del trattamento di fine rapporto per i periodi di lavoro prestato a tempo determinato nonché quelle necessarie per rendere operativo il passaggio al nuovo sistema del personale di cui al comma 5 dell’articolo 2 della legge 8 agosto 1995, n. 335».

L’accordo quadro nazionale tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le organizzazioni sindacali, stipulato il 29 luglio 1999 e poi trasfuso nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti), ha escluso, per i dipendenti che transitano al regime del TFR, l’applicazione del contributo previdenziale obbligatorio, sancito, nella misura del 2,5 per cento della base retributiva, dall’art. 11 della legge n. 152 del 1968, con riguardo all’indennità premio di servizio a favore degli impiegati degli enti locali, e dall’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973, per l’indennità di buonuscita degli impiegati dello Stato.

La soppressione del contributo non incide, tuttavia, sulla retribuzione imponibile ai fini fiscali e, in coerenza con l’obiettivo di «assicurare l’invarianza della retribuzione netta complessiva e di quella utile ai fini previdenziali», si accompagna alla riduzione della retribuzione lorda «in misura pari al contributo previdenziale obbligatorio soppresso». Si dispone contestualmente il «recupero in misura pari alla riduzione attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul trattamento di fine rapporto, ad ogni fine contrattuale nonché per la determinazione della massa salariale per i contratti collettivi».

La riduzione della retribuzione lorda, che si applica al personale assunto dopo l’entrata in vigore del d.P.C.m. 20 dicembre 1999 e al personale assunto in precedenza che abbia scelto il passaggio al regime del TFR, perseguirebbe l’obiettivo di garantire la parità di trattamento contrattuale dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente evidenzia che la domanda dei ricorrenti, «pubblici dipendenti assunti dopo il 31.12.2000 e, quindi, ex lege in regime di TFR», dovrebbe essere respinta, in quanto la fonte secondaria, in attuazione dell’obiettivo indicato dall’art. 26, comma 19, della legge n. 448 del 1998, non avrebbe potuto che imporre un’equivalente riduzione della retribuzione lorda.

1.3.– In merito alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, il rimettente osserva che l’assetto delineato dal legislatore contrasta con gli artt. 3 e 36 Cost., in quanto impone il «vincolo dell’invarianza della retribuzione netta ai dipendenti pubblici passati al regime del TFR dal precedente regime dell’IBU o del TFS» e conserva di fatto la «trattenuta a titolo di rivalsa ex art. 37 del d.p.r. n. 1032 del 1973 e quella a titolo di sostituto di imposta, per il contributo di cui all’art. 11 della l. n. 152» del 1968, «pur in mancanza del conseguente beneficio previdenziale».

Ad avviso del rimettente, il «corretto punto di partenza per verificare se vi sia o meno la parità dei trattamenti retributivi tra lavoratori che svolgano analoghe mansioni» dovrebbe essere la retribuzione lorda, e non già quella netta, effettivamente ricevuta in pagamento e assoggettata a disparate trattenute di natura fiscale e contributiva.

Il giudice a quo, poste tali premesse, denuncia un’arbitraria disparità di trattamento «tra i lavoratori dipendenti dello Stato e degli Enti Locali in regime di IBU o TFS ed i dipendenti delle medesime amministrazioni in regime di TFR in quanto ai primi è riconosciuto un trattamento retributivo più elevato rispetto ai secondi». In particolare, i primi beneficerebbero di un trattamento più elevato, limitatamente a «una somma pari al 2,5% sull’80% della base contributiva di cui all’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica n. 1032 del 1973 o pari all’ammontare del contributo di cui all’art. 11 della legge n. 152 del 1968».

Senza la riduzione disposta ex lege, «i lavoratori dipendenti in regime di TFR», oramai dispensati dall’obbligo di contribuire al finanziamento dell’indennità di buonuscita o del trattamento di fine servizio ad essi non più spettante, avrebbero percepito una retribuzione lorda più elevata. Del più favorevole trattamento così riconosciuto non avrebbero potuto dolersi «i dipendenti rimasti sotto il regime dell’IBU o del TFS», in quanto avrebbero potuto optare per il passaggio al «regime del TFR».

Il rimettente assume, inoltre, che «la riduzione dei trattamenti retributivi dei dipendenti in regime di TFR» sia lesiva dell’art. 36 Cost., che tutela «proporzionalità e sufficienza dei trattamenti retributivi dei lavoratori in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato». Invero, la riduzione prevista dalla disposizione censurata collocherebbe la retribuzione dei dipendenti in regime di TFR «al di sotto della soglia della retribuzione tabellare prevista dalla contrattazione collettiva con riferimento a determinate tipologie di prestazioni lavorative» e così determinerebbe il riconoscimento di retribuzioni inferiori rispetto a quelle minime stabilite dalle parti collettive.

