congedo paternale

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Re: congedo paternale

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Ue, Da Parlamento sì a congedo maternità di 20 settimane
di Apcom
Roma, 20 ott. (Apcom) - Sì del Parlamento europeo all'innalzamento a 20 settimane (attualmente solo di 14 obbligatorie nel continente) retribuite al 100%, del periodo di congedo maternità. L'assemblea ha infatti adottato oggi la proposta con 390 voti a favore. La principale novità per l'Italia riguarda l'introduzione di un congedo obbligatorio di paternità, retribuito, della durata di due settimane. "Si tratta di un importante passo avanti verso una maggiore tutela della donna - ha commentato subito dopo il voto l'eurodeputata del Ppe-Pdl Licia Ronzulli - che aiuterà milioni di donne europee a conciliare meglio il ruolo di madre con quello di lavoratrice". Il testo adottato dal Parlamento sarà discusso nei prossimi mesi dal Consiglio Europeo che sarà chiamato a raggiungere un accordo che si preannuncia particolarmente difficile vista la forte opposizione di Inghilterra, Francia e Germania, Paesi che ritengono la proposta troppo onerosa.
20 ottobre 2010


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DIRITTI. Congedo di maternità, il Parlamento Ue ha votato: 20 settimane a stipendio pieno
21/10/2010
L'Europa va avanti nel suo obiettivo: quello di rendere più semplice per i cittadini il rapporto tra vita lavorativa e vita familiare. Perché quest'ultima, intesa come maternità, non deve essere avvertita come un fardello per i sistemi sociali nazionali, ma come un investimento per il futuro. Ieri, infatti, il Parlamento Europeo ha approvato, con 390 voti a favore e 192 contro, l'allungamento del congedo di maternità minimo, portandolo da 14 a 20 settimane, tutte remunerate al 100% dell'ultimo stipendio mensile o della retribuzione mensile media.

L'Aula ha approvato anche l'introduzione di un congedo di paternità remunerato di almeno due settimane. Per i Paesi che hanno già un congedo parentale, cioè per entrambi i genitori, è stato approvato un emendamento secondo il quale le ultime 4 settimane vengono considerate come congedo di maternità, remunerate almeno al 75%. Come sempre, gli Stati membri sono liberi di introdurre misure di congedo ancora più favorevoli a quelle previste dalla direttiva. Il testo approvato dal Parlamento va comunque oltre le proposte della Commissione Europea che prevedevano un congedo minimo di 18 settimane, a stipendio pieno per le prime 6.

Sono stati, infine, approvati emendamenti che proibiscono il licenziamento delle donne dall'inizio della gravidanza fino ad almeno il sesto mese dopo la fine del congedo di maternità. E quando il congedo finisce le donne devono tornare al loro impiego precedente o ad un posto equivalente, con la stessa retribuzione, categoria professionale e responsabilità di prima del congedo.
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Anche se è una notizia del 2008 è giusto che tutti sappiano.

SOCIETA'. Donne discriminate sul lavoro. Commissione Ue richiama l'Italia
27/11/2008
La Commissione Ue ha inviato all'Italia e ad altri 5 Stati membri, un parere motivato per non aver pienamente applicato la normativa comunitaria che vieta la discriminazione, in materia di lavoro e occupazione, fondata sul genere. I principali problemi, riscontrati dalla Commissione Ue, riguardano le definizioni di "discriminazione diretta" e "discriminazione indiretta", i diritti delle donne in congedo di maternità e il funzionamento degli organismi responsabili dell'uguaglianza di genere.

Italia, Austria, Lituania, Slovenia, Ungheria e Malta hanno due mesi di tempo per rispondere e se non lo fanno in maniera esaustiva, la Commissione adirà la Corte di Giustizia. "La direttiva comunitaria - ha dichiarato Vladimir Spidla, Commissario Ue alle pari opportunità - gioca un ruolo essenziale nella lotta contro la discriminazione fondata sul sesso, che costituisce un importante obiettivo dell'Unione europea. Sebbene questa sia stata approvata all'unanimità dagli Stati membri e adottata nel 2002, la direttiva non può produrre tutti i suoi effetti se non viene trasposta in pieno e in modo corretto nella legislazione nazionale".
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PROMEMORIA

DIRITTI. Il Parlamento Ue vota per un congedo di maternità più lungo, anche in caso di adozione
16/04/2009
Stamattina la Commissione Donne del Parlamento europeo ha votato le proposte di revisione della Direttiva comunitaria sul congedo di maternità. L'eurodeputata del Pse Donata Gottardi ha espresso soddisfazione per "l'ottimo risultato" della votazione di oggi, che fa ben sperare per l'esito finale in Plenaria a maggio". "E' stato prima di tutto fermato il tentativo del Consiglio di condizionare il voto - ha spiegato Gottardi - e quindi di rinviare il parere del Parlamento alla prossima legislatura, vanificando il lavoro fin qui svolto. Inoltre, con il voto di oggi sono stati raggiunti tutti i risultati promossi dalla relatrice socialista Edite Estrela, come l'estensione del periodo minimo di congedo per maternità a 20 settimane, e la tutela dal licenziamento fino a dodici mesi dopo il parto".

Donata Gottardi ribadisce che "sono state votate tutte le mie proposte aggiuntive, tra cui l'estensione del congedo in caso di adozione e di parti plurimi e la deroga al lavoro notturno per i genitori single o di bambini con gravi disabilità. Seguendo il percorso della nostra legislazione per la protezione della maternità, anche a livello europeo già la Direttiva adottata 1992 - destinata all'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento - ha esteso il suo campo di applicazione e ora si occupa anche dei padri, con l'importante conquista del congedo di paternità, della nozione di filiazione giuridica e prestando attenzione ben oltre il periodo inizialmente protetto".

"Anche la legislazione italiana andrà ora cambiata: è vero che siamo all'avanguardia su questi temi, ma dovremo intervenire sul congedo di paternità, poiché al momento è previsto soltanto il congedo parentale anche per il lavoratore (mentre il congedo di paternità è accordato solo nelle situazioni patologiche, come la morte della madre). Un altro importante tassello verso la condivisione dei ruoli familiari delle persone che lavorano" ha concluso l'eurodeputata.
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PROMEMORIA 1

DIRITTI. Europa, firmato nuovo accordo quadro su congedo parentale
18/06/2009
La durata del congedo parentale viene innalzata da tre a quattro mesi per ogni genitore. Si applica a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla forma del loro contratto. Offre la possibilità ai genitori che ritornano al lavoro dopo il congedo parentale di chiedere l'adattamento delle loro condizioni di lavoro e dà maggiore protezione contro il licenziamento e contro ogni trattamento sfavorevole. È quanto prevede il nuovo accordo quadro stipulato dalle parti sociali europee, frutto di sei mesi di negoziati, che rispecchia i cambiamenti della società e del mondo del lavoro dopo la firma del primo accordo quadro sul congedo parentale avvenuta nel 1995. I negoziati sono iniziati nel settembre 2008 e si sono conclusi nel marzo 2009. La Commissione europea - informa una nota - deve ora esaminare le disposizioni dell'accordo: entro l'estate proporrà al Consiglio l'attuazione dell'accordo tramite direttiva in applicazione delle disposizioni del trattato in merito al dialogo sociale.

"Questo accordo è la prova che il partenariato sociale europeo funziona e produce risultati concreti per i lavoratori e le imprese in Europa - ha sottolineato Vladimír Špidla, Commissario responsabile per l'occupazione, gli affari sociali e le pari opportunità - Questo accordo affronta concretamente uno degli obiettivi prioritari per la parità delle donne e degli uomini a riprova della volontà di trovare soluzioni per migliorare l'equilibrio tra vita familiare e vita professionale, tenendo nel contempo conto della diversità dei quadri normativi nazionali, delle pratiche e delle tradizioni" .
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PROMEMORIA 2

SOCIETA'. Ue: nuova direttiva garantisce più diritti e maternità nel lavoro autonomo
05/08/2010
Più garanzie con una migliore protezione sociale e prestazioni di maternità e pensioni anche nel lavoro autonomo. I lavoratori autonomi e i loro conviventi beneficeranno di una più protezione sociale comprendente per la prima volta il diritto al congedo di maternità, grazie alla nuova direttiva europea entrata in vigore ieri.

"Con l'entrata in vigore di questa nuova direttiva, l'Europa compie un passo importante verso una maggior protezione sociale e verso la parità dei diritti economici e sociali per uomini e donne che svolgono un lavoro autonomo e per i loro conviventi - ha dichiarato Viviane Reding, commissaria UE responsabile del portafoglio Giustizia, diritti fondamentali e cittadinanza e vicepresidente della Commissione europea - La nuova disposizione europea garantisce in pratica la completa parità tra uomini e donne nella vita professionale, promuovendo l'imprenditorialità femminile e offrendo alle donne che esercitano un'attività autonoma una migliore protezione in materia di sicurezza sociale. Faccio appello a tutti gli Stati membri affinché avviino prontamente l'attuazione della direttiva, in modo che i nostri cittadini possano apprezzarne i vantaggi nella loro vita quotidiana".

La direttiva 2010/41/UE , in particolare, migliora i diritti in materia di protezione sociale per milioni di donne sul mercato del lavoro, rafforzando l'imprenditoria femminile. Migliora la protezione delle lavoratrici autonome, coniugi e conviventi che partecipano alle attività dei lavoratori autonomi in particolare nel caso della maternità, permettendo di avere un'indennità e un congedo di almeno 14 settimane. Le nuove norme, sottolinea la Commissione europea, servono anche a incentivare l'imprenditorialità in generale e in particolare tra le donne, molto svantaggiate in questo settore, rappresentando appena il 30% degli imprenditori europei.

Gli Stati dovranno adesso introdurre la direttiva nelle legislazioni nazionali entro due anni, termine che potrà essere prolungato di altri due anni solo in casi di particolari difficoltà, per attuare le disposizioni applicabili ai coniugi.
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Corte di Giustizia UE: permesso di "allattamento" al padre qualunque sia lo status professionale della madre del bambino

La Corte di Giustizia UE, con la sentenza del 30 settembre 2010 - causa C-104/09, si esprime in merito alla conformità della normativa spagnola secondo cui le madri lavoratrici subordinate possono beneficiare di un permesso per l’allattamento mentre i padri lavoratori subordinati possono beneficiarne solamente se la madre è una lavoratrice subordinata e non nel caso in cui svolga un'attività autonoma o sia casalinga. La Corte, sottolineando che la normativa spagnola prevede una discriminazione di trattamento fondata sul sesso tra madri e padri aventi lo stesso status di lavoratore subordinato, riconosce che i padri lavoratori dipendenti hanno diritto al permesso "per allattamento" indipendentemente dallo status professionale della madre del bambino. Tale permesso, prosegue la sentenza, consente di assentarsi dal luogo di lavoro per un'ora, frazionabile in due periodi, o di ridurre di mezz'ora l'orario di lavoro giornaliero. In Italia i riposi c.d. per allattamento in favore del padre sono previsti dall'art. 40 del D.Lgs. n. 151/2001 e la madre casalinga è considerata alla stregua della madre lavoratrice alla luce dei chiarimenti espressi dalla circolare INPS n. 118/2009.
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Questa sentenze del 07/04/2011 può interessare a qualcuno?

