Cambiarsi in caserma o sul posto di lavoro
Cambiarsi in caserma o sul posto di lavoro
Gentilissimi colleghi e lettori volevo sapere se qualcuno è a conoscenza di alcune circolari dell'Arma che consentono ai Carabinieri di potersi cambiare presso le caserme o sul luogo di lavoro. Abito a circa 20 km. di distanza dal posto di lavoro è spesso, specialmente d'estate, viaggio in moto nonchè diverse volte alla settimana al termine del servizio mi porto presso centri commerciali nelle vicinanze del posto di lavoro per fare la spesa. Per vari motivi il Comandante ha deciso che non ci si può più cambiare sul posto di lavoro e quindi si è costretti a viaggiare in uniforme. Vi sembra possibile che un militare al termine del proprio servizio, e quindi libero, debba continuare ad essere un obiettivo sensibile anche quando va a fare la spesa per la propria famiglia o cadere in moto in divisa (cosa che mi è successo per fortuna in borghese) mettendo a repentaglio la propria incolumità o in alternativa farsi 20 km per potersi cambiare e ritornare in città per avere un pò di convenienza sulla spesa visto che al giorno d'oggi il carburante costa "così poco".....? Il regolamento dice che il servizio inizia e termina in caserma penso, quindi, che ogni militare possa cambiarsi sul posto di lavoro. Spero che qualcuno mi possa dare qualche riferimento normativo che regolamenta la problematica. Un grazie infinito a tutti.
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Re: Cambiarsi in caserma o sul posto di lavoro
Messaggio da cavaliere1957 »
Carissimo egregio, allora una circolare del Comando generale di alcuni anni fa' diceva che in uniforme in moto non si poteva andare in quanto il casco non era conforme con la stessa, comunque al Comando provinciale dove appartieni hanno tutte le circolari e stai tranquillo, che e' previsto potersi cambiare d'abito ove fai servizio anche perche vi e' un'altra circolare che da facolata' al militare sposato o convivente di portare l'arma con se' quando si e' fuori servizio.
Se non riesci trovare soddisfazione al Comando provinciale allora prova al Comando Legione di appartenenza.-
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Re: Cambiarsi in caserma o sul posto di lavoro
Messaggio da cavaliere1957 »
Ti volevo dire che pure io ho avuto lo stesso tuo problema anni fa pero conoscevo uno del Cocer e gli ho telefonato dicendo del problema, in tre giorni la situazione era risolta anche se qualace superiore faceva delle battute da idiota, inoltre ci ha guadagnato anche altro personale.-
Re: Cambiarsi in caserma o sul posto di lavoro
La materia è disciplinata dall'art. 40 D.P.R. 19.03.56 nr. 303, parzialmente modificata dall'art. 33 comma 11 Legge 626/94 che impone al datore di lavoro di predisporre spogliatoi ed armadi per il vestiario per i ".....lavoratori quando questi debbono indossare indumenti specifici....", laddove è evidente si intendano indumenti, attrezzature, equipaggiamenti speciali destinati a protreggere il lavoratore dedito ad attività pericolose, insudicianti, nocive (ad esempio tute protettive; scarpe antifortunistiche; maschere antipolvere; ecc.).
Per quanto precede, sebbene diffusa la conseuetudine di consentire il cambio di vestiario presso le caserme dell'Arma questo non potrebbe costituire per la stessa Arma dei Carabinieri un vero e proprio "obbligo" di predisporre appositi locali, sottrraendoli alle esigenze operative e logistiche dei reparti, con l'eccezione di limitati casi in cui vi siano addetti a particolari attività o lavorazioni per i quali siano espressamente previsti abbigliamenti specifici ed il cui uso fuori dalle caserme non sia possibile o opportuno (ad esempio i centralinisti e operatori delle Centrali Operative; gli addetti al servizio sanitario; alle officine e/o ai laboratori telematica).
Quanto premesso per ribadire che il buon senso prevale comunque su tutto.
Se presso le Stazioni vi sono camerate vuote, perchè non sono presenti militari accasermati e vi è disponibilità di adibire una camerata a spogliatoio, fermo restando quanto precedentemente enucleato, ritengo che il comandante della Stazione, possa autorizzare senza alcun problema o attrito col personale, una stanza da adibire all'esigenza.