A sostegno dell’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, il rimettente richiama, per l’identità di ratio, la sentenza n. 223 del 2012 di questa Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui non escludeva la rivalsa dell’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973 a carico dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche ancora in regime di TFS, che si vedevano computare i trattamenti di fine servizio, con effetto sulle anzianità contributive decorrenti dal 1° gennaio 2011, secondo l’art. 2120 cod. civ.

2.– Nel giudizio di cui al reg. ord. n. 126 del 2017 si è costituita, con atto depositato il 16 ottobre 2017, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale Umbria (ARPA Umbria) e ha chiesto di dichiarare la manifesta inammissibilità o, comunque, l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Perugia.

In linea preliminare, l’ARPA Umbria imputa al rimettente di avere travisato la normativa di riferimento, che alla riduzione della retribuzione lorda accompagna un recupero ai fini previdenziali e del trattamento di fine rapporto.

Nel merito, osserva che la disposizione censurata si riconnette al graduale percorso di transizione dal regime di trattamento di fine servizio al trattamento di fine rapporto (menziona la sentenza n. 244 del 2014) e si prefigge di salvaguardare il principio dell’invarianza della retribuzione netta, «quale garanzia della medesima capacità economica per tutti i dipendenti, a prescindere dalla tipologia di trattamento loro spettante al termine del rapporto lavorativo» e di evitare disparità di trattamento tra dipendenti in regime di TFR e dipendenti in regime TFS e IBU. Difatti, senza la riduzione censurata dal rimettente, i lavoratori in regime di TFR godrebbero di una retribuzione netta più alta, con conseguente violazione del principio di invarianza del trattamento retributivo.

Inoltre, allo scopo di scongiurare possibili pregiudizi ai dipendenti in regime di TFR, la fonte secondaria prescriverebbe un recupero in misura pari alla riduzione, attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul TFR.

3.– Nel giudizio di cui al reg. ord. n. 126 del 2017 si è costituito, con atto depositato il 16 ottobre 2017, l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque infondata la questione di legittimità costituzionale.

L’INPS ha eccepito, in linea preliminare, l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale per incompleta ricostruzione del quadro normativo. La disposizione censurata, difatti, si limiterebbe a riprodurre il disposto dell’art. 2, comma 6, della legge n. 335 del 1995, che già aveva demandato alla contrattazione collettiva la definizione delle relative modalità di attuazione, con peculiare riguardo agli adeguamenti della struttura retributiva e contributiva. Una eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata non travolgerebbe, pertanto, la decurtazione della retribuzione lorda delle parti ricorrenti, che troverebbe il suo fondamento in una disposizione previgente, che non è stata sottoposta al vaglio di costituzionalità.

Nel merito, la questione non sarebbe fondata.

La disciplina sottoposta allo scrutinio di questa Corte non confliggerebbe con i parametri costituzionali evocati dal rimettente, in quanto, senza la disposizione censurata, si sarebbero riscontrati un aumento della retribuzione lorda ai fini fiscali e un aumento della retribuzione netta, in contrasto con il principio di parità di trattamento economico dei dipendenti con la stessa retribuzione complessiva.

La decurtazione della retribuzione lorda ai fini fiscali si prefiggerebbe di evitare disparità di trattamento tra lavoratori in regime di TFS e lavoratori in regime di TFR, che presentino la stessa «situazione lavorativa e retributiva complessiva». Peraltro, il regime TFR si rivelerebbe più vantaggioso rispetto al regime TFS, in quanto il trattamento di fine rapporto si incrementerebbe con un tasso superiore all’inflazione e su base composta e la decurtazione della retribuzione lorda sarebbe poi recuperata in aumento ai fini previdenziali.

Il meccanismo individuato dal legislatore si rivelerebbe indispensabile allo scopo di «graduare gli oneri del passaggio dal regime di TFS a quello di TFR», evitando l’impiego di «notevoli risorse aggiuntive».

Non sarebbe pertinente, poi, il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012, in quanto l’odierna questione di legittimità costituzionale non riguarderebbe la trattenuta previdenziale prevista dall’art. 11 della legge n. 152 del 1968 o dall’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973, ma la diversa decurtazione della retribuzione dei lavoratori in regime di TFR.

3.1.– Nei giudizi di cui al reg. ord. n. 125 e n. 127 del 2017, l’INPS è intervenuto, con atti depositati il 16 ottobre 2017, e ha chiesto di dichiarare ammissibile l’intervento e di dichiarare la questione di legittimità costituzionale inammissibile o, in subordine, «del tutto infondata».

L’INPS, in linea preliminare, afferma di non essere parte nei giudizi a quibus e, tuttavia, di essere titolare di «un interesse qualificato e concreto ad intervenire», in quanto è succeduto all’Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP) in ogni rapporto attivo e passivo, anche con riguardo alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio e di fine rapporto dei dipendenti del comparto statale e locale delle pubbliche amministrazioni.

A sostegno dell’ammissibilità dell’intervento, l’INPS evidenzia che la questione di legittimità costituzionale riguarda il meccanismo di finanziamento del TFR nel comparto pubblico, prestazione rientrante nelle sue competenze, e che il datore di lavoro pubblico dei ricorrenti ha chiesto, in caso di accoglimento del ricorso, la restituzione degli importi già versati all’INPS. Pertanto, l’esito della questione di legittimità costituzionale inciderebbe direttamente sulla posizione dell’ente previdenziale.

