Indennità di amministrazione

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Indennità di amministrazione

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Il CdS respinge l'Appello dei ricorrenti

1) - Gli odierni appellanti, dipendenti civili del Ministero della Difesa, hanno proposte istanze per vedersi riconosciuta la c.d. indennità di amministrazione nella misura superiore percepita dal personale, di analogo livello, in servizio presso la PCM o il Ministero della Giustizia.

N.B.: leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 4 ,numero provv.: 201900359 – Public 2019-01-15 -

Pubblicato il 15/01/2019

N. 00359/2019 REG. PROV. COLL.
N. 08629/2009 REG. RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8629 del 2009, proposto da
Bernardino Cenci, Giovanna Troiani, Silvana Ippoliti, Fabrizio Belocchi, Angela Calabrese, Walter Ralli, Massimo Sementilli, Teresa Stracqualursi, Vittorio Torrini, Renato Trippetti, Giuseppe Di Caprio, Maddalena Donati, Domenico Fabi, Giuseppe Ferdinandi, Claudio Ferrazzi, Cosimo Fusaro, Giuseppe Labruna, Pietro Maracchioni, Antonio Nardi, Aristide Sbandi, Angelo Screpante, Francesco Sernia, Silvano Zambon, Mario Sbandi, Patrizia Mattei, Patrizia Stefanelli, Antonio Pecoraro, Ennio Russo, Marco Franco, Livia Primerano, Mirella Compagnone, Anna Spinelli, rappresentati e difesi dagli avvocati Ugo Giurato, Marco Rossi, con domicilio eletto presso lo studio Ugo Giurato in Roma, piazza Adriana, 11;

contro
Ministero della Difesa - Direz. Gen.Le personale Civile (Ex Difeimpiegati - Div. 9) non costituito in giudizio;

per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima) n. 09461/2008, resa tra le parti, concernente riconoscimento indennità accessoria


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 gennaio 2019 il Cons. Antonino Anastasi e uditi per le parti gli avvocati Marco Rossi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Gli odierni appellanti, dipendenti civili del Ministero della Difesa, hanno proposte istanze per vedersi riconosciuta la c.d. indennità di amministrazione nella misura superiore percepita dal personale, di analogo livello, in servizio presso la PCM o il Ministero della Giustizia.

I predetti hanno poi proposto ricorso al Tar Lazio lamentando il silenzio dell’Amministrazione e comunque istando appunto per il riconoscimento del diritto alla percezione dell’indennità nella ( superiore) misura indicata.

Con la sentenza in epigrafe indicata l’adito Tribunale ha in primo luogo ritenuto inammissibile il ricorso nella parte rivolta avverso il silenzio dell’Amministrazione, ritenendo la relativa azione non proponibile da chi ( come i ricorrenti) vanta una posizione giuridica di diritto soggettivo.

Il Tribunale ha invece respinto nel merito il ricorso nella parte volta appunto ad accertare il diritto alla percezione dell’elemento retributivo nella misura indicata dai ricorrenti.

La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello oggi all’esame dai soccombenti che ne hanno chiesto l’integrale riforma nel merito, deducendo a tal fine un unico articolato motivo di impugnazione.

Il Ministero della Difesa, ancorché ritualmente intimato, non ha svolto attività difensiva.

All’Udienza del 10 gennaio 2019 l’appello è stato trattenuto in decisione.

L’appello non è fondato e va come tale respinto, con integrale conferma della sentenza gravata.

Come è noto, a decorrere dal 1° luglio 1995, ai dipendenti del Comparto Ministeri viene corrisposta l'indennità di amministrazione di cui all'art. 34 del Contratto Collettivo Nazionale Lavoro del 16 maggio 1995 (CCNL 1994/1997).

Trattasi di un assegno tabellare riconosciuto per 12 mensilità e assoggettato alle stesse ritenute contributive (assistenziali e previdenziali) dello stipendio.

Secondo quanto previsto dal succitato Contratto l’indennità è stata riconosciuta in misura differenziata, a seconda dell’Amministrazione presso la quale è prestato il servizio.

A giudizio degli appellanti tale indennità costituisce invece una voce della retribuzione stipendiale o fondamentale, con la conseguenza che la sua diversificazione ( a seconda del Ministero di appartenenza) viola i principi costituzionali di uguaglianza e parità di trattamento stipendiale dei dipendenti pubblici statali a parità di funzioni e di inquadramento.

Inoltre la diversificazione delle indennità tra i vari Ministeri viola il disposto dell’art. 49 del D. L.vo n. 29 del 1993.

Il mezzo non merita di essere condiviso.