Tuttavia, ribadisco che per l'Amministrazione non sussite l'obbligo a soddisfare l'esigenza in questione, dovendo tenere conto delle esigenze dei militari accasermati che hanno invece diritto a disporre di spazi adeguati ed il più possibile puliti e salubri.
Ogni comandante poi, dovrebbe valutare ogni singola situazione per ottimizzare le strutture disponibili e venire contemporaneamente incontro alle esigenze dei militari, siano questi accasermati e non.
Cordialmente
Per quanto precede, sebbene diffusa la conseuetudine di consentire il cambio di vestiario presso le caserme dell'Arma questo non potrebbe costituire per la stessa Arma dei Carabinieri un vero e proprio "obbligo" di predisporre appositi locali, sottrraendoli alle esigenze operative e logistiche dei reparti, con l'eccezione di limitati casi in cui vi siano addetti a particolari attività o lavorazioni per i quali siano espressamente previsti abbigliamenti specifici ed il cui uso fuori dalle caserme non sia possibile o opportuno (ad esempio i centralinisti e operatori delle Centrali Operative; gli addetti al servizio sanitario; alle officine e/o ai laboratori telematica).
Quanto premesso per ribadire che il buon senso prevale comunque su tutto.
Se presso le Stazioni vi sono camerate vuote, perchè non sono presenti militari accasermati e vi è disponibilità di adibire una camerata a spogliatoio, fermo restando quanto precedentemente enucleato, ritengo che il comandante della Stazione, possa autorizzare senza alcun problema o attrito col personale, una stanza da adibire all'esigenza.
Tuttavia, ribadisco che per l'Amministrazione non sussite l'obbligo a soddisfare l'esigenza in questione, dovendo tenere conto delle esigenze dei militari accasermati che hanno invece diritto a disporre di spazi adeguati ed il più possibile puliti e salubri.
Ogni comandante poi, dovrebbe valutare ogni singola situazione per ottimizzare le strutture disponibili e venire contemporaneamente incontro alle esigenze dei militari, siano questi accasermati e non.
Cordialmente
Re: Cambiarsi in caserma o sul posto di lavoro
Il casco della moto in caso si viaggi in divisa puo' essere indossato purche' sia di foggia che non pregiudichi il decoro della stessa (casco con orecchiette di maiale applicate o colore rosa shocking tanto per fare qualche esempio). Altra precisazione e' che nessuno al di fuori dell'orario di servizio puo' importi di indossare la divisa. Io arrivo in borghese, mi cambio e prendo servizio tranquillamente. Ragazzi e' ora che i militari inizino ad applicare l'equazione diritti/doveri e non solo doveri/doveri.
Re: Cambiarsi in caserma o sul posto di lavoro
CORTE DI CASSAZIONE - Sentenza 28 aprile 2015, n. 8585
Lavoro - Raccolta e smaltimento rifiuti - Obblighi del datore di lavoro - Manutenzione degli indumenti - Lavaggio
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Svolgimento del processo
Con sentenza del 24/12/2007 la Corte d’appello di Cagliari in riforma della sentenza del Tribunale, ha riconosciuto l’obbligo per legge (ai sensi dell’art 379 del DPR n 547/1955 e degli artt. 40 e 43 del dlgs n. 626/1994) gravante sulla G., in qualità di impresa che svolge attività insalubre di raccolta e smaltimento di rifiuti, di provvedere alla fornitura e manutenzione periodica ivi compreso il lavaggio dei dispositivi di protezione individuale e la conseguente nullità della previsione di cui all’art. 21 lett. r) del ccnl del 1995 che prevedeva l’obbligo a carico dei lavoratori del lavaggio seppure dietro il compenso di L 500 per ogni giorno di effettiva presenza al lavoro.
La Corte ha affermato che la disciplina legale non poteva essere derogata dalla normativa collettiva e da patti individuali; che la G. era stata inadempiente agli obblighi legali con conseguente obbligo di risarcire il danno ai lavoratori per i costi affrontati, l’attività ed il tempo impiegati.