Quanto al merito, l’INPS, negli atti di intervento, ha ribadito gli argomenti illustrati nella memoria di costituzione depositata nel giudizio di cui al reg. ord. n. 126 del 2017.

4.– In tutti e tre i giudizi, è intervenuto, con atto depositato il 17 ottobre 2017, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale.

La decurtazione della retribuzione del personale in regime di TFR non si atteggerebbe come un contributo previdenziale obbligatorio, ma sarebbe l’unico strumento, di valenza eminentemente perequativa, atto a evitare un indebito vantaggio per il personale in regime di TFR e a garantire il principio dell’invarianza della retribuzione, riconducendo a eguaglianza i regimi retributivi e contributivi e scongiurando nuovi oneri a carico del bilancio statale.

Senza la decurtazione indicata, difatti, si determinerebbe un aumento della retribuzione lorda ai fini fiscali e, in pari tempo, della retribuzione netta e si produrrebbe «una disparità di trattamento economico fra dipendenti aventi la stessa retribuzione complessiva», in contrasto con il principio di parità di trattamento contrattuale e retributivo dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni che svolgano eguali mansioni (art. 45 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»).

Inoltre, la decurtazione sarebbe recuperata in virtù di un incremento figurativo ai fini previdenziali e del calcolo del trattamento di fine rapporto, meccanismo correttivo finalizzato a evitare pregiudizi ai dipendenti in regime di TFR.

Quanto alla sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2012, richiamata a sostegno delle censure, riguarderebbe i dipendenti in regime di TFS e non già i dipendenti in regime di TFR, che, al contrario, godrebbero di un vantaggio indebito se fosse abolita la trattenuta nei termini auspicati dal rimettente.

4.1.– Il 18 settembre 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memorie illustrative, per confermare le conclusioni già formulate.

L’interveniente ha ribadito che la decurtazione in esame non solo è preordinata a tutelare il principio dell’invarianza della retribuzione, garantendo che la retribuzione dei dipendenti in regime di TFR e di TFS sia «identica a parità di mansioni e anzianità», ma è anche recuperata attraverso un incremento figurativo ai fini previdenziali e dell’applicazione delle norme sul trattamento di fine rapporto. Il principio di invarianza della retribuzione, lungi dall’essere in contrasto con l’art. 36 Cost., ne rappresenterebbe la puntuale attuazione.

Da ultimo, l’Avvocatura generale dello Stato ha posto in risalto il considerevole impatto economico di una pronuncia di accoglimento, che implicherebbe un costo annuo di seicento milioni di euro, via via crescente nella misura del 6 per cento annuo, in ragione del progressivo aumento della quota di personale in regime di TFR.

Quanto all’incidenza della restituzione degli importi già versati, l’importo ammonterebbe a 3,5 miliardi di euro, considerando la vigenza del termine di prescrizione decennale per le azioni di ripetizione di indebito.

L’accoglimento della questione di legittimità costituzionale determinerebbe dunque, in contrasto con «il principio del pareggio tra entrate e uscite di bilancio», «effetti finanziari negativi di rilevante entità, suscettibili di pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica».

5.– All’udienza pubblica del 9 ottobre 2018, le parti del giudizio di cui al reg. ord. n. 126 del 2017 hanno ribadito le conclusioni illustrate negli scritti difensivi.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Perugia, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 19, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), che disciplina il passaggio dei lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dal trattamento di fine servizio (TFS) al trattamento di fine rapporto (TFR) e, in tale contesto, demanda a un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri il compito di «definire, ferma restando l’invarianza della retribuzione complessiva netta e di quella utile ai fini pensionistici, gli adeguamenti della struttura retributiva e contributiva conseguenti all’applicazione del trattamento di fine rapporto».

Nell’attuare le previsioni indicate, il d.P.C.m. 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti) ha soppresso, per i dipendenti che transitano al regime del TFR, la trattenuta a carico dei lavoratori, destinata a finanziare le pregresse forme di trattamento di fine servizio e prevista dall’art. 37 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), e dall’art. 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale per il personale degli Enti locali).

Allo scopo di «assicurare l’invarianza della retribuzione netta complessiva e di quella utile ai fini previdenziali», il decreto citato ha disposto la riduzione della retribuzione lorda, «in misura pari al contributo previdenziale obbligatorio soppresso».

Il rimettente ravvisa, nell’assetto delineato dalla disposizione censurata e poi specificato dalla fonte secondaria, in linea con le vincolanti indicazioni della legge, un contrasto con gli artt. 3 e 36 della Costituzione.