L’art. 49 del citato d. l.vo, in primo luogo, non sancisce un generale obbligo di parità stipendiale tra tutti i dipendenti pubblici ma – più limitatamente – impedisce alla singola Amministrazione di attuare discriminazioni retributive nell’ambito dei propri dipendenti, e cioè di erogare trattamenti non previsti ( oppure di importo differente) rispetto a quelli definiti in sede contrattuale.

In altri termini, la parità di trattamento non rileva in astratto o in modo generalizzato, ma piuttosto si rapporta alle previsioni del contratto collettivo di lavoro, il quale – salvo il superamento dei limiti di ragionevolezza, come si vedrà – ben può disciplinare in modo differente elementi della retribuzione del personale operante in specifici comparti o contesti.

E ciò in ragione sia della specificità dei compiti e delle funzioni che ciascuna amministrazione svolge, sia soprattutto – come ben evidenziato dal TAR con la sentenza impugnata – della necessità di tenere conto del dato storico, e cioè della esistenza ( derivante dalla normativa primaria e secondaria previgente rispetto alla privatizzazione del pubblico impiego) di trattamenti retributivi ( soprattutto indennitari) in qualche modo differenziati nell’ambito dei vari Dicasteri e poi “confluiti” appunto nell’indennità di amministrazione.

In questo quadro di riferimento la previsione contrattuale assume un rilievo indirettamente cogente proprio al fine di assicurare la parità di trattamento tra i dipendenti.

Infatti, come a suo tempo chiarito dal Giudice delle Leggi nel respingere le questioni di legittimità costituzionale inerenti agli artt. 45, comma 2, 7 e 9, e 49, comma 2, del D.Lgs. n. 29/1993, l'applicazione del contratto collettivo deriva, per la parte pubblica, non già da una generalizzata previsione di obbligatorietà dello stesso, bensì dal dovere gravante sulle pubbliche amministrazioni di osservare gli impegni assunti, dovere costituente la premessa per realizzare la garanzia della parità di trattamento contrattuale affermata dall'art. 49, comma 2, del D.Lgs. n. 29/1993.

Parallelamente, per la parte privata, l'applicazione del contratto collettivo deriva dall'avere il singolo dipendente accettato, attraverso espressa clausola di rinvio, contenuta nel contratto individuale, che il rapporto di lavoro si instauri (o prosegua) secondo regole definite, almeno in parte, nella sede della contrattazione collettiva. ( cfr. Corte cost. n. 309 del 1997).

Ed è questo precisamente il profilo che sfugge agli appellanti: da un lato, una volta “privatizzato” il rapporto di lavoro pubblico, il trattamento retributivo del personale non può che trovare la propria disciplina generale nel contratto collettivo di lavoro; dall’altro, la contrattazione collettiva non incontra nel settore altri limiti se non quelli posti dalle norme costituzionali e primarie inderogabili.

Ne consegue, ovviamente, che l’Amministrazione della Difesa – una volta etero-definito in sede contrattuale l’importo della indennità accessoria spettante al proprio personale – non aveva alcuna possibilità di discostarsi da tali previsioni.

Né, come si è detto, può ipotizzarsi che tali previsioni contrattuali risultino illegittime ( o nulle, come sembrano sostenere gli appellanti) perché, come ancora una volta efficacemente dimostrato dal TAR, la normativa primaria di riferimento ove rettamente interpretata consente alla contrattazione di definire – pur all’interno dell’unitario comparto ministeriale – in modo differenziato elementi accessori della retribuzione.

E che l’indennità in questione costituisca pur sempre un elemento accessorio rispetto al trattamento stipendiale di base risulta chiaramente proprio dalle disposizioni contrattuali che ne regolano l’erogazione, risultando non decisivo a tal fine il regime contributivo o previdenziale cui l’indennità è sottoposta.

Del resto, la scelta in concreto dei meccanismi di perequazione retributiva tra le varie categorie di personale statale presuppone il bilanciamento tra le varie esigenze nel quadro della politica economica generale e delle disponibilità finanziarie; questa valutazione va operata non nel senso di un doveroso, costante allineamento, ma nel senso che solo il verificarsi di un macroscopico ed irragionevole scostamento può costituire indice sintomatico della non idoneità del meccanismo in concreto prescelto a preservare la sufficienza dei trattamenti ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia mezzi adeguati ad una esistenza libera e dignitosa.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello va pertanto respinto con integrale conferma della gravata sentenza.

Nulla per le spese in difetto di costituzione dell’intimata Amministrazione.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Nulla per le spese del grado.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 gennaio 2019 con l'intervento dei magistrati:
Antonino Anastasi, Presidente, Estensore
Alessandro Verrico, Consigliere
Nicola D'Angelo, Consigliere
Giovanni Sabbato, Consigliere
Silvia Martino, Consigliere


IL PRESIDENTE, ESTENSORE
Antonino Anastasi





IL SEGRETARIO


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