La Corte territoriale ha, poi, disposto una CTU per la quantificazione dell’importo da liquidare ai lavoratori ed ha escluso che da detto importo potessero essere detratte L. 500, cioè quanto previsto dal CCNL a titolo di indennità di cui all’art. 21 del CCNL, poiché detta somma risultava inscindibilmente connessa - come si evinceva dalla conservazione anche nel successivo ccnl del 2004 pur a fronte della soppressione dell’obbligo di lavaggio dei dispositivi di protezione- con il lavaggio degli altri indumenti civili diversi dai dispositivi di protezione.
Avverso la sentenza ricorre la soc. G. formulando tre motivi.
Resistono i lavoratori. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la G. denuncia vizio di motivazione. Lamenta che la Corte non aveva valutato la distinzione tra i dispositivi di protezione (tute protettive, guanti, scarpe rigide e soprascarpe, caschi e giacche rifrangenti), dal corredo di abiti consegnati ed indossati dagli operatori al solo fine di preservare i loro indumenti privati nel corso del lavoro. Rileva che in azienda i dispositivi di sicurezza erano a perdere e non necessitavano di lavaggio e che i lavoratori avevano curato il lavaggio solo degli indumenti fomiti dall’impresa in sostituzione degli abiti civili e per preservare gli abiti civili privati.
Con il secondo motivo denuncia contraddittorietà di motivazione in quanto la Corte aveva affermato che i lavoratori avevano curato la manutenzione dei dispositivi di protezione, sebbene dalla CTU fosse emerso che i lavoratori avevano curato il lavaggio degli indumenti comuni.
Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 1218 cc e del CCNL nella parte in cui fissa l’indennità per lavaggio, nonché vizio di motivazione.
Censura la mancata valutazione della percezione dell’indennità di L 500 e, comunque, la mancata sottrazione di detto importo dalle somme riconosciute ai lavoratori.
Le censure, congiuntamente esaminate stante la loro connessione, sono infondate.
La ricorrente afferma che il punto decisivo non era quello di stabilire se i dispositivi di protezione consegnati e utilizzati per la sicurezza dovessero essere mantenuti in efficienza dai lavoratori, bensì quello di stabilire se gli indumenti in ordine ai quali i lavoratori lamentavano di aver curato il lavaggio facessero parte del novero dei dispositivi di protezione oppure del corredo di abiti consegnati ed indossati dagli operatori al solo fine di preservare i loro indumenti. La G. deduce che in tutti i suoi cantieri erano adottati dispositivi di protezione a perdere - tute protettive, guanti scarpe rigide, soprascarpe, caschi, giacche rifrangenti nonché indumenti volti a preservare dall’usura gli abiti civili di proprietà dei dipendenti e che solo con riferimento a questi ultimi i lavoratori provvedevano al loro lavaggio. La società lamenta, pertanto, che la Corte aveva omesso di esaminare tale questione decisiva.
Dall’esame dell’esposizione in fatto contenuta nella sentenza impugnata emerge che con il ricorso introduttivo i ricorrenti, addetti al servizio di raccolta , trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani, con esposizione al contatto con sostanze nocive, avevano riferito che il datore di lavoro aveva fornito loro una serie di indumenti come dispositivi di protezione individuale dai rischi per la salute e che tuttavia, la G., violando l’obbligo per legge su di essa gravante , aveva posto a carico dei lavoratori l’onere del lavaggio dei predetti indumenti.
Dalla sentenza impugnata emerge altresì, che il Tribunale , accertato che gli indumenti cui i ricorrenti si riferivano erano dispositivi di protezione individuale , ha affermato la nullità della clausola della contrattazione collettiva, per contrasto con gli artt. 377 e 379 del DPR n 547/1955, in quanto riconosceva un’indennità di L. 500 giornaliera per il lavaggio di detti dispositivi di protezione, ammettendo cioè la possibilità che il lavaggio potesse essere effettuato dai lavoratori al posto del datore di lavoro in contrasto con le norme citate.
Nella sentenza qui impugnata la Corte territoriale ha confermato l’obbligo del datore di lavoro per legge di provvedere alla manutenzione, ivi compreso il lavaggio, degli indumenti consegnati ai lavoratori in quanto dispositivi di protezione e quantifica il risarcimento attraverso il ricorso ad una CTU che, dopo aver descritto le caratteristiche degli indumenti fomiti ai dipendenti dalla G. come dispositivi di protezione individuale, ha stimato i costi sostenuti per provvedere al loro lavaggio personalmente da parte dei lavoratori.
