DANNO ----IMMAGINE P.A.

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Domenico61
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DANNO ----IMMAGINE P.A.

Messaggio da Domenico61 »

Salve a tutti sono un brigadiere dei cc ho sentito parlare di danno di IMMAGINE della PUBBLICA Amministrazione , ...in effetti ho sentito parlare di alcuni colleghi Polizia CC G.di F. "sfortunati" che sono incappati nella magistratura e dopo essere stati condannati per i reati commessi , si son visti arrivare da parte della Corte dei Conti , somme astronomiche per il danno di immagine subito dall'amministrazione di appartenenza. Qualcuno ne sa qualcosa ? ... perché un appartenente alle forze dell'ordine dopo che è stato sospeso, arrestato , condannato , e destituito dal servizio DEVE PURE PAGARE somme astronomiche inflette dalla Corte dei Conti ....ma dopo tutto questo ha le ossee rotte come farà a pagare queste somme. Ma vale anche per i politici corrotti?? Grazie un saluto a tutti voi.


cimapier
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

Messaggio da cimapier »

Caro collega e mico del forum.
Nell'ordinamento italiano è detto danno erariale il danno sofferto dallo Stato o da un altro ente pubblico a causa dell'azione o dell'omissione di un soggetto che agisce per conto della pubblica amministrazione in quanto funzionario, dipendente o, comunque, inserito in un suo apparato organizzativo.
Il concetto di danno, che compare nella definizione, deve essere inteso in senso civilistico, e può quindi consistere in: un danno emergente, ossia una perdita per una cosa distrutta o perduta, una spesa sostenuta o un'entrata non acquisita; un lucro cessante, ossia un mancato guadagno. Il danno erariale si distingue in:
diretto, se è cagionato direttamente ad un'amministrazione pubblica; indiretto, se, invece, è cagionato ad un terzo che l'amministrazione pubblica ha dovuto risarcire.
Il danno erariale è uno dei presupposti per la sussistenza della responsabilità amministrativa-contabile, su cui giudica la Corte dei conti. A tal fine deve essere certo, attuale (sussistente nel momento della domanda di risarcimento e in quello della sentenza di condanna), concreto (non ipotetico) e di entità determinata o determinabile.Tanto la dottrina quanto la giurisprudenza della Corte dei Conti non annoverano più tra i requisiti del danno erariale la patrimonialità, estendendo, quindi, la nozione oltre la lesione di elementi patrimoniali, fino a comprendere ogni violazione di interessi pubblici giuridicamente protetti. In quest'ottica, la Corte dei Conti ha ritenuto configurabile quale danno erariale il danno all'economia nazionale, inteso come lesione dell'interesse generale alla salvaguardia, all'incremento e al progresso dell'economia nazionale, oppure il danno all'immagine della pubblica amministrazione, inteso come grave perdita di prestigio a seguito del detrimento dell’immagine e della personalità pubblica dello stato o altro ente pubblico derivante da un'azione delittuosa di un suo amministratore o dipendente. Se è lecito chiedere: cosa avresti fatto?
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

Messaggio da Bravoalfa »

Domenico61 ha scritto:Salve a tutti sono un brigadiere dei cc ho sentito parlare di danno di IMMAGINE della PUBBLICA Amministrazione , ...in effetti ho sentito parlare di alcuni colleghi Polizia CC G.di F. "sfortunati" che sono incappati nella magistratura e dopo essere stati condannati per i reati commessi , si son visti arrivare da parte della Corte dei Conti , somme astronomiche per il danno di immagine subito dall'amministrazione di appartenenza. Qualcuno ne sa qualcosa ? ... perché un appartenente alle forze dell'ordine dopo che è stato sospeso, arrestato , condannato , e destituito dal servizio DEVE PURE PAGARE somme astronomiche inflette dalla Corte dei Conti ....ma dopo tutto questo ha le ossee rotte come farà a pagare queste somme. Ma vale anche per i politici corrotti?? Grazie un saluto a tutti voi.
È il minimo, se una persona che ha l'onore e l'onore di indossare l'uniforme non solo delinque ma al termine di processo viene decretato colpevole e pertanto condannato, deve rifondere alla P.A. il danno che questa apatia e a causa della condotta del reo dipendente.
È il minimo per chi, al termine di tutta la fase processuale, ha con certezza infangato la sua amministrazione e non lo chiamerei sfortunato, come dici tu, chi è incappato nella magistratura.... Di solito li si chiama delinquenti....
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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danno all'immagine nella P.A..

Attenzione.

leggete allegato qui sotto.
Non hai i permessi necessari per visualizzare i file allegati in questo messaggio.
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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speriamo che in appello vada bene.
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pietro17
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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Scusa Panorama ma l'appello di chi?

Saluti.

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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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Se leggi il link sopra capirai.
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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mettendo su internet come ricerca: "danno all'immagine operatori di polizia" di notizie ne escono tante.
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

Messaggio da panorama »

1) - La Corte dei Conti a Sezioni Riunite si occupa della problematica relativa al danno all'immagine poiché interessata da due sentenze diverse ma sotto la stessa sfera di terminologia.

2) - (nel primo caso, con una condanna e, nel secondo caso, con una assoluzione, sempre per danno all’ immagine della P.A.) reati comuni (truffa e falso nel primo caso; millantato credito, truffa e minaccia, nel secondo caso) e non reati contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale.

3) - A coloro che si trovano già coinvolti nello stesso argomento e chiamati in causa, e, a coloro che, attualmente stanno subendo procedimenti che potrebbero sfociare poi nei medesimi reati, consiglio di copiarsi una copia di questo giudizio è custodirsela.
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SEZIONI RIUNITE SENTENZA 8 19/03/2015


SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
SEZIONI RIUNITE SENTENZA 8 2015 - 19/03/2015



Sentenza n. 8/2015/QM


R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONI RIUNITE IN SEDE GIURISDIZIONALE

composta dai seguenti magistrati:
Arturo Martucci di Scarfizzi Presidente estensore
Angela Silveri Consigliere relatore
Rita Loreto Consigliere
Marco Pieroni Consigliere
Pina M.A. La Cava Consigliere
Chiara Bersani Consigliere
Daniela Acanfora Consigliere
ha pronunciato la seguente

SENTENZA
nel giudizio sulle questioni di massima iscritte al n. 420/SR/QM del registro di Segreteria delle Sezioni riunite, deferite dal Procuratore generale con atto depositato il 15.9.2014, con riferimento ai seguenti giudizi:

1) n. 46290, pendente dinanzi alla Sezione I giurisdizionale centrale d’appello, proposto da M. A., rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Fioravanti ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Mauro Pelo in Roma, Via G. Carducci n. 4, avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Toscana n. 173/2013;

2) n. 5199 pendente dinanzi alla Sezione d’appello per la Regione Sicilia, proposto dal Procuratore regionale avverso la sentenza della Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia n. 654/2014 del 20 maggio 2014.

Visti l’atto di deferimento e gli altri atti di causa.

Vista l’ordinanza del Presidente della Corte dei conti n. 16 del 18 dicembre 2013 ORDP-UOPROT-P, con la quale il Presidente della Corte dei conti ha individuato i criteri per la composizione delle Sezioni riunite della Corte dei conti per l’anno 2014;

Vista l’ordinanza del Presidente della Corte dei conti n. 2 del 17 gennaio 2014 ORDP-UOPROT-P, con la quale il Presidente della Corte dei conti ha determinato, per l’anno 2014, la composizione delle Sezioni riunite della Corte dei conti in sede giurisdizionale, di controllo, deliberante e consultiva;

Visti il decreto presidenziale n. 159 del 9 settembre 2014 con il quale sono stati costituiti i Collegi delle Sezioni riunite per le udienze previste per i mesi da ottobre a dicembre 2014, nonché il decreto di fissazione d’udienza e di nomina del relatore;

Uditi nella pubblica udienza del 10 dicembre 2014 il relatore, Consigliere Angela Silveri, l’Avv. Alessandro Fioravanti per M. A. e il P.M. in persona del Vice Procuratore generale Sergio Auriemma.

RITENUTO IN FATTO

Con atto depositato il 15 settembre 2014 il Procuratore generale presso la Corte dei conti ha deferito a queste Sezioni riunite le seguenti questioni di massima:

1) “Se l’art. 17, comma 30-ter, del decreto legge 1° luglio 2009 n. 78, inserito dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, e successivamente rettificato dall’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, del decreto legge 3 agosto 2009 n. 103 convertito con modifiche nella legge 3 ottobre 2009 n. 141, nella parte in cui dispone che «le Procure della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’ immagine nei soli casi e nei modi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97», debba intendersi riferito anche alle ipotesi di danni all’ immagine discendenti da reati comuni, ovvero ai soli delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale, come affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 355/2010, ordinanze n. 219/2011, n. 220/2011 e n. 286/2011)”;

2) “Se – ove si ritenga estesa la perseguibilità del danno all’ immagine anche ai casi discendenti da reati comuni – la disposizione di legge (art. 17, comma 30-ter del decreto legge 1° luglio 2009 n. 78, inserito dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, e successivamente rettificato dall’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, del decreto legge 3 agosto 2009 n. 103 convertito con modifiche nella legge 3 ottobre 2009 n. 141) relativamente alla sussistenza ed eccepibilità della nullità preprocessuale o processuale concernente il danno all’ immagine (nonché il correlato difetto di legittimazione del PM), debba ritenersi tuttora vigente, come desumibile dalla soluzione data dalle SS.RR. nella sentenza n. 13/QM/2011 del 3 agosto 2011”.

Nell’atto di deferimento si riferisce preliminarmente che:

a) la Sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, con sentenza n. 173 del 14 maggio 2013 ha condannato A. M. al pagamento, in favore della ASL n. 11 di OMISSIS, di euro 47.164,79 di cui euro 32.164,79 a titolo di danno patrimoniale diretto ed euro 15.000,00 per danno all’ immagine ; il convenuto, primario oculista e direttore del reparto oculistica presso l’ospedale di OMISSIS, era stato condannato con sentenza penale irrevocabile per i reati di truffa e falso (artt. 640-479 c.p.) per aver frodato la ASL attestando falsamente di aver effettuato interventi chirurgici in realtà da lui non realizzati, procurandosi un ingiusto profitto corrispondente al compenso corrispostogli dalla ASL; la sentenza è stata impugnata dal soccombente con appello (iscritto al n. 46290 r.g.) nel quale è stata, tra l’altro, dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009, in quanto non ricorre nella specie alcuno dei delitti di cui all’art. 314 e segg. c.p., bensì un reato “comune” per il quale la norma esclude la risarcibilità del danno all’ immagine ;

b) la Sezione giurisdizionale per la Regione Sicilia, con sentenza n. 654 del 20 maggio 2014, ha dichiarato inammissibile la domanda di risarcimento del danno all’ immagine azionata nei confronti di S. G. dalla locale Procura; il convenuto, quale infermiere portantino dell’ospedale OMISSIS di Messina, era stato condannato con sentenza penale irrevocabile per i reati di millantato credito, truffa e minaccia (artt. 346 c. 2, 640 e 612 c.p.) per aver indotto diversi soggetti a consegnargli somme di denaro al fine di comprare i favori del direttore sanitario per il rilascio di una attestazione valida per l’assunzione come infermieri; la Procura regionale aveva chiesto un risarcimento del danno all’ immagine quantificato in euro 37.500,00, pari al doppio della somma di denaro indebitamente percepita dal convenuto, come previsto dall’art. 1, comma 1 sexies, della legge n. 20 del 1994; i giudici di primo grado hanno ritenuto che l’ambito di applicazione dell’art. 17, comma 30 ter, del d.l. n. 78 del 2009 debba essere circoscritto alle sole fattispecie annoverate nell’art. 7 della legge n. 97 del 2001; la sentenza è stata impugnata dal Procuratore regionale con appello (iscritto al n. 5199 r.s.) nel quale si lamenta erronea interpretazione di detta normativa e si richiama giurisprudenza della Sezione I centrale d’appello (sent. n. 522 del 2014).