Diritto della madre lavoratrice ad usufruire del congedo in potesi di parto prematuro – Corte Costituzionale, Sentenza n. 116/2011
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 16, lettera c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non consente, nell’ipotesi di parto prematuro con ricovero del neonato in una struttura sanitaria pubblica o privata, che la madre lavoratrice possa fruire, a sua richiesta e compatibilmente con le sue condizioni di salute attestate da documentazione medica, del congedo obbligatorio che le spetta, o di parte di esso, a far tempo dalla data d’ingresso del bambino nella casa familiare.
Corte Costituzionale, Sentenza n. 116 del 07/04/2011
Lavoro e occupazione – Lavoratrici madri – Ipotesi di parto prematuro con neonato necessitante di un periodo di ricovero ospedaliero – Diritto della madre lavoratrice ad usufruire del congedo obbligatorio o di parte di esso dalla data d’ingresso del bambino nella casa familiare – Mancata previsione – Ingiustificato deteriore trattamento rispetto a quanto previsto dall’art. 4 della legge n. 1204/1971, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 270 del 1999, nonché a quanto previsto dall’art. 14, comma 5, del d.P.R. n. 163/2002 per il personale delle Forze Armate.
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 16 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promosso dal Tribunale di Palermo nel procedimento vertente tra C. C. e l’INPS ed altra con ordinanza del 30 marzo 2010, iscritta al n. 215 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno 2010.
Visto l’atto di costituzione dell’INPS;
udito nell’udienza pubblica del 22 marzo 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
udito l’avvocato Antonietta Coretti per l’INPS.
Ritenuto in fatto
1. — Il Tribunale di Palermo, in funzioni di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 29, primo comma, 30, primo comma, 31 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 16 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui non prevede, nell’ipotesi di parto prematuro, qualora il neonato abbia necessità di un periodo di ricovero ospedaliero, la possibilità per la madre lavoratrice di usufruire del congedo obbligatorio o di parte di esso dalla data di ingresso del bambino nella casa familiare».
2. — Il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunziarsi nel giudizio di merito, iniziato dalla signora C. C. nei confronti dell’Istituto Nazionale della Previdenza sociale (INPS) e di Telecom Italia Mobile (TIM) Italia Spa ai sensi dell’art. 669-octies del codice di procedura civile ed espone che l’attrice, la cui figlia era stata ricoverata fin dalla nascita presso il Policlinico di Palermo in terapia intensiva, venendo dimessa soltanto l’8 agosto 2005, era stata posta in congedo obbligatorio dall’INPS, in base all’art. 16 d.lgs. n. 151 del 2001, a far tempo dalla data del parto medesimo.
La lavoratrice aveva inoltrato all’ente previdenziale la richiesta di usufruire del periodo obbligatorio di astensione con decorrenza dalla data presunta del parto, oppure dall’ingresso della neonata nella casa familiare, offrendo al datore di lavoro la propria prestazione lavorativa fino ad una di tali date, ma l’INPS aveva respinto detta richiesta.
Pertanto – aggiunge il rimettente – la parte privata aveva promosso un procedimento cautelare ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ., in esito al quale il Tribunale di Palermo, in accoglimento del ricorso, aveva dichiarato il diritto della donna ad astenersi dall’attività lavorativa a far data dall’8 agosto 2005 e per i cinque mesi successivi, fissando il termine perentorio di trenta giorni per l’inizio del giudizio di merito, instaurato con domanda diretta ad ottenere la declaratoria del diritto della signora C. C. ad astenersi dal lavoro per il periodo di tempo suddetto.
Ciò premesso, il giudicante – ritenuta rilevante la questione sollevata, in quanto dalla dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma censurata dipenderebbe l’accoglimento della domanda nel merito – richiama il dettato di tale norma che, disciplinando il congedo di maternità, vieta di adibire al lavoro le donne: a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto dall’art. 20 d.lgs. n 151 del 2001; b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto; c) durante i tre mesi dopo il parto; d) durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora esso avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto. Inoltre, richiama il successivo art. 17 che disciplina l’estensione del divieto, nonché l’art. 18 il quale sanziona con l’arresto fino a sei mesi l’inosservanza delle disposizioni de quibus.
In questo quadro, il Tribunale osserva che l’art. 16 d.lgs. n. 151 del 2001 trova un precedente nell’art. 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), come modificato dall’art. 11 della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città).
Il detto art. 4, poi abrogato con l’intera legge n. 1204 del 1971 dall’art. 86 d.lgs. n. 151 del 2001, stabiliva (tra l’altro) il divieto di adibire al lavoro la donna durante i tre mesi dopo il parto.
Questa Corte, con sentenza n. 270 del 1999, dichiarò l’illegittimità costituzionale della norma, «nella parte in cui non prevede(va) per l’ipotesi di parto prematuro una decorrenza dei termini del periodo dell’astensione obbligatoria idonea ad assicurare una adeguata tutela della madre e del bambino».
Il rimettente osserva che, anche in base al tenore del citato art. 16, la domanda della attrice, diretta ad usufruire dell’intero periodo di congedo (tre mesi più due mesi) dalla data d’ingresso della figlia nella casa familiare, ovvero dalla data presunta del parto, non potrebbe essere accolta, neppure in via parziale, restando l’obbligo del datore di lavoro, sanzionato penalmente, di non adibire la donna al lavoro dopo il parto, per il periodo già detto.
Il Tribunale rileva che il giudice del procedimento cautelare ha dato luogo ad una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata, in guisa da consentire, nell’ipotesi in esame, la decorrenza dell’intero periodo di congedo obbligatorio dal momento dell’ingresso in famiglia della neonata. Ritiene, però, di non poter condividere la detta interpretazione, in quanto essa trova un ostacolo non aggirabile per effetto del citato art. 18 d.lgs. n. 151 del 2001, il quale punisce l’inosservanza delle disposizioni contenute negli artt. 16 e 17 con l’arresto fino a sei mesi.
Pertanto, ad avviso del rimettente, la nuova disciplina della materia presenta gli stessi vizi di legittimità costituzionale riscontrati da questa Corte con riferimento all’art. 4 della legge n. 1204 del 1971, perché il circoscritto intervento del legislatore non sarebbe sufficiente.
La norma censurata, infatti, determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., tra il caso di parto a termine e quello di parto prematuro, consentendo soltanto nel primo caso un’adeguata tutela della maternità e la salvaguardia dei diritti, costituzionalmente garantiti, dei minori e del nucleo familiare (artt. 29, 30, 31, 37 Cost.).
Invero, come già sottolineato da questa Corte nella sentenza citata, finalità dell’istituto dell’astensione obbligatoria (oggi congedo) dal lavoro sarebbe sia la tutela della puerpera, sia la tutela del nascituro e della speciale relazione tra madre e figlio, che si instaura fin dai primi attimi di vita in comune ed è decisiva per il corretto sviluppo del bambino e per lo svolgimento del ruolo di madre.
La norma censurata, non prevedendo la possibilità di differire il congedo obbligatorio fino al momento in cui il bambino può fare ingresso in famiglia dopo il ricovero successivo alla nascita, non garantirebbe la suddetta esigenza di tutela, specialmente quando, come nel caso in esame, la dimissione del bambino coincide con il termine del congedo.
Inoltre, la detta norma non consentirebbe alla puerpera di tornare al lavoro se non con il decorso di cinque mesi dal parto, anche quando, pur non potendo svolgere il suo ruolo di madre e di assistenza del minore affidato alle cure dei sanitari, le sue condizioni di salute lo permetterebbero.
Sarebbe innegabile, dunque, che anche la norma in esame sia in contrasto con il principio di parità di trattamento e con i valori costituzionali di protezione della famiglia e del minore, con conseguente violazione dei predetti parametri costituzionali.
In definitiva, ad avviso del rimettente, la norma censurata non ha colmato il vuoto normativo già posto in evidenza con la citata sentenza della Corte costituzionale; e, a sostegno della necessità di un ulteriore intervento del giudice delle leggi, andrebbe richiamato l’art. 14, comma 5, decreto del Presidente della Repubblica 13 giugno 2002, n. 163 (Recepimento dello schema di concertazione per le Forze armate relativo al quadriennio normativo 2002-2005 ed al biennio economico 2002-2003), alla stregua del quale «In caso di parto prematuro, al personale militare femminile spetta comunque il periodo di licenza di maternità non goduto prima della data presunta del parto. Qualora il figlio nato prematuro abbia necessità di un periodo di degenza presso una struttura ospedaliera pubblica o privata, la madre ha facoltà di riprendere servizio richiedendo, previa presentazione di un certificato medico attestante la sua idoneità al servizio, la fruizione del restante periodo di licenza di maternità post-parto e del periodo ante-parto, qualora non fruito, a decorrere dalla data di effettivo rientro a casa del bambino».
3. — Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), depositando il 3 settembre 2010 una memoria, con la quale ha chiesto che la questione sollevata dal rimettente sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.
Dopo aver riassunto i fatti esposti nell’ordinanza di rimessione, l’INPS osserva che, ad avviso del rimettente, la disparità di trattamento sussisterebbe tra «la fattispecie di parto e termine e quella di parto prematuro», in quanto l’art. 16, comma 1, lettera d), d.lgs. n. 151 del 2001 (nonché le connesse disposizioni di cui agli artt. 17 e 18 dello stesso decreto), nel disporre che, in caso di parto prematuro, il congedo obbligatorio dal lavoro (cinque mesi) si colloca soltanto nel periodo immediatamente successivo al parto, consentirebbe che solo in caso di parto a termine si realizzi «un’adeguata tutela della maternità e una salvaguardia dei diritti, costituzionalmente garantiti, dei minori e del nucleo familiare (artt. 29, 30, 31, 37)».
Tale questione – prosegue l’Istituto – fu già affrontata da questa Corte con la sentenza n. 270 del 1999. Con tale pronuncia (cosiddetta additiva di principio), fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, primo comma, lettera c) della legge n. 1204 del 1971 (ora art. 16 del d.lgs. n. 151 del 2001), nella parte in cui non prevedeva, per l’ipotesi di parto prematuro, una decorrenza dei termini del periodo di astensione obbligatoria idonea ad assicurare un’adeguata tutela della madre e del bambino.
La citata sentenza indicò «delle possibili soluzioni da adottare per risolvere la questione oggi in esame», aggiungendo che la scelta spettava al legislatore.
Orbene, la norma qui censurata prevede (tra l’altro) il divieto di adibire al lavoro le donne «durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta rispetto a quella presunta. Tali giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto».
Pertanto, ad avviso dell’INPS, il legislatore, in caso di parto prematuro, avrebbe stabilito che il periodo di astensione obbligatoria sia comunque pari a cinque mesi complessivi, prescindendo dalla data del parto, e, qualora la nascita avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta, avrebbe previsto che i giorni non goduti (cioè quelli correnti tra la data presunta e quella effettiva) siano aggiunti al periodo di astensione obbligatoria dopo il parto. Tale soluzione sarebbe in armonia con altre disposizioni del d.lgs. n. 151 del 2001 e, in particolare, con l’art. 18 dello stesso decreto, che sanziona con l’arresto fino a sei mesi l’inosservanza delle disposizioni contenute negli artt. 16 e 17. In altri termini, si sarebbe ritenuto inderogabile ancorare la decorrenza del congedo obbligatorio alla data del parto.
In questo quadro l’Istituto eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale.
Infatti il legislatore del 2001, proprio a seguito della menzionata sentenza n. 270 del 1999, avrebbe adottato una delle possibili soluzioni idonee a porre rimedio all’impossibilità di far decorrere, nel caso di parto prematuro, l’intero congedo obbligatorio dopo il parto effettivo, equilibrando così la situazione tra il caso di parto a termine e quello di parto prematuro.
Al contrario di quanto sostenuto dal giudice a quo, la richiesta di pronuncia additiva non sarebbe costituzionalmente obbligata. Nella vicenda in esame, la possibilità di diverse soluzioni con le quali risolvere il problema della decorrenza dell’astensione obbligatoria in caso di parto prematuro sarebbe stata posta in evidenza dalla stessa Corte costituzionale; circostanza, quest’ultima, che confermerebbe come la questione sollevata rientri nell’ambito della discrezionalità del legislatore.
In ogni caso, la detta questione sarebbe non fondata.
La soluzione adottata dal legislatore sarebbe idonea a porre rimedio all’impossibilità di far decorrere, nel caso di parto prematuro, l’intero congedo obbligatorio dopo il parto effettivo.
In realtà, proprio l’invocato intervento additivo «non solo comporterebbe un inammissibile esercizio della discrezionalità politica riservato al legislatore, ma darebbe anche origine ad effettive disparità di trattamento».
Infatti, un’eventuale diversa disciplina della decorrenza del congedo obbligatorio per il caso di parto prematuro, con degenza ospedaliera del neonato, determinerebbe un’effettiva discriminazione rispetto al caso di parto a termine con neonato affetto da malattia necessitante di ricovero ospedaliero.
I principi costituzionali richiamati dal rimettente sarebbero ben salvaguardati sia dalla norma denunciata sia dagli altri istituti contemplati dal vigente ordinamento, come il congedo per malattia del figlio e il congedo facoltativo.
Sarebbe vero che la ratio dell’astensione obbligatoria è volta alla tutela del nascituro e della speciale relazione tra madre e figlio, che s’instaura fin dai primi atti della vita in comune, ma sarebbe vero del pari che tale istituto è diretto anche a favorire il recupero psico-fisico della partoriente. Consentire alla puerpera di rientrare al lavoro subito dopo il parto potrebbe dar luogo ad un abbassamento della tutela della sua salute.
Infine, il richiamo all’art. 14, comma 5, d.P.R. n. 163 del 2002 non sarebbe pertinente, in quanto tale normativa non potrebbe costituire un idoneo tertium comparationis, dato il suo carattere eccezionale, «siccome riferita ad una categoria di lavoratrici che presta prestazioni lavorative del tutto speciali (personale militare), non estensibile, pertanto, fuori del sistema considerato».
Il Presidente del Consiglio dei ministri non è intervenuto nel presente giudizio.
Considerato in diritto
1. — Il Tribunale di Palermo, in funzioni di giudice del lavoro, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita – in riferimento agli articoli 3, 29, primo comma, 30, primo comma, 31 e 37 della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’art. 16 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui non prevede, nell’ipotesi di parto prematuro, qualora il neonato abbia necessità di un periodo di ricovero ospedaliero, la possibilità per la madre lavoratrice di usufruire del congedo obbligatorio o di parte di esso dalla data di ingresso del bambino nella casa familiare».
2. — Il giudice a quo premette che una lavoratrice dipendente – avendo avuto un parto prematuro perché la figlia, la cui nascita era prevista per il primo luglio 2005, era venuta alla luce il 25 marzo 2005, con immediato ricovero in terapia intensiva presso il Policlinico di Palermo, da cui era stata dimessa soltanto l’8 agosto 2005 – aveva chiesto all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) di usufruire del periodo obbligatorio di astensione con decorrenza dalla data presunta del parto, oppure dall’ingresso della neonata nella casa familiare, offrendo al datore di lavoro la propria prestazione lavorativa fino ad una di tali date, ma l’INPS aveva respinto la richiesta. Pertanto la lavoratrice aveva promosso, nei confronti del detto Istituto e di Telecom Italia Mobile (TIM) Italia Spa, un procedimento cautelare ai sensi dell’art. 700 del codice di procedura civile, in esito al quale il Tribunale di Palermo, accogliendo il ricorso, aveva dichiarato il diritto della donna ad astenersi dall’attività lavorativa a far data dall’8 agosto 2005 e per i cinque mesi successivi, fissando il termine perentorio di trenta giorni per l’inizio del giudizio di merito, che era stato instaurato con domanda diretta ad ottenere la declaratoria del diritto dell’attrice all’astensione dal lavoro per il periodo di tempo suddetto.
Ciò premesso, il Tribunale osserva che la norma censurata trova un precedente nell’art. 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), come modificato dall’articolo 11 della legge 8 marzo 2000, n. 53 (Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città). Il detto art. 4, poi abrogato con l’intera legge n. 1204 del 1971 dall’art. 86 del d.lgs. n. 151 del 2001, stabiliva (tra l’altro) il divieto di adibire al lavoro la donna durante i tre mesi dopo il parto.
Il rimettente ricorda che la Corte costituzionale, con sentenza n. 270 del 1999, dichiarò l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 4, «nella parte in cui non prevede(va) per l’ipotesi di parto prematuro una decorrenza dei termini del periodo dell’astensione obbligatoria idonea ad assicurare una adeguata tutela della madre e del bambino». Osserva che, anche in base al tenore del citato art. 16, la domanda dell’attrice, diretta ad usufruire dell’intero periodo di congedo (tre mesi più due mesi) dalla data d’ingresso della figlia nella casa familiare, ovvero dalla data presunta del parto, non potrebbe essere accolta, restando l’obbligo del datore di lavoro, sanzionato penalmente (art. 18 d.lgs. n. 151 del 2001), di non adibire la donna al lavoro dopo il parto, per il periodo già detto.
Inoltre egli rileva di non poter condividere l’interpretazione compiuta dal giudice cautelare, avuto riguardo alla sanzione penale prevista dal citato art. 18 per l’inosservanza delle disposizioni contenute nell’art. 16 del d.lgs. n. 151 del 2001, e solleva questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 16, in riferimento ai parametri sopra indicati (come esposto in narrativa).
3. — In via preliminare, la difesa dell’INPS ha eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, sostenendo che il legislatore del 2001, a seguito della sentenza di questa Corte n. 270 del 1999, avrebbe adottato «una delle possibili soluzioni idonee a porre rimedio all’impossibilità di far decorrere, nel caso di parto prematuro, l’intero congedo obbligatorio dal lavoro dopo il parto effettivo, equilibrando così la situazione tra la fattispecie di parto a termine e quella di parto prematuro».
Pertanto, la richiesta pronuncia additiva non sarebbe costituzionalmente obbligata, ma rientrerebbe tra le scelte possibili rimesse alla discrezionalità del legislatore, come, del resto, proprio questa Corte avrebbe posto in evidenza con la statuizione sopra indicata.
L’eccezione non è fondata.
E’ vero che la sentenza n. 270 del 1999, dopo aver rilevato «l’incongruenza della disposizione in parola nell’ipotesi di parto prematuro», osservò che si proponevano diverse soluzioni «con specifico riguardo alla decorrenza del periodo di astensione, spostandone l’inizio o al momento dell’ingresso del neonato nella casa familiare, o alla data presunta del termine fisiologico di una gravidanza normale» (punto 5 del Considerato in diritto). La stessa sentenza mise in luce che la prima soluzione era analoga a quella relativa all’ipotesi di affidamento preadottivo del neonato (sentenza n. 332 del 1998), mentre la seconda era parsa meritevole di essere seguita dal disegno di legge n. 4624, recante «Disposizioni per sostenere la maternità e la paternità e per armonizzare i tempi di lavoro, di cura e della famiglia», presentato dal Governo alla Camera dei Deputati in data 3 marzo 1998. Essa aggiunse che «La scelta tra le diverse possibili soluzioni spetta al legislatore», pervenendo comunque alla declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 4, primo comma, lettera c) della legge n. 1204 del 1971, nella parte in cui non prevedeva per l’ipotesi di parto prematuro una decorrenza dei termini del periodo dell’astensione obbligatoria idonea ad assicurare una adeguata tutela della madre e del bambino.
Ciò posto, a parte quanto sarà detto di qui a poco, allorché si esaminerà il merito della questione, una riflessione ulteriore va compiuta in ordine al carattere, vincolato o discrezionale, dell’individuazione della data dalla quale far decorrere il congedo obbligatorio di maternità nell’ipotesi di parto prematuro.
Essa non può decorrere dalla data presunta del termine fisiologico di una gravidanza normale. Questo criterio è giustificato per calcolare i due mesi precedenti la data presunta del parto (art. 16, lettera a, d.lgs. n. 151 del 2001), perché è l’unico utilizzabile in relazione ad un evento non ancora avvenuto, il cui avveramento però è ragionevolmente certo e riscontrabile. Non altrettanto può dirsi nel caso di parto prematuro, perché in detta circostanza con il richiamo alla data presunta si opera un riferimento ipotetico ad un evento che, in realtà, è già avvenuto, onde il criterio si risolve in una mera fictio che non consente la verifica della sua idoneità ad assicurare una tutela piena ed adeguata della madre e del bambino per l’intero periodo di spettanza del congedo. Del resto, lo stesso legislatore, collegando rigidamente il decorso del congedo post partum alla data del parto, mostra di volere per la detta decorrenza un riferimento certo.
Pertanto, per individuare il dies a quo della decorrenza del periodo di astensione in caso di parto prematuro, resta la soluzione di ancorare – al termine del ricovero – la relativa data all’ingresso del neonato nella casa familiare, vale a dire ad un momento certo, sicuramente idoneo a stabilire tra madre e figlio quella comunione di vita che l’immediato ricovero del neonato nella struttura ospedaliera non aveva consentito. Tale soluzione, dunque, appare l’unica percorribile, con conseguente infondatezza dell’eccezione sollevata dall’ente previdenziale.
4. — Nel merito, la questione è fondata.
Va premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 270 del 1999, n. 332 del 1988, n. 1 del 1987), il congedo obbligatorio, oggi disposto dall’art. 16 d.lgs. n. 151 del 2001, senza dubbio ha il fine di tutelare la salute della donna nel periodo immediatamente susseguente al parto, per consentirle di recuperare le energie necessarie a riprendere il lavoro. La norma, tuttavia, considera e protegge anche il rapporto che in tale periodo si instaura tra madre e figlio, e ciò non soltanto per quanto attiene ai bisogni più propriamente biologici, ma anche in riferimento alle esigenze di carattere relazionale e affettivo collegate allo sviluppo della personalità del bambino.
Il citato art. 16, che apre il capo recante la disciplina del congedo di maternità, vieta di adibire al lavoro le donne: a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto all’art. 20 (che contempla la flessibilità del detto congedo); b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto; c) durante i tre mesi dopo il parto, salvo quanto previsto all’art. 20. La lettera d), infine, dispone che il divieto opera anche durante gli ulteriori giorni non goduti prima del parto, qualora esso avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni sono aggiunti al periodo di congedo di maternità dopo il parto.
Come si vede, il principio secondo cui il congedo obbligatorio post partum decorre comunque dalla data di questo è rimasto immutato, anche in relazione ai casi, come la fattispecie in esame, nei quali il parto non è soltanto precoce rispetto alla data prevista, ma avviene con notevole anticipo (cosiddetto parto prematuro), tanto da richiedere un immediato ricovero del neonato presso una struttura ospedaliera pubblica o privata, dove deve restare per periodi anche molto lunghi.
In siffatte ipotesi – come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare (sentenza n. 270 del 1999) – la madre, una volta dimessa e pur in congedo obbligatorio, non può svolgere alcuna attività per assistere il figlio ricoverato. Nel frattempo, però, il periodo di astensione obbligatoria decorre, ed ella è obbligata a riprendere l’attività lavorativa quando il figlio deve essere assistito a casa. Né per porre rimedio a tale situazione può considerarsi sufficiente aggiungere al periodo di congedo di maternità dopo il parto gli ulteriori giorni non goduti prima di esso, trattandosi comunque di un periodo breve (al massimo due mesi), che non garantisce la realizzazione di entrambe le finalità (sopra richiamate) dell’istituto dell’astensione obbligatoria dal lavoro.
Basta considerare che, nel caso di specie, rispetto alla data prevista per il 1° luglio 2005, la bambina venne alla luce il 25 marzo 2005 e rimase ricoverata in ospedale fino all’8 agosto 2005, vale a dire quasi per l’intera durata dell’astensione obbligatoria della madre ante e post partum.
In simili casi, com’è evidente, il fine di proteggere il rapporto, che dovrebbe instaurarsi tra madre e figlio nel periodo immediatamente successivo alla nascita, rimane di fatto eluso. Tale situazione è inevitabile quando la donna, per ragioni di salute (alla cui tutela il congedo obbligatorio post partum è anche finalizzato), non possa riprendere l’attività lavorativa e, quindi, debba avvalersi subito del detto congedo. Non altrettanto può dirsi quando sia la stessa donna, previa presentazione di documentazione medica attestante la sua idoneità alle mansioni cui è preposta, a chiedere di riprendere l’attività per poter poi usufruire del restante periodo di congedo a decorrere dalla data d’ingresso del bambino nella casa familiare.
In detta situazione l’ostacolo all’accoglimento di tale richiesta, costituito dal rigido collegamento della decorrenza del congedo dalla data del parto, si pone in contrasto sia con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento – privo di ragionevole giustificazione – tra il parto a termine e il parto prematuro, sia con i precetti costituzionali posti a tutela della famiglia (artt. 29, primo comma, 30, 31 e 37, primo comma, Cost.).
La tesi dell’ente previdenziale, secondo cui i principi dettati sarebbero ben salvaguardati da altri istituti contemplati nel vigente ordinamento, come il congedo per malattia del figlio e il congedo facoltativo, non può essere condivisa. Si tratta, infatti, d’istituti diversi, diretti a garantire una tutela diversa e ulteriore, che però non possono essere invocati per giustificare la carenza di protezione nella situazione ora evidenziata.
Quanto alla decorrenza del congedo obbligatorio dopo il parto, in caso di parto prematuro con ricovero del neonato presso una struttura ospedaliera pubblica o privata, essa va individuata nella data d’ingresso del bambino nella casa familiare al termine della degenza ospedaliera. Si richiamano, al riguardo, le considerazioni svolte nel punto 3 che precede.
5. — Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, lettera c), d.lgs. n. 151 del 2001, nella parte in cui non consente, in caso di parto prematuro con ricovero del neonato in una struttura sanitaria pubblica o privata, che la madre lavoratrice possa fruire, a sua richiesta e compatibilmente con le sue condizioni di salute attestate da documentazione medica, del congedo obbligatorio che le spetta, o di parte di esso, a far tempo dalla data d’ingresso del bambino nella casa familiare.
Infine, è il caso di chiarire, con riguardo all’art. 18 d.lgs. n. 151 del 2001, che punisce con l’arresto fino a sei mesi l’inosservanza delle disposizioni contenute negli artt. 16 e 17 del medesimo decreto, che la suddetta pronuncia non estende l’area della punibilità della fattispecie penale. Essa, infatti, non modifica i destinatari della norma né la sanzione, limitandosi ad introdurre per la donna lavoratrice la facoltà di ottenere una diversa decorrenza del congedo obbligatorio, che rimane pur sempre nell’ambito applicativo della norma censurata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 16, lettera c), del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), nella parte in cui non consente, nell’ipotesi di parto prematuro con ricovero del neonato in una struttura sanitaria pubblica o privata, che la madre lavoratrice possa fruire, a sua richiesta e compatibilmente con le sue condizioni di salute attestate da documentazione medica, del congedo obbligatorio che le spetta, o di parte di esso, a far tempo dalla data d’ingresso del bambino nella casa familiare.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile 2011.
F.to:
Ugo DE SIERVO, Presidente
Alessandro CRISCUOLO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2011.
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Re: congedo paternale