Il giudice a quo muove dall’assunto che «la retribuzione dei lavoratori non può essere considerata quella netta effettivamente ricevuta in pagamento essendo, tale retribuzione effettiva, la risultante di una serie di trattenute di natura fiscale e contributiva operate sul trattamento ipoteticamente spettante, trattenute che, a loro volta, sono correlate a specifici obblighi che gravano su tutti o soltanto parte dei lavoratori dipendenti (pubblici e privati)». Si dovrebbe dunque scegliere come «corretto punto di partenza» la retribuzione lorda, e non quella effettivamente ricevuta in pagamento dal lavoratore.

Sulla scorta di tali premesse, il rimettente denuncia «una evidente ed ingiustificata disparità di trattamento tra i lavoratori dipendenti dello Stato e degli Enti Locali» in regime di indennità di buonuscita o di trattamento di fine servizio e i dipendenti delle medesime amministrazioni in regime di trattamento di fine rapporto. La legge, difatti, riconoscerebbe ai primi «un trattamento retributivo più elevato» e disporrebbe, a danno dei secondi, una irragionevole riduzione della retribuzione lorda, in misura pari all’ammontare del soppresso contributo previdenziale obbligatorio.

La disciplina in esame sarebbe lesiva anche dell’art. 36 Cost., norma «posta a presidio della proporzionalità e sufficienza dei trattamenti retributivi dei lavoratori in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato». La decurtazione della retribuzione lorda, nel collocare «la retribuzione di tale categoria di dipendenti pubblici al di sotto della soglia della retribuzione tabellare prevista dalla contrattazione collettiva con riferimento a determinate tipologie di prestazioni», implicherebbe, per i dipendenti pubblici in regime di TFR, l’attribuzione di «trattamenti retributivi inferiori rispetto a quelli minimi previsti dalle parti collettive».

2.– I giudizi, che hanno ad oggetto la medesima questione, devono essere riuniti e definiti con un’unica pronuncia.

3.– Si deve osservare, preliminarmente, che l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) si è costituito nel giudizio di cui al reg. ord. n. 126 del 2017 e ha spiegato intervento nei giudizi di cui al reg. ord. n. 125 e n. 127 del 2017.

L’intervento è ammissibile.

L’INPS, chiamato a erogare i trattamenti di fine rapporto di cui si discute nei giudizi a quibus, vanta un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e suscettibile, pertanto, di essere inciso dall’esito del processo principale.

Tale interesse è avvalorato anche dal fatto che i datori di lavoro pubblici, nell’ipotesi di accoglimento delle domande dei ricorrenti, conseguente all’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata, si riservano di chiedere in un successivo giudizio la restituzione delle somme versate all’INPS.

Deve essere dunque confermato l’orientamento già espresso da questa Corte, nel dichiarare ammissibile l’intervento dell’INPS, nella qualità di ente erogatore dei trattamenti di fine rapporto oggetto di controversia nel giudizio principale (ordinanza dibattimentale letta all’udienza pubblica del 4 ottobre 2016 e allegata alla sentenza n. 240 del 2016 e ordinanza dibattimentale letta all’udienza pubblica del 7 ottobre 2014 e allegata alla sentenza n. 244 del 2014).

4.– L’INPS, sia nell’atto di costituzione che negli atti di intervento, ha eccepito l’inammissibilità della questione in ragione dell’incompleta ricostruzione del quadro normativo.

L’INPS soggiunge che il rimettente non ha sottoposto al vaglio di questa Corte l’art. 2, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), idoneo a giustificare la contestata riduzione della retribuzione lorda, anche senza le specificazioni racchiuse nella disposizione censurata.

L’Agenzia regionale per la protezione ambientale Umbria (ARPA Umbria), costituitasi nel giudizio di cui al reg. ord. n. 126 del 2017, dal canto suo, lamenta che il rimettente abbia travisato il quadro normativo di riferimento e abbia trascurato di rilevare che alla riduzione della retribuzione lorda fa riscontro un recupero ai fini previdenziali e del trattamento di fine rapporto.

Le eccezioni, che possono essere esaminate congiuntamente, in quanto investono profili in larga parte connessi, non sono fondate.

Il giudice a quo ha diffusamente ricostruito le particolarità della disciplina in esame e ha dato conto anche dell’art. 2, comma 6, della legge n. 335 del 1995, che segna l’avvio di un complesso percorso evolutivo della normativa in materia.

Le censure si appuntano sull’art. 26, comma 19, della legge n. 448 del 1998, sul presupposto che tale disposizione, nel dare nuovo impulso al processo di transizione dal regime del TFS a quello del TFR e, in particolare, nell’enunciare il principio di invarianza della retribuzione netta, sia lesiva degli artt. 3 e 36 Cost. Contro tale principio, in tutte le sue implicazioni, definite in modo coerente dalla fonte secondaria, si indirizzano le censure proposte.

La premessa ermeneutica dalla quale muove il dubbio di costituzionalità non è prima facie implausibile e si fonda su un’approfondita ricognizione delle diverse discipline e, in particolare, della disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, che, nel sancire il citato principio di invarianza, ha portata innovativa rispetto all’art. 2, comma 6, della legge n. 335 del 1995.