Il Procuratore generale emittente rammenta che:
1) la disposizione recata dal ripetuto comma 30 ter limita l’esercizio dell’azione erariale per il risarcimento del danno all’ immagine ai «soli casi e modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97», prevedendo a tal fine la sospensione del decorso del termine di prescrizione fino alla conclusione del procedimento penale;
2) a sua volta, l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 prevede che «la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell’articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l’eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato», aggiungendo che «resta salvo quanto disposto dall’art. 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo n. 271/1989»;
3) la Corte costituzionale, con la sentenza n. 355 del 2010 e con successive ordinanze, ha dichiarato infondate le questioni sollevate con riferimento all’art. 17 comma ter, ritenendo «non palesemente arbitraria» la scelta del legislatore di delimitare il campo di applicazione dell’azione risarcitoria per danno all’ immagine ai soli delitti contro la pubblica amministrazione, in tal senso dovendosi intendere il richiamo all’art. 7 della legge n. 97 del 2001;
4) nello stesso solco interpretativo si sono mosse le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione (sentenze n. 5756/2012, n. 26806/2009, n. 519/2010, n. 4309/2010, n. 16287/2010, n. 9188/2012, n. 14831/2011); 5) peraltro, alcune Sezioni regionali e centrali della Corte dei conti hanno ritenuto che la sentenza della Corte costituzionale n. 355 del 2010 lasci impregiudicata la possibilità di interpretare diversamente la norma denunciata, purché in aderenza ai principi costituzionali; hanno, quindi, ritenuto che l’art. 17, comma ter, debba essere interpretato nel senso che l’azione risarcitoria per danno all’ immagine possa essere esercitata ogni qual volta sia stato commesso un reato contro la pubblica amministrazione genericamente inteso, ancorché diverso dai reati propri di cui al Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale; cita pronunce delle Sezioni territoriali e delle Sezioni d’appello che si sono espresse in un senso o nell’altro.

Tanto premesso, il Procuratore generale osserva - «in punto di rilevanza» - che nella specie sussiste il rapporto di pregiudizialità tra la questione che viene deferita e gli appelli pendenti dinanzi alla Sezione I centrale e alla Sezione d’appello siciliana, nei quali è in discussione l’applicabilità dell’art. 17, comma 30 ter, della legge n. 141 del 2009 a fattispecie di condanna penale irrevocabile per reati comuni (in specie, falso, truffa, millantato credito ecc.).

Ancora sulla «ammissibilità della questione di massima», il Procuratore generale osserva che nella fattispecie ricorre «una questione di particolare importanza» non disgiunta da una concorrente non uniformità giurisprudenziale, sia in primo grado che in appello. La «particolare importanza» è rappresentata – osserva il P.G. - dal permanere di non indifferenti problemi interpretativi pur dopo le pronunce (giuridicamente non vincolanti) della Corte costituzionale e dalla sopravvenienza di nuove norme in materia di danno all’ immagine (art. 55 quinquies, comma 2, del d.lgs. 30.3.2001 n. 165, introdotto dall’art. 69 del d.lgs. 27.10.2009 n. 150; art. 1, comma 12, della legge 6.11.2012 n. 190, art. 46 del d.lgs. 14.3.2013 n. 33) che, già da sole, hanno ingenerato difficoltà interpretative e che, nel raccordo con l’art. 17, comma 30 ter, impattano sulla tematica dando luogo a difficoltà esegetiche eccedenti quelle normalmente connaturate al potere-dovere del giudice-interprete.

Evidenzia, in particolare, che il comma 1 sexies aggiunto all’art. 1 della legge n. 20 del 1994 dall’art. 1, comma 12, della legge n. 190 del 2012 ha già dato luogo a difformi interpretazioni; da un lato (Sez. Lombardia n. 47/2014; Sez. Puglia n. 388/2014) si sostiene che la disposizione abbia implicitamente abrogato l’art. 17, comma 30 ter, rendendo risarcibile il danno all’ immagine in tutti i casi di reati comuni contro la PA e anche in assenza di una sentenza di condanna stricto iure, essendo sufficiente un giudicato penale (anche di patteggiamento o di prescrizione del reato); dall’altro (Sez. Emilia Romagna n. 57/2013) si ritiene che la legge anticorruzione abbia ulteriormente circoscritto la tipologia di illeciti da cui può derivare il danno all’ immagine limitandolo alle sole ipotesi in cui vi sia stata illecita percezione di una somma di denaro o altra utilità.

Osserva che i problemi interpretativi posti dal raccordo tra la legge anticorruzione e l’art. 17, comma 30 ter, in combinato disposto con l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 sono stati delineati da Cassazione penale, Sez. II, n. 14605 del 2014 di cui riporta ampi stralci e secondo cui, conclusivamente, la locuzione «un reato contro la stessa pubblica amministrazione» contenuto nell’art. 1, comma 1 sexies, della legge n. 20 del 1994 va inteso come riferito «ai delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale», a ciò conducendo anche la circostanza che «il prezzo dell’illecito mercimonio della propria funzione … è normalmente previsto come uno degli elementi tipici» di tali delitti.

Osserva, poi, che le questioni interpretative attengono ad un istituto giuridico – la perseguibilità del danno all’ immagine – che investe un quadro normativo complesso sia di diritto sostanziale che processuale.

Rammenta che con la sentenza n. 13/QM/2011 le Sezioni riunite, nel procedere ad una ricostruzione sistematica dell’istituto della nullità previsto dall’art. 17, comma 30 ter, hanno affermato che la sanzione della nullità riguarda fattispecie eterogenee, la prima riferibile all’individuazione delle fattispecie risarcibili ( danno all’ immagine ), la seconda riferibile al potere requirente del P.M., e che comunque «si connette ad un difetto di legittimazione sostanziale (diritto potestativo) del P.M. a svolgere le sue funzioni requirenti». Rileva che, ove si dovesse ritenere che sia giuridicamente ammissibile la condanna per danno all’ immagine da reato “comune”, si dovrebbe stabilire se tuttora persista il principio di diritto affermato dalle Sezioni riunite, ovvero se esso «debba intendersi radicalmente superato dalla sopravvenuta giurisprudenza di alcune Sezioni semplici».

Evidenzia, ancora, che «gli effetti concreti generati dai contrasti giurisprudenziali appaiono … tali da minare la certezza del diritto». Indica, a mo’ di esempio, che: tra i destinatari di condanne penali irrevocabili per reati di truffa e falso ideologico, taluni sono stati ritenuti responsabili per danno all’ immagine (Sez. I d’appello n. 372/2014) ed altri, invece, definitivamente assolti (Sez. III d’appello n. 658/2013); tra i destinatari di condanne penali definitive per reati di violenza sessuale, taluni sono stati ritenuti responsabili per danno all’ immagine (Sez. I d’appello n. 1039/2013) ed altri, invece, definitivamente assolti (Sez. Trento n. 29/2011, passata in giudicato). Di qui la necessità di «… una soluzione uniforme al fine di evitare inammissibili differenziazioni tra vicende processuali identiche» (SS.RR. n. 4/QM/2010 e n. 13/QM/2011), nel rispetto del principio della certezza del diritto.

Nell’atto di deferimento si procede, quindi, ad analizzare le norme oggetto delle questioni di massima, osservando in sintesi che:
1) sebbene le indicazioni interpretative della Corte costituzionale non siano vincolanti, non possono essere svuotate di significato dal giudice di merito, che – ove intenda discostarsi da quelle indicazioni interpretative - dovrebbe almeno individuare parametri costituzionali diversi;
2) l’interpretazione estensiva valorizza oltre misura l’art. 129 disp. att. c.p.c., fatto salvo dall’art. 7 della legge n. 97/2001, così snaturando il testuale rinvio «ai soli casi previsti» dall’art. 7 e, cioè, ai delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. (artt. 314-335 c.p.);
3) posto che l’art. 7 della legge n. 97/2001 si compone di due periodi – il primo che individua i casi in cui è possibile esercitare l’azione erariale per danno all’ immagine , il secondo in cui vengono ricondotti i modi dell’azione – secondo l’orientamento fatto proprio dalla Sezione I d’appello i «casi» sono comunque quelli previsti dall’art. 7, mentre il riferimento ai «modi» condurrebbe a ritenere esperibile l’azione per danno all’ immagine anche per qualunque reato che ha cagionato un danno all’erario;
4) tale interpretazione non sarebbe sostenibile, in quanto si perverrebbe a ritenere che la norma di cui è destinatario il P.M. penale possa, al contempo, indicare i modi di esercizio dell’azione contabile.

Si procede, quindi, ad una ampia e articolata contestazione dei passaggi motivazionali contenuti nella sentenza della Sez. I centrale n. 522 del 2014, con particolare riguardo all’assunto secondo cui sussisterebbe una «differente azionabilità del danno all’ immagine a seconda che discenda da un reato proprio o da un reato comune, con conseguente diverso regime prescrizionale». Si osserva, in sintesi, che «rimangono difficilmente identificabili … le ragioni per cui il danno all’ immagine discendente da reato comune … diverrebbe procedibile per effetto del “mero inizio dell’azione penale” e indipendentemente dal successivo esito della stessa …, laddove viceversa il danno all’ immagine da reato proprio è – per espressa voluntas legis – perseguibile dall’inquirente contabile solo in presenza di un giudicato penale di condanna». Si evidenziano le incongruenze di una tale interpretazione, anche con riguardo alla prescrizione che rimane sospesa ex lege fino al passaggio in giudicato della condanna penale per un reato proprio, mentre - «a seguire l’opzione ermeneutica anzidetta» - per i reati comuni continuerebbe il suo corso senza subire alcuna sospensione.

Un’ulteriore conseguenza della interpretazione “estensiva” sarebbe il totale svuotamento del frammento di norma sulla nullità degli atti istruttori o processuali posti in essere in violazione delle disposizioni recate dal ripetuto comma 30 ter.

Si osserva, poi, che l’opzione interpretativa di cui trattasi ha «inevitabili riflessi … in punto di giurisdizione contabile», in quanto – come evidenziato dalla Corte costituzionale – al di fuori dei casi tassativamente previsti, la risarcibilità del danno all’ immagine non è consentita dinanzi ad alcuna autorità giudiziaria; e, quindi, la ritenuta perseguibilità del danno all’ immagine anche per i reati comuni «implica … un’estensione della giurisdizione contabile al di là dei confini, sostanziali e processuali, di risarcibilità dell’ immagine pubblica quali delineati dalla norma di legge come interpretata dalla Corte costituzionale».

Richiama, al riguardo, quanto argomentato da Cassazione penale, Sez. 2ª, nella sentenza n. 14605 del 2014 ove, con riferimento all’interpretazione di cui trattasi, si parla di «irrazionale torsione ermeneutica».