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Auguri al collega della Penitenziaria


N. 00680/2011 REG.PROV.COLL.
N. 00351/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
ex art. 60 cod. proc. amm.; sul ricorso numero di registro generale 351 del 2011, proposto da OMISSIS, rappresentato e difeso dagli OMISSIS , con domicilio eletto presso lo studio del primo sito in Palermo, via omissis;
contro
Ministero della Giustizia, Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale per la Sicilia Ufficio Personale e della Formazione, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, presso i cui uffici domicilia per legge in Palermo, via A. De Gasperi n. 81; Direzione Casa Circondariale omissis;
per l'annullamento
del decreto n. omissis emesso dal Provveditorato Regionale per la Sicilia Ufficio del Personale e della Formazione notificato in data 24 gennaio 2011;
del provvedimento del 7 ottobre 2010 emesso dal Direttore della Casa Circondariale omissis;
della nota prot. n. omissis del 26 gennaio 2011 della Direzione Casa Circondariale omissis di revoca di concessione dei riposi giornalieri concessi con provvedimento del 28 ottobre 2010;
di ogni altro atto presupposto, consequenziale e connesso.
Nonché per l’accertamento del proprio diritto a vedersi concedere i periodi di riposo giornalieri richiesti con relativo trattamento economico sino al compimento di un anno di vita dei propri figli.

Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale per la Sicilia Ufficio Personale e della Formazione;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2011 il dott. Pier Luigi Tomaiuoli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.;

Con ricorso ritualmente notificato all’Amministrazione resistente e depositato il 16.2.2011 omissis, premesso di avere presentato, in data 29.9.2010 ed in prossimità del parto gemellare della moglie, istanza di concessione in suo favore dei periodi di riposo di cui agli artt. 40, comma 1, lett. c) e 41 del D.Lg.vo 151/2001; che la Direzione, con provvedimento del 7.10.2010, aveva rigettato tale istanza sul presupposto che i riposi giornalieri non spettassero nel caso in cui la madre non svolga alcuna attività lavorativa; che in data 28.10.2010 aveva reiterato l’istanza per due ore ai sensi dell’art. 40, 1 comma, lett. c, riservandosi il ricorso gerarchico per il riconoscimento delle altre due ore di cui all’art. 41; che la Direzione aveva concesso la fruizione dei permessi giornalieri limitatamente a due ore; che per ottenere la fruizione anche delle altre due ore di cui all’art. 41 il OMISSIS aveva quindi proposto ricorso gerarchico al Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Regione Sicilia; che il Provveditore aveva rigettato l’istanza chiedendo alla Direzione di uniformarsi al proprio avviso, secondo cui al ricorrente non spetterebbero neanche le ore concesse ex art. 40, comma 1, lett. c) con il provvedimento del 28.10.2010; che la Direzione della Casa Circondariale omissis aveva infine provveduto a revocare il provvedimento di concessione dei permessi giornalieri concessi ex art. 40, comma 1, lett. c); tutto quanto sopra premesso, ha impugnato i provvedimenti in epigrafe indicati lamentandone l’illegittimità per violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 del D.Lg.vo 151/2001 - eccesso di potere per erroneità nei presupposti di fatto e di diritto - violazione dell’art. 31 Cost..
All’adunanza camerale dell’8.3.2011 si è costituita l’Amministrazione resistente, senza depositare memoria scritta ed instando per il rigetto del ricorso avversario.
All’esito della medesima adunanza il ricorso, su concorde richiesta dei procuratori delle parti, è stato trattenuto in decisione.
Ritiene, preliminarmente, il Collegio che il giudizio possa essere definito con sentenza in forma semplificata emessa ai sensi dell’art. 60 del Codice del processo amministrativo ed adottata in esito alla camera di consiglio per la trattazione dell’istanza cautelare, stante l’integrità del contraddittorio e l’avvenuta, esaustiva, trattazione delle tematiche oggetto di giudizio; possibilità espressamente indicata alle parti, dal Presidente del Collegio, in occasione dell’adunanza camerale fissata per la trattazione della predetta istanza cautelare.
Il ricorrente ha impugnato i provvedimenti in epigrafe indicati, con i quali il Provveditore regionale per la Sicilia e la Direzione della Casa Circondariale Omissis hanno rispettivamente rigettato il ricorso gerarchico del ricorrente volto all’ottenimento della fruizione di due ore giornaliere di riposo ex art. 41 del D. Lg.vo 151/2001 e revocato la concessione di due ore di riposo giornaliere “per allattamento” ex art. 40, comma 1, lett. c) del D. Lg.vo 151/2001 (uniformandosi all’avviso espresso dal predetto Provveditore in seno al provvedimento impugnato).
Entrambi i provvedimenti si fondano sull’assunto che i permessi giornalieri in questione non spetterebbero al padre nell’ipotesi in cui la madre svolga l’attività di casalinga.
Sull’interpretazione dell’art. 40, comma 1, lett. c) del D. Lg.vo 151/2001, ai sensi del quale i periodi di riposo giornalieri di cui all’art. 39 spettano al padre lavoratore nell’ipotesi in cui la madre non sia lavoratrice dipendente, in effetti, si registrano orientamenti differenti.
Pronunziandosi sull’identica fattispecie prima prevista dall’art. 6 ter l. 903/77 (introdotto dalla legge 59/00), il Consiglio di Stato, Sez. VI, 09.09.2008 n. 4293 ha osservato che, “premesso che il padre, che non sia affidatario esclusivo, può beneficiare dei congedi solo se la madre sia lavoratrice, e non intenda avvalersi dei congedi spettatigli o non sia lavoratrice dipendente, correttamente il TAR ha ritenuto che l'espressione contenuta nell'ultima fattispecie possa dirsi comprensiva della "lavoratrice" casalinga. Posto, infatti, che la nozione di lavoratore assume diversi significati nell'ordinamento, ed in particolare nelle materie privatistiche ed in quelle pubblicistiche, è a quest'ultimo che occorre fare riferimento, trattandosi di una norma rivolta a dare sostegno alla famiglia ed alla maternità, in attuazione delle finalità generali, di tipo promozionale, scolpite dall'art. 31 della Costituzione. In tale prospettiva, essendo noto che numerosi settori dell'ordinamento considerano la figura della casalinga come lavoratrice (sul punto un'interessante ricostruzione è fornita da Cass. 20324/05, al fine di risolvere il problema della risarcibilità del danno da perdita della relativa capacità di lavoro), non può che valorizzarsi la ratio della norma, volta a beneficiare il padre di permessi per la cura del figlio allorquando la madre non ne abbia diritto in quanto lavoratrice non dipendente e pur tuttavia impegnata in attività che la distolgano dalla cura del neonato” (nello stesso senso cfr. T.A.R. Toscana, Firenze, 25.11.2002, n. 2737, la Circolare dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali B/2009 del 12.05.2009, nonché la circolare INPS 25/11/2009 n. 118).
In senso diametralmente opposto si è espresso il Consiglio di Stato in sede consultiva: “In merito all'interpretazione dell'art. 40 D.Lg.vo. n. 151 del 2001, nella parte in cui (comma 1, lett. c) riconosce al padre lavoratore il diritto di fruire, nel primo anno di vita del figlio, del riposo giornaliero di due ore "nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente", deve smentirsi l'interpretazione fornita dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. VI n. 4293 del 2008), secondo cui con l'espressione "non. lavoratrice dipendente" il legislatore ha inteso fare riferimento a tutte le donne comunque svolgenti una attività lavorativa e, quindi, anche alle madri casalinghe, in ragione della ormai riconosciuta equiparazione della attività domestica ad una vera e propria attività lavorativa; ciò perché la madre "casalinga" non può farsi rientrare nella menzionata ipotesi che ha riguardo ai casi in cui la donna, esplicando una attività lavorativa non dipendente (e non potendo, di conseguenza, avvalersi del periodo di riposo giornaliero, riservato ai soli lavoratori subordinati), sia ugualmente ostacolata nel suo compito di assistenza al figlio” (C.d.S, Sez. I, 22.10.2009, n. 2732).
Ritiene il Collegio di dovere aderire al primo orientamento, perché più rispettoso del principio della paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed all’educazione della prole, principio che affonda le sue radici nei precetti costituzionali contenuti negli artt. 3, 29, 30 e 31.
Né può condividersi l’assunto secondo cui “la considerazione dell’attività domestica, come vera e propria attività lavorativa prestata a favore del nucleo familiare, non esclude, ma al contrario, comprende, come è esperienza consolidata, anche le cure parentali”(così il citato parere del C.d.S., Sez. I, 22.10.2009, n. 2732), poiché esso oblitera l’innegabile circostanza, che costituisce il fondamento dell’istituto dei permessi giornalieri, della estrema difficoltà di cura della prole da parte anche della madre casalinga, specie laddove si ponga mente alle complesse esigenze di accudimento dei figli nel primo anno di vita (nel corso del quale spettano i permessi de quibus).
Siffatta interpretazione è già di per sé motivo sufficiente di accoglimento anche della domanda di annullamento del provvedimento di revoca delle ulteriori ore di permesso di cui all’art. 41 del D. Lg.vo 151/2001 che il legislatore prevede in ipotesi di parto plurimo.
Osserva il Collegio, peraltro, che tali permessi aggiuntivi spetterebbero al ricorrente in ogni caso, anche laddove si volesse accedere all’interpretazione restrittiva che nega la fruibilità dei permessi al padre in ipotesi di madre che svolga attività domestica, poiché, per come sottolineato dallo stesso C.d.S. in sede consultiva nel parere sopra ricordato, la predetta interpretazione non si estende all’ipotesi “del parto plurimo disciplinata dall’art. 41, in cui le ore aggiuntive a quelle ordinarie possono essere utilizzate da entrambi”.
Alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, i provvedimenti con esso impugnati devono essere annullati.
Le spese di lite seguono la soccombenza dell’Amministrazione resistente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione Prima,
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, annulla i provvedimenti con esso impugnati.
Condanna l’Amministrazione resistente a rifondere al ricorrente le spese di lite che liquida in € 2.000,00 oltre iva e cpa come per legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2011 con l'intervento dei magistrati:
Filoreto D'Agostino, Presidente
Nicola Maisano, Consigliere
Pier Luigi Tomaiuoli, Referendario, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 07/04/2011
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Re: congedo paternale

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Metto anche qui' questa esemplare sentenza del Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso di questa mamma/poliziotta.


N. 02732/2011REG.PROV.COLL.
N. 02735/2006 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2735 del 2006, proposto dalla signora OMISSIS, rappresentata e difesa dall'avv. ………., con domicilio eletto presso l’avv. ……. in Roma, corso del Rinascimento, ……;
contro
Il Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria per legge presso la sede di Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma della sentenza del T.A.R. PUGLIA – BARI, sezione prima, n. 395/2005;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2011 il Cons. Gabriella De Michele e uditi per le parti l’avv. ……., per delega dell’avv. ….., e l’avvocato dello Stato …….;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO
1. Con la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Bari, sez. I, n. 395/05 dell’8 febbraio 2005, veniva respinto – per genericità ed omessa allegazione di elementi probatori – il ricorso n. 242 del 2001, proposto dalla signora OMISSIS, agente scelto della Polizia di Stato ed attuale appellante, per ottenere il risarcimento del danno subito, a seguito della omessa concessione dei periodi di riposo giornaliero per maternità in misura doppia dopo la nascita di due figlie gemelle, come richiesto dall’interessata il 6 aprile 1999.
Il diniego opposto dall’Amministrazione, il 2 ottobre 1999, alla predetta richiesta risultava oggetto di un precedente ricorso (n. 2406 del 1999), accolto con la sentenza dello stesso Tribunale Amministrativo n. 2789 del 9 luglio 2003, non appellata e passata pertanto in giudicato.
Con successiva domanda, l‘interessata, considerato il tempo trascorso dall’originaria richiesta, chiedeva quindi la corresponsione di un indennizzo, a cui l’Amministrazione contrapponeva invece – con atto n. …….. del 12.5.2005, successivo al deposito della sentenza attualmente in esame – il riconosciuto diritto alla fruizione del periodo di riposo giornaliero a suo tempo non concesso, dalla data della domanda (6.4.1999) a quella di ottemperanza alla decisione favorevole all’istante, assunta dal TAR in via cautelare (ordinanza n. 720/99 in data 1.12.1999, a seguito della quale i riposi giornalieri di cui trattasi erano stati attribuiti, come richiesto, in misura doppia).
Avverso la predetta sentenza n. 395/2005, veniva proposto l’atto di appello in esame (n. 2735/06, notificato il 16.3.2006), al fine di ottenere l’unica tutela possibile, di tipo risarcitorio, in corrispondenza di un diritto ormai irreversibilmente leso: quello di assicurare al bambino di età inferiore ad un anno un “completo rapporto (fisico, psichico, affettivo e di assistenza diretta) con il genitore (madre o padre)” impegnato in attività lavorativa.
La lesione di tale diritto – risultando “per tabulas” dall’atto già annullato in sede giurisdizionale – non richiederebbe la prova specifica, sicché l’ammontare del risarcimento potrebbe essere determinato dal giudice in via equitativa.
L’Amministrazione appellata, costituitasi in giudizio, resisteva all’accoglimento del gravame, sottolineando come il raddoppio dei periodi di riposo in caso di parto plurimo fosse stato riconosciuto solo con la legge 8 marzo 2000, n. 53.
2. Così ricostruite le vicende che hanno condotto al secondo grado del giudizio, il Collegio ritiene che l’appello sia fondato.
Nella situazione in esame, infatti, risulta stabilito con forza di giudicato che – anche indipendentemente dal riconoscimento formale, operato con la citata legge n. 53/2000 – la ratio della normativa previgente imponesse, in caso di parto gemellare, il raddoppio dei periodi di permesso per il genitore che ne facesse richiesta al proprio datore di lavoro (anche di natura pubblica), in considerazione dei maggiori oneri di cura e assistenza dei minori interessati.
La mancata concessione (per un periodo più o meno lungo) del beneficio in questione, accordato a tutela della genitorialità, ha comportato “in re ipsa” un danno, corrispondente all’omesso soddisfacimento delle esigenze, che la legge intendeva soddisfare: non solo la protezione della salute della donna e la maggiore attenzione per le necessità fisiologiche dei neonati nel primo anno di vita, ma anche l’appagamento dei bisogni affettivi e relazionali di ciascun bambino, per realizzare il pieno sviluppo delle loro personalità (cfr. anche, in tal senso, Corte Cost., 1° aprile 2003, n. 104).
Tenuto conto, pertanto, della natura di diritto soggettivo della situazione soggettiva risultata lesa e del carattere immateriale del beneficio che a suo tempo non è stato esercitato, deve ritenersi che l’appellante – anche in assenza di specifiche allegazioni su un possibile danno materiale (come la necessità di ricorrere a personale a pagamento per l’assistenza dei bambini, in corrispondenza delle ore di permesso negate) – possa comunque richiedere la valutazione equitativa, di cui all’art. 1226 cod. civ., per la mancata corrispondenza ai bisogni relazionali sopra specificati, quale danno certamente non suscettibile di prova nello specifico ammontare, ma sussistente per le stesse ragioni giustificatrici delle norme a tutela della genitorialità.
Ugualmente sottratta ad onere della prova deve ritenersi la colpa dell’Amministrazione, peraltro insita nella stessa riconosciuta violazione delle disposizioni legislative da applicare, anche perché nel caso di specie è stato leso un diritto soggettivo riconducibile al rapporto di lavoro, con conseguenti netti profili di responsabilità contrattuale.
Tenuto conto, pertanto, della pacifica sussistenza dei fatti segnalati (mancata fruizione del corretto numero di ore di permesso, come diretta conseguenza del diniego poi annullato), ma considerata anche la pronta ottemperanza dell’Amministrazione al giudizio cautelare, nonché la volontà della stessa di ottemperare al giudicato (sia pure in forma non pienamente satisfattiva, per concessa fruizione dei permessi di cui trattasi al di fuori delle esigenze al cui soddisfacimento i medesimi risultavano preordinati, per bambini nel primo anno di vita) il Collegio ritiene che – valutata positivamente la determinazione dell’amministrazione di tornare nell’alveo della legalità - l’entità del risarcimento possa essere equitativamente fissata nella misura complessiva di €. 5.000,00 (euro cinquemila), maggiorati di interessi e rivalutazione monetaria, nei limiti legislativamente previsti, a decorrere dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino a quella di effettivo soddisfo (cfr. al riguardo, per le modalità di calcolo, Cons. St. sez. VI, 6 maggio 2008, n. 1995, e 29 luglio 2008, n. 3785).
3. L’appello è pertanto accolto, con gli effetti precisati in dispositivo.
Le spese giudiziali dei due gradi del giudizio – a carico dell’Amministrazione soccombente – vengono liquidate nella misura di €. 2000,00 (euro duemila/00).
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello n. 2735 del 2006, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado n. 242 del 2001 e condanna l’Amministrazione a corrispondere all’appellante la somma di €. 5.000,00, a titolo di complessivo risarcimento del danno per i fatti oggetto di causa, oltre agli accessori a decorrere dalla data di pubblicazione della presente sentenza.
Condanna altresì la medesima Amministrazione al pagamento delle spese giudiziali, nella misura di complessivi €. 2.000,00 (euro duemila/00), per i due gradi del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2011 con l'intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti, Presidente
Maurizio Meschino, Consigliere
Roberto Garofoli, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Gabriella De Michele, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 09/05/2011
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Re: congedo paternale

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l’odierna appellante, premesso di aver lavorato a tempo determinato in qualità di ostetrica

1) - astensione anticipata dal lavoro ai sensi delle legge n. 1204/1971, chiedeva la condanna dell’Amministrazione convenuta al pagamento dell’indennità giornaliera di maternità, di cui agli articoli 15 e 17 della legge n. 1204/1971.