Quanto al dedotto travisamento del quadro normativo, le argomentazioni di ARPA Umbria, pur evocando il profilo preliminare dell’ammissibilità, attengono al merito della questione e sottendono una diversa valutazione della disciplina scrutinata.

5.– Nel merito, la questione non è fondata.

6.– La disposizione censurata si colloca nella complessa transizione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni «da un regime di diritto pubblico ad un regime di diritto privato» (sentenza n. 244 del 2014, punto 7.1. del Considerato in diritto).

Il legislatore, nel prudente esercizio della sua discrezionalità, ha scandito la descritta transizione secondo un percorso graduale, che investe anche la disciplina delle indennità di fine rapporto spettanti ai dipendenti pubblici, progressivamente ricondotte all’unitaria matrice civilistica del trattamento di fine rapporto (art. 2120 del codice civile).

È in tale gradualità che si inquadra la coesistenza del regime del trattamento di fine servizio con il regime del trattamento di fine rapporto, applicato, anche in virtù delle innovazioni recate dal d.P.C.m. 2 marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi dei pubblici dipendenti), a coloro che abbiano aderito alla previdenza complementare in base all’art. 59, comma 56, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), o siano stati assunti con contratto a tempo indeterminato dopo il 31 dicembre 2000 o con contratto a tempo determinato, per i periodi di lavoro successivi al 30 maggio 2000.

Alla gradualità, che contraddistingue l’avvicendarsi dei due regimi delle indennità di fine rapporto dei dipendenti pubblici (sentenza n. 244 del 2014, punto 7.1. del Considerato in diritto), si affianca il ruolo di primaria importanza delle organizzazioni sindacali più rappresentative che il 29 luglio 1999 hanno stipulato con l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) un accordo quadro nazionale successivamente recepito dal d.P.C.m. 20 dicembre 1999.

Nella sede negoziale, nell’alveo delle indicazioni offerte dall’art. 26, comma 19, della legge n. 448 del 1998, sono state definite le misure atte a salvaguardare il principio dell’invarianza della retribuzione netta e a contemperare la tutela dei diritti retributivi e previdenziali dei lavoratori pubblici con la salvaguardia della sostenibilità del sistema complessivamente considerato.

7.– Inquadrata nelle coordinate di un articolato percorso evolutivo, mediato anche dall’autonomia collettiva, la disciplina in esame si sottrae alle censure del rimettente.

7.1.– Per i dipendenti che transitano al regime del TFR, il superamento delle forme previgenti delle indennità di fine rapporto ha determinato l’eliminazione della trattenuta a carico del lavoratore, originariamente destinata a finanziarle, secondo le modalità tratteggiate dall’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973, per l’indennità di buonuscita dei dipendenti statali, e dall’art. 11 della legge n. 152 del 1968, per l’indennità premio di servizio dei dipendenti degli enti locali.

La soppressione della trattenuta a carico del lavoratore concorre a differenziare la fattispecie sottoposta all’odierno sindacato di questa Corte rispetto a quella scrutinata nella sentenza n. 223 del 2012, richiamata dal rimettente a sostegno delle censure, pur nella consapevolezza della diversità delle situazioni poste a raffronto.

Questa Corte era chiamata allora a sindacare la legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, in legge 30 luglio 2010, n. 122, che statuiva l’applicazione delle regole di computo del TFR, a decorrere dal 1° gennaio 2011, per le anzianità contributive dei trattamenti di fine servizio dei lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni in regime di TFS.

La disposizione citata non escludeva che sul lavoratore continuasse a gravare la rivalsa del 2,50 per cento prevista dall’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973 ed è su tale aspetto che si incentra la declaratoria di illegittimità costituzionale.

Questa Corte, a tale riguardo, ha argomentato che la rivalsa, pur giustificata «a fronte di un miglior trattamento di fine rapporto» e di un accantonamento determinato su una base di computo inferiore, pari all’80 per cento della retribuzione, si rivelava priva di ogni apprezzabile ragion d’essere nel diverso sistema del TFR dei dipendenti pubblici, che peraltro contempla una percentuale di accantonamento applicata «sull’intera retribuzione» (sentenza n. 223 del 2012, punto 14. del Considerato in diritto).

Il permanere della trattenuta a carico del dipendente era il frutto della commistione della disciplina del TFS, nel suo tratto caratteristico della rivalsa, con l’eterogenea regolamentazione del TFR e così determinava «una diminuzione della retribuzione e, nel contempo, la diminuzione della quantità di TFR maturata nel tempo» (sentenza n. 223 del 2012, punto 14. del Considerato in diritto), con un trattamento deteriore dei lavoratori pubblici in regime di TFR rispetto ai lavoratori privati, esentati da ogni rivalsa.

Con l’art. 1, comma 98, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2013)», il legislatore, al fine di attuare la sentenza di questa Corte, ha poi abrogato, a decorrere dal 1° gennaio 2011, l’art. 12, comma 10, del d.l. n. 78 del 2010 e ha così ripristinato, per i lavoratori interessati dalle disposizioni del citato decreto-legge, il regime del trattamento di fine servizio e la trattenuta prevista dall’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973.