Richiama, altresì, la diversa pronuncia della Sez. 3ª della Cass. pen. (n. 5481/2014), osservando che nella specie è stato fatto un generico rinvio alla giurisprudenza contabile fautrice di un’interpretazione estensiva.

Si osserva, ancora, che «le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale circa il modo costituzionalmente corretto di interpretare la legge valgono come precedente autorevole cui spetta non una forza legale, ma almeno una forza di fatto, proporzionale al consenso che i suoi argomenti riescono a suscitare». Richiama, al riguardo, la sentenza costituzionale n. 371 del 1998 sulla limitazione della responsabilità amministrativa ai casi di solo o colpa grave e rammenta che anch’essa era di rigetto e che «allora … non vi fu alcuna reazione ad opponendum».

Nell’atto di deferimento si evidenzia, infine, che l’esegesi espansiva potrebbe essere censurata innanzi la Corte di Cassazione su ricorso di parte ex art. 362 c.p.c., sotto il profilo dell’eccesso di potere giurisdizionale, per carenza assoluta di giurisdizione. È vero che la Corte regolatrice, con la sentenza n. 9937 del 2014, ha ritenuto che la questione della perseguibilità del danno all’ immagine è questione meramente interna alla giurisdizione della Corte dei conti; peraltro, nella specie la pronuncia è stata resa «in tema di sopravvenienza temporale» della normativa in discussione.

Conclusivamente, il P.G. reputa che l’orientamento estensivo della risarcibilità del danno all’ immagine pubblica al di là dei casi testualmente previsti dall’art. 17, comma 30 ter, siccome interpretato dalla Corte costituzionale, ponga problemi di irragionevolezza di diritto sostanziale per tutte le ragioni fin qui evidenziate. Osserva, in particolare, non essere sostenibile che una disposizione di attuazione del codice di procedura penale possa interpretarsi nel senso di:

1) ampliare l’ambito oggettivo (di diritto sostanziale) di risarcibilità di una pretesa avente tutt’altra natura ( danno erariale) ed oggetto ( immagine pubblica);

2) costituire condizione di procedibilità dell’azione erariale per danno all’ immagine da reato comune;

3) differenziare la disciplina sulla prescrizione e sulla procedibilità dell’azione erariale per lo stesso danno in base alla sua provenienza (se da reato proprio: giudicato penale di condanna; se da reato comune: mera imputazione penale).

Alla pubblica udienza del 10 dicembre 2014 l’Avv. Fioravanti ha dichiarato di condividere motivazioni e conclusioni dell’atto di deferimento del Procuratore generale; il P.M. d’udienza, dopo aver esaurientemente illustrato l’atto di deferimento, aggiungendovi proprie conducenti argomentazioni a conforto, ha poi depositato giurisprudenza di riferimento.

Il giudizio è stato quindi trattenuto per la decisione.

Considerato in diritto

Devono essere preliminarmente vagliati i profili riguardanti l’ammissibilità e la rilevanza delle questioni di massima proposte.

Non v’è dubbio che le questioni in rassegna rivestono quel carattere di particolare importanza richiesto dalla legge in quanto, sul punto controverso, è intervenuto il Giudice delle Leggi e vi è stata una produzione normativa sopravvenuta in materia di danno all’ immagine , segnatamente con la legge n. 190/2012, così ponendosi problemi ermeneutici di non poco momento; ciò, in disparte il fatto che sussiste contrasto tra le interpretazioni adottate dalla Prima e dalla Terza Sezione Centrale d’Appello (cfr. sentenze nn. 1039/2013; 379/2014; 522/2014, per la Prima Sezione; sentenze nn. 426/2012; 658/2013; 716/2013, per la Terza Sezione), oltre al contrasto in “senso orizzontale” (di per sé non conducente ai fini di una remissione ove si tratti dell’unico contrasto su di un punto di diritto) tra numerose Sezioni giurisdizionali regionali.

Gli esposti contrasti giurisprudenziali, dunque, oltre a rilevare “ex se” (almeno quello tra le Sezioni centrali d’Appello) testimoniano altresì ulteriormente quella particolare importanza della questione che già si configura autonomamente per il su accennato intervento della Consulta (su cui si tornerà), per lo “ius superveniens” nella materia “de qua” e per lo stato di diffusa incertezza interpretativa che si percepisce nella giurisprudenza contabile nel suo insieme.

Anche la rilevanza della questione, che attiene al rapporto di pregiudizialità tra il principio di diritto enunciabile dalle Sezioni riunite e la risoluzione del merito dei giudizi sottostanti, non appare dubbia in quanto sia la sentenza della Sezione regionale per la Toscana n. 173/2013, poi appellata dalla parte privata e pendente presso la Prima Sezione centrale d’Appello, sia la sentenza della Sezione regionale per la Sicilia n. 654/2014, poi appellata dal Procuratore regionale e pendente presso la Sezione d’Appello per la Sicilia, riguardavano (nel primo caso, con una condanna e, nel secondo caso, con una assoluzione, sempre per danno all’ immagine della P.A.) reati comuni (truffa e falso nel primo caso; millantato credito, truffa e minaccia, nel secondo caso) e non reati contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale.

Pertanto, dalla enunciazione del punto di diritto sulle questioni indicate in epigrafe, dipenderà anche l’esito dei giudizi di merito sottostanti a tanto vincolati in virtù del principio nomofilattico.

Accertata l’esistenza delle preliminari condizioni di ammissibilità del deferimento in rassegna, reputano le Sezioni riunite, prima di affrontare il cuore delle proposte questioni, di dover precisare il senso e la portata dei quesiti, il primo dei quali – del tutto propedeutico e condizionante il secondo – investe il riferimento della norma di cui al menzionato art. 17, comma 30 ter, (delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo c.p.) anche ad altri reati comuni.

Da una lettura complessiva dell’impianto argomentativo sotteso alla formulazione conclusiva del quesito, può correttamente ritenersi che per reati comuni debbano intendersi solo quelli che non siano già ricompresi nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo c.p., che pur ne contiene alcuni.

Secondo la comune accezione, per reati comuni si intendono quelli commissibili dal “quisque de populo”, essendo del tutto irrilevante la eventuale specifica qualifica dell’autore del reato stesso che invece dà corpo alla categoria dei reati propri (che, a loro volta, sogliono distinguersi in reati propri esclusivi, semiesclusivi e non esclusivi; ma tale tripartizione dottrinaria non ha alcun interesse ai fini che ne occupano).

Orbene, i reati contemplati dal Capo I del Titolo II del Libro Secondo, comprendono gli articoli del c.p. che vanno dal 314 al 335 bis, così come integrati dalla legislazione via via intervenuta.

Si noterà che gli artt. 316 ter, 334 c.p. e 335 c.p., contenendo la formula “chiunque…”, non possono considerarsi reati propri, bensì sono annoverabili tra quelli comuni, ma risultano peraltro inseriti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale; con la conseguenza che anche da tali specifici reati può dunque discendere l’eventuale risarcimento del danno all’ immagine della P.A.; ovviamente, sempre che i reati stessi siano compiuti da pubblici agenti, poiché, diversamente, non si radicherebbe la giurisdizione contabile.

Pertanto, in tal senso e con le precisazioni di cui innanzi, va esaminato il primo quesito la cui soluzione è propedeutica a quella – eventuale – sul secondo.

Queste Sezioni riunite sono chiamate a svolgere una funzione nomofilattica che, quindi, per intuibili motivi sistematici, non può prescindere da un quadro di riferimento generale costituito non solo dal tessuto ordinamentale, e dai principi che vi sono sottesi, ma anche dagli enunciati di carattere ermeneutico provenienti dal Giudice delle leggi e dalla Suprema Corte, in quanto l’eventuale scostamento da tali parametri dovrebbe radicarsi in profondi argomenti interpretativi o nuove prospettazioni prima non vagliate e, comunque, nel dovuto rispetto delle attribuzioni e delle scelte riservate al legislatore dalla Carta costituzionale; in mancanza di ché, si rischierebbe di indulgere a operazioni ermeneutiche espansive che appaiono eventualmente e eccezionalmente praticabili solo per colmare vistose lacune normative ritenute fortemente pregiudizievoli sotto il profilo ordinamentale, sostanziale e processuale.

Ciò premesso sotto un profilo metodologico, non sembra superfluo accennare alla circostanza che la responsabilità amministrativo-contabile, tradizionalmente ritenuta di natura risarcitoria, anche se con proprie indubbie peculiarità, ha subìto graduali ma costanti ripensamenti in senso sanzionatorio, sia a livello normativo che sotto il profilo ermeneutico. Basti pensare alla recente introduzione di forme di responsabilità sanzionatorie per gli amministratori degli enti locali (sanzioni sia di natura personale che pecuniaria) e ad alcune sentenze del Giudice delle leggi (cfr. Corte costituzionale n. 473/1998 e n. 371/1998) e delle stesse Sezioni riunite (cfr. SS.RR. n. 12/QM/2007) ove è stato ritenuto che l’indole e il paradigma stesso della responsabilità amministrativa supera la mera forma risarcitoria.

Tanto si è voluto richiamare a solo a titolo esemplificativo, senza che sia necessario soffermarsi a passare in rassegna la cospicua giurisprudenza di merito e i vasti contributi dottrinali che hanno cominciato a manifestarsi dopo la nuova conformazione della responsabilità amministrativa di cui alle note riforme del 1994/1996 (personalità della responsabilità, intrasmissibilità della stessa agli eredi, salve, ovviamente, le eccezioni previste dalla stessa normativa, per non dire degli aspetti processuali ove campeggia la figura del P.M. contabile quale titolare esclusivo della stessa azione a tutela delle finanze pubbliche).

È apparso opportuno accennare a questa evoluzione concettuale solo per cogliere alcuni tratti della responsabilità per danno pubblico che, pur rimanendo di chiara impronta civilistica, partecipa di alcuni caratteri tipici della responsabilità penale che è dominata da principi anche di matrice costituzionale. Ci si riferisce al principio di legalità ed ai suoi corollari: il primo, che trova la sua massima espressione nell’art. 25 Cost. e nell’art. 7 della Carta Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo; i secondi (corollari), che ai fini che ne occupano hanno una certa rilevanza ed attengono ai principi di tassatività, determinatezza (o cosiddetta “precisione”) e al divieto di analogia.

Non occorre qui disquisire sulla differenza tra interpretazione analogica ed estensiva, né sulla circostanza – di ovvia constatazione – che i suddetti principi si riferiscono all’ordinamento penale ed, in modo particolare, ai reati: fattispecie del tutto distinte da quelle di responsabilità amministrativa che, lo si ricorda, ha proprie e del tutto particolari connotazioni che giustificano l’affidamento della relativa “cognitio” al giudice speciale Corte dei conti.

Si vuole solo ricordare la natura anche personale e sanzionatoria – e quindi afflittiva – della responsabilità amministrativa, e che la fattispecie di danno all’ immagine della P.A. qui in rassegna è posta in stretta correlazione con l’accertamento di reati accertati con sentenza irrevocabile, con ciò anche derogandosi al generale principio di separatezza tra giudizio penale e giudizio contabile.