2) - IL C.d.S afferma che: la giurisdizione è esclusiva del giudice amministrativo e rimette la causa, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., al giudice di primo grado, che deciderà anche sulle spese del presente grado di giudizio.
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07/07/2014 201403444 Sentenza 3


N. 03444/2014REG.PROV.COLL.
N. 01004/2009 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente

SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1004 del 2009, proposto da:
G. T.,
rappresentata e difesa dall’avv.to Vincenzo Parato ed ex lege domiciliata presso la Segreteria della Terza Sezione del Consiglio di Stato, in Roma, piazza Capo di Ferro, 13,

contro
- AZIENDA SANITARIA LOCALE di Lecce (subentrata ex lege alla soppressa AZIENDA OSPEDALIERA “VITO FAZZI”),

in persona del Direttore Generale p.t.;
- ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE – INPS,
in persona del legale rappresentante p.t.,

non costituitisi in giudizio,
per la riforma
della sentenza del T.A.R. PUGLIA - SEZ. STACCATA di LECCE - SEZIONE II n. 00308/2008, resa tra le parti, concernente diritto a percepire l'indennita' giornaliera per astensione obbligatoria.

Visto il ricorso, con i relativi allegati;
Visto che non si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate;
Vista la memoria prodotta dall’appellante a sostegno delle sue domande;
Visti gli atti tutti della causa;
Data per letta, alla pubblica udienza del 12 giugno 2014, la relazione del Consigliere Salvatore Cacace, nessuno essendo ivi comparso per l’appellante;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Con ricorso notificato il 20 febbraio 1998 e depositato presso il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, Sezione staccata di Lecce in data 18 marzo 1998, l’odierna appellante, premesso di aver lavorato a tempo determinato alle dipendenze dell’ AZIENDA OSPEDALIERA “VITO FAZZI” di Lecce in qualità di ostetrica per il periodo dal 24 febbraio 1997 al 23 agosto 1997 e di essersi vista accolta dal competente Ispettorato del Lavoro l’istanza di astensione anticipata dal lavoro ai sensi delle legge n. 1204/1971 prima per il periodo dal 18 settembre 1997 al 16 novembre 1997 e poi per il periodo dal 17 novembre 1997 al 15 gennaio 1998, chiedeva la condanna dell’Amministrazione convenuta al pagamento dell’indennità giornaliera di maternità, di cui agli articoli 15 e 17 della legge n. 1204/1971.

Il ricorso veniva con la decisione qui impugnata respinto dal Tribunale Amministrativo Regionale, il quale, in punto di giurisdizione, affermava la natura previdenziale del rapporto e perciò l’appartenenza della lite alla giurisdizione del giudice ordinario.

Contro la sentenza di primo grado l’appellante deduce, anche con successiva memoria, l’erroneità della pronuncia declinatoria della giurisdizione, riproponendo, nel mérito, la tesi della spettanza della pretesa indennità.

Non si sono costituite in giudizio le Amministrazioni appellate.

La causa è stata chiamata e trattenuta in decisione alla udienza pubblica del 12 giugno 2014.

DIRITTO

L’appello è fondato in punto di giurisdizione.

Per effetto dell'art. 8 del d.l. 29 marzo 1991, n. 103, convertito in legge 1 giugno 1991, n. 166, il trattamento economico di maternità, previsto dagli artt. 15 e 17 della legge n. 1204 del 1971, spetta alle lavoratrici assunte a tempo determinato dalle amministrazioni dello Stato anche ad ordinamento autonomo, dalle regioni, dalle province, dai comuni e dagli altri enti pubblici, salvo che i relativi ordinamenti prevedano condizioni di migliore favore. Il trattamento viene corrisposto direttamente dalle amministrazioni o enti di appartenenza.

Trattasi di disposizione che interpreta autenticamente l'art. 13 della legge n. 1204 cit., che indicava nei soggetti pubblici suddetti i titolari passivi del debito previdenziale in questione.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, già anteriormente ad essa, avevano affermato l'appartenenza delle controversie relative al giudice amministrativo, giacché la pretesa dell'assicurata trovava titolo immediato e diretto nel rapporto di pubblico impiego anziché in un distinto rapporto previdenziale ( Cass. 3 aprile 1989, n. 1597 ).

Tale affermazione è stata poi ripetuta da Cass., 11 novembre 1992, n. 12149 e da Consiglio di Stato, sez. V, 27/02/1998, numero 205, che ha sottolineato che il trattamento economico di maternità per le dipendenti delle Amministrazioni dello Stato e degli altri Enti pubblici non grava sugli Enti che gestiscono l'assicurazione di malattia ( giusta quanto previsto dal successivo art. 15, comma 3, della stessa legge n. 1204/1971 ), bensì sullo stesso datore di lavoro, secondo le previsioni dei varii ordinamenti degli Enti medesimi, come, peraltro, previsto dal medesimo art. 13, che espressamente esclude dalla sua applicazione le dipendenti pubbliche, nonché dall'art. 21 della legge 1204/1971, il quale, nell'elencare i vari settori lavorativi per cui è previsto l'obbligo contributivo per la copertura degli oneri derivanti dalla legge stessa, non contempla il settore pubblico ( cfr. anche Cass., SS.UU., 8 agosto 1995, n. 8674 ).

Ne consegue che la pretesa della dipendente di un ente pubblico ( quale l'odierna appellante ), avente per oggetto la corresponsione, da parte del datore di lavoro, dell'indennità giornaliera di maternità, trovando titolo immediato e diretto nel rapporto di pubblico impiego, anziché in un rapporto previdenziale autonomo e distinto da esso, introduce una controversia devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Nel mérito, la cognizione della pretesa è preclusa a questo Giudice d’appello, atteso che la riforma della sentenza che ha declinato la giurisdizione comporta, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., la rimessione della causa al Giudice di primo grado, dinanzi al quale le parti dovranno riassumere il processo ai sensi del comma 3 dell’art. 105 cit. e che pronuncerà anche sulle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sul ricorso indicato in epigrafe, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, dichiara la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e rimette la causa, ai sensi dell’art. 105 c.p.a., al giudice di primo grado, che deciderà anche sulle spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, addì 12 giugno 2014, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Terza – riunito in Camera di consiglio con l’intervento dei seguenti Magistrati:
Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente
Salvatore Cacace, Consigliere, Estensore
Angelica Dell'Utri, Consigliere
Dante D'Alessio, Consigliere
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE





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Il 07/07/2014
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Re: congedo paternale

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1) - corresponsione dell’indennità giudiziaria durante i periodi di congedo per maternità.

2) - corresponsione delle differenze retributive ed in particolare l’indennità giudiziaria di cui all’art. 3, c. 1 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, relativamente a due periodi di congedo straordinario di assenza obbligatoria ex artt. 4 e 7 della L. n. 1204/71 (nel 1997-98 in relazione al figlio OMISSIS , nato a OMISSIS 1997 e nel 2000-01 in relazione al figlio OMISSIS, nato a OMISSIS 2000) oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria.

3) - Parere del CdS "SOSPESO" e interessata la Corte di Giustizia dell’Unione Europea

4) - Cmq. il Parere del CdS “NON definitivo” richiama diversi diritti e benefici dei lavoratori, quindi bisogna leggerlo attentamente per eventuali altri fattori e studi di settore.

RISERVA futura.
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PARERE INTERLOCUTORIO ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201501665
- Public 2015-06-04-


Numero 01665/2015 e data 04/06/2015 Spedizione


REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda

Adunanza di Sezione del 22 aprile 2015 e del 13 maggio 2015

NUMERO AFFARE 03815/2007

OGGETTO:
Ministero della Giustizia.

Ministero della Giustizia, Direzione Generale dell’Organizzazione Giudiziaria del Personale e dei Servizi - Direzione Generale dei Magistrati del Ministero. Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla dott.ssa O. M. C. E., magistrato ordinario, per l’annullamento del provvedimento in data 30 marzo 2007 con cui il Dipartimento dell’Organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, ha respinto l’istanza di corresponsione dell’indennità giudiziaria durante i periodi di congedo per maternità, presentata dall’interessata in data 5 marzo 2007.

LA SEZIONE
Vista la relazione firmata in data 3 ottobre 2007, trasmessa con nota n. 4436/2007 CONT./10597, pervenuta il giorno 16 successivo, dell’ Ministero della Giustizia (Direzione Generale dei Magistrati) di richiesta di parere sull’affare indicato in oggetto;

Visto il parere interlocutorio espresso nell’adunanza del 29.01.2008 dalla III Sezione (alla quale nel frattempo è succeduta questa II Sezione), trasmesso al Ministero riferente – Gabinetto – con nota del S.G. n. 1204 in data 4/03/2008;

Vista la nota ministeriale 0042978.U in data 7.4.2015, pervenuta il giorno 21 successivo;

Vista l’ordinanza n. 137 del 14 maggio 2008 della Corte Costituzionale;

Esaminati gli atti e udito il relatore, presidente Sergio Santoro;

I. I FATTI ALL’ORIGINE DELLA CONTROVERSIA E LE RAGIONI DEL RINVIO PREGIUDIZIALE.

1. Con istanza del 23 febbraio 2007 pervenuta all’Amministrazione della Giustizia il 5 marzo successivo, la dott.ssa M. C. E. O. Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di OMISSIS, chiedeva la corresponsione delle differenze retributive ed in particolare l’indennità giudiziaria di cui all’art. 3, c. 1 della legge 19 febbraio 1981, n. 27, relativamente a due periodi di congedo straordinario di assenza obbligatoria ex artt. 4 e 7 della L. n. 1204/71 (nel 1997-98 in relazione al figlio OMISSIS , nato a OMISSIS 1997 e nel 2000-01 in relazione al figlio OMISSIS, nato a OMISSIS 2000) oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria.

Con nota prot. n. 9054/MGG/3913 del 30 marzo 2007 la D.G. Magistrati - comunicava all’interessata i motivi del rigetto dell’istanza.

2. Con il ricorso in esame proposto il 30 luglio 2007 l’interessata impugnava tale provvedimento chiedendo il riconoscimento del diritto all’indennità giudiziaria per i due periodi di congedo per maternità del 1997-98 e 2000-01, anteriori alla L. 311 del 2004. A sostegno del diritto alle differenze retributive ricordava, richiamando il contenuto dell’istanza, che l’art. 3, comma 1° della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nel testo novellato dall’art. 1, c. 325 della Legge finanziaria 30 dicembre 2004, n. 311, troverebbe applicazione anche per quelle fattispecie verificatesi prima dell’entrata in vigore di quest’ultima, rispetto alle quali non si fosse maturato il periodo di prescrizione estintiva del relativo diritto, decorrente da tale medesima data (secondo il comma 572 dell’art. 1 della L.311/2004, “La presente legge entra in vigore il 1° gennaio 2005”).

Contestava, quindi, le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza opposte dall’Amministrazione, sostenendone l’illogicità e l’infondatezza, sia con riguardo al principio generale di irretroattività delle norme di cui all’art.11 c.c. - in relazione al quale formulava (in via incidentale e subordinata) eccezione di costituzionalità della norma, in relazione agli artt. 3, c. 2 e 97 della Cost., se interpretata come non retroattiva - sia con riferimento alla ritenuta impossibilità dell’estensione del giudicato formatosi sulla sentenza del TAR Lombardia n. 161/2007.

3. Con relazione 9 ottobre 2007 la D.G. dei Magistrati escludeva l’applicazione retroattiva della nuova disciplina, richiamando l’ordinanza con la quale la IV sez. di questo Consiglio (n. 2287/2007 del 13 aprile 2007), aveva sollevato questione di legittimità costituzionale della norma invocata dalla ricorrente, nonché la sentenza della Corte Costituzionale n. 238/1990, che per prima aveva escluso il contrasto dell’art. 3 della L. n. 27/81 con gli artt. 3, 30, 31 e 37 Cost., seguita poi nello sesso senso dalla sentenza n. 407/1996 e dalle ordinanze nn. 422/1996, 106/1997, 346/2008, 272/1999.

4. Con pronuncia interlocutoria resa nell’adunanza del 29.01.2008 la Terza Sezione del Consiglio di Stato, rilevato che la IV Sezione dello stesso Consiglio aveva già sollevato in sede giurisdizionale (con ordinanza n.2278/2007 cit.) questione di costituzionalità dell’art. 3, c. 1°, L. 27/81, nel testo anteriore alla novella recata dalla L. finanziaria 2005, in relazione ai periodi di astensione per maternità anteriori al 1° gennaio 2005, riteneva opportuno sospendere l’esame del ricorso in attesa della ulteriore pronuncia della Corte Costituzionale (in applicazione dell’art. 295 c.p.c.).

A seguito della trasformazione della Terza Sezione da consultiva a giurisdizionale, disposta dal Presidente del Consiglio di Stato nel 2010, questa Seconda Sezione consultiva proseguiva la trattazione del ricorso straordinario in esame.

5. Il Ministero riferente, infine, con nota 13 aprile 2015 pervenuta nella segreteria della Sezione il 5 maggio successivo, trasmetteva a questa Sezione, in vista della conclusione del giudizio, l’ordinanza n. 137 del 14 maggio 2008 della Corte Costituzionale, che aveva dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge finanziaria 2005), nella parte in cui esclude la corresponsione dell'indennità da esso prevista nel periodo di astensione obbligatoria per maternità, sollevata dal Consiglio di Stato con riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione. Erano conformi nello stesso senso le ordinanze 302/2006, 346/2008, e la sentenza 295/2012 della Corte Costituzionale, tutte negative circa la possibile invocata retroattività della novella del 2004.

6. Il ricorso è stato, quindi, riportato all’esame di questa Sezione all’odierna adunanza, nella quale il Collegio ritiene di sottoporre d’ufficio alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea questione pregiudiziale, ai sensi dell'art. 267, paragrafo 1, lett. a) e paragrafo 2, del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, anche per impedire il formarsi o il consolidarsi di una giurisprudenza nazionale che possa comportare, in ipotesi, eventuali errori di interpretazione od erronea applicazione di disposizioni del diritto dell’Unione che interessano il caso per cui è causa. Va anche premesso che tale questione è senza dubbio rilevante nel giudizio, dal momento che la sentenza della Corte Costituzionale 137/2008 cit. ha stabilito in via definitiva che la modifica recata dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, all'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, con l'ammettere il diritto all’indennità giudiziaria per il periodo di congedo per maternità, non può considerarsi retroattiva, e che conseguentemente non può applicarsi a fattispecie in cui il diritto stesso è riferito a periodi anteriori all’entrata in vigore della novella legislativa, e cioè al 1° gennaio 2005, come appunto nel caso di specie.

7. Le ragioni per le quali la Sezione ritiene di porre la questione pregiudiziale ex art. 267, paragrafo 1, lett. a) e paragrafo 2, del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, muovono sostanzialmente dall'esigenza di completare l'interpretazione, da parte della giurisprudenza comunitaria, delle disposizioni del diritto dell'Unione e dalle altre pronunce delle Istituzioni europee in tema di tutela, sotto il profilo retributivo, della lavoratrice madre, al fine di chiarirne l'applicazione nel giudizio.

8. Come detto nelle premesse al punto I, dopo le numerose pronunce della Corte Costituzionale che hanno escluso il contrasto dell’art. 3 della L. n. 27/81 con gli artt. 3, 30, 31 e 37 Cost., almeno come prospettato nelle ordinanze di rimessione dai giudici “a quo”, la questione che residua ed è ancor più rilevante nel presente giudizio è se il medesimo art. 3, primo comma, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, sia compatibile con il diritto comunitario, nelle varie disposizioni in cui vi si assicura la tutela della maternità e la non discriminazione tra i sessi, anche sotto il profilo retributivo riferito al lavoro dipendente.

Il trattamento deteriore che un magistrato di sesso femminile, come la ricorrente, ha subito durante il periodo di congedo obbligatorio per maternità fruito anteriormente al 1° gennaio 2005, rispetto alla generalità dei suoi colleghi, per effetto dell’art. 3, primo comma, cit. nella formulazione anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (si noti, l’unica applicabile al caso in esame, per effetto della giurisprudenza della Corte costituzionale sopra citata), potrebbe infatti integrare una violazione dei principi, validi per gli Stati membri la cui moneta è l'euro, contenuti nel Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea, negli artt. 157 (ex art.141 TCE), in quanto discriminazione nel trattamento retributivo fondata sul sesso, e 158 (ex art. 142 TCE), secondo cui “gli Stati membri si adoperano a mantenere l'equivalenza esistente nei regimi di congedo retribuito”.