7.2.– La disposizione oggi sottoposta allo scrutinio di questa Corte si iscrive in un differente contesto e risponde a diverse esigenze.

L’art. 26, comma 19, della legge n. 448 del 1998, così come specificato dalla fonte negoziale prima e successivamente dalla normativa secondaria, riguarda il personale che è sin dall’origine assoggettato al regime del TFR, e non già, come nella fattispecie scrutinata nella sentenza n. 223 del 2012, il personale ancora sottoposto al regime del TFS.

È poi dirimente la circostanza che, nel caso di specie, non venga in rilievo una rivalsa a carico del lavoratore. Per espressa previsione della fonte secondaria (art. 1, comma 2, del d.P.C.m. 20 dicembre 1999), le trattenute disciplinate dall’art. 37 del d.P.R. n. 1032 del 1973 e dall’art. 11 della legge n. 152 del 1968 cessano di gravare sui lavoratori che transitano al regime del TFR.

Differente, anche perché ispirato a diverse finalità, è il meccanismo della riduzione della retribuzione lorda, applicato in misura pari all’ammontare del contributo soppresso.

Tale riduzione, preordinata a contenere gli oneri finanziari connessi alla progressiva introduzione del regime del TFR, risponde all’esigenza di apportare gli indispensabili adeguamenti della struttura retributiva e contributiva del personale che transita al regime del TFR, così da salvaguardare l’invarianza della retribuzione netta prescritta dalla fonte primaria.

È lo stesso rimettente a riconoscere che, posto il principio dell’invarianza della retribuzione netta, la decurtazione della retribuzione lorda in misura pari all’ammontare del contributo soppresso si configura come scelta obbligata, nei termini recepiti nel d.P.C.m. 20 dicembre 1999.

Tale riduzione è l’approdo di un percorso negoziale volto a salvaguardare la parità di trattamento retributivo dei dipendenti che abbiano il medesimo inquadramento e svolgano le medesime mansioni, in armonia con il principio di parità di trattamento contrattuale dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, oggi sancito dall’art. 45, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).

Detto principio impone che, a parità di inquadramento e di mansioni, corrisponda la medesima retribuzione e che il trattamento retributivo non muti in ragione di un dato accidentale, quale è l’applicazione del regime del TFR o del TFS.

Un sistema così congegnato, che persegue un obiettivo di razionalizzazione e di tendenziale allineamento delle retribuzioni, a prescindere dal regime applicabile all’indennità di fine rapporto, non svilisce neppure il ruolo cruciale della contrattazione collettiva che, nell’àmbito del lavoro pubblico (sentenza di questa Corte n. 178 del 2015, punto 17. del Considerato in diritto), è chiamata a garantire efficace tutela ai princìpi di rango costituzionale della parità di trattamento (art. 3 Cost.), della proporzionalità della retribuzione (art. 36 Cost.) e del buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), in un’ottica di razionale impiego delle risorse pubbliche.

Si deve poi considerare che la riduzione della retribuzione lorda è compensata da un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali e del trattamento di fine rapporto, che neutralizza i possibili effetti pregiudizievoli, su tale versante, della decurtazione operata.

Anche da questo punto di vista la disposizione oggi censurata si discosta dalla disciplina del d.l. n. 78 del 2010, dichiarata costituzionalmente illegittima in quanto si risolveva in una riduzione del TFR maturato.

8.– Quanto alla denunciata discriminazione dei lavoratori beneficiari del TFR, si deve osservare che l’eterogeneità della struttura, della base di calcolo e della disciplina dei regimi del TFR e del TFS, confermata anche dal laborioso processo di armonizzazione e dalla necessaria gradualità che lo ha governato, preclude la valutazione comparativa sollecitata dal rimettente. Non sussiste, pertanto, la violazione dell’art. 3 Cost., prospettata dal rimettente.

L’auspicata equiparazione tra lavoratori in regime di TFR e lavoratori in regime di TFS, nei termini adombrati dal giudice a quo, non potrebbe che alterare il punto di equilibrio individuato dal legislatore e dalle parti negoziali, secondo un bilanciamento non irragionevole, e determinare, per ammissione dello stesso rimettente, una diversa sperequazione, che avvantaggerebbe i lavoratori in regime di TFR, destinati a beneficiare di un più cospicuo trattamento retributivo rispetto ai lavoratori in TFS.

Il principio dell’invarianza della retribuzione netta, con i meccanismi perequativi tratteggiati in sede negoziale, mira proprio a garantire la parità di trattamento, nell’àmbito di un disegno graduale di armonizzazione, e non contrasta, pertanto, con il principio di eguaglianza invocato dal rimettente.

8.1.– Non si ravvisa neppure la violazione del diritto a una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato (art. 36 Cost.).