In virtù di tali considerazioni, appare conforme ai principi generali dell’ordinamento che l’ermeneusi delle norme in rassegna avvenga secondo criteri di stretta interpretazione ai sensi dell’art. 14 della Preleggi (“significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” e la “intenzione del legislatore”).

Sarebbe dunque fuorviante adombrare, sia pure dialetticamente, una “contrapposizione” tra due tesi: l’una, cosiddetta “estensiva” ai reati comuni e, l’altra, “restrittiva”, limitata ai reati previsti dal Capo I, del Titolo II del Libro Secondo del Codice penale.

Si tratta, invero, solo di valutare attentamente il dato normativo secondo un canone di stretta interpretazione, anche mediante una lettura anche costituzionalmente orientata.

Questa impostazione è stata anche quella seguita dalla Corte costituzionale e, con qualche eccezione, dalla Suprema Corte.

Il Giudice delle Leggi, con la nota sentenza n. 335/2010, cui sono poi seguite numerose ordinanze di manifesta inammissibilità di analoghe questioni proposte da varie Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti (cfr. Ordinanze Corte cost. n. 219/2011; n. 220/2011; n. 221/2011; n. 286/2011), ha dichiarato in parte inammissibili e in parte non fondate le variegate questioni di costituzionalità proposte da numerose Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti afferenti la presunta illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 30 ter, periodi secondo, terzo e quarto, del D.L. 1°.7.2009 n. 78, convertito con modificazioni dalla legge n. 102/2009, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera e, numero 1, del D.L. n. 103/2009, convertito con modificazioni dalla legge n. 141/2009.

Si tratta, in sintesi, della stessa questione testé sottoposta alle Sezioni riunite e va notato che le numerose Sezioni giurisdizionali territoriali remittenti hanno dubitato della vulnerazione di molti parametri costituzionali che sono stati poi scrutinati dal Giudice delle leggi (artt. 2, 3, 24, 25, 54, 77, 81, 97, 103 e 113 Cost.); di guisa che può dirsi che la questione stessa sia stata riguardata dalla Corte costituzionale sotto ogni aspetto: e ciò rende significativamente rilevante la pronuncia resa per il percorso motivazionale che ne costituisce il tessuto.

Tanto si è voluto sottolineare poiché non è apparso particolarmente conducente disquisire sulla natura della suddetta pronuncia (di rigetto, interpretativa di rigetto, etc.) per potersene poi inferire la portata, vincolante o meno, per i giudici remittenti e, indirettamente, per queste Sezioni riunite chiamate a formulare il principio di diritto.

Può anche teoricamente convenirsi sulla non vincolatività “strictu sensu” della sentenza in rassegna, ma ciò che il Collegio ritiene rilevante è la portata dei principi ivi espressi alla luce dell’ampiezza dello scrutinio dei parametri costituzionali la cui violazione era stata invocata da numerose Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti.

Giova, quindi, in sintesi, riportare i principali passaggi motivazionali della citata sentenza n. 335/2010.

Innanzitutto, è stato escluso che per il danno all’ immagine ad un ente pubblico possa esservi un giudice diverso dalla Corte dei conti adita in sede di giudizio di responsabilità; ma proprio per tale motivo è chiaro che la “ratio” della norma in questione è stata quella “di circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza di lesioni all’ immagine dell’amministrazione”.

Altro punto saliente affrontato dalla Corte costituzionale è quello del bene giuridico che, con la normativa in questione, il legislatore ha inteso tutelare.

Ebbene, tale tema è stato affrontato sotto vari profili, sia in relazione alla discrezionalità del legislatore, per il quale è stata esclusa ogni manifesta irragionevolezza, sia con riferimento alla peculiarità del soggetto tutelato P.A. – enti pubblici (che non è equiparabile alla persona umana i cui diritti fondamentali hanno diversa collocazione nella Carta costituzionale) a cui fanno capo il prestigio, la credibilità e il corretto funzionamento degli uffici pubblici.

Sono, dunque, proprio i principi di imparzialità e di buon andamento della P.A. – beni direttamente tutelati nell’art. 97 della Costituzione – ed i suoi corollari consistenti nei canoni di efficienza ed efficacia che costituiscono l’oggetto della protezione approntata dalla normativa in rassegna.

Si tratta di affermazioni rilevanti per la risoluzione della questione oggetto di quesito poiché il precipitato complessivo che ne discende afferisce alla non arbitrarietà della scelta operata dal legislatore nel circoscrivere i reati da cui può derivare il “vulnus” all’ immagine della P.A. in relazione alla percezione esterna che si ha del modello di azione pubblica ispirato ai principi e ai canoni che trovano la loro tutela ultima nell’art. 97 della Costituzione, con la conseguenza che, fuori da tale ambito, ogni estensione dei casi previsti dalla normativa in rassegna appare arbitraria.

FINE PRIMA PARTE
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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SECONDA PARTE (in tutto 25 pagine)
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Anche la Suprema Corte ha enunciato importanti e conducenti principi, sia pure sotto diversi profili.

Innanzitutto, va rilevato come più volte la Corte di Cassazione a Sezioni unite civili abbia sottolineato il fatto che il legislatore del 2009 ha inteso circoscrivere, sul piano sostanziale e processuale, i casi in cui può azionarsi il danno all’ immagine di una P.A., escludendo ogni ampliamento del relativo ambito (tra le più recenti, cfr. sentenze nn. 14831/2011; 5756/2012; 9188/2012; 20728/2012).

La Suprema Corte, in sede penale, è pervenuta ad arresti di varia natura.

Le Sezioni unite penali della S.C. si sono specificamente occupate dei rapporti tra l’art. 316 ter (norma inserita tra quelle che possono produrre danno all’ immagine della P.A.) e i reati di truffa e falso secondo principi di specialità o sussidiarietà (cfr. sentenze n. 16568/2007 e n. 7537/2011).

Vi è innanzitutto da osservare che, in un caso, si tratta di statuizione antecedente la normativa del 2009 in questione e che anche nel secondo caso, non viene affrontato specificamente il tema oggi in discussione.

Si è voluto accennare a quest’ultima giurisprudenza per dirimere possibili dubbi sulla portata della iniziale formulazione dell’art. 316 ter: “salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640 bis” o della formulazione dell’art. 323 c.p. “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”, poiché potrebbe ritenersi che, sia pur indirettamente, queste ultime norme possano far rientrare reati diversi (comuni) nel novero di quelli da cui può discendere un danno all’ immagine della P.A..

Tale soluzione però non appare innanzitutto compatibile con l’impianto normativo che dispone la “circoscrizione” di una tipologia di reati voluta dal legislatore; inoltre, per potersi parlare di assorbimento, specialità o sussidiarietà, occorre, dal punto di vista fattuale, che la fattispecie soggetta ad accertamento comprenda sia i fatti previsti dall’art. 640 bis c.p., o altri più gravi, rispetto agli artt. 316 ter e 323 c.p., che quelli previsti dall’art. 316 ter, dallo stesso art. 323 c.p. che, appunto, rinviano all’art. 640 bis c.p. o ad altri più gravi reati, onde potersi poi compiere valutazioni di assorbimento, specialità o sussidiarietà. Va, pertanto, considerato che, ai fini della circoscrizione dei reati in questione, l’ottica va centrata più sulle fattispecie incriminatrici legali che non sui dati fattuali.

Pertanto, le considerazioni compiute dalla S.C. penale in termini di assorbimento, specialità o sussidiarietà, pur pregevoli in termini generali penalistici, non appaiono conducenti alla risoluzione del quesito in rassegna per i motivi innanzi espressi, in disparte profili di possibile irrilevanza per i giudizi sottostanti riferentesi agli artt. 346, c.2, 479, 612 e 640 codice penale.

La Cassazione penale, non a Sezioni Unite (Sezione Terza e Sezione Seconda) si è anche occupata del problema della circoscrivibilità del danno d’ immagine ai soli reati previsti dall’art. 7 della legge n. 97/2001 o anche a reati comuni, nonché delle questioni attinenti ai rapporti con la nuova formulazione dell’art. 1, L. n. 20/1994 come integrato dalla legge n. 190/2012 e, infine, della cosiddetta tesi del “doppio binario” di cui meglio si dirà in proseguo.

Ebbene, la Terza Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 5481/14) ha affermato potersi ritenere sussistente il danno all’ immagine della P.A. anche in presenza di reati comuni, con ciò aderendo alla tesi “estensiva”, ma aggiunge, subito dopo, che non era questo il caso che ne occupava in quella occasione.

Infatti, dal contesto della pronuncia si evince che i reati erano stati commessi da privati e non da pubblici dipendenti.

Inoltre, nella stessa sentenza si afferma che il “ danno d’ immagine , sia esso perseguito dinanzi alla Corte dei conti, o davanti ad altre autorità giudiziarie, va considerato come danno patrimoniale da perdita d’ immagine di tipo contrattuale avente natura di danno conseguenza….”

Alla luce di quanto sopra esposto il Collegio ritiene che i passaggi motivazionali della suddetta sentenza non possano costituire utile principio ispiratore per la risoluzione del quesito in rassegna, sia perché attengono a fattispecie criminose poste in essere da soggetti privati, sia perché la definizione del danno d’ immagine della P.A. come “patrimoniale” non è affatto pacifica ed è in primo luogo contraddetta dal Giudice delle leggi con la nota e ricordata sentenza n. 335/2010, sia infine perché in quella sentenza si ipotizza un danno d’ immagine azionabile innanzi a un giudice anche diverso dalla Corte dei conti.

Di diversa valenza, invece, ai fini che qui ne occupano, è la pronuncia resa dalla Seconda Sezione Penale della Cassazione (sentenza n. 4605/14) poiché tocca puntualmente molti aspetti della questione testé affrontata da queste Sezioni riunite.

Dopo aver richiamato la nota sentenza della Corte Costituzionale n. 355/2010, la Suprema Corte esclude che la legge n. 190/2012, usando l’espressione “reato contro la pubblica amministrazione”, abbia abrogato tacitamente l’espressione di cui al combinato disposto degli artt. 17 L. n. 141/2009 e 7 L. n. 97/2001 (“delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del Codice penale”) poiché non ha regolato “ex novo” l’intera materia (ipotesi prevista dall’art. 15 delle Preleggi), bensì ha inserito solo alcuni commi che insistono sul “quantum” dovuto in caso di danno all’ immagine (il doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale o di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente); di guisa che le due normative restano del tutto compatibili e, quindi, il termine “reato contro la P.A.” deve ritenersi riferito ai delitti contro la P.A. di cui si discute e previsti dal Capo I, Titolo II del Libro secondo c.p..

Altro aspetto trattato dalla Suprema Corte è quello relativo ai rapporti con l’art. 129 Disp. Att. c.p.p. che, secondo una originale interpretazione, definita dalla stessa Suprema Corte come una “irrazionale, torsione ermeneutica”, porterebbe a configurare il cosiddetto “doppio binario”: per i delitti previsti dall’art. 314 ss c.p. occorrerebbe il passaggio in giudicato della sentenza, mentre, per gli altri reati comuni, l’azione risarcitoria per danno all’ immagine della P.A. non necessiterebbe di tale irreversibilità della sentenza.

La Suprema Corte ritiene al riguardo che l’art. 129 Disp. Att. c.p.p. citato non influisce in alcun modo sulla problematica in esame, limitandosi a prevedere il generale obbligo per il P.M. di informare il Procuratore generale presso la Corte dei conti.