Nella sentenza impugnata non vi è, dunque, alcun riferimento ad altri indumenti consegnati ai lavoratori che non fossero dispositivi di protezione individuale, né risulta che i dispositivi di protezione in uso presso l’azienda fossero "a perdere" come affermato in ricorso dalla società.
Sia la sentenza del Tribunale sia quella qui impugnata accertano che gli indumenti consegnati ai lavoratori dalla G. erano dispositivi di protezione individuale, né risulta dalle sentenze che i dispositivi di protezione fomiti dall’azienda fossero altri ed "a perdere".
Le censure della G. si risolvono nell'inammissibile richiesta di un riesame di circostanze fattuali già vagliate dai Giudici del merito che hanno qualificato gli indumenti di cui all’elenco fornito dai lavoratori fin dal primo grado dispositivi di protezione, così come sostenuto dagli stessi lavoratori, considerato che l’azienda svolgeva attività insalubre, di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti e, dunque, era tenuta per legge, ai sensi degli art. dpr n 547/1955 e 40 e 43 del dlgs n. 626/1994 alla fornitura e manutenzione periodica, ivi compreso il lavaggio periodico, dei dispositivi di protezione, e che, anzi nel frattempo, l'attività di lavaggio era stata assunta, in adempimento di preciso obbligo sancito dal contratto collettivo, dall'Azienda in proprio.
Il ricorso difetta, inoltre, di autosufficienza in quanto non riporta il contenuto della memoria di costituzione in primo grado con la quale sarebbe stata dedotta la funzione non protettiva, ma esclusivamente quella di preservare gli abiti civili, degli indumenti consegnati ai lavoratori per esigenze di servizio poiché normalmente in contatto con sostanze nocive, essendo altri quelli aventi tale finalità; né la G. indica in quale atto aveva affermato tempestivamente davanti ai giudici di merito di aver messo a disposizione dei lavoratori dispositivi di protezione individuale diversi da quelli indicati dai ricorrenti stessi.
Alla luce delle considerazioni che precedono la decisione della Corte territoriale non è censurabile avendo applicato i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui "l'idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori - a norma dell'art. 379 del d.P.R. n. 547 del 1955 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai sensi degli artt. 40, 43, commi terzo e quarto, di tale decreto, per il periodo successivo - deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 Cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l'insorgenza e il diffondersi d'infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dalle citate disposizioni". Dall’inadempimento a tale obbligo la Corte territoriale ha fatto correttamente discendere il diritto dei lavoratori al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1218 c.c., risultando affetta da nullità parziale, per contrasto con norme imperative (artt.377 e 379 del d.P.R. n. 547 del 1955, fino alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 626 del 1994 ed a norma degli artt. 40, comma 1 e 43, commi 3 e 4) la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo (cfr., ex plurimis, Cass. n. 22929/2005; n. 14712/2006; n.18537/2007; n. 11729/2009; n.23314/2010; e da ultimo n. 16495/2014 ed altre relative ad una stessa azienda ; cfr., altresì, Cass., n. 11139/1998).
Quanto alla mancata detrazione dell’importo giornaliero di L.500 dalle somme riconosciute ai lavoratori la Corte d’appello ha fornito una congrua e valida interpretazione delle norme della contrattazione collettiva, non adeguatamente contrastata dalle censure della ricorrente, rilevando che, come si evinceva dalla conservazione di detto importo anche nel successivo contratto collettivo del 2004 pur a fronte della disposta soppressione del l'obbligo dei lavoratori di provvedere al lavaggio dei dispositivi di protezione, la somma in esame era inscindibilmente connessa con il lavaggio da parte dei lavoratori degli altri indumenti civili, diversi dai dispositivi di protezione individuale.
Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato con condanna della ricorrente al rimborso ai contro ricorrenti in solido delle spese relative al presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a versare ai contro ricorrenti in solido €100,00 per esborsi ed € 5.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.
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Spetta al datore fornire e pulire gli indumenti di lavoro
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È il datore di lavoro che deve provvedere a fornire e, periodicamente, a lavare gli indumenti da lavoro dei propri dipendenti o, diversamente, a indennizzarli per le spese sostenute a tale scopo.