9. Il principio della parità retributiva tra lavoratori di sesso maschile e femminile per lavori identici o di equivalente impegno, inizialmente rivolto a prevenire distorsioni della concorrenza all’interno del mercato comune riconducibili a casi patologici di sottoretribuzione del lavoro femminile, è poi divenuto, per effetto della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e delle intuibili implicazioni di politica sociale, un vero e proprio diritto fondamentale della persona (cfr. la direttiva 2006/54/CE del Parlamento e del Consiglio, del 5 luglio 2006, cui in Italia è stata data attuazione soltanto con il d.lgs. 25 gennaio 2010, n. 5).

Il Giudice comunitario ne ha affermato l’efficacia diretta nei confronti non solo degli Stati membri ma anche dei singoli datori di lavoro, in quanto “principio fondamentale dell’ordinamento giuridico comunitario” (cfr. Corte di Giustizia, 10 febbraio 2000, in causa C-50/96, Deutsche Telekom, cit., e Corte di Giustizia, 26 giugno 2001, in causa C-381/99, Brunnhofer v. Bank der Österreichischen Postsparkasse AG). La giurisprudenza comunitaria ha estensivamente compreso, nella nozione di retribuzione, “il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo”. Natura retributiva è stata quindi riconosciuta, ad esempio, alle indennità di malattia pagate dal datore di lavoro od alle somme che lo stesso corrisponde, in virtù della legge o di convenzioni collettive, ad una lavoratrice durante il congedo di maternità, in quanto fondate sul rapporto di lavoro. Perché sussista una discriminazione rilevante ed incompatibile con il diritto comunitario, la verifica deve effettuarsi su ciascuna voce retributiva e non sul trattamento economico complessivamente considerato, accertando se le eventuali differenze possano considerarsi esenti o meno da qualsiasi discriminazione basata sulla diversità di sesso (cfr. Corte di Giustizia, 13 luglio 1989, in causa 171/88, Rinner-Kuehn v. FWW Spezial- Gebaeudereinigung GmbH & Co KG; 13 febbraio 1996, in causa C-342/93, Gillespie e a. v. Northern Health and Social Services Board; 27 ottobre 1998, in causa C-411/96, Boyle e a. v. Equal Opportunities Commission; 30 marzo 2004, in causa C-147/02, Alabaster v. Woolwich; 6 aprile 2000, in causa C-226/98, Jørgensen v. Foreningen af Speciall&ger e Sygesikringens Forhandlingsudvalg; 26 giugno 2001, in causa C-381/99, Brunnhofer, cit.).

10 È poi fondamentale la distinzione data dalla giurisprudenza comunitaria tra forme di discriminazione diretta ed indiretta, alla cui verifica occorre che uomo e donna si trovino in situazioni lavorative effettivamente comparabili, ad esempio sotto l’aspetto della qualificazione professionale dei lavoratori, e che possano essere ricondotte ad unico datore di lavoro in ipotesi responsabile della disuguaglianza, pur non essendo necessario che i lavoratori posti a confronto si trovino alle dipendenze di un datore di lavoro della medesima natura (Corte di Giustizia, 17 settembre 2002, in causa C-320/00, Lawrence e a. v. Regent Office Care Ltd, Commercial Catering Group e Mitie Security Services Ltd.; 13 gennaio 2004, in causa C-256/01, Allonby v. Accrington & Rossendale College; 27 ottobre 1993, in causa C-127/92, Pamela Mary Enderby v. Frenchay Health Authority e Secretary of State for Health). Del resto, la Corte di Giustizia ha più volte affermato che, qualora il pregiudizio arrecato a una donna sia dovuto al suo stato di gravidanza, la stessa sarà considerata oggetto di discriminazione diretta basata sul sesso, senza necessità di un termine di confronto (sentenza 8 novembre 1990, causa C-177/88, Dekker c. Stichting Vormingscentrum voor Jong Volwassenen Plus; nello stesso senso, sentenza 14 luglio 1994, causa C-32/93, Webb c. EMO Air Cargo Ltd).

11. La giurisprudenza comunitaria ha altresì fatto applicazione dei principi di parità e non discriminazione in relazione alla situazione della lavoratrice in congedo per maternità, riconoscendo innanzitutto la legittimità di una disciplina speciale a protezione della maternità per la speciale condizione della donna lavoratrice nel periodo della gestazione e del puerperio, giustificando così le specifiche misure per “garantire una sostanziale parità” della donna lavoratrice (direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006 sulle pari opportunità e la parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, al ventiquattresimo Considerando, ma lo stesso principio era già espresso nell’art. 2, comma 7, della direttiva 9 febbraio 1976, n. 76/207/CEE).

12. Per converso, e nella stessa ottica, non sono stati ritenuti discriminatori i benefici concessi alla sola lavoratrice in relazione allo stato di maternità o comunque agli oneri connessi alla crescita del figlio, “qualora il vantaggio concesso al solo lavoratore di sesso femminile sia destinato a compensare svantaggi professionali derivanti ad un tale lavoratore in seguito all’allontanamento dal posto di lavoro che il congedo di maternità comporta”.

Tutta la citata giurisprudenza comunitaria, quindi, è univocamente orientata a far sì che lo stato di maternità non determini una condizione deteriore nel rapporto di lavoro della lavoratrice madre interessata.

Già la direttiva 76/207 disponeva che “un trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva 92/85/CEE costituisce una discriminazione” (art.2, comma 7). Analoga previsione è oggi contenuta nell’art. 2, comma 3, lett. c) della direttiva n. 54 del 2006, la quale, al ventitreesimo Considerando, ricorda, inoltre, come "dalla giurisprudenza della Corte di giustizia risulta chiaramente che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso”, della quale non sono ammesse ragioni giustificative (cfr. Corte di Giustizia, 18 novembre 2004, in causa C- 284/02, Land Brandenburg v. Sass, che ha negato che la lavoratrice madre possa subire un trattamento sfavorevole con riguardo ai requisiti necessari ad accedere ad un livello superiore della gerarchia professionale).

13. Non possono pertanto ammettersi trattamenti sfavorevoli di alcun tipo che possano anche solo indirettamente dipendere dalla circostanza che la lavoratrice ottenga o abbia ottenuto un congedo per maternità, e ciò per non incorrere in una discriminazione direttamente fondata sul sesso, nel senso inteso dalla direttiva 76/207 (v. sentenze 13 febbraio 1996, causa C342/93, Gillespie e a.; 30 marzo 2004, causa C147/02, Alabaster). Nello stesso senso, la Corte UE ha ritenuto incompatibile col diritto comunitario una disciplina che posticipava la data di entrata in servizio della lavoratrice alla fine del congedo di maternità, senza prendere in considerazione tale periodo ai fini dell’anzianità di servizio:, affermando che “un lavoratore di sesso femminile è tutelato, nel suo rapporto di lavoro, contro ogni trattamento sfavorevole motivato dalla circostanza che egli usufruisca o abbia usufruito di un congedo per maternità” e “una donna che subisca un trattamento sfavorevole a causa di un'assenza per congedo di maternità è vittima di una discriminazione che ha origine nella sua gravidanza e nel detto congedo” (Corte di Giustizia, 16 febbraio 2006, causa C-294/04, Sarkatzis Herrero v. Instituto Madrileño de la Salud p. 39). Ed ancora, è stata dichiarata incompatibile con l’art. 6, n. 1, lett. g), della direttiva 86/378, come modificata dalla direttiva 96/97, una disposizione che aveva l’effetto di interrompere l’acquisto dei diritti ad una rendita assicurativa durante i congedi obbligatori di maternità, in quanto imponeva come condizione che la lavoratrice percepisse un reddito imponibile durante tali congedi (Corte di Giustizia, 13 gennaio 2005, causa C-356/03, Mayer v. Versorgungsanstalt des Bundes und der Lander), e ritenuta altresì una diretta discriminazione la pretesa del datore di lavoro di motivare con lo stato di gravidanza della lavoratrice il diniego di reintegrazione nel posto di lavoro prima della scadenza del congedo parentale (Corte di Giustizia, 27 febbraio 2003, in causa C-320/01, Bush v. Klinikum Neustadt GmbH & Co. Betriebs-KG; 30 aprile 1998, in causa C-136/95 Caisse Nationale d'assurance vieillesse des travailleurs salariés (CNAVTS) v. Thibault, ove si è testualmente (punto 32) affermato che “una donna che subisce un trattamento sfavorevole per quanto riguarda le sue condizioni di lavoro, nel senso che viene privata del diritto di ricevere il suo rapporto informativo annuale e, conseguentemente, di ottenere una promozione, a causa di un'assenza per maternità, è vittima di una discriminazione che ha origine nella sua gravidanza e nel suo congedo di maternità.

Un comportamento del genere costituisce una discriminazione direttamente basata sul sesso ai sensi della direttiva”.

In modo ancor più esplicito, la sentenza della Corte UE 6 marzo 2014 causa C 595/12 Loredana Napoli v. Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP) ha affermato che:

- l’art. 15 della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che, per motivi di interesse pubblico, esclude una donna in congedo di maternità da un corso di formazione professionale inerente al suo impiego ed obbligatorio per poter ottenere la nomina definitiva in ruolo e beneficiare di condizioni d’impiego migliori, pur garantendole il diritto di partecipare a un corso di formazione successivo, del quale tuttavia resta incerto il periodo di svolgimento;

- l’articolo 14, paragrafo 2, della direttiva 2006/54 non si applica a una normativa nazionale, come quella controversa nel procedimento principale, che non riserva una determinata attività ai soli lavoratori di sesso maschile, ma ritarda l’accesso a tale attività da parte delle lavoratrici che non abbiano potuto giovarsi di una formazione professionale completa a causa di un congedo di maternità obbligatorio;

- le disposizioni degli articoli 14, paragrafo 1, lettera c), e 15 della direttiva 2006/54 sono sufficientemente chiare, precise e incondizionate da poter produrre un effetto diretto.

A conferma, “a contrariis”, di quanto sopra riportato, la Corte di giustizia in due sentenze della Grande Sezione dell’8 marzo 2014, nelle cause C-167/12 C.D. v. S.T. e C-363/12 Z. v. A., ha anche affermato che il diritto dell’Unione europea non riconosce alla madre committente, che ha avuto un figlio mediante un contratto di maternità surrogata, il congedo retribuito equivalente al congedo di maternità o di adozione.

14. Quanto alla determinazione dell’ammontare della retribuzione/indennità dovuta alla lavoratrice in congedo di maternità (con specifico riferimento all’art.8 della direttiva 92/85/CEE del 19 ottobre 1992), la Corte ha ritenuto che una lavoratrice gestante, con una retribuzione anteriore all’assegnazione temporanea ad altro posto composta da uno stipendio di base e da una serie di integrazioni dovute all’esercizio di specifiche funzioni essenzialmente dirette a compensare gli inconvenienti collegati a tale esercizio (per esempio lavoro notturno, lavoro domenicale, lavoro straordinario), non può esigere la conservazione dell’intera retribuzione percepita prima della temporanea assegnazione. Essa però conserva oltre allo stipendio di base il diritto a percepire le integrazioni che si ricollegano al suo status professionale, legate per esempio alla sua qualità di superiore gerarchico, alla sua anzianità e alle sue qualifiche professionali (sentenza del 1° luglio 2010, causa C-471/08, Parviainen v. Finnair Oyj). In un diverso caso in cui la ricorrente aveva richiesto di mantenere il diritto al pagamento dell’indennità per servizi di guardia, nel periodo di astensione obbligatoria dal lavoro per motivi di sicurezza e salute (art. 5 n.3 della direttiva 92/85/CEE del 19 ottobre 1992), la Corte questa volta ha assimilato, ai fini del calcolo della retribuzione da corrisponderle, la posizione della lavoratrice dispensata dal lavoro (art. 5 par. 3) con quello della lavoratrice in congedo di maternità (art. 8). In entrambi i casi la Corte ha concluso che fosse compatibile con la direttiva 92/85/CEE una normativa nazionale che riconosce alla lavoratrice il diritto a una retribuzione equivalente allo stipendio medio dalla stessa percepito nel corso di un periodo di riferimento anteriore all’inizio della gravidanza o all’inizio del congedo, con l’esclusione però dell’indennità per servizi di guardia. La Corte ha però aggiunto che nessuna disposizione della direttiva 92/85/CEE impedisce agli Stati membri o, eventualmente, alle parti sociali di prevedere il mantenimento di tutti gli elementi della retribuzione, compresa quindi anche la suddetta indennità (sentenza 1° luglio 2010, causa C 194/08 Gassmayr v. Bundesminister für Wissenschaft und Forschung).

15. Nella Carta sociale europea (riveduta), firmata a Strasburgo il 3 maggio 1996, si afferma (Parte I, art. 8) che “le lavoratrici, in caso di maternità, hanno diritto ad una speciale protezione….Per garantire l'effettivo esercizio del diritto delle lavoratrici madri ad una tutela, le Parti s'impegnano…a garantire alle lavoratrici prima e dopo il parto … un congedo retribuito sia mediante adeguate prestazioni di sicurezza sociale o con fondi pubblici”. Né può infine trascurarsi la recente “Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2015 sui progressi concernenti la parità tra donne e uomini nell'Unione europea nel 2013 n. 2014/2217 (INI)”, dove si afferma, tra l’altro, nel considerando B, “il principio della parità di trattamento fra donne e uomini comporta il divieto di qualunque discriminazione, diretta o indiretta, anche per quanto riguarda la maternità, la paternità e il fatto di condividere responsabilità familiari”; al punto 12 si “insiste sull'impellente necessità di ridurre i divari retributivi e pensionistici tra donne e uomini” ed al punto 13 si “deplora con la massima durezza il fatto che le donne non ricevano la stessa retribuzione nei casi in cui svolgono le stesse funzioni degli uomini o funzioni di pari valore”.

16. A conclusione dell'excursus, e sempre per ribadire la rilevanza della questione in questo giudizio, non può non farsi notare che all'indennità giudiziaria è stata implicitamente riconosciuta la natura di componente non eventuale della retribuzione del magistrato, e comunque del tutto indipendente e svincolata dal collocamento in congedo obbligatorio, e ciò per effetto dello stesso comma 325 della L. 311/2004, che l'ha appunto estesa al servizio trascorso in congedo per maternità (anche se a decorrere dal 2005).

Quanto ad un diverso profilo della rilevanza della sollevata questione di legittimità comunitaria, in relazione alla eventuale prescrizione del diritto qui azionato, si fa notare che la relativa eccezione non è mai stata proposta dall'Amministrazione in questo giudizio e dunque non può essere presa in esame, tanto meno per la verifica della rilevanza della questione comunitaria, e ciò per la preclusione derivante dagli artt. 2938 del codice civile e 112 del codice di procedura civile.

II. LA QUESTIONE PREGIUDIZIALE DA SOTTOPORRE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL’UNIONE EUROPEA.

17. Preliminarmente, va segnalato che, secondo la giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quando il Consiglio di Stato, in sede Consultiva, emette un parere nell’ambito di un ricorso straordinario, esercita una funzione giurisdizionale ed è quindi un organo di giurisdizione ai sensi dell’art. 177 del Trattato istitutivo dell’Unione Europea (così Corte di Giustizia CE del 16 ottobre 1997, nei procedimenti riuniti da C-69/96 a C-79/96), ora art. 267 del TFUE.

Oltretutto, la funzione giustiziale del Consiglio di Stato, in sede consultiva, è stata medio tempore assimilata a quella giurisdizionale, per effetto sia dell’allineamento dei limiti del proprio sindacato giustiziale alle materie rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. art. 7, comma 8, del D.lgs 2 luglio 2010, n. 104), sia della nuova formulazione degli artt. 13 e 14 del D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 disposta dall’art 69 della L. 18 giugno 2009, n. 69, in ordine alla possibilità di sollevare innanzi alla Corte Costituzionale incidenti di costituzionalità delle leggi e alla vincolatività dei propri pareri.

Non vi è dubbio inoltre, nonostante l’art. 267 del TFUE nel secondo paragrafo riporti testualmente "questione … sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri", che tale questione possa sollevarsi anche d'ufficio, e non soltanto su eccezione delle parti (cfr. Corte di Giustizia UE, grande sezione 15 gennaio 2013 C-416/10, Jozef Križan e A. v. Slovenská inšpekcia životného prostredia).

22. Alla luce di quanto sopra, ritiene questo Collegio di sottoporre all'esame della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, ai sensi dell'art. 267, paragrafo 1, lett. a) e paragrafo 2, del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), le seguenti questioni in ordine all’interpretazione delle disposizioni del diritto dell'Unione:

«se l’art.11, paragrafo 1 nn.1, 2 lett. b), 3 e l’ultimo e penultimo Considerando della direttiva 92/85/CEE del Consiglio del 19 ottobre 1992, nonché gli artt. 157 TFUE (ex art.141 TCE), paragrafi 1, 2, e 4; l’art. 158 TFUE (ex art. 142 TCE), ove prescrive che “gli Stati membri si adoperano a mantenere l'equivalenza esistente nei regimi di congedo retribuito”; gli artt. 2, paragrafo 2, lettera c), e 14, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/54, in combinato disposto tra loro, nonché l’art. 15 ed il 23° e 24° Considerando della direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006, ed infine l’art.23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea 2000/C 364/01, ostino ad una normativa nazionale che, ai sensi dell’art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, non consenta di corrispondere l’indennità ivi prevista per i periodi di congedo obbligatorio per maternità anteriori al 1° gennaio 2005».