Conclude, la Suprema Corte, nel senso che la P.A. può chiedere il risarcimento del danno d’ immagine al proprio dipendente (se l’azione è esercitata innanzi alla Corte dei conti, il vincolo inerente la speciale categoria dei reati in questione riguarda il P.M. contabile agente) nei soli casi in cui sia intervenuta condanna irrevocabile “per uno dei reati previsti nel Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale”.

Si è voluto ripercorrere, anche se succintamente, il quadro giurisprudenziale offerto sia dalla Corte costituzionale che dalla Suprema Corte poiché si ritiene che la pronuncia richiesta a questo organo giurisdizionale nomofilattico non possa prescinderne; ciò non perché si sia in presenza di effetti vincolanti – che si escludono – ma per intuibili esigenze di prudente ragionevolezza nell’opera di interpretazione di norme giuridiche che, pur in ossequio al principio del libero convincimento, deve tuttavia tener conto dell’ermeneusi giurisprudenziale proveniente dal Giudice delle Leggi e dal Giudice regolatore della legittimità e della giurisdizione.

È pur vero che il “thema decidendum” non si pone in stretti termini di giurisdizione, sia perché riguarda l’azionabilità del danno all’ immagine da parte del P.M. contabile, colpita da una esplicita sanzione di nullità, sia perché le questioni di giurisdizione sfuggono, in ultima analisi, a queste Sezioni riunite; ma è altrettanto vero che il solco tracciato dalla citata giurisprudenza è tale che, in caso di scostamento da parte di queste Sezioni riunite, verosimilmente si verificherebbe la riproposizione delle questioni, sia innanzi alla Corte costituzionale che alla Suprema Corte, e ciò con intuibile “vulnus” ad un principio di certezza del diritto che appare precettivo non solo per la funzione legislativa, ma soprattutto per l’attività di discernimento esegetico affidata alla funzione giurisdizionale.

Si impone quindi ora a questo Collegio una duplice operazione ermeneutica: la possibilità di una adesione non acritica alle massime giurisprudenziali passate in rassegna; lo sviluppo di ulteriori propri argomenti decisivi.

Quanto al primo aspetto, sembra al Collegio che i passaggi motivazionali del Giudice delle leggi, tutti intesi a ritenere non vulnerato il principio di razionalità da parte del Legislatore nello “scegliere” alcuni reati, e non altri, da cui poter far discendere un danno all’ immagine della P.A., siano del tutto condivisibili poiché è stato esattamente individuato nell’art. 97 della Costituzione – che enuncia i canoni del buon andamento e della imparzialità e da cui discendono i principi di efficienza, efficacia ed economicità dell’“agere” amministrativo – le norme poste a tutela del bene che il legislatore ha inteso proteggere.

Ciò non esclude che il legislatore possa individuare altri beni giuridici tutelabili e, quindi, altri reati cui collegare un possibile danno d’ immagine alla P.A., ed è forse auspicabile una rimeditazione sul punto; ma resta il fatto che discrezionalità del legislatore è stata ritenuta correttamente esercitata, costituendo pertanto un limite preciso ad un non consentito sconfinamento della funzione giurisdizionale.

Su un parallelo versante si pone l’adesione di questo Collegio a quella giurisprudenza della Suprema Corte che ha motivatamente delimitato l’area dei delitti da cui può derivare un danno d’ immagine della Pubblica Amministrazione.

Infatti, in disparte il pressoché uniforme orientamento della Cassazione civile, si è notato in precedenza che alcune sentenze della Cassazione penale non appaiono conducenti, mentre altre, come quella sulla circoscrizione dei reati “de quibus” (Seconda Sezione penale della Cassazione n. 14605/2014), hanno svolto un “iter” argomentativo del tutto condivisibile, marcando il punto della “voluntas legis” limitata ai soli casi previsti dalla normativa, escludendo fuorvianti ipotesi di cosiddetto “doppio binario” e fornendo adeguata interpretazione dei rapporti con la legge n. 190/2012.

Si tratta di passaggi motivazionali condivisibili poiché appaiono ispirati da una visione sistematica dell’intero quadro normativo esaminato.

Conclusivamente, la Suprema Corte, sia in sede civile (Sezioni riunite) che in sede penale, sia pure in modo non univoco, ma con statuizioni articolate e conducenti ai fini specifici che ne occupano, ha tracciato una chiara delimitazione dei soli reati da cui può discendere un danno risarcibile all’ immagine alla Pubblica Amministrazione.

Tuttavia, queste Sezioni riunite ritengono utile svolgere qualche propria ulteriore riflessione.

Si è spesso insistito sulla espressione “nei soli casi e nei modi previsti dall’art. 7 della legge 27 marzo 2001 n. 97”, inferendosene la presunta conseguenza che per i “casi”, valga l’obbligo di comunicazione del P.M. penale limitatamente ai delitti accertati con sentenza irreversibile previsti nel Capo I, Titolo II del Libro secondo; mentre, “i modi” indicherebbero il generale obbligo del P.M. penale di comunicare al P.M. contabile l’esercizio dell’azione penale, discendente dall’art. 129 Disp,. Att.ne c.p.p. per tutti i reati, con la conseguenza che la disposta salvezza del predetto art. 129 disp. Att.ne c.p.p. consentirebbe l’azionabilità del danno all’ immagine alla Pubblica Amministrazione per tutti i reati comuni.

Questa interpretazione di una parte della giurisprudenza contabile, contrastata peraltro da altra giurisprudenza, finisce però con il frazionare la norma in rassegna in due tronconi, laddove sembra più conforme ad una esegesi organica, leggere la norma in senso unitario nel senso di un precetto unico che è volto a delimitare l’area dei delitti da cui il legislatore ammette possa derivarne un danno d’ immagine della Pubblica Amministrazione “nei soli casi e modi previsti dall’art. 7”; precetto – quest’ultimo – che va ad aggiungersi, quindi, all’obbligo di informativa discendente dall’art. 129 Disp. Att.ne c.p.p. che permane nella sua valenza generale originaria senza assurgere ad un ruolo di discrimine che darebbe corpo ad un inammissibile “doppio binario” e che vanificherebbe, snaturandolo, il limite stesso voluto dal legislatore che finirebbe con il perdere il proprio significato, per non dire di una abnorme diversità del regime della prescrizione (in tal senso depone significativamente anche lo stesso atto di deferimento del Procuratore generale che esclude ogni ipotesi di “doppio binario”).

Circa l’ulteriore perplessità derivante dall’espressione contenuta in alcune delle norme incriminatrici comprese tra quelle di cui al Capo I, del Titolo II del Libro secondo c.p., “…salvo che il fatto costituisca più grave reato…” (espressione – quest’ultima – che, se latamente intesa, porterebbe ad includere nel novero numerosi altri reati), si è già detto in precedenza, a commento di alcune sentenze della Cassazione penale.

Resta qui da aggiungere che allorché il legislatore ha circoscritto l’ambito dei delitti da cui può discendere un danno d’ immagine per la Pubblica Amministrazione ha fatto riferimento a fattispecie incriminatrici astratte ben delimitate; la salvezza relativa ad altri reati “più gravi” non fa che confermare l’ “intentio legis” di limitare e circoscrivere l’area dei reati contro la Pubblica Amministrazione da cui può discendere un danno all’ immagine della Pubblica Amministrazione stessa, ferma la considerazione decisiva che, negli altri reati comuni eventualmente configurabili, diversi sono i beni tutelati (non quelli presidiati dall’art. 97 Cost., come ritenuto dalla Corte costituzionale).

Valga, infine, una considerazione di carattere generale.

La problematica della risarcibilità del danno d’ immagine della Pubblica Amministrazione è stato oggetto di giurisprudenza contabile pretoria, poi approfondita e sviluppata sotto vari profili: quello del danno -evento piuttosto che del danno -conseguenza; quello della riferibilità all’art. 2059 c.c. o all’art. 2043 c.c., “sub specie” (sia pure riferito alla Pubblica Amministrazione) di danno “esistenziale” (figura, questa, elaborata e poi delimitata dalla giurisprudenza civile; quella della configurabilità quale danno patrimoniale o non patrimoniale, ma con riflessi patrimoniali.

Ora, in disparte tale ricca, seppure non omogenea, giurisprudenza contabile, sulla quale non è qui il caso di indulgere, si deve constatare che il legislatore ha sì previsto alcune speciali ipotesi di danno all’ immagine per la Pubblica Amministrazione (art. 55 quinquies, comma 2 del d.lgs n. 165/2001, così come integrato dall’art. 59, comma 1, del d.lgs. n. 150/2009; art. 46 del d.lgs. n. 33/2013), ma la disciplina organica avente ad oggetto la configurabilità di un danno all’ immagine per la Pubblica Amministrazione specificamente collegato a fattispecie criminose è stata introdotta con l’art. 17, comma ter., D.L. n. 78/2009 più volte citato e testé in discussione.

Ebbene, è certamente degno di nota che la prima volta in cui viene ammessa, per diritto positivo, una risarcibilità di danno all’ immagine per la Pubblica Amministrazione collegata a fattispecie criminose, il legislatore abbia voluto circoscrivere tali reati ai soli delitti previsti dagli artt. 314 e ss. c.p. e non ad altri, come pure, in tale specifica occasione, avrebbe potuto fare.

Tale scelta del legislatore, intervenuta per la prima volta in rapporti tanto delicati quali quelli tra azione del P.M. contabile e reati penali in punto di danno all’ immagine alla Pubblica Amministrazione (sino ad allora nel dominio della sola giurisprudenza), è senz’altro elemento significativo e di ausilio esegetico per queste Sezioni riunite.

È indubbio che vengano continuamente in evidenza fattispecie odiose di reati, specie contro la persona, che reclamerebbero una rimeditazione in termini di discredito che ne discende per la Pubblica Amministrazione; ma tale valutazione non può che competere al legislatore, né il giudice può intaccare tale sfera di attribuzione, che la Costituzione riconosce al Parlamento, a meno di non voler scivolare, come si è accennato all’inizio del percorso motivazionale testé sviluppato, verso una sorta di interpretazione “creativa” non ancorata a significativi dati normativi e non ammessa in presenza di un dettato normativo di per sé esaustivamente chiaro e comunque corroborato dalle statuizioni della Corte Costituzionale e da conducenti affermazioni della Corte Regolatrice.

Conclusivamente, il principio di diritto che si enuncia in risposta al primo dei quesiti proposti è il seguente:

l’art. 17, comma 30 ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’ immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale;

Quanto al secondo quesito, esso è posto in via subordinata ed eventuale ad una risposta affermativa (in termini di perseguibilità del danno all’ immagine anche ai casi discendenti da reati comuni).

Pertanto, attesa la risposta data al primo quesito, il secondo quesito resta assorbito e non v’è pronuncia da rendere.

PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONI RIUNITE IN SEDE GIURISDIZIONALE

così decide in ordine alle questioni di massima proposte:

1) l’art. 17, comma 30 ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l’azione per il risarcimento del danno all’ immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale;

2) assorbita dalla risposta al primo quesito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio del 10 dicembre 2014.