Per costante insegnamento di questa Corte, la sufficienza e la proporzionalità della retribuzione devono essere valutate avendo riguardo al trattamento complessivo e non a una singola sua componente, quale è l’importo del contributo previdenziale soppresso (fra le molte, sentenze n. 96 del 2016, punto 4. del Considerato in diritto, e n. 178 del 2015, punto 14.1. del Considerato in diritto).

Alla stregua di tale valutazione onnicomprensiva, i canoni della sufficienza e della proporzionalità non possono dirsi violati.

La disciplina censurata, per un verso, lascia inalterata la retribuzione netta, senza incidere sull’importo effettivamente percepito dal lavoratore, e, per altro verso, si ripromette di salvaguardare la parità di trattamento contrattuale e retributivo, nel perimetro tracciato dalla contrattazione collettiva e dalla necessaria verifica della compatibilità con le risorse disponibili. Tale principio di parità di trattamento si pone a ineludibile presidio dello stesso diritto a una retribuzione sufficiente e proporzionata, invocato dal rimettente.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,
1) dichiara ammissibili gli interventi spiegati dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) nei giudizi di cui al registro ordinanze n. 125 e n. 127 del 2017;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 19, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), sollevata dal Tribunale ordinario di Perugia, in funzione di giudice del lavoro, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 ottobre 2018.

F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere


Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2018.
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

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SENTENZA sede di CONSIGLIO DI STATO, sezione SEZIONE 2, numero provv.: 202101289

Pubblicato il 12/02/2021

N. 01289/2021 REG. PROV. COLL.
N. 00467/2013 REG. RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 467 del 2013, proposto da
Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliato in Roma, alla Via dei Portoghesi, n. 12

contro
- OMISSIS (congruo nr. di ricorrenti), non costituiti in giudizio;
- L. F., rappresentato e difeso dall’avvocato Luciano Quarta, per il presente giudizio elettivamente domiciliato presso l’avvocato Gennaro Terracciano, in Roma, Largo Arenula, n. 34;

per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sede di Milano) n. 2321 del 13 settembre 2012, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del sig. F. L.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2021 (tenuta ai sensi dell’art. 84 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con legge 24 aprile 2020, n. 27, richiamato dall’art. 25 del decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con legge 18 dicembre 2020, n. 176) il Cons. Roberto Politi;
Nessuno presente per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso N.R.G. 1796 del 2012, proposto innanzi al T.A.R. della Lombardia, gli odierni appellati – tutti ufficiali, sottufficiali e graduati dell'Esercito italiano e dell'Arma dei Carabinieri, in servizio permanente effettivo presso reparti con sede entro il Distretto della Corte d’Appello di Milano – hanno chiesto:

- l’accertamento dell'intervenuta abrogazione della disciplina sull’indennità di buonuscita, disposta (a decorrere dal 1° gennaio 2011) dal comma 10 dell’art. 12 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni in legge 30 luglio 2010 n. 122, con il riconoscimento del proprio diritto a vedere cessare il prelievo del 2,50% sull’80% della retribuzione, sin qui operato dall'Amministrazione a titolo di rivalsa sull’accantonamento per l’indennità di buonuscita,

- nonché la condanna dell’Amministrazione medesima alla restituzione degli accantonamenti già eseguiti dal 1° gennaio 2011, con rivalutazione ed interessi legali da calcolarsi applicando i criteri di cui al D.M. n. 352 del 1988.

2. Costituitasi l’Amministrazione intimata, il Tribunale ha accolto il ricorso, ritenendo abrogato, ad opera dell'art. 12, comma 10, del citato decreto legge n. 78 del 2010, il regime del trattamento di fine rapporto applicabile ai ricorrenti, con conseguente venir meno della disposizione di cui all'art. 37 del D.P.R. n. 1032 del 1973, riguardante la ritenuta previdenziale del 2,50% di che trattasi.

3. Avverso tale pronuncia, il Ministero della Difesa ha interposto appello, rilevando che:

con sentenza n. 223 dell’11 ottobre 2012, la Corte Costituzionale ha, tra l’altro dichiarato l’illegittimità costituzionale dell'articolo 12, comma 10, del decreto legge n. 78 del 2010, nella parte in cui non esclude l'applicazione a carico del dipendente della rivalsa pari al 2,50% della base contributiva, prevista dall'art. 37, comma 1, del D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032;

- con successivo decreto legge n. 185 del 2012, è stato disposto (art. 1) che, “al fine di dare attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 2012 e di salvaguardare gli obiettivi di finanza pubblica, l'articolo 12, comma 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, è abrogato a decorrere dal 1° gennaio 2011. I trattamenti di fine servizio, comunque denominati, liquidati in base alla predetta disposizione prima della data di entrata in vigore del presente decreto sono riliquidati d’ufficio entro un anno dalla predetta data ai sensi della disciplina vigente prima dell'entrata in vigore del citato articolo 12, comma 10, e, in ogni caso, non si provvede al recupero a carico del dipendente delle eventuali somme già erogate in eccedenza”.