IV. ATTI DA TRASMETTERE ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE.

23. Ai sensi della “nota informativa riguardante la proposizione di domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali” 2011/C 160/01, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea 28 maggio 2011, è dato mandato alla Segreteria della Sezione di trasmettere, mediante plico raccomandato alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Cour de Justice de l’Union Européenne – Palais de la Cour de Justice, Boulevard Konrad Adenauer, Kirchberg, L - 2925 Luxeembourg), i seguenti atti:

- copia dei provvedimenti impugnati con il ricorso straordinario;
- copia del ricorso straordinario, nonché della relazione dell'Amministrazione e delle memorie prodotte dalle parti;
- copia dell'ordinanza n. 137 del 14 maggio 2008 della Corte Costituzionale;
- copia del presente parere interlocutorio;
- copia delle seguenti norme nazionali: art. 7 del codice del processo amministrativo; D.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 nel testo attualmente in vigore; art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27; art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311.

SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO.

24. Il presente giudizio viene sospeso ai sensi dell’art. 267 del TFUE, nelle more della definizione dell’incidente pregiudiziale innanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, e ogni ulteriore pronuncia è riservata alla definizione dell’incidente medesimo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, Sezione II, rimette la questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, affinché decida, ai sensi dell’art. 267, lett. a) e comma 2, TFUE, sul quesito sopra specificato.

Insta affinché la questione pregiudiziale di cui ai quesiti suddetti sia trattata secondo la procedura accelerata di cui all’art. 105 del regolamento di procedura della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 29 settembre 2012.

Nelle more della pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sospende l’emissione del richiesto parere sul ricorso straordinario.

Ordina la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea a cura della Segreteria.



IL PRESIDENTE ED ESTENSORE
Sergio Santoro




IL SEGRETARIO
Marisa Allega
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Re: congedo paternale

Messaggio da panorama »

Se può giovare a qualcuno/a.

Ricorso ACCOLTO.

Cmq. questa sentenza del Tar Lazio prende in esame tutta la materia del Congedo per la tutela della “maternità” e dei benefici economici connessi, pertanto, vi consiglio di leggerla tutta, anche se riguarda quattro ricorrenti, tutte Avvocati dello Stato, poichè potreste "trovare" qualche beneficio che vi spetta di diritto.
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1) - evidenziavano di aver usufruito di periodi di astensione obbligatoria “per maternità”, ai sensi dell’art. 41 del d.p.r. n. 3/1957.

2) - normativa speciale a sostegno e tutela della maternità e paternità, riconducibile al d.lgs. n. 151/2001, il cui art. 1, nello specifico, prevede che il trattamento economico che compete alla donna in congedo obbligatorio per maternità è derogabile solo per effetto di norme di maggior favore, le ricorrenti affermavano che in tale trattamento doveva essere ricompreso l’art. 41 del T.U. n. 3/57, che assicura alla gestante “tutti gli assegni”, specie quando, come quello corrispondente al riparto in questione, hanno certamente natura retributiva, e ciò anche al fine di dare concreta attuazione al principio fondamentale di parità tra generi, ai sensi dell’art. 37 Cost. nonché delle disposizioni ultranazionali di cui all’art. 157 T.F.U.E, all’art. 23 della Carta dei Diritti Fondamentali U.E. e alla direttiva 2006/54/CE, al fine di assicurare alla lavoratrice gestante e madre una situazione di effettiva parità in materia di occupazione, lavoro e retribuzione.

3) - secondo la loro ricostruzione, era avvalorata anche dalla “ratio” della l. n. 53/2000, recante disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, come propugnata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Organo da cui dipende la stessa Avvocatura dello Stato, nella Circolare n. 14 del 16.11.2000, la quale - sul punto - precisa che: “le lavoratrici madri, durante tutto il periodo di astensione obbligatoria dall’impiego, in applicazione dei contratti collettivi, hanno diritto all’intera retribuzione fissa mensile, nonché al relativo trattamento accessorio.”

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SENTENZA ,sede di ROMA ,sezione SEZIONE 1 ,numero provv.: 201610048, - Public 2016-10-05 -

Pubblicato il 05/10/2016

N. 10048/2016 REG.PROV.COLL.
N. 13721/2014 REG.RIC.


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 13721 del 2014, proposto da:
Lucrezia F., Verdiana F., Raffaella F., Wally F., rappresentate e difese dall'avvocato Costantino Ventura C.F. VNTCTN53A03A662M, con domicilio eletto presso Lucrezia Fiandaca in Roma, via San Liberio, 21;

contro
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze, Avvocatura dello Stato, rappresentati e difesi per legge dalla medesima Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di
Marina R., non costituita in giudizio;

per ottenere
in favore di ciascuna delle ricorrenti, e nelle misure che saranno rispettivamente in appresso indicate, previa concessione delle misure cautelari e previa eventuale rimessione di atti e parti dinanzi alla Corte di Giustizia e/o la Corte Costituzionale, la corresponsione delle competenze spettanti ai sensi dell'art. 21 R.D. n. 1611/1933, maturate dalle ricorrenti a titolo di onorari di causa per i periodi di astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, oltre rivalutazione monetaria e interessi, e con vittoria di spese e rimborso del contributo unificato.


Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dell'Economia e delle Finanze e Avvocatura Generale dello Stato, con la relativa documentazione;
Vista l’ordinanza collegiale di questa Sezione n. 2182/2016 del 18.2.16;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del 20 luglio 2016 il dott. Ivo Correale e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con gravame avanti a questo Tribunale, ritualmente notificato (anche a un soggetto controinteressato) e depositato, le quattro ricorrenti, tutte Avvocati dello Stato con diverse decorrenze e relative classi stipendiali ivi indicate, evidenziavano di aver usufruito di periodi di astensione obbligatoria “per maternità”, ai sensi dell’art. 41 del d.p.r. n. 3/1957, con godimento dell’intero trattamento economico, compresa l’indennità di cui all’art. 2 della L. 6.8.1984 n. 425, ma con esclusione dalla partecipazione al riparto delle competenze di cui all’art. 21 del R.D. 30.10.1933 n. 1611, pur risultando in detti periodi assegnatarie di numerosi affari, con significativo aumento del carico di lavoro complessivo.

Specificavano, inoltre, di aver conosciuto – tramite corrispondenza con l’Avvocatura Generale dello Stato – i compensi goduti dai colleghi in servizio nella medesima classe stipendiale, comprensivi del suddetto “riparto”, e di aver preso atto di nota del Segretario Generale in cui si specificava che la mancata elargizione era dovuta all’applicazione dell’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 in cui era stabilito che il diritto al riparto era escluso in tutti i casi di collocamento in aspettativa e in congedo straordinario, facendo salvi solo quelli ex art. 37, 2 co., T.U. n. 3/57 cit., tra i quali non era ricompresa la “maternità”.

Riportando la disposizione di cui all’art. 21 r.d. n. 1611/1933 cit., le ricorrenti proponevano nella sostanza una domanda di accertamento, previa adozione di misure cautelari, del loro diritto ad ottenere ugualmente l’integrale riparto, evidenziandone la piena natura “retributiva”, secondo la relativa nozione “onnicomprensiva” di cui all’art. 2099 c.c., come confermata espressamente anche dal legislatore con l’art. 9 d.l. n. 90/2014, conv. in l. n. 114/2014 e con l’art. 157 del T.F.U.E. - dei quali era riportato il testo per la parte di interesse - nonché ai sensi della Circolare I.N.P.S. n. 6 del 16.1.14, pure riportata.

Richiamando, poi, la normativa speciale a sostegno e tutela della maternità e paternità, riconducibile al d.lgs. n. 151/2001, il cui art. 1, nello specifico, prevede che il trattamento economico che compete alla donna in congedo obbligatorio per maternità è derogabile solo per effetto di norme di maggior favore, le ricorrenti affermavano che in tale trattamento doveva essere ricompreso l’art. 41 del T.U. n. 3/57, che assicura alla gestante “tutti gli assegni”, specie quando, come quello corrispondente al riparto in questione, hanno certamente natura retributiva, e ciò anche al fine di dare concreta attuazione al principio fondamentale di parità tra generi, ai sensi dell’art. 37 Cost. nonché delle disposizioni ultranazionali di cui all’art. 157 T.F.U.E, all’art. 23 della Carta dei Diritti Fondamentali U.E. e alla direttiva 2006/54/CE, al fine di assicurare alla lavoratrice gestante e madre una situazione di effettiva parità in materia di occupazione, lavoro e retribuzione.

La stessa direttiva in questione, poi, all’art. 9, indicava tra gli esempi di discriminazione proprio l’interrompere il mantenimento o l’acquisizione dei diritti durante i periodi di congedo per maternità.

Premesso ciò, le ricorrenti precisavano che l’omessa corresponsione del “riparto” in questione era quindi dipesa da una errata interpretazione dell’art. 12 del “Regolamento per la riscossione, da parte dell’Avvocatura dello Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa ripartizione” approvato con il richiamato d.p.c.m. del 29.2.1972, nella parte in cui prevedeva che “…Non si ha, inoltre, diritto a riparto per tutto il tempo trascorso in aspettativa, a disposizione, in disponibilità o in congedo straordinario, esclusi i casi previsti dall’art. 37, secondo comma del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3…”.

Per le ricorrenti, la situazione di congedo straordinario considerata dall’art. 12 quale causa di esclusione dal diritto a concorrere al riparto non poteva essere quella di astensione obbligatoria per maternità e puerperio, secondo i principi sopra richiamati, ma unicamente quella di congedo facoltativo, caratterizzato dall’essere fondato su “gravi motivi”, quindi non predeterminati dal legislatore, dall’essere assentibile “discrezionalmente” dall’Amministrazione, con conseguente posizione soggettiva di interesse legittimo dell’interessato e non di diritto soggettivo, dall’essere una forma di tutela “ulteriore” se chiesto dalla lavoratrice come misura ulteriore rispetto al congedo obbligatorio “per maternità”, dall’essere collegato a trattamento economico deteriore disposto dallo stesso legislatore, ai sensi dell’art. 40 T.U. cit.

Il congedo obbligatorio per gravidanza e puerperio, invece – illustravano le ricorrenti – “…a) è concesso solo in ipotesi di maternità e puerperio; b) costituisce un diritto irrinunciabile per la puerpera, sottratto a qualunque valutazione discrezionale da parte della P.A., alla quale è fatto espresso divieto di adibire la donna al lavoro; c) è concesso solo ‘una tantum’, in ragione dell’accertata sussistenza dei presupposti di legge e per un periodo minimo e massimo legislativamente predefinito (periodo compreso tra i due mesi antecedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi alla data del parto stesso); d) costituisce la tutela minima e irrinunciabile di ogni lavoratrice dipendente che si trovi in prossimità del parto; e) è soggetto pertanto a un trattamento economico di maggior favore rispetto a qualsivoglia forma di congedo, ivi compresa la malattia, competendo alla donna in congedo obbligatorio ‘tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario’ senza decurtazione alcuna”.

L’interpretazione dell’art. 12 come proposta dalle ricorrenti, secondo la loro ricostruzione, era avvalorata anche dalla “ratio” della l. n. 53/2000, recante disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, come propugnata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Organo da cui dipende la stessa Avvocatura dello Stato, nella Circolare n. 14 del 16.11.2000, la quale - sul punto - precisa che: “le lavoratrici madri, durante tutto il periodo di astensione obbligatoria dall’impiego, in applicazione dei contratti collettivi, hanno diritto all’intera retribuzione fissa mensile, nonché al relativo trattamento accessorio.”

Tali principi erano poi confermati nel richiamato d.lgs. n. 151/2001 (Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), ai relativi artt. 2 e 23, comma 2, ove è presente il riferimento ai trattamenti “accessori” su precisa richiesta del Consiglio di Stato e della Commissione Lavoro pubblico e privato, trattamenti accessori tra cui devono essere ricompresi anche gli onorari e le competenze spettanti agli Avvocati e Procuratori dello Stato, che anche ai fini fiscali e contributivi vengono ritenuti redditi da lavoro dipendente.

Ogni diversa conclusione, pertanto, coincidente con l’interpretazione dell’art. 12 cit. richiamata dall’Avvocatura dello Stato, perverrebbe alla conseguenza di sanzionare, anziché tutelare, la gravidanza, parificandola illogicamente alle altre ipotesi di esclusione dal diritto a parte della retribuzione (abbandono dell’Ufficio senza giustificato motivo, destituzione, decadenza, dispensa dal servizio per scarso rendimento), certamente non assimilabili a quella in discussione.

E ciò con l’aggravante che tale esegesi tratterebbe in modo deteriore l’ipotesi di congedo obbligatorio per maternità, a cui la legge invece riserva un trattamento economico di maggior favore (“tutti gli assegni”, senza alcuna decurtazione), rispetto alle ipotesi di congedo per matrimonio o per esami, soggetti invece alla disciplina di cui all’art. 40 d.p.r. 3/57, cit. e alle relative decurtazioni.

Nel caso di specie, quindi, si profilerebbe un’ipotesi di contrasto del Regolamento, che esclude il diritto ad una parte della retribuzione durante la gravidanza, con la Legge, che invece tale diritto riconosce e assicura, differenziando e privilegiando l’ipotesi del congedo obbligatorio per maternità da ogni altra ipotesi di congedo e assenza, ivi compresa la malattia. Peraltro, aggiungevano le ricorrenti, l’interpretazione secondo la quale l’art. 12 del Regolamento si riferisce anche al congedo straordinario per gravidanza, ne comporterebbe l’inevitabile disapplicazione.

Il Regolamento, infatti, pur se avente natura “sostanzialmente” normativa, non può, per il principio di gerarchia delle fonti, porsi in contrasto con norme di rango superiore e la necessità di disapplicare la disposizione regolamentare in aperto contrasto con la norma primaria è peraltro senza alcun dubbio doverosa anche per il giudice amministrativo, vertendosi in materia di giurisdizione esclusiva, ed essendo la spettanza delle competenze per cui è causa un vero e proprio diritto soggettivo, secondo soluzioni assolutamente pacifiche e convincenti alle quali è pervenuta la giurisprudenza.

La contestata interpretazione, inoltre, si poneva anche in contrasto con il diritto comunitario, ai sensi della su richiamata direttiva 2006/54/CE (artt. 9, 14 e 15).

Le ricorrenti, in subordine, evidenziavano infatti che, ove si dovesse ritenere che il riferimento contenuto dall’art. 41 T.U. n. 3/57 a “tutti gli assegni” fosse da intendersi come a “tutti gli assegni escluse le competenze di cui all’art 21 del R.D. n. 1611/33”, e il disposto di cui all’art. 23 del t.u. della maternità come riferibile a tutti “i premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice”, ma con l’esclusione degli onorari di causa, si imponeva anche un’interpretazione costituzionalmente e comunitariamente orientata delle prefate disposizioni, ovvero, in via gradata, la rimessione di tale questione alla Corte Costituzionale e/o alla Corte di Giustizia UE, per evidente contrasto, oltre che con il principio di ragionevolezza, con i puntuali riferimenti normativi e costituzionali prima richiamati.

Le ricorrenti precisavano ulteriormente che i compensi in questione non riguardavano prestazioni di lavoro straordinario, che ovviamente non avevano potuto compiere durante il periodo di astensione obbligatoria, sebbene destinatarie di assegnazioni che avevano incrementato il carico di lavoro rendendo non irrilevante, ai fini della prestazione lavorativa, l’assenza dal servizio (come invece avviene in ipotesi di collocamento “fuori ruolo”, in cui non solo non vengono assegnati nuovi affari, ma vengono riassegnati agli altri colleghi gli affari già in carico).

Anzi, il fatto che le ricorrenti potevano essere - ed erano state - destinatarie di assegnazioni anche durante tale periodo di congedo “obbligatorio”, dimostrava non solo la ingiustificata e illogica differenza rispetto al trattamento economico dei “fuori ruolo”, ma anche l’inesistenza di un nesso di corrispettività non solo tra gli onorari e il lavoro, ma anche tra gli onorari e le assegnazioni degli affari.

Infatti, quanto alle modalità di percezione, le ricorrenti precisavano che gli onorari sono liquidati avendo riguardo alle somme effettivamente recuperate dalle Amministrazioni (spese compensate) o dai privati (spese vinte), all’esito di un complesso procedimento che può essere attivato quadrimestralmente solo dopo che il titolo su cui si fonda il recupero è divenuto “irretrattabile” (art.5 d.p.c.m. cit.).

Ciò sta a significare che il compenso percepito non dipende dal lavoro svolto dai Procuratori e dagli Avvocati dello Stato “in servizio” durante il quadrimestre - il che potrebbe eventualmente giustificare un’esclusione dal riparto – né tantomeno dall’essere o meno destinatari di assegnazioni durante quel periodo (circostanza peraltro che si era concretamente verificata per le ricorrenti) ma che le somme incassate riguardano prestazioni professionali necessariamente rese in un momento antecedente, quindi anche dalle ricorrenti stesse. Con l’aggravante che è l’Avvocatura a decidere quali titoli azionare per prima, per cui le somme incassate in un determinato quadrimestre dipendono in parte dagli adempimenti delle controparti, e dunque dal caso, e in parte dalla solerzia dell’Avvocatura nell’azionare i crediti.

Rinviata la domanda cautelare alla trattazione del merito, si costituivano in giudizio le Amministrazioni in epigrafe, con documentazione e una memoria orientata a confutare le ragioni delle ricorrenti nonché, in virtù del carattere di “stabilità” reale del rapporto di pubblico impiego, ad eccepire la prescrizione dei crediti ultraquinquennali dalla notificazione del ricorso o da altro atto interruttivo documentato.

In prossimità della pubblica udienza del 10.2.2016 anche le parti ricorrenti depositavano rituali memorie (le ricorrenti anche “di replica”, ove osservavano che, ad ogni modo, per la sola ricorrente F.. era rinvenibile un breve periodo precedente al quinquennio anteriore alla relativa diffida del 18.9.2014 da considerarsi interruttiva del termine) ad ulteriore sostegno delle rispettive tesi.

Con l’ordinanza in epigrafe, questa Sezione disponeva incombenti istruttori, consistenti, per le ricorrenti, nell’integrazione del contraddittorio, anche mediante notificazione per pubblici proclami, nei confronti di tutti i Procuratori e Avvocati dello Stato nonché, per le parti pubbliche, nel deposito di un prospetto completo indicante con precisione, per il periodo in considerazione, la data di assegnazione di ciascun affare a ogni ricorrente, il tipo di affare e il relativo esito, con una dettagliata relazione sulle esatte modalità di ripartizione delle competenze di cui all’art. 21 r.d. cit. tra tutti i Procuratori e Avvocati dello Stato.