Il Presidente estensore
Arturo Martucci di Scarfizzi

Depositata in Segreteria in data 19 marzo 2015

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(Pietro Montibello)
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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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1) - danno all’erario conseguente a condotta integrante il reato di concussione ( mutamento della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, da perpetua a temporanea. + danno immagine )

2) - Quanto al fatto materiale causativo del danno, il giudicato penale ha riconosciuto il convenuto responsabile del delitto di concussione consumata ex art. 317 c.p., in quanto, nella veste di capo ufficio diporto dell’ufficio circondariale marittimo, abusando della qualità di pubblico ufficiale e dei poteri in concreto rivestiti (tempistica di trattazione delle pratica, con rilascio di certificato provvisorio per la circolazione), in più occasioni (circa 30 tra la primavera del 2003 all’estate del 2006), costringeva o comunque induceva un privato (OMISSIS) titolare di un’agenzia nautica a corrispondere euro 100,00 a pratica.

3) - la Corte di Cassazione con sentenza dell’11/2/2013, confermando la sentenza della Corte d’Appello, salva la rideterminazione della pena della reclusione in anni 2 e mesi 2 e il mutamento della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, da perpetua a temporanea.

4) - la Procura presso questa Sezione, ravvisando gli estremi della responsabilità amministrativa per danno all’erario, ha notificato al OMISSIS invito a dedurre, evidenziando l’intervenuto giudicato penale sulla vicenda e la sua vincolatività ai fini della responsabilità amministrativa, e quantificando il conseguente danno all’immagine in euro 8.000.

Ricorso RESPINTO

Il resto leggetelo qui sotto.
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VENETO SENTENZA 196 21/10/2014
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SEZIONE ESITO NUMERO ANNO MATERIA PUBBLICAZIONE
VENETO SENTENZA 196 2014 RESPONSABILITA' 21/10/2014



N. 196/2014

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONALE PER IL VENETO

Composta dai Sigg. ri Magistrati
Angelo Buscema Presidente
Natale Longo …………… Giudice estensore
Giuseppina Mignemi Giudice
ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nel giudizio di responsabilità, iscritto al n. 29682 del registro di Segreteria, promosso dal Vice Procuratore Generale presso questa Sezione dott. Giancarlo Di Maio nei confronti di OMISSIS, rappresentato e difeso dall’avvocato OMISSIS, elettivamente domiciliato presso il proprio studio in Venezia OMISSIS.

Visto l’atto introduttivo del giudizio, la memoria di costituzione, gli altri atti e documenti tutti di causa;
Uditi nella pubblica udienza del 15 ottobre 2014, con l’assistenza del segretario sig.ra Elisabetta Bruni, il Giudice relatore, dott. Natale Longo, il vice Procuratore Generale, dott. Giancarlo Di Maio, l’avv. OMISSIS in rappresentanza di OMISSIS.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione depositato il 24.10.2013 (ritualmente notificato con il pedissequo decreto di fissazione dell’udienza) la Procura Regionale della Corte dei conti per il Veneto conveniva, dinanzi questa Sezione Giurisdizionale, il signor OMISSIS, per sentirlo condannare al pagamento, in favore dell’Amministrazione dello Stato-Ministero della Difesa, della somma di €. 8.000 (o, in subordine, alla somma di €. 6.000), oltre agli interessi e alle spese di giustizia, quale danno all’erario conseguente a condotta integrante il reato di concussione, per come accertato con sentenza penale passata in giudicato.

Quanto alla notitia damni, la Procura erariale ha ricevuto formale comunicazione, datata 29 aprile 2013, da parte della Corte d’Appello di OMISSIS, Sezione Penale, in ordine alla intervenuta irrevocabilità (a seguito di sentenza della Corte di Cassazione datata 11.02.2013) della sentenza n. 314 del 5/3/2012, resa dal medesimo giudice di appello, in data 05.03.2012, nei confronti di OMISSIS.

Quanto al fatto materiale causativo del danno, il giudicato penale ha riconosciuto il convenuto responsabile del delitto di concussione consumata ex art. 317 c.p., in quanto, nella veste di capo ufficio diporto dell’ufficio circondariale marittimo di OMISSIS, abusando della qualità di pubblico ufficiale e dei poteri in concreto rivestiti (tempistica di trattazione delle pratica, con rilascio di certificato provvisorio per la circolazione), in più occasioni (circa 30 tra la primavera del 2003 all’estate del 2006), costringeva o comunque induceva un privato (OMISSIS) titolare di un’agenzia nautica a corrispondere euro 100,00 a pratica.

Più precisamente, in primo grado il Tribunale di OMISSIS, con sentenza del 24/3/2011, riconosceva il OMISSIS responsabile, oltre che del suddetto delitto, anche di due tentate concussioni, nel 2004 e nel 2006, rappresentate da richieste di denaro per la rapida evasione di pratiche di immatricolazioni di imbarcazioni presentate da OMISSIS, titolare di altra agenzia; queste ipotesi di reato sono tuttavia state riqualificate dalla menzionata sentenza della Corte d’appello di OMISSIS come istigazioni alla corruzione ex art. 322 c.p., reato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione.

Quindi sulla vicenda si è pronunziata, come già accennato, la Corte di Cassazione con sentenza dell’11/2/2013, confermando la sentenza della Corte d’Appello, salva la rideterminazione della pena della reclusione in anni 2 e mesi 2 e il mutamento della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici, da perpetua a temporanea.

Conseguentemente, la Procura presso questa Sezione, ravvisando gli estremi della responsabilità amministrativa per danno all’erario, ha notificato al OMISSIS invito a dedurre, evidenziando l’intervenuto giudicato penale sulla vicenda e la sua vincolatività ai fini della responsabilità amministrativa, e quantificando il conseguente danno all’immagine in euro 8.000.

Il OMISSIS ha quindi presentato controdeduzioni in data 10/09/2013, sottoscritta dagli avvocati OMISSIS, valorizzando ex adverso la difficile situazione economica dell’assistito (destituito dall’incarico, privo di reddito e con due figli minorenni), la scarsissima eco mediatica della vicenda, i motivi di astio delle persone offese nei riguardi dell’assistito, il suo brillante curriculum militare (encomi e note di servizio eccellenti) e l’avvenuto riconoscimento nella sentenza penale dell’attenuante di cui all’articolo 323 bis c.p. (“particolare tenuità” del fatto).

Peraltro, nel corso della richiesta audizione, il sig. OMISSIS ha sottolineato di avere consapevolezza dell’errore commesso e, ribadite le difficoltà economiche in cui versa, ha fatto nuovamente istanza di riduzione del danno.

Conseguentemente, la Procura presso questa Sezione, stante l’intervenuto giudicato in ordine alla concussione posta in essere dal OMISSIS nei confronti del OMISSIS e la sua vincolatività ex art. 651 c.p.p nel giudizio in ordine alla responsabilità amministrativa, ha citato in giudizio l’ex militare, ritenendo che dall’illecito sia derivato un danno all’immagine della Pubblica amministrazione, sub specie della perdita di credibilità e prestigio della Marina militare, come peraltro evincibile dal risalto, tutt’altro che limitato, conferito alla notizia dagli organi di informazione, per come documentato da articoli giornalistici prodotti in giudizio.

Ad avviso della Procura, inoltre, la situazione di precarietà economica e i buoni precedenti del convenuto, invocati nelle controdeduzioni, non appaiono suscettibili di inficiare l’impianto dell’imputazione, potendo esclusivamente esser valutati dal giudice in sede di eventuale esercizio del potere riduttivo.

Pertanto, in sede di citazione la Procura erariale ha ritenuto di poter quantificare ex art. 1226 c.c. il danno subito dall’erario in euro 8.000, tenuto conto di un insieme di fattori, quali la gravità del tipo di reato, il ruolo di capo ufficio del dipendente e l’avvenuta protrazione nel tempo di una condotta particolarmente disdicevole.

In proposito, in via subordinata e qualora si ritenesse applicabile, ratione temporis, il disposto dell’articolo 1, c. 62, L. 6/11/2012 n. 190, la Procura ha prospettato la possibilità di determinare il danno all’erario facendo applicazione dei criteri ivi previsti, che condurrebbero nella specie alla quantificazione in euro 6.000,00, tenuto che nella sentenza penale si è accertata la verificazione di circa trenta episodi concussivi comportanti un versamento di euro 100,00 ciascuno.

Con memoria in atti al 21 luglio 2014, si è costituito in giudizio il sig. OMISSIS, rappresentato e difeso dall’Avv. OMISSIS del foro di Venezia, presso il cui studio in Venezia, via ……., ha eletto domicilio.

Nella comparsa di costituzione, il OMISSIS, pur definendosi “innocente ed estraneo ai fatti”, “con senso di responsabilità” si è detto “consapevole ….. dell’irrevocabilità della sentenza di condanna”, ma nel contempo evidenziando innanzitutto come la Corte di Cassazione, nella menzionata sentenza dell’11.02.2013, ha riqualificato il titolo di reato contestato nella nuova figura delittuosa di cui all’art. 319 quater (“induzione indebita a dare o promettere utilità”), ipotesi criminosa retroattivamente applicata e sicuramente meno grave di quella della concussione o della corruzione propria, che avrebbe comportato, ove il fatto di reato fosse stato commesso sotto la vigenza della nuova norma, la punibilità anche del principale accusatore, peraltro non costituitosi parte civile in sede penale.

Secondo la difesa, tale elemento “dovrà essere valutato da codesta Corte qualora ……fosse ritenuto provato il lamentato danno all’immagine di cui all’atto di citazione”, in quanto “è plausibile ritenere che la p.o. non avrebbe accusato (per spirito di rivalsa come è stato nel caso di specie!) anche se stesso del reato commesso in concorso con il convenuto e, comunque, le dichiarazioni accusatorie sarebbero state rilasciate da un soggetto colpevole di aver commesso un reato con le dovute conseguenze sul piano probatorio!”.

La difesa ha inoltre insistito sulla natura minimale dei fatti contestati e delle somme percepite, come peraltro ritenuto dalla stessa sentenza di condanna, che ha applicato il minimo edittale di pena e ha riconosciuto l’attenuante di cui all’art. 323 bis c.p..

Inoltre, il giudicato penale ha fatto emergere, sostiene la difesa, ulteriori fatti (l’ufficio diretto era “perfettamente funzionante”; gestione delle pratiche in ordine cronologico; pieno rispetto della legge; encomi scritti e note di servizio eccellenti; conseguimento del “massimo grado tra i sottufficiali”) che il giudice contabile non potrebbe non valutare in sede di eventuale dosimetria del danno all’erario.

Conseguentemente, la difesa del OMISSIS ha eccepito la mancata prova del danno (“scarsissima rilevanza ed attenzione da parte dei mass media”) e comunque l’eccessività della pretesa avanzata dalla Procura, chiedendone, in via subordinata rispetto al rigetto della domanda tout court, il radicale ridimensionamento, tanto più che l’ex militare non percepisce alcun reddito, deve mantenere due figli, pagare un mutuo per la casa familiare e vive esclusivamente del lavoro saltuario/stagionale della moglie.

Alla pubblica udienza del 24 ottobre 2014, il magistrato requirente richiamava l’atto introduttivo del giudizio, illustrando ulteriormente le argomentazioni a sostegno della domanda e insistendo nelle conclusioni ivi rassegnate.

La parte convenuta, a sua volta, richiamate le argomentazioni svolte nella memoria di costituzione, insisteva su tesi e richieste ivi compendiate, come da verbale di udienza.