Diversamente, scatta il risarcimento danni a carico dell’azienda. È quanto emerge da una sentenza della Cassazione pubblicata questa mattina [1].
Secondo i giudici supremi, ricade sul datore, e non sul lavoratore, l’obbligo di garantire l’efficienza degli equipaggiamenti in dotazione (per es. i dispositivi di protezione individuale) [2]: un obbligo che sussiste non solo per quanto riguarda la prima consegna del suddetto vestiario, ma anche per l’intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Viene così definitivamente riconosciuto, a carico del datore, il dovere di provvedere alla fornitura e manutenzione periodica, compreso il lavaggio, degli indumenti. Se l’azienda è inadempiente i lavoratori possono ricorrere al giudice e chiedere, in tale sede, di essere risarciti nei danni per le spese sostenute, l’attività e il tempo impiegati.
La conseguenza è che, “essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro” essendo quest’ultimo l’effettivo destinatario delle norme di legge [2] che impongono di dotare i dipendenti di idonei equipaggiamenti.
[1] Cass. sent. n. 8585/15 del 28.04.2015.
[2] A norma dell’art. 379 del Dpr. n. 457/55 fino alla data di entrata in vigore del Dlgs. n. 626/94 e ai sensi degli artt. 40, 43, commi terzo e quarto, di tale decreto.
Lavoro - Raccolta e smaltimento rifiuti - Obblighi del datore di lavoro - Manutenzione degli indumenti - Lavaggio
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Svolgimento del processo
Con sentenza del 24/12/2007 la Corte d’appello di Cagliari in riforma della sentenza del Tribunale, ha riconosciuto l’obbligo per legge (ai sensi dell’art 379 del DPR n 547/1955 e degli artt. 40 e 43 del dlgs n. 626/1994) gravante sulla G., in qualità di impresa che svolge attività insalubre di raccolta e smaltimento di rifiuti, di provvedere alla fornitura e manutenzione periodica ivi compreso il lavaggio dei dispositivi di protezione individuale e la conseguente nullità della previsione di cui all’art. 21 lett. r) del ccnl del 1995 che prevedeva l’obbligo a carico dei lavoratori del lavaggio seppure dietro il compenso di L 500 per ogni giorno di effettiva presenza al lavoro.
La Corte ha affermato che la disciplina legale non poteva essere derogata dalla normativa collettiva e da patti individuali; che la G. era stata inadempiente agli obblighi legali con conseguente obbligo di risarcire il danno ai lavoratori per i costi affrontati, l’attività ed il tempo impiegati.
La Corte territoriale ha, poi, disposto una CTU per la quantificazione dell’importo da liquidare ai lavoratori ed ha escluso che da detto importo potessero essere detratte L. 500, cioè quanto previsto dal CCNL a titolo di indennità di cui all’art. 21 del CCNL, poiché detta somma risultava inscindibilmente connessa - come si evinceva dalla conservazione anche nel successivo ccnl del 2004 pur a fronte della soppressione dell’obbligo di lavaggio dei dispositivi di protezione- con il lavaggio degli altri indumenti civili diversi dai dispositivi di protezione.
Avverso la sentenza ricorre la soc. G. formulando tre motivi.
Resistono i lavoratori. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la G. denuncia vizio di motivazione. Lamenta che la Corte non aveva valutato la distinzione tra i dispositivi di protezione (tute protettive, guanti, scarpe rigide e soprascarpe, caschi e giacche rifrangenti), dal corredo di abiti consegnati ed indossati dagli operatori al solo fine di preservare i loro indumenti privati nel corso del lavoro. Rileva che in azienda i dispositivi di sicurezza erano a perdere e non necessitavano di lavaggio e che i lavoratori avevano curato il lavaggio solo degli indumenti fomiti dall’impresa in sostituzione degli abiti civili e per preservare gli abiti civili privati.
Con il secondo motivo denuncia contraddittorietà di motivazione in quanto la Corte aveva affermato che i lavoratori avevano curato la manutenzione dei dispositivi di protezione, sebbene dalla CTU fosse emerso che i lavoratori avevano curato il lavaggio degli indumenti comuni.
Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 1218 cc e del CCNL nella parte in cui fissa l’indennità per lavaggio, nonché vizio di motivazione.
