Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordinario
Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordinario
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce - Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale ….. del 2005, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dall’avv. OMISSIS, elettivamente domiciliato presso l’avv. OMISSIS;
contro
Ministero della Difesa - Roma, Comando dello Stato Maggiore dell’Aereonautica, Distaccamento OMISSIS, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale, domiciliataria per legge in Lecce, via F. Rubichi;
per l’annullamento
- del decreto n. …. del 23 agosto 2005 del Comando Logistico dell’Aeronautica Militare nonché della lettera di addebito e messa in mora del 27 settembre 2005 del Comando Distaccamento OMISSIS, entrambi notificati il 28 settembre 2005;
- di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
OMISSIS;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
I. Il ricorrente, Ten. Col. dell’Aeronautica militare impugna il decreto di liquidazione del danno erariale, quantificato in €. …….., per avere svolto attività extra professionale presso l’ACI di OMISSIS durante l’orario di servizio e per avere prestato attività lavorativa in misura minore rispetto a quella dichiarata (carente di n. 666 ore e 24 minuti) nel periodo considerato (1 ottobre 1999 - 31 ottobre 2001).
II. A sostegno del gravame deduce i seguenti motivi:
a) erronea applicazione delle norme sull’orario di servizio e del rapporto di impiego del personale militare;
b) eccesso di potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti, carenza di istruttoria, inosservanza di norme interne, manifesta illogicità e ingiustizia.
III. Si è costituita l’Amministrazione intimata, concludendo per il rigetto del ricorso.
IV. All’udienza pubblica del 26 gennaio 2012, fissata per la trattazione, la causa è stata trattenuta per la decisione.
V. Il ricorso è infondato.
V.1. A parere del ricorrente la Commissione interna di inchiesta, incaricata di verificare eventuali responsabilità amministrative, avrebbe condotto una istruttoria carente ed erronea.
In particolare:
a) avrebbe limitato gli accertamenti sull’orario di lavoro esclusivamente all’attività lavorativa prestata nei sedimi aeroportuali di ……. e ……, omettendo di considerare quella espletata anche all’esterno del sedime aeroportuale di ……. e ……, quale Capo f.f. della ….. sezione distaccata di ….. dell’Istituto medico-legale per l’Aeronautica Militare di Roma e quale Presidente della Commissione Straordinaria per le cure balneo termali e quale membro della Commissione medica locale patenti di guida.
b) sarebbe incorsa in evidente travisamento dei fatti nella valutazione dell’attività extra professionale presso l’A.C.I. di ….., non tenendo in debito conto che la stessa si è svolta in orario di apertura pomeridiano, fuori dall’ordinario orario di servizio.
c) con riferimento alle concrete modalità di accertamento, avrebbe attribuito valore preminente alle rilevazioni dei Corpi di Guardia, rispetto alle attestazioni presentate dal ricorrente, omettendo, altresì, di computare i tempi di percorrenza.
V.2. Con riferimento al mancato computo dell’attività espletata all’esterno delle aree di sedime aeroportuali e alle modalità di calcolo si osserva quanto segue.
L’orario di lavoro, quale elemento del sinallagma contrattuale prestazione/retribuzione che caratterizza il rapporto di lavoro, deve essere documentato e accertato mediante controlli di tipo automatico o, comunque, obiettivi e verificabili. L’obbligo vale per tutto il personale, senza distinzione di grado (art. 11 del d.P.R. n. 163/2002; normativa interna: SMA-ORD-011, pag. 15).
Inoltre, “le presenze devono coincidere con l’orario giornaliero (“rectius” di servizio), stabilito per il Reparto/Ente di appartenenza, che il dipendente è tenuto a rispettare, a norma dell’art. 44 del Regolamento di Disciplina Militare” (“Normativa generale sull’orario di servizio e sul lavoro straordinario” dello Stato maggiore dell’Aeronautica” - SMA-ORD-011 ed. febbraio 2003, in atti).
V.2.1. Ora, se è vero che, le citate disposizioni organizzative interne consentono al personale provvisto del grado di Tenente Colonnello che assolva le funzioni di Comandante del Corpo di autocertificare la propria attività lavorativa, dalla verifica della documentazione acquisita dalla Commissione di indagine emergono delle significative discrasie nell’indicazione degli orari, rispettivamente: a) rilevati dagli organi di vigilanza del …. Stormo di …… e del Distaccamento di ……..(ingresso/uscita); b) autocertificati nello statino giornaliero delle presenze; c) autocertificati negli specchi riepilogativi, comunicati mensilmente al Comandante del Corpo; d) riportati nei visti apposti sui CC.VV. in occasione delle missioni a cura dell’Ufficio Comando di OMISSIS.