DIRITTO

[1] Avuto riguardo alla preesistenza, rispetto all’azione per responsabilità amministrativa, di un giudicato penale di condanna, occorre preliminarmente accennare alla problematica degli effetti delle sentenze penali irrevocabili di condanna sul giudizio di responsabilità per danno all’erario, fattispecie che l’univoca giurisprudenza contabile (da ultimo, III sez. appello, sent. n. 53/2014) ritiene direttamente disciplinata dall’articolo 651 c.p.p., a norma del quale “la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”.

Conseguentemente, la giurisprudenza contabile ha altresì puntualizzato (sez. Calabria, n. 1272014; cfr. Corte dei conti, Sez. III, 22 luglio 2013, n.522) che ai fini del giudizio di responsabilità, la sentenza irrevocabile di condanna penale fa stato quanto all’accertamento sia dei fatti materiali sia della condotta illecita dell’autore, venendo così preclusa al Giudice contabile ogni diversa asserzione che venga a collidere con i presupposti logico-giuridici, espliciti o impliciti, e con le risultanze e le affermazioni conclusionali della pronuncia penale in merito agli stessi fatti contestati dal P.M. contabile (cfr. Corte dei conti, Sez. giurisd. Sicilia, 11 luglio 2013, n.2680).

In proposito, la stessa Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 651 cod. proc. pen., prospettata in riferimento all'art. 103 Cost., nella parte in cui attribuisce efficacia vincolante al giudicato penale di condanna nel giudizio amministrativo per risarcimento del danno che si svolge davanti alla Corte dei conti, in quanto deve esser ascritta alla discrezionalità del legislatore - secondo quanto affermato anche dalla Corte costituzionale – la possibilità di regolamentare la definizione dei rapporti tra la giurisdizione penale e quella contabile, e l'art. 651 cod. proc. pen. costituisce un'eccezione espressamente disciplinata rispetto alla regola generale dell'autonomia tra il giudizio penale e quelli civili e amministrativi (cfr. Cass., SS.UU., 9 giugno 2011, n. 12539).

Pertanto, dovendosi ritenere per accertati nel presente giudizio di responsabilità amministrativa la “sussistenza del fatto, la sua illiceità penale e l'affermazione che l'imputato lo ha commesso” contenute nel giudicato penale, questo Giudice può limitarsi a richiamare sinteticamente la ricostruzione dei fatti contenuta nel giudicato penale, ovvero che l’odierno convenuto, nella veste di capo ufficio diporto dell’ufficio circondariale marittimo di OMISSIS, abusando della qualità di pubblico ufficiale e dei poteri in concreto rivestiti (tempistica di trattazione delle pratica, con rilascio di certificato provvisorio per la circolazione), in più occasioni (circa 30 tra la primavera del 2003 all’estate del 2006), costringeva o comunque induceva un privato (OMISSIS) titolare di un’agenzia nautica a corrispondere (formulando espresse richieste di denaro) euro 100,00 a pratica.

Risultano conseguentemente ormai definitivamente accertati gli elementi costitutivi dell’illecito erariale consistenti nella condotta illecita, ivi compresa la percezione di emolumenti, e nel dolo del militare.

In proposito, giova altresì evidenziare, anche avuto riguardo alle eccezioni difensive avanzate dall’odierno convenuto, come la Corte di appello di OMISSIS, nella menzionata sentenza, avesse qualificato il fatto illecito in termini di concussione per induzione ex art. 317 c.p., valorizzando il fatto che il militare, formulando dette richieste di denaro per definire speditamente ciascuna delle 30 pratiche di immatricolazione di natanti presentate dal OMISSIS, avesse abusato della qualità e dei poteri di responsabile di quelle procedure, quale Capo ufficio diporto dell'Ufficio circondariale marittimo di OMISSIS, avendo fatto valere la sua posizione di supremazia, derivante dall'esercizio della pubblica funzione affidatagli, per indurre il privato (c.d. metus publicae potestatis) all'indebito.

Né d’altro canto, diversamente da quanto prospettato dall’odierno convenuto, la Corte di Cassazione, nella menzionata sentenza n. 11792 del 2013, ha diversamente ricostruito la vicenda sul terreno fattuale nonché giuridico, essendosi limitata a prendere atto di un fenomeno di successione nel tempo di leggi penali e ad applicarne conseguentemente la disciplina codicistica, riconoscendo anzi la continuità del tipo di illecito tra la “nuova” norma penale di cui all’articolo 319 quater c.p. e la superata fattispecie astratta di concussione per induzione ex art. 317 c.p..

In particolare, la Corte di cassazione, nella menzionata sentenza, ha evidenziato come la legge 6 novembre 2012, n. 190 ("Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione"), allo scopo di uniformare la normativa interna ai principi della Convenzione contro la corruzione approvata in ambito ONU nel 2003 ed a quelli della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo, approvata in ambito di Consiglio d'Europa nel 1999 - ratificate in Italia rispettivamente dalla L. n. 116 del 2009. e da quella L. n. 110 del 2012, abbia sostituito l'art. 317 c.p., con l'introduzione di una nuova fattispecie di "concussione", configurabile ora solo per costrizione e nel contempo introdotto l'art. 319 quater c.p., riguardante la nuova figura criminosa della "induzione indebita a dare o promettere utilità", fattispecie che sostanzialmente si pone in una posizione intermedia tra la residua figura della condotta concussiva sopraffattrice e l'accordo corruttivo, integrante uno dei reati previsti dagli artt. 318 o 319 c.p..

Orbene, sul terreno della valutazione degli effetti della novella normativa in tema di tipizzazione degli illeciti e conseguentemente di trattamento sanzionatorio, la Corte di Cassazione ha evidenziato per un verso come la c.d. concussione per costrizione rimanga disciplinata dall’articolo 317, che tuttavia nella nuova formulazione più non contempla tra i soggetti attivi l’incaricato di pubblico servizio e nel contempo prevede un inasprimento del limite minimo edittale di pena.

Quanto invece alla c.d. concussione per induzione, essa viene "scorporata" dal previgente art. 317 c.p., e testualmente disciplinata dall'art. 319 quater c.p., innovativamente rubricato "induzione indebita a dare o promettere utilità", norma che incrimina, "salvo che il fatto non costituisca più grave reato", il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, sanzionandolo con la pena della reclusione da tre ad otto anni. Inoltre, detta innovativa fattispecie normativa determina, giusta la previsione contenuta nello stesso art. 319 quater c.p., comma 2, la punibilità anche del destinatario della pretesa che "da o promette denaro o altra utilità", il quale, da persona offesa nell'originaria ipotesi di concussione per induzione, diventa concorrente necessario nella nuova fattispecie di reato.

Tuttavia, per quel che più conta ai fini della ricostruzione della fattispecie concreta sub iudice, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la novella normativa, con riguardo alla fattispecie di concussione per induzione, non concreti una abolitio criminis, ai sensi del'art. 2 c.p., comma 2, bensì un mero fenomeno di successione di leggi penali nel tempo regolata dall'art. 2 c.p., comma 4, ciò in quanto risulta “riconoscibile una continuità di tipo di illecito tra il precedente reato di concussione per induzione ed il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui al più volte citato art. 319 quater c.p.”. Ciò in quanto anche la “struttura bilaterale” del nuovo reato (che incrimina anche il privato) “non modifica affatto una fattispecie che, con riferimento alla posizione del pubblico funzionario, resta immutata nei suoi elementi strutturali (salva, come detto, la diversa cornice sanzionatoria)”.

Conseguentemente, con riferimento alle condotte illecite contestate al OMISSIS, la Corte di Cassazione ha lasciato sostanzialmente inalterato l’accertamento giuridico-fattuale effettuato dal giudice di appello, essendosi limitata a ridurre la pena irrogata in applicazione dell’art. 2, comma 4, del codice penale, norma che prevede, in ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, l'applicazione retroattiva della disposizione sopravvenuta, più favorevole al reo (c.d. principio del favor rei).

Alla luce della riferita ricostruzione giuridico-fattuale del fenomeno successorio normativo in relazione alla fattispecie concreta, emerge di tutta evidenza l’infondatezza delle eccezioni avanzate, sul punto, dalla difesa del OMISSIS, fondate sulla minore gravità del nuovo reato, sulla punibilità anche del privato, che verosimilmente con la nuova disciplina “non avrebbe accusato per spirito di rivalsa” e le cui dichiarazioni (di correo) avrebbero avuto ben diversa disciplina processualistica.

Innanzitutto si osserva come i fatti accertati siano stati commessi in epoca precedente l’entrata in vigore della legge n. 190/2012, e che in materia di responsabilità amministrativa per danni all’erario non si riscontra normativamente un principio di retroattività della legge successiva più favorevole al reo, norma tipica del sistema penale.

D’altra parte, e per quel che più rileva, ai fini dell’illecito erariale appare sostanzialmente ininfluente, quanto meno ai fini dell’an della responsabilità, la qualificazione dell’illecito penale in termini di concussione per induzione (“vecchio” art. 317 c.p.), ovvero di "induzione indebita a dare o promettere utilità" (art. 319 quater c.p.) ovvero ancora (ipotesi meno grave eppure “sufficiente” a dar luogo a responsabilità amministrativa) di corruzione.

Così come ininfluente risulta, sul terreno ordinamentale e quanto meno ai fini dell’an della responsabilità amministrativa, il trattamento giuridico riservato al privato coinvolto nell’illecito, come appare pacifico in giurisprudenza sulla scorta delle numerose ipotesi di condanna per danni all’erario di funzionari corrotti.

Né d’altra parte possono assumere un benché minimo rilievo argomentativo ex adverso le affermazioni meramente apodittiche in ordine agli ipotetici effetti della nuova disciplina ex art. 319 quater in ordine alla probabilità di denunzia da parte del privato e alla utilizzabilità probatoria delle sue dichiarazioni (di correo), trattandosi di fatti di reato già avvenuti e di accertamenti processuali ormai confluiti in un giudicato penale.

[2.1] Quanto all’elemento costitutivo della responsabilità amministrativa del danno erariale, la Procura erariale ha contestato esclusivamente il c.d. danno all’immagine della pubblica amministrazione, ricostruito per come già puntualmente descritto.

In tema, occorre evidenziare che l’art. 17, comma 30 ter del decreto-legge 1º luglio 2009, n. 78 (convertito con legge 3 agosto 2009, n. 102 (modificato dal decreto legge n. 103 del 2009, convertito con legge n. 141 del 2009), testualmente prevede che : “Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97”.

Quest’ultima norma, dal canto suo, dispone che “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271”.

Secondo l’interpretazione ormai consolidata nella giurisprudenza costituzionale (C. Cost. sentenza n. 355/2010, ”circoscrive oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell'immagine dell'amministrazione imputabile a un dipendente di questa”) e contabile (ex aliis: sez. III appello, sent. nn. 716/2003; 658/2013 e 781/2013) del menzionato ordito normativo, l’art. 7 della legge n. 97 del 2001 individua nella previa sussistenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna per reati contro la PA. una vera e propria condizione dell’azione di responsabilità per danno all’immagine, in difetto della quale consegue la nullità degli atti giuridici compiuti dall’Organo requirente, tanto in fase preprocessuale (sostanziale in senso lato), quanto in fase di giudizio (processuale), vizio tuttavia non rilevabile dal giudice ex officio (Corte Conti, SS.RR., sent. 03/08/2011, n. 13).