Censura la mancata valutazione della percezione dell’indennità di L 500 e, comunque, la mancata sottrazione di detto importo dalle somme riconosciute ai lavoratori.
Le censure, congiuntamente esaminate stante la loro connessione, sono infondate.
La ricorrente afferma che il punto decisivo non era quello di stabilire se i dispositivi di protezione consegnati e utilizzati per la sicurezza dovessero essere mantenuti in efficienza dai lavoratori, bensì quello di stabilire se gli indumenti in ordine ai quali i lavoratori lamentavano di aver curato il lavaggio facessero parte del novero dei dispositivi di protezione oppure del corredo di abiti consegnati ed indossati dagli operatori al solo fine di preservare i loro indumenti. La G. deduce che in tutti i suoi cantieri erano adottati dispositivi di protezione a perdere - tute protettive, guanti scarpe rigide, soprascarpe, caschi, giacche rifrangenti nonché indumenti volti a preservare dall’usura gli abiti civili di proprietà dei dipendenti e che solo con riferimento a questi ultimi i lavoratori provvedevano al loro lavaggio. La società lamenta, pertanto, che la Corte aveva omesso di esaminare tale questione decisiva.
Dall’esame dell’esposizione in fatto contenuta nella sentenza impugnata emerge che con il ricorso introduttivo i ricorrenti, addetti al servizio di raccolta , trasporto e smaltimento di rifiuti solidi urbani, con esposizione al contatto con sostanze nocive, avevano riferito che il datore di lavoro aveva fornito loro una serie di indumenti come dispositivi di protezione individuale dai rischi per la salute e che tuttavia, la G., violando l’obbligo per legge su di essa gravante , aveva posto a carico dei lavoratori l’onere del lavaggio dei predetti indumenti.
Dalla sentenza impugnata emerge altresì, che il Tribunale , accertato che gli indumenti cui i ricorrenti si riferivano erano dispositivi di protezione individuale , ha affermato la nullità della clausola della contrattazione collettiva, per contrasto con gli artt. 377 e 379 del DPR n 547/1955, in quanto riconosceva un’indennità di L. 500 giornaliera per il lavaggio di detti dispositivi di protezione, ammettendo cioè la possibilità che il lavaggio potesse essere effettuato dai lavoratori al posto del datore di lavoro in contrasto con le norme citate.
Nella sentenza qui impugnata la Corte territoriale ha confermato l’obbligo del datore di lavoro per legge di provvedere alla manutenzione, ivi compreso il lavaggio, degli indumenti consegnati ai lavoratori in quanto dispositivi di protezione e quantifica il risarcimento attraverso il ricorso ad una CTU che, dopo aver descritto le caratteristiche degli indumenti fomiti ai dipendenti dalla G. come dispositivi di protezione individuale, ha stimato i costi sostenuti per provvedere al loro lavaggio personalmente da parte dei lavoratori.
Nella sentenza impugnata non vi è, dunque, alcun riferimento ad altri indumenti consegnati ai lavoratori che non fossero dispositivi di protezione individuale, né risulta che i dispositivi di protezione in uso presso l’azienda fossero "a perdere" come affermato in ricorso dalla società.
Sia la sentenza del Tribunale sia quella qui impugnata accertano che gli indumenti consegnati ai lavoratori dalla G. erano dispositivi di protezione individuale, né risulta dalle sentenze che i dispositivi di protezione fomiti dall’azienda fossero altri ed "a perdere".
Le censure della G. si risolvono nell'inammissibile richiesta di un riesame di circostanze fattuali già vagliate dai Giudici del merito che hanno qualificato gli indumenti di cui all’elenco fornito dai lavoratori fin dal primo grado dispositivi di protezione, così come sostenuto dagli stessi lavoratori, considerato che l’azienda svolgeva attività insalubre, di raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti e, dunque, era tenuta per legge, ai sensi degli art. dpr n 547/1955 e 40 e 43 del dlgs n. 626/1994 alla fornitura e manutenzione periodica, ivi compreso il lavaggio periodico, dei dispositivi di protezione, e che, anzi nel frattempo, l'attività di lavaggio era stata assunta, in adempimento di preciso obbligo sancito dal contratto collettivo, dall'Azienda in proprio.