Dopo la rituale ottemperanza a tale disposizione per quanto di rispettiva incombenza, le parti depositavano ulteriori memorie in prossimità della successiva udienza pubblica (le ricorrenti anche “di replica”) e, alla data del 20.7.2016, la causa era trattenuta nuovamente in decisione.

DIRITTO

Ai fini di un chiaro approccio alla fattispecie, il Collegio ritiene opportuno richiamarne i fondamenti normativi e regolamentari.

Le norme di rango primario invocate dalle ricorrenti sono le seguenti:

a) l’art. 21, commi 1 e 2, r.d. 30.10.1933, n. 1611 (come sostituiti dall’art. 27 l. n. 103/1979 e poi modificati dall’art. 43, comma 1, n. 69/2009), secondo il quale: “L'avvocatura generale dello Stato e le avvocature distrettuali nei giudizi da esse rispettivamente trattati curano la esazione delle competenze di avvocato e di procuratore nei confronti delle controparti quando tali competenze siano poste a carico delle controparti stesse per effetto di sentenza, ordinanza, rinuncia o transazione.

Con l'osservanza delle disposizioni contenute nel titolo II della legge 25 novembre 1971, numero 1041, tutte le somme di cui al precedente comma e successivi vengono ripartite per sette decimi tra gli avvocati e procuratori di ciascun ufficio in base alle norme del regolamento e per tre decimi in misura uguale fra tutti gli avvocati e procuratori dello Stato. La ripartizione ha luogo dopo che i titoli, in base ai quali le somme sono state riscosse, siano divenuti irrevocabili: le sentenze per passaggio in giudicato, le rinunce per accettazione e le transazioni per approvazione…”;

b) l’art. 41 del d.p.r. 10.1.1957, n. 3, secondo cui: “All'impiegata che si trovi in stato di gravidanza o puerperio si applicano le norme per la tutela delle lavoratrici madri; essa ha diritto al pagamento di tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario.

Per i periodi anteriore e successivo al parto in cui, ai sensi delle norme richiamate nel precedente comma, l'impiegata ha diritto di astenersi dal lavoro, essa è considerata in congedo straordinario per maternità.

Alle ipotesi previste nel presente articolo, si applica la disposizione di cui all'ultimo comma dell'articolo 40”;

c) l’art. 1, comma 2, d.lgs. 26.3.2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), secondo il quale la disciplina di cui a tale Testo Unico si applica: “…fatte salve le condizioni di maggior favore stabilite da leggi, regolamenti, contratti collettivi, e da ogni altra disposizione.” nonché gli artt. 16 e 20 d.lgs. cit., per i quali – rispettivamente - è sancita l’obbligatorietà del congedo, con conseguente divieto per le donne di essere adibite al lavoro per i periodi ivi indicati al comma 1, lett. a)-d), e la flessibilità, laddove è prevista per le lavoratrici “…la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico specialista del Servizio sanitario nazionale o con esso convenzionato e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.”

A queste, devono aggiungersi le norme di ordine “generale” di cui all’art. 37 Cost. nonché all’art. 2099 c.c. (sulle modalità di retribuzione del prestatore di lavoro) e all’art. 37 d.p.r. n. 3/57 cit. (sul “congedo straordinario”), a cui affiancare quelle di rango “sovranazionale”, quali l’art. 157 del TFUE, l’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali della U.E. e la direttiva 2006/54/CE, laddove orientata a sancire il principio di parità di trattamento e protezione della condizione biologica della donna durante la gravidanza e la maternità e il divieto di ogni discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso (art. 4) e, più specificamente, dell’interruzione del mantenimento o dell’acquisizione di diritti durante i periodi di congedo per maternità (art. 9, par. 1, lett. f).

Va detto che ne emerge la corrispettiva qualificazione in termini di “diritto soggettivo” della relativa posizione giuridica della “lavoratrice gestante/madre”, che non è peraltro contestata dalla difesa erariale, la quale, anzi, nell’eccepire la “prescrizione” – fermo quanto sarà in prosieguo specificato sul punto – si richiama ad un istituto proprio dei diritti soggettivi.

Tant’è che l’opposizione alla richiesta delle ricorrenti è stata fondata, secondo il contenuto di note identiche del Segretario Generale in seguito alla presentazione di esplicita diffida, non sull’impedimento riconducibile a norme di rango primario bensì unicamente sulla sussistenza del richiamo alla norma di rango secondario di cui all’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 (recante “Regolamento per la riscossione, da parte dell'Avvocatura dello Stato, degli onorari e delle competenze di spettanza e per la relativa ripartizione”), che prevede – secondo la suddetta nota - il mancato “diritto” al riparto ”… tra gli altri, in tutti i casi di collocamento in aspettativa e in congedo straordinario, facendo salvi i casi di congedo straordinario ex art. 37, 2° co. del T.U. n. 3/57...” tra i quali “…non è ricompresa la maternità”.

Per completezza, la norma in questione prevede infatti che: “Non hanno diritto a partecipare al riparto, per il corrispondente periodo, coloro che sono collocati fuori ruolo. Colui che senza giustificato motivo abbandoni l'Ufficio e non ottemperi all'invito di ritornarvi, perde la quota quadrimestrale corrispondente al tempo dell'abusiva assenza. Non si ha, inoltre, diritto a riparto per tutto il tempo trascorso in aspettativa, a disposizione, in disponibilità o in congedo straordinario, esclusi i casi previsti dall'art. 37, secondo comma del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, nonché i casi dell'aspettativa per richiamo alle armi e per infermità per causa di servizio, di cui, rispettivamente, al II comma dell'art. 67 e al VII comma dell'art. 68 del testo unico predetto. Il diritto al riparto viene, altresì, meno per tutto il tempo durante il quale, per qualsiasi causa, non spetti o sia ridotto lo stipendio. Si perde il diritto di concorrere al riparto allorché sia stata comminata la destituzione o dichiarata la decadenza ovvero la dispensa per scarso rendimento; in tali casi la partecipazione al riparto predetto cessa dal momento in cui si è verificato il fatto risolutivo del rapporto d'impiego. Nel caso di collocamento a riposo, di accettazioni di dimissioni volontarie, di passaggio in altre Amministrazioni dello Stato, l'impiegato partecipa al riparto fino alla data di decorrenza del provvedimento”.

E’ senza dubbio corretta, quindi, la ricostruzione delle ricorrenti, secondo le quali l’esclusione dalla partecipazione al riparto richiesto è fondata esclusivamente sulla sussistenza di tale norma regolamentare la quale prevede comunque espressamente un’eccezione, per coloro che risultano collocati in congedo “straordinario”, tipo di congedo peraltro che compete “di diritto”, ai sensi dell’art. 37, comma 2, T.U. n. 3/57 (oltre a periodi di aspettativa per richiamo alle armi o per infermità per causa di servizio), ossia “…quando l'impiegato debba contrarre matrimonio o sostenere esami o, qualora trattisi di mutilato o invalido di guerra o per servizio, debba attendere alle cure richieste dallo stato di invalidità…”.

Il Collegio, quindi, non può fare a meno di osservare che l’ipotesi di deroga al divieto in questione opera allorquando il congedo straordinario sia definibile “di diritto”, vale a dire quando non è nella facoltà discrezionale dell’Amministrazione concederlo o meno (sul punto, già: TAR Lazio, Sez. I, 10.2.1987, n. 285, secondo cui il congedo straordinario per motivi diversi da quelli elencati nell'art. 37, comma 2, cit. inerisce alla sfera degli interessi legittimi dell'impiegato, essendo demandato dalla legge ad apprezzamenti discrezionali della p. a. e pertanto è legittimo che l'esercizio di tale potere sia ispirato al contemperamento fra le pretese del dipendente e le esigenze del servizio, con la conseguenza che il congedo di cui al comma 2 cit. esula dalla discrezionalità in questione).

Sotto tale profilo, però, al Collegio appare innegabile che anche il congedo straordinario per “maternità”, peraltro obbligatorio, rientri nelle ipotesi in cui spetta “di diritto”.

Sul punto, non può che richiamarsi il contenuto dell’art. 16 d.lgs. n. 151/01, secondo cui: E' vietato adibire al lavoro le donne:

a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo quanto previsto all'articolo 20;

b) ove il parto avvenga oltre tale data, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;

c) durante i tre mesi dopo il parto, salvo quanto previsto all'art. 20;

d) durante i giorni non goduti prima del parto, qualora il parto avvenga in data anticipata rispetto a quella presunta. Tali giorni si aggiungono al periodo di congedo di maternità dopo il parto, anche qualora la somma dei periodi di cui alle lettere a) e c) superi il limite complessivo di cinque mesi

Per quanto riguarda già il T.U. n. 3/57, alla norma di cui al richiamato art. 37, deve, poi, accompagnarsi quanto previsto dai successivi artt. 40 e 41, secondo i quali “…Durante il periodo di congedo ordinario e straordinario, esclusi i giorni di cui al periodo precedente, spettano al pubblico dipendente tutti gli assegni escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale e per prestazioni di lavoro straordinario…I periodi di congedo straordinario sono utili a tutti gli altri effetti” (art. 40, comma 1 e comma 3) e “All'impiegata che si trovi in stato di gravidanza o puerperio si applicano le norme per la tutela delle lavoratrici madri; essa ha diritto al pagamento di tutti gli assegni, escluse le indennità per servizi e funzioni di carattere speciale o per prestazioni di lavoro straordinario. Per i periodi anteriore e successivo al parto in cui, ai sensi delle norme richiamate nel precedente comma, l'impiegata ha diritto di astenersi dal lavoro, essa è considerata in congedo straordinario per maternità. Alle ipotesi previste nel presente articolo, si applica la disposizione di cui all'ultimo comma dell'articolo 40” (art. 41, commi 1, 2 e 3 rubricato: Congedo straordinario per gravidanza e puerperio).

In merito, valga richiamare che la Corte dei Conti aveva già nel 1988 precisato che l’art. 41, comma 2, equipara a tutti gli effetti l'astensione facoltativa dal lavoro per maternità al congedo straordinario (Sez. Contr., 14.4.1988, n. 1933).

In sostanza, una lettura costituzionalmente orientata delle norme, in relazione agli artt. 3, 37 e 97 Cost., impone di considerare che quella per gravidanza e puerperio è un’astensione obbligatoria, equiparabile a tutte quelle in cui è previsto un congedo straordinario “di diritto”, e per tale ragione deve essere riconosciuta parità di corresponsione di emolumenti, anche se in presenza di rapporto di lavoro pubblico “non contrattualizzato”, come nel caso di specie.

Per quanto dedotto, quindi, è condivisibile la ricostruzione delle ricorrenti che nel caso di specie individuano un’ipotesi di contrasto del “Regolamento”, che esclude il diritto ad una parte della retribuzione durante la gravidanza, con la “Legge”, che invece tale diritto riconosce e assicura, differenziando e privilegiando l’ipotesi del congedo obbligatorio per maternità da ogni altra ipotesi di congedo e assenza, ivi compresa la malattia, con la conseguenza che l’art. 12 del Regolamento, riferito anche al congedo straordinario per gravidanza e puerperio laddove esclude il riparto delle competenze di cui all’art. 21 r.d. cit., deve essere disapplicato in quanto vertente su diritti soggettivi valutabili in un quadro di giurisdizione esclusiva del g.a. (v. Cons. Stato, Sez. IV, 9.12.10, n. 8654; TAR Lazio, Sez. II bis, 9.5.07, n. 4984).

Le stesse fonti sovraordinate all’ordinamento nazionale, inoltre, muovono in tal senso laddove escludono la possibilità di dare luogo a discriminazioni relative al mantenimento o all’acquisizione di “diritti” nei confronti delle lavoratrici che usufruiscono di periodi di congedo per maternità (art. 9, par. 1, lett. f), direttiva 2006/54/CE), come invece accade nel caso di specie ove il “diritto” (così definito nell’art. 12 d.p.c.m. cit.) è escluso proprio in relazione alla fruizione di periodi di congedi per maternità.

Ne consegue che l’art. 12 d.p.c.m. cit., che limita la deroga all’esclusione del riparto previsto per i Procuratori e Avvocati dello Stato al solo caso di congedo “straordinario” di cui all’art. 37, comma 2, T.U. cit. senza prevedere tra questi anche il congedo per maternità, si pone in contrasto con tutte le richiamate norme, nazionali e sovraordinate.

Per una corretta ricostruzione del quadro esegetico di fondo, quindi, è altresì evidente, a rafforzamento di quanto ora precisato, la condivisibilità delle osservazioni delle ricorrenti, secondo le quali, il congedo “straordinario” cui dovrebbe fare riferimento l’art. 12 d.p.c.m. cit. per escludere il riparto in questione sarebbe il solo congedo da definirsi “facoltativo”, in quanto legato a generici “gravi motivi”, discrezionalmente concedibile dalla p.a., senza durata minima ma solo massima, sottoposto a trattamento economico deteriore rispetto a quello “per maternità” (v. art. 40 T.U. cit.), laddove – diversamente – quest’ultimo è invece fruibile per ipotesi “predeterminata”, è irrinunciabile, è concedibile “una tantum” e per un periodo minimo predefinito per legge ed è sottoposto a trattamento economico di favore rispetto ad altre forme di congedo (art. 41, comma 1, T.U. cit.).

Tale interpretazione è stata anche avallata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la cui circolare n. 14/2000 richiamata dalle ricorrenti, al punto 4.1. prevede la corresponsione per tutte le “lavoratrici-madri” e per il periodo di astensione obbligatoria il diritto all’intera retribuzione fissa mensile nonché al relativo trattamento “accessorio”. E’ vero che tale circolare riguarda le lavoratrici c.d “contrattualizzate”, secondo le osservazioni in merito della difesa erariale, ma ciò non toglie che il riferimento è utile per segnalare l’attenzione della P.C.M. verso il principio di “non discriminazione” ad esso sotteso, analogo a quello invocato dalle ricorrenti.

Sul punto, poi, valga il richiamo all’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 151/2001, secondo cui: “Le indennità di cui al presente testo unico corrispondono, per le pubbliche amministrazioni, ai trattamenti economici previsti, ai sensi della legislazione vigente, da disposizioni normative e contrattuali. I trattamenti economici non possono essere inferiori alle predette indennità.” nonché ai successivi art. 3, per il quale: “È vietata qualsiasi discriminazione per ragioni connesse al sesso, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, con particolare riguardo ad ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti.” e art. 23, commi 1 e 2, secondo cui: “Agli effetti della determinazione della misura dell'indennità, per retribuzione s'intende la retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga quadrisettimanale o mensile scaduto ed immediatamente precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo di maternità.

Al suddetto importo va aggiunto il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati alla lavoratrice.”.

Né in senso sostanziale contrario valgono le osservazioni difensive della stessa Avvocatura dello Stato.

Per quanto riguarda l’affermazione secondo cui la “ratio” della censurata disposizione di cui all’art. 12 d.p.c.m. cit. risponderebbe alla logica di riconoscere il riparto in questione ai soli legali pubblici presenti in ufficio, essa non regge a fronte dell’osservazione per la quale vi sono casi in cui è riconosciuto dal medesimo art. 12 cit. a dipendenti non presenti (che richiama le ipotesi di deroga su ricordate dell’art. 37, comma 2, T.U. cit.).

Inoltre risulta – e la circostanza è provata documentalmente dalle ricorrenti e non smentita dalla difesa erariale – che durante il periodo di astensione siano stati comunque assegnati “affari” a ciascuna di esse, con aggravio del lavoro, sia pure da espletare successivamente, e con la evidente conclusione che le stesse sono state considerate “in servizio”.

E’ vero che l’assegnazione di affari risulta, ad esempio, anche nei confronti dei Procuratori e Avvocati dello Stato durante la fruizione del loro periodo di “ferie” ma a ciò è accompagnato comunque il riparto delle c.d. “propine”, che invece è negato alle ricorrenti, con la conseguenza che il sistema alla base della corresponsione del trattamento economico appare illogico e discriminatorio anche sotto tale profilo, nei limiti di quanto lamentato nel ricorso.

A ciò si aggiunga che il riparto in questione non riguarda il lavoro straordinario – secondo una tesi pure rappresentata dalla difesa erariale – dato che lo stesso Segretario Generale, nel rispondere alle ricorrenti, lo richiama per distinguerlo dal riparto ex art. 12 d.p.c.m. cit. di cui alla fattispecie in esame (per tutte, v. nota del 9.5.12 depositata in giudizio).

Tale riparto è invece riconducibile alle elargizioni di natura “retributiva” e non accessoria, secondo quanto attestato ormai dall’art. 9 d.l. n. 90/2014, conv. in l. n. 114/2014, per il primo profilo, e dal punto 3 della circolare INPS n. 6 del 16.1.2014, anche per il secondo profilo.

Ne consegue che non può essere ritenuta condivisibile neanche la tesi della difesa erariale, secondo la quale le ricorrenti – in quanto dipendenti “non contrattualizzate” - comunque beneficerebbero del trattamento “di maggior favore” di cui all’art. 41 T.U. cit. e all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 151/2001 (retribuzione al 100% in luogo dell’80% come invece per le altre lavoratrici alle dipendenza della p.a.), in quanto vi è stata comunque una decurtazione - “retributiva” per quanto detto in precedenza – pari al 50% almeno fino all’entrata in vigore del richiamato art. 9 d.l. n. 90/14 cit.

Altra tesi su cui si è fondata l’Avvocatura dello Stato è quella legata al valore “sostanziale” di norma primaria riconoscibile all’art. 12 d.p.c.m. cit., in virtù dell’espressa indicazione – al fine di “farlo proprio” – del medesimo contenuta nell’art. 21 r.d. n. 1611/33 cit. che si riferisce al regolamento sull’esazione degli onorari di Procuratori e Avvocati dello Stato, con la conseguenza di definire l’art. 12 cit. quale norma speciale che prevale sulle norme invocate dalle ricorrenti, pur ammettendo la stessa difesa erariale che tale regolamento è “attuativo” in virtù del rinvio espresso.