Il comma 3 dello stesso articolo 1 da ultimo citato, ha, inoltre, stabilito che “i processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del·2,5 per cento della base contributiva utile prevista dall’articolo 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152, e dall’articolo 37 del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032, si estinguono di diritto; l'estinzione è dichiarata con decreto, anche d'ufficio; le sentenze eventualmente emesse, fatta eccezione per quelle passate in giudicato, restano prive di effetti”.

Chiede, conseguentemente, parte appellante che:

- la sentenza di primo grado venga riformata, in ragione dell’abrogazione (di cui al citato decreto legge n. 185 del 2012), a decorrere dal 1° gennaio 2011, della norma di cui all’art. 12, comma 10, del decreto legge n. 78 del 2010, con ripristino del precedente regime di contribuzione e trattamento di fine rapporto dei dipendenti pubblici;

- tale pronunzia venga dichiarata priva di effetti in ordine al riconosciuto diritto alla restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,50% della base contributiva, a seguito della ritenuta precedentemente operata dall’Amministrazione ai sensi dell'art. 37 del D.P.R. n. 1032 del 1973.

Conclude la parte per l’accoglimento dell’appello, con riforma, nei sensi anzidetti, della sentenza impugnata.

4. Quanto agli appellati, si è costituito in giudizio (in data 10 settembre 2013) il solo sig. F. L.; il quale, con memoria di mero stile, ha chiesto rigettarsi l’appello.

5. Quest’ultimo viene trattenuto per la decisione alla pubblica udienza telematica del 2 febbraio 2021.

6. Va preliminarmente osservato come l’art. 1 del decreto legge 29 ottobre 2012, n. 185, abbia previsto che:

- “al fine di dare attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 223 del 2012 e di salvaguardare gli obiettivi di finanza pubblica, l’articolo 12, comma 10, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, è abrogato a decorrere dal 1° gennaio 2011. I trattamenti di fine servizio, comunque denominati, liquidati in base alla predetta disposizione prima della data di entrata in vigore del presente decreto sono riliquidati d’ufficio entro un anno dalla predetta data ai sensi della disciplina vigente prima dell'entrata in vigore del citato articolo 12, comma 10, e, in ogni caso, non si provvede al recupero a carico del dipendente delle eventuali somme già erogate in eccedenza” (comma 1);

- “i processi pendenti aventi ad oggetto la restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,5 per cento della base contributiva utile prevista dall’articolo 11 della legge 8 marzo 1968, n. 152, e dall’articolo 37 del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1032, si estinguono di diritto; l’estinzione è dichiarata con decreto, anche d'ufficio; le sentenze eventualmente emesse, fatta eccezione per quelle passate in giudicato, restano prive di effetti” (comma 3).

Tale decreto legge non è stato convertito in legge.

Le disposizioni da esso recate, tuttavia, sono state recepite dall'art. 1, commi 98 e 99, della legge 24 dicembre 2012, n. 228; dovendosi, in particolare, segnalare come il comma 100 del predetto articolo abbia disposto che “restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi ed i rapporti giuridici sorti sulla base delle norme del decreto-legge 29 ottobre 2012, n. 185, recante ‘Disposizioni urgenti in materia di trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici’ non convertite in legge”.

7. Nel rilevare come la Corte Costituzionale, con sentenza 22 - 28 ottobre 2014, n. 244, abbia dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 98 e 99 del citato art. 1, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 35, secondo comma, 36, primo comma, 101, 102, 104 e 113 della Costituzione, non può omettere il Collegio:

- di dare atto dell’estinzione del giudizio, ai sensi del comma 99 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2012, n. 228;

- di dichiarare priva di effetti l’appellata sentenza della Sezione I del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia – Sede di Milano, n. 2321 del 13 settembre 2012, quanto al riconosciuto diritto alla restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,50% della base contributiva, a seguito della ritenuta precedentemente operata dall’Amministrazione ai sensi dell'art. 37 del D.P.R. n. 1032 del 1973.

Sussistono, in ragione della particolarità della controversia, giusti motivi per compensare fra le parti le spese di lite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, così dispone:

- dichiara l’estinzione del presente giudizio, ai sensi del comma 99 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2012, n. 228;

- dichiara priva di effetti l’appellata sentenza della Sezione I del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia - Sede di Milano, n. 2321 del 13 settembre 2012, quanto al riconosciuto diritto alla restituzione del contributo previdenziale obbligatorio nella misura del 2,50% della base contributiva, a seguito della ritenuta precedentemente operata dall'Amministrazione ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 1032 del 1973.

Spese del grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso dalla Seconda Sezione del Consiglio di Stato, con Sede in Roma, nella Camera di Consiglio del giorno 2 febbraio 2021, convocata con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
Carlo Deodato, Presidente
Giancarlo Luttazi, Consigliere
Giovanni Sabbato, Consigliere
Francesco Frigida, Consigliere
Roberto Politi, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Roberto Politi Carlo Deodato





IL SEGRETARIO
Igara
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Re: Istanza per la cessazione del prelievo del 2,50% sul TFR

Messaggio da Igara »

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