Il ricorso difetta, inoltre, di autosufficienza in quanto non riporta il contenuto della memoria di costituzione in primo grado con la quale sarebbe stata dedotta la funzione non protettiva, ma esclusivamente quella di preservare gli abiti civili, degli indumenti consegnati ai lavoratori per esigenze di servizio poiché normalmente in contatto con sostanze nocive, essendo altri quelli aventi tale finalità; né la G. indica in quale atto aveva affermato tempestivamente davanti ai giudici di merito di aver messo a disposizione dei lavoratori dispositivi di protezione individuale diversi da quelli indicati dai ricorrenti stessi.
Alla luce delle considerazioni che precedono la decisione della Corte territoriale non è censurabile avendo applicato i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui "l'idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori - a norma dell'art. 379 del d.P.R. n. 547 del 1955 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai sensi degli artt. 40, 43, commi terzo e quarto, di tale decreto, per il periodo successivo - deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 Cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l'insorgenza e il diffondersi d'infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dalle citate disposizioni". Dall’inadempimento a tale obbligo la Corte territoriale ha fatto correttamente discendere il diritto dei lavoratori al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 1218 c.c., risultando affetta da nullità parziale, per contrasto con norme imperative (artt.377 e 379 del d.P.R. n. 547 del 1955, fino alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 626 del 1994 ed a norma degli artt. 40, comma 1 e 43, commi 3 e 4) la clausola, in senso contrario, del contratto collettivo (cfr., ex plurimis, Cass. n. 22929/2005; n. 14712/2006; n.18537/2007; n. 11729/2009; n.23314/2010; e da ultimo n. 16495/2014 ed altre relative ad una stessa azienda ; cfr., altresì, Cass., n. 11139/1998).
Quanto alla mancata detrazione dell’importo giornaliero di L.500 dalle somme riconosciute ai lavoratori la Corte d’appello ha fornito una congrua e valida interpretazione delle norme della contrattazione collettiva, non adeguatamente contrastata dalle censure della ricorrente, rilevando che, come si evinceva dalla conservazione di detto importo anche nel successivo contratto collettivo del 2004 pur a fronte della disposta soppressione del l'obbligo dei lavoratori di provvedere al lavaggio dei dispositivi di protezione, la somma in esame era inscindibilmente connessa con il lavaggio da parte dei lavoratori degli altri indumenti civili, diversi dai dispositivi di protezione individuale.
Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato con condanna della ricorrente al rimborso ai contro ricorrenti in solido delle spese relative al presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a versare ai contro ricorrenti in solido €100,00 per esborsi ed € 5.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge.
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Spetta al datore fornire e pulire gli indumenti di lavoro
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È il datore di lavoro che deve provvedere a fornire e, periodicamente, a lavare gli indumenti da lavoro dei propri dipendenti o, diversamente, a indennizzarli per le spese sostenute a tale scopo.
Diversamente, scatta il risarcimento danni a carico dell’azienda. È quanto emerge da una sentenza della Cassazione pubblicata questa mattina [1].
Secondo i giudici supremi, ricade sul datore, e non sul lavoratore, l’obbligo di garantire l’efficienza degli equipaggiamenti in dotazione (per es. i dispositivi di protezione individuale) [2]: un obbligo che sussiste non solo per quanto riguarda la prima consegna del suddetto vestiario, ma anche per l’intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Viene così definitivamente riconosciuto, a carico del datore, il dovere di provvedere alla fornitura e manutenzione periodica, compreso il lavaggio, degli indumenti. Se l’azienda è inadempiente i lavoratori possono ricorrere al giudice e chiedere, in tale sede, di essere risarciti nei danni per le spese sostenute, l’attività e il tempo impiegati.
La conseguenza è che, “essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro” essendo quest’ultimo l’effettivo destinatario delle norme di legge [2] che impongono di dotare i dipendenti di idonei equipaggiamenti.
[1] Cass. sent. n. 8585/15 del 28.04.2015.
[2] A norma dell’art. 379 del Dpr. n. 457/55 fino alla data di entrata in vigore del Dlgs. n. 626/94 e ai sensi degli artt. 40, 43, commi terzo e quarto, di tale decreto.
Re: Cambiarsi in caserma o sul posto di lavoro
Cassazione 1998 su lavaggio indumenti da lavoro spetta al datore.
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