Nella specie, peraltro, l’azione di responsabilità amministrativa ha preso le mosse successivamente al passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna e dunque la Procura erariale ha correttamente esercitato il proprio officio in materia di responsabilità per danno all’immagine della pubblica amministrazione, inteso come nocumento non patrimoniale al prestigio della persona giuridica pubblica.

[2.2] Sul terreno eminentemente sostanziale, peraltro, ormai da lungo tempo la giurisprudenza contabile ha progressivamente enucleato la categoria dogmatica del detrimento all’immagine della P.A., inteso quale forma di danno di natura “pseudo-esistenziale” i cui effetti si perpetuano nel tempo sub specie di una “carica di disdoro e di discredito difficilmente cancellabile nel circuito di relazioni che, attraverso la proposizione verso la collettività dei propri servizi ed uffici, integrano e fondano il concetto e la realtà stessa dell’immagine della pubblica Amministrazione" (Sez. Basilicata, 21/9/2005, n. 198).

La giurisprudenza delle sezioni riunite di questa Corte ha progressivamente chiarito (Sezioni Riunite della Corte dei conti n. 10/QM del 23 aprile 2003), coerentemente con il profilo ontologico del detrimento, che il danno all’immagine riveste natura di danno-evento e non di danno conseguenza, come tale risarcibile a prescindere dalla effettuazione di spese di ripristino dei beni immateriali lesi, potendo essere liquidato con valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c. anche sulla base di norme presuntive ed elementi indiziari (cfr. anche Sez. I giur. c.le appello, sentt. 20/9/2004, n. 334/A, 31/5/2005, n. 184/A e 17/11/2005, n. 378/A; Sez. giur. Basilicata, sent. 2/12/2004, n. 297).

Orientamento peraltro del tutto in linea con l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione in ordine all’interpretazione dell’articolo 2059 c.c. sul c.d. danno non patrimoniale, tematica in ordine alla quale la Suprema Corte ha esteso l’ambito di risarcibilità di detta tipologia di danno varcando la frontiera degli atti costituenti illecito penale, a condizione che si realizzi la lesione di un interesse giuridicamente protetto di rilievo costituzionale, nella specie individuabile nei principi costituzionali di buon andamento, imparzialità (art. 97 Cost.) e necessario adempimento delle funzioni pubbliche “con disciplina ed onore” (art. 54 Cost.).

Quanto all’analisi della fattispecie concreta e alla prova dell’an del detrimento all’immagine della P.A., l’analisi dei fatti di causa, per come emergenti dalla documentazione probatoria agli atti del giudicato penale, evidenzia ictu oculi che la condotta posta in essere dal OMISSIS ha indubbiamente leso l’immagine della Marina militare e del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in ragione della intrinseca gravità dei fatti concussivi, del grado rivestito dal soggetto (apicale dei sottufficiali) e soprattutto della loro sistematicità-reiterazione nel tempo, tale da evidenziare una grossolana deviazione dai doveri di servizio propri di un militare.

In proposito, pare del tutto evidente che il OMISSIS ha abusato dell’appartenenza alla Marina militare, mortificando continuativamente l’appartenenza all’Arma e la propria divisa a fini delittuosi e di arricchimento personale.

Parimenti, dalla documentazione versata in atti emerge di tutta evidenza il detrimento patito dall’immagine del Corpo, in ragione anche delle modalità commissive dell’illecito, delle “modalità relazionali” poste in essere nei confronti dell’utenza, e del c. d. strepitus fori (per come emergente dagli articoli di stampa alleati dall’Organo requirente).

Ritiene pertanto il Collegio che sia stata compiutamente comprovata in giudizio la sussistenza del danno all’immagine della pubblica amministrazione, trattandosi di comportamenti illeciti che hanno indotto, nei soggetti coinvolti nella vicenda e nella platea più vasta venuta a conoscenza dei fatti tramite i media, la convinzione che i pubblici funzionari – e, quindi, la pubblica amministrazione in nome della quale essi agiscono – siano avvezzi ad abusare della propria veste istituzionale per ottenere indebiti vantaggi; e ciò a prescindere dall’entità del corrispettivo, dalla sua integrale percezione e dalla sua finalizzazione ultima.

[2.3] Relativamente alla quantificazione del danno all’erario sub specie di detrimento all’immagine della P.A., il Collegio ritiene di dover primariamente puntualizzare, anche in relazione alla argomentazioni avanzate dalle parte in sede processuale, l’inapplicabilità alla fattispecie concreta sub iudice, ratione temporis, del disposto dell’art. 1, comma 62 della legge 6 novembre 2012 n. 190 (che ha novellato il comma 1 dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20), norma che ha statuito che l'entità del danno all'immagine della Pubblica Amministrazione derivante da giudicato penale di condanna per un reato commesso contro la stessa, “si presume pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente”.

In proposito, la giurisprudenza contabile ha univocamente chiarito che la disposizione de qua contempla un criterio legale presuntivo iuris tantum di determinazione del quantum di detrimento risarcibile, e riveste dunque natura sostanziale e non processuale, rimanendo conseguentemente soggetta agli ordinari criteri ermeneutici che regolano la successione di leggi nel tempo in ambito non penalistico (c.d. principio di irretroattività della legge ex art. 11 delle disp. prel. al codice civile; Sez. App. Sicilia n. 132/2013; Sez. Giur. Marche, nn. 16 e 21/2014; Sez. Lazio 395/2014).

Orbene, poiché le condotte contestate al OMISSIS risultano ampiamente precedenti l'entrata in vigore della legge n. 190 del 2012, la prova del quantum di danno risarcibile deve esser raggiunta necessariamente mediante l’utilizzo degli ordinari strumenti interpretativi propri del giudice, tra i quali l’impiego del potere di determinazione equitativa del danno ex art. 1226 e 2056 c.c..

In particolare, secondo la giurisprudenza della suprema Corte, il giudice può far ricorso al potere di determinazione equitativa del danno non soltanto quando sia assolutamente impossibile stimare con precisione l’entità dello stesso, ma anche qualora, in relazione alla peculiarità del caso concreto, la precisa determinazione del pregiudizio patrimoniale si riveli ardua (“rilevante difficoltà assoluta” per tutte, Cass., Sez. III, n. 19148 del 29 settembre 2005; cfr., Corte dei conti, Sez. III, n. 501 del 31 dicembre 2007); peraltro, nell'operare la valutazione equitativa il giudice non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata della corrispondenza tra ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo necessario e sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione processuale globalmente considerata.

Quanto all’esame e alla valutazione della situazione processuale, vengono poi in rilievo i criteri interpretativi enucleati dalle Sezioni Riunite di questa Corte (in particolare, sentenza n. 10/QM/2003), richiamati dalla giurisprudenza contabile successiva, nonché quelli individuati dalla Corte di cassazione, Sezioni Unite Penali, nella sentenza n. 15208/2010 e, in particolare:

a) la qualifica posseduta dal convenuto al momento della commissione dell’illecito (nel caso di specie il convenuto era un militare della Marina rivestente il grado apicale del ruolo dei sottufficiali, provvisto di margini di autonomia nella gestione del procedimento);

b) il notevole disvalore giuridico-sociale connesso alla gravità dell’illecito penale commesso dal OMISSIS, che ha posto in essere condotte sostanzialmente estorsive (qualificate inizialmente come concussione per induzione e successivamente come induzione indebita a dare o promettere utilità) a danno di privati e a proprio vantaggio patrimoniale.

c) l’intenzionalità dell’illecito, per giunta caratterizzato, sul terreno dell’elemento soggettivo del reato, dalla diacronica ponderazione e reiterazione del reato (dolo c.d. “di proposito”);

d) il mercimonio e anzi lo sviamento del munus publicum quale strumento estorsivo ai danni degli utenti del servizio, che hanno evidentemente percepito detta logica di formazione e manifestazione del pubblico potere;

e) la diffusione mediatica della vicenda, come comprovato dalla pubblicistica prodotta dal Pubblico Ministero (n. 6 articoli “dedicati” ai fatti accertati);

f) l’entità non elevata dell’ingiusto profitto ricavato dall’ex militare.

Alla luce dei parametri sopra indicati, ivi compresa la tenuità del profitto lucrato dal OMISSIS, la sua condotta processuale e il suo stato di servizio, il Collegio ritiene di dovere determinare il danno, in via equitativa, nella misura di euro 6.000,00.

Quanto poi alla richiesta di utilizzo del potere riduttivo ex artt. 83 del R.D. 18.11.1923, n.2440 e 52 del R.D. n. 1214/1934, il Collegio ritiene che non ricorrano i presupposti per la sua corretta applicazione, avuto riguardo, in particolare, alla natura dolosa dell’illecito penale accertato (cfr, ex multis e da ultimo, sez. appello Sicilia, sent. n. 53, 2014) e alla reiterazione plurima e pluriennale della condotta concussiva.

[3] Quanto alle spese del giudizio, le stesse seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per il Veneto, disattesa ogni contraria istanza, deduzione od eccezione, definitivamente pronunciando:

1. Nel merito, accoglie la domanda attorea e condanna il sig. OMISSIS al pagamento in favore del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti – Corpo delle capitanerie di porto - della somma di euro 6,000,00 maggiorati degli interessi legali a decorrere dal deposito della sentenza e fino all’effettivo soddisfo;

2. Le spese di giudizio, che seguono la soccombenza, si liquidano in complessivi € 439,72 (euro quattrocentotrentanove/72).

Manda alla segreteria della Sezione per gli adempimenti di competenza.
Così deciso in Venezia, nella Camera di consiglio, all’esito della pubblica udienza del 15 ottobre 2014.
Il Giudice Estensore Il Presidente
f.to(Dott. Natale Longo) f.to (Dott. Angelo Buscema)

Depositata in Segreteria il 21/10/2014

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Re: DANNO ----IMMAGINE P.A.

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La Corte di Cassazione terza sez. nella Sentenza n. 15449 ud. 08/04/2015 - deposito del 15/04/2015
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IMPUGNAZIONI – CASSAZIONE – NON PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO – PROCEDIMENTI PENDENTI ALLA DATA DI ENTRATA IN VIGORE DEL D.LGS. N. 28 DEL 2015 – RILEVABILITÀ NEL GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ – CONDIZIONI – FATTISPECIE.

PRECISA:

La Corte di cassazione, pronunciandosi in relazione all’istituto della esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall’art. 131- bis cod. pen., introdotto dal d.lgs. n. 28 del 2015, ha, in particolare, affermato che:

• il nuovo istituto ha natura sostanziale ed è, quindi, applicabile nei procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, a norma dell’art. 2, quarto comma, cod. pen.;

• nei giudizi già pendenti in sede di legittimità alla data della entrata in vigore dell’art. 131-bis cod. pen., la questione della sua applicabilità è rilevabile di ufficio a norma dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen.;

• la Corte di cassazione, a tal fine, deve valutare la sussistenza, in astratto, delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto, fondandosi sui dati emersi nel corso del giudizio di merito, in particolare tenendo conto di quanto emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, e, in caso di valutazione positiva, annullare con rinvio al giudice di merito.

(Nella specie, la Corte ha escluso l’esistenza dei presupposti per il riconoscimento della causa di non punibilità, rilevando dalla sentenza impugnata elementi indicativi della gravità dei fatti addebitati all’imputato, incompatibili con un giudizio di particolare tenuità degli stessi).

Presidente: S. F. Mannino

Relatore: L. Ramacci
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