Il Collegio osserva che la natura di regolamento “attuativo” riconosciuta al d.p.c.m. in questione conferma la sua subordinazione alle fonti primarie legislative (Cons. Stato, Sez. IV, 15.9.03, n. 5158), tra cui non possono che richiamarsi quelle sopra descritte a tutela della “maternità”.

A ciò si aggiunga che l’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 151/2001, quale norma speciale successiva, ha fatto salve solo le condizioni di maggior favore previste da leggi, regolamenti, contratti collettivi e ogni altra disposizione, tra cui non rientrano quelle di cui all’art. 12 d.p.c.m. cit., di certo non “di maggior favore” nei confronti delle dipendenti in questione in congedo per “maternità”.

Come condivisibilmente osservato anche dalle ricorrenti, infine, quand’anche fosse riconoscibile al d.p.c.m. in esame il rango di “fonte primaria”, esso sarebbe comunque in contrasto con la suddetta direttiva 2006/54/CE per quanto sopra precisato, con conseguente possibilità di disapplicazione “diretta” ad opera del Giudice nazionale (Cons. Stato, Sez. IV, 24.3.04, n. 1559).

Da ultimo, in relazione a giurisprudenza ritenuta contraria a quanto prospettato dalle ricorrenti, secondo il richiamo di cui alla memoria dell’Avvocatura dello Stato per l’ultima udienza pubblica, per quel che riguarda la sentenza TAR Campania, Na, Sez. IV, 15.4.16, n. 1874, il Collegio osserva che essa si riferiva alla ben diversa ipotesi di “esonero” dal servizio ai sensi dell’art. 72 d. l. n. 112/2008, conv. in l. n. 123/2008 (poi abrogato dall’art. 24, comma 14, d.l. n. 201/2011, conv. in l. n. 214/2011). Anzi – osserva il Collegio – tale richiamo conferma la tesi di fondo delle ricorrenti, in quanto l’assegnazione di affari nei loro confronti (ben cospicua secondo la documentazione acquisita in giudizio in seguito alla su ricordata ordinanza istruttoria), a differenza da chi era, appunto, “in esonero”, deve far ritenere che le stesse erano state invece considerate dall’Amministrazione a tutti gli effetti “in servizio” e quindi con rapporto di lavoro in atto.

La stessa sentenza del Tar partenopeo, infatti, rileva che la quota c.d. “variabile” del trattamento economico di Procuratori e Avvocati dello Stato postula, per il suo riconoscimento, il perdurante svolgimento dello stesso, trattandosi di prestazioni periodiche temporalmente correlate allo svolgimento del rapporto medesimo, e che ai fini del riconoscimento di tale quota variabile della retribuzione è dunque necessario che vi sia, a giustificazione della percezione di somme, lo svolgimento di attività lavorativa e, dunque, l’esistenza di un “rapporto di lavoro in atto”, mentre la sospensione del rapporto per collocamento “in esonero” determina in capo al dipendente il sorgere di un nuovo “status” giuridico, connotato dal mancato svolgimento del servizio e questa peculiarità impedisce la possibilità di computare emolumenti che trovano il loro necessario presupposto proprio ed esclusivamente nella prestazione dell’attività defensionale. Nel caso di specie tale attività per le ricorrenti vi è stata, in quanto hanno indubbiamente dovuto provvedere a seguire gli affari assegnati in costanza del periodo di “maternità”, senza mutamento di alcuno “status” giuridico, fermo restando che la ripartizione di parte dei proventi richiesti si riferiva anche a periodi precedenti, ove le stesse non avevano ancora fruito del relativo congedo.

Così pure non decisiva è l’ordinanza del TAR Calabria, Rc, 17.6.16, n. 706 – peraltro non avente alcun contenuto decisorio ma un’ampia motivazione sulla ritenuta non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell’art. 9, commi 3, 4 e 6, del d.l. n. 90/14 cit., conv. in l. n. 114/14 – in quanto non si riferisce allo specifico profilo della elargizione di compensi durante il congedo “per maternità” ma al generale intervento di cui alla norma suddetta in ordine alla rideterminazione dei compensi professionali degli Avvocati dello Stato. Inoltre, quel TAR ha affrontato la problematica alla sua attenzione in senso generale, evidenziando in un passaggio argomentativo che la componente retributiva “in senso proprio” è caratterizzata da “fissità” a differenza delle altre remunerazioni di prestazioni professionali generalmente rese nell’esercizio delle funzioni istituzionalmente rimesse ad Avvocati e Procuratori dello Stato, che non rientrerebbero nel concetto di “retribuzione in senso proprio”, atteso il carattere di variabilità che ne assiste la commisurazione.

Nel caso di specie all’esame del Collegio, però, non rileva l’individuazione della retribuzione “in senso proprio”, in quanto a fondamento vi è la normativa “speciale” su richiamata sulla tutela della maternità, tra cui in particolare l’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 151/01 cit. (da leggersi in correlazione con i successivo artt. 3 e 23), che fa riferimento in realtà a tutti i trattamenti economici previsti ai sensi della legislazione vigente e non alla “retribuzione in senso proprio” quale “quota fissa”, come individuabile ai sensi della normativa sul trattamento economico dei Procuratori e Avvocati dello Stato.

Alla luce di quanto illustrato, quindi, il ricorso deve trovare accoglimento, con conseguente disapplicazione dell’art. 12 del d.p.c.m. 29.2.1972 nella parte in cui prevede il mancato diritto al riparto considerando tra casi di congedo straordinario che lo esclude quello obbligatorio per “maternità”.

Deve quindi darsi luogo alla declaratoria del diritto delle ricorrenti a percepire tutte le competenze spettanti loro ai sensi dell’art. 12 in questione e maturate a titolo di onorari di causa durante i periodi di astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, secondo la normativa vigente “pro tempore”.

In riferimento al relativo ammontare, il Collegio rileva che la difesa erariale ha eccepito la prescrizione quinquennale del credito, in quanto riferito a pretese avanzate in costanza di rapporto di pubblico impiego dotato di “stabilità reale”

In merito, il Collegio rileva che le ricorrenti hanno osservato – senza contestazione da parte delle Amministrazioni costituite - che solo per l’avv. F.. eventualmente potrebbe rilevare tale eccezione per il breve periodo anteriore al quinquiennio precedente la notifica della diffida del 18.9.2014, quale atto interruttivo (dal 9.7.2009 al 17.9.2009), ma che comunque nel caso di specie non opererebbe l’art. 2948 c.c., in quanto la determinazione quantitativa del credito “da lavoro” è riconducibile interamente all’Amministrazione, previo accertamento delle condizioni necessarie per la relativa liquidazione (Cons. Stato, n. 2232/2007).

In effetti, nel caso di specie, in base alla stessa ricostruzione delle modalità di corresponsione del riparto per cui è causa - come illustrate nell’ultima memoria dell’Avvocatura dello Stato in ottemperanza all’ordinanza collegiale sopra richiamata - emerge che, pur in presenza di rapporto “stabile”, è la stessa Amministrazione a riconoscere e determinare quantitativamente il diritto vantato e con apposito atto formale, per cui nel caso di specie opera la prescrizione ordinaria decennale (Cons. Stato, Sez. V, 5.5.16, n. 1792 e Sez. IV 21.6.07 n. 3363).

Per quanto riguarda, infine, il cumulo tra rivalutazione e interessi, deve invece ritenersi condivisibile il richiamo della difesa erariale all’art. 22, comma 36, l. n. 724/1994 che tale cumulo esclude per i rapporti di lavoro “pubblico”, sia anche non contrattualizzato (Cons. Stato, Sez. IV, 1.7.15, n. 3254).

Ne consegue che deve essere considerata solo la maggior somma derivante, prendendo come riferimento la somma dovuta al netto delle ritenute contributive e fiscali (Cons. Stato, n. 3254/15 cit.).

Per quanto riguarda la specifica domanda di condanna al pagamento delle competenze singolarmente indicate dalle ricorrenti per ciascuna di esse, desumibile dal contenuto delle conclusioni del ricorso integrate nelle ultime memorie, il Collegio – per la complessità dei relativi calcoli da eseguire in conformità a quanto sopra precisato – ritiene di fare ricorso alla disposizione di cui all’art. 34, comma 4, c.p.a., demandando alle parti di pervenire alla definizione di quanto a ciascuna ricorrente spettante, salvi i rimedi di cui alla medesima disposizione in caso di mancato accordo.

Le spese di lite possono eccezionalmente compensarsi per la peculiarità e novità della fattispecie.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, previa disapplicazione dell’art. 12 d.p.c.m. 29.2.1972 nei limiti dell’interesse delle ricorrenti e per quanto dedotto in motivazione, dichiara il loro diritto a percepire tutte le competenze spettanti in virtù del riparto previsto nell’art. 12 cit. maturate a titolo di onorari di causa per i periodi in cui sono state collocate in astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, secondo la normativa vigente “pro tempore”, con la maggior somma tra rivalutazione e interessi legali da calcolare al netto delle ritenute contributive e fiscali.

Dispone che l’Avvocatura dello Stato provveda alla specifica liquidazione ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., entro trenta giorni dalla comunicazione e/o notificazione della presente sentenza.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 luglio 2016 con l'intervento dei magistrati:
Carmine Volpe, Presidente
Ivo Correale, Consigliere, Estensore
Roberta Cicchese, Consigliere


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Ivo Correale Carmine Volpe





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Re: congedo paternale

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lo posto anche qui

Ricorso al PDR Accolto.
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stato di “puerpera”.

violazione della L. n. 1204/1971 e della violazione della L. n. 903/1977 in tema di parità di trattamento nel rapporto di lavoro.

Il CdS precisa:

1) - Osserva al riguardo, la Sezione, che in tema di tutela delle lavoratrici madri, la legge n. 1204/1971 – art 2 – stabilisce il divieto di licenziamento, da parte del datore di lavoro, di lavoratrici in stato di gravidanza, dall’inizio del periodo di gestazione e sino al termine del periodo d’interdizione obbligatoria dal lavoro – art. 4 -.

2) - Per giurisprudenza pacifica il divieto anzidetto si rende applicabile anche al personale con contratto, come nella specie, a tempo determinato ed opera anche qualora il periodo di astensione si prolunghi oltre la conclusione del rapporto di lavoro (Tar Lazio sez I n. 914/1999).

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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201602292 - Public 2016-11-03 -

Numero 02292/2016 e data 03/11/2016


REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda

Adunanza di Sezione del 22 giugno 2016

NUMERO AFFARE 00006/2015

OGGETTO:
Ministero della Salute -Dipartimento della Programmazione.

Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da Giuseppa S.., contro U.S.L. n.25 Regione Calabria, avverso provvedimento di annullamento di conferimento incarico di infermiere professionale;

LA SEZIONE
Vista la relazione n. 36954 del 22/12/2014 con la quale il Ministero della Salute - Dipartimento della Programmazione ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Sergio Fina;

Premesso e Considerato:

Con il presente ricorso, la sig.ra Giuseppa S.. impugna il provvedimento di annullamento dell’atto di conferimento d’incarico d’infermiere professionale di cui al relativo avviso pubblico, emesso dalla USL. n. 25 di Reggio Calabria.

La ricorrente contesta la legittimità del provvedimento, sotto il profilo della violazione della L. n. 1204/1971 e della violazione della L. n. 903/1977 in tema di parità di trattamento nel rapporto di lavoro.

Il Ministero della Salute con relazione del 9.01.2015 – inviata con grave e ingiustificabile ritardo di molti anni dalla proposizione del ricorso – ha riferito sulla vicenda, illustrandone i tratti essenziali e rilevando la fondatezza, nel merito, del ricorso.

Soggiunge, il Ministero, in ordine alle argomentazioni impugnatorie, che nella specie il rapporto di lavoro si era perfezionato e quindi l’Azienda sanitaria non poteva licenziare l’interessata in base al suo stato di “puerpera”, per effetto dell’art. 2 della legge n. 1204/1971 che attribuisce alla donna che versa in tale stato, una particolare tutela, disponendo la nullità degli atti posti in essere in spregio a tale divieto.

Osserva al riguardo, la Sezione, che in tema di tutela delle lavoratrici madri, la legge n. 1204/1971 – art 2 – stabilisce il divieto di licenziamento, da parte del datore di lavoro, di lavoratrici in stato di gravidanza, dall’inizio del periodo di gestazione e sino al termine del periodo d’interdizione obbligatoria dal lavoro – art. 4 -.

Per giurisprudenza pacifica il divieto anzidetto si rende applicabile anche al personale con contratto, come nella specie, a tempo determinato ed opera anche qualora il periodo di astensione si prolunghi oltre la conclusione del rapporto di lavoro (Tar Lazio sez I n. 914/1999).

Consegue a quanto appena esposto che il ricorso, siccome fondato, deve essere accolto.

Quanto alla connessa richiesta di pagamento delle retribuzioni, a titolo risarcitorio, si osserva che la domanda risarcitoria è inammissibile in sede di ricorso straordinario, potendo essere esperita, esclusivamente, in sede giurisdizionale.

Ne deriva che per questa parte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

P.Q.M.

La Sezione, nello stigmatizzare il grave e ingiustificabile ritardo con cui il Ministero ha riferito sul ricorso in oggetto, esprime il parere che il ricorso, nei limiti indicati in motivazione, debba essere accolto, dovendo, per la parte relativa alla domanda risarcitoria, essere dichiarato inammissibile.



L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Sergio Fina Luigi Carbone




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Roberto Mustafà
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Re: congedo paternale

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Tutto bene ciò che finisce bene.

1) - è stata dimessa dal "corso di formazione" per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria

Il TAR Lazio precisa:

2) - Che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 6 marzo 2014, resa nella causa C-595/12, ha accertato che la normativa interna applicata si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea, determinando una violazione dei principi di pari opportunità e trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro;

3) - Che, nelle more della decisione di merito del ricorso, l’Amministrazione resistente, con provvedimento del 2 ottobre 2018, ha sciolto la riserva sulla riammissione in servizio della ricorrente, confermando, a titolo definitivo, l’assunzione in ruolo della stessa;

Cmq. leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA sede di ROMA, sezione SEZIONE 1Q, numero provv.: 201904725 ,

Pubblicato il 10/04/2019

N. 04725/2019 REG. PROV. COLL.
N. 01412/2012 REG. RIC.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Prima Quater)

ha pronunciato la presente
SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1412 del 2012, proposto da
Loredana N.., rappresentata e difesa dall'avvocato Ernesto Sticchi Damiani, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, p.zza San Lorenzo in Lucina, 26;

contro
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento
del decreto in data 4 gennaio 2012 con cui il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria riconosceva alla ricorrente - già in astensione obbligatoria per maternità sino al 7 marzo 2012 – il diritto alla retribuzione solo fino al compimento del 30° giorno di assenza dal terzo corso di formazione per vice commissario del Corpo di Polizia Penitenziaria, preannunziando l'applicazione del disposto di cui all'art. 10 del D.lgs. 146/2000 e, con motivi aggiunti, per l’annullamento del decreto del Capo Dipartimento in data 9 marzo 2012 con il quale la stessa era stata dimessa dal suddetto corso di formazione ai sensi del citato art. 10, comma 2, del D.lgs. n. 146/2000;


Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 aprile 2019 il dott. Antonio Andolfi e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;


Premesso che, con il ricorso introduttivo, l’interessata ha impugnato il decreto del 4 gennaio 2012 con cui le è stato riconosciuto il diritto alla retribuzione solo sino al compimento del 30º giorno di assenza dal corso di formazione per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria;

Che, con il ricorso per motivi aggiunti, l’interessata ha impugnato il successivo decreto del 9 marzo 2012 con cui è stata dimessa dal corso di formazione per vicecommissario del corpo di Polizia penitenziaria, ai sensi dell’articolo 10, comma 2, del decreto legislativo numero 146 del 2000, avendo superato, essendo in astensione dal servizio per maternità, il periodo massimo di assenza dal corso;

Considerato che l’interessata è stata riammessa al corso in esecuzione dell’ordinanza cautelare numero 1450 del 20 aprile 2012;

Che, con ordinanza numero 256 del 7 dicembre 2012, il Tribunale amministrativo regionale ha disposto il rinvio pregiudiziale della causa alla Corte di giustizia dell’Unione europea, al fine di accertare la compatibilità della norma nazionale applicata dall’Amministrazione resistente con il diritto dell’Unione europea, con specifico riferimento alla direttiva 2006-54;

Che la Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza del 6 marzo 2014, resa nella causa C-595/12, ha accertato che la normativa interna applicata si pone in contrasto con il diritto dell’Unione europea, determinando una violazione dei principi di pari opportunità e trattamento tra uomo e donna in materia di lavoro;

Che, nelle more della decisione di merito del ricorso, l’Amministrazione resistente, con provvedimento del 2 ottobre 2018, ha sciolto la riserva sulla riammissione in servizio della ricorrente, confermando, a titolo definitivo, l’assunzione in ruolo della stessa;

Rilevato che la difesa di parte ricorrente riconosce la cessazione della materia del contendere, insistendo per le spese processuali;

Ritenuta cessata la materia del contendere, essendo stata pienamente soddisfatta la pretesa dedotta in giudizio dalla ricorrente che ha ottenuto, mediante il provvedimento amministrativo del 2 ottobre 2018, la riammissione in servizio a pieno titolo;

Ritenuto, infine, di poter disporre la compensazione tra le parti delle spese processuali, tenuto conto della novità della questione giuridica dibattuta che ha richiesto la pronuncia della Corte di giustizia dell’Unione europea sulla incompatibilità con il diritto dell’Unione europea della norma nazionale applicata dall’Amministrazione resistente;

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, dichiara cessata la materia del contendere.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 aprile 2019 con l'intervento dei magistrati:
Salvatore Mezzacapo, Presidente
Mariangela Caminiti, Consigliere
Antonio Andolfi, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Antonio Andolfi Salvatore Mezzacapo





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