V.2.2. Ciò premesso, quanto affermato dal ricorrente, al fine di superare le contraddizioni e dimostrare il completamento del monte ore, non è supportato da sufficienti principi di prova e, vale, per il resto, a confermare le conclusioni della Commissione di indagine:
1) con riferimento al rispetto dell’orario di lavoro non vi sono riscontri oggettivi circa la frequenza e periodicità dell’attività di sorveglianza sanitaria presso le postazioni esterne ai sedimi. Il ricorrente si limita ad affermare che si trattava di compiti svolti prima o dopo l’espletamento delle proprie prestazioni presso le basi aeroportuali, raggiungendo le sedi con l’utilizzo di auto privata (senza, cioè, fare ricorso ai locali autoparchi) e di non avere relazionato, a consuntivo, sull’attività svolta per esigenze di sicurezza, riferendo, se del caso, oralmente ai Comandanti responsabili.
2) con riguardo al rispetto dell’orario di servizio, lo stesso ricorrente afferma:
a) che il proprio orario di lavoro poteva variare dalle ore 6.00 alle 22.00 (a fronte di un orario di servizio articolato come segue: 8.00-16.00 e 8.00-12.00, il venerdì).
Vero è che, secondo le disposizioni interne del 2000 (SMA/102/13572/F3-1/2 del 31 luglio 2000), “Nelle unità operative, addestrative, logistiche, gli orari di inizio e termine dell’attività … possono essere articolate, in relazione a particolari esigenze di servizio, anche su diverse fasce orarie comprese nell’arco diurno che va dalle 6.00 alle 22.00” ma è anche disposto che “le eventuali proposte relative a varianti rispetto all’orario di base di F.A., opportunamente motivate, devono essere rappresentate per via gerarchica allo Stato Maggiore A.M. per le successive determinazioni del Signor capo si S.M.A.” e, ancora, che “I Comandanti di Corpo possono apportare all’orario dell’Ente/Comando/Reparto modifiche temporanee, purché occasionali…. Di tali modifiche, comunque, deve essere data tempestiva comunicazione all’Autorità sovraordinata”.
Nel caso di specie, non risulta alcuna comunicazione né preventiva né successiva in ordine alla diversa articolazione dell’orario di lavoro.
b) in occasione di temporanee sospensioni dal servizio non ha annotato sul foglio firma la sospensione ma ha posticipato l’inizio;
c) nello specchio riepilogativo mensile non ha indicato gli orari di entrata/uscita, ma, previo calcolo dell’orario svolto desunto dai fogli firma giornalieri, ha riportato un orario standard, già compensato delle eccedenze/carenze.
Tali circostanze rendono complessivamente inattendibili le dichiarazioni effettuate dal ricorrente in ordine al rispetto dell’orario di lavoro e di servizio.
V.2.3. Puntuale e scevra da profili di irrazionalità è stata, invece, l’attività istruttoria di ricostruzione dell’effettivo servizio svolto presso le basi di OMISSIS, OMISSIS e presso gli altri Enti di missione.
A) I criteri utilizzati attribuiscono, secondo ragionevolezza, il seguente ordine di prevalenza, privilegiando quanto oggettivamente riscontrato: 1) entrata/uscita presso i sedimi aeroportuali, riportate nelle registrazioni annotate dal personale di vigilanza; 2) in mancanza, quanto certificato dall’Ufficio Comando con appositi visti sui CC.VV. compilati, relativamente alle missioni per OMISSIS o altri Enti; 3) in mancanza, si considera osservato l’orario di servizio previsto per ciascuna giornata.
B) La Commissione, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, ha provveduto a computare nell’orario di servizio espletato, ai fini del raggiungimento del monte ore previsto: a) l’attività di componente e vice presidente della “Commissione medica locale patenti di guida” (totale: n. 435 ore lavorate) prendendo atto della certificazione prodotta dall’organo di riferimento; nonché b) il servizio di reperibilità svolto durante il corso di sopravvivenza dal 20 al 28 agosto 2000 (totale: n. 9 ore).
C) Con riferimento alla mancata valutazione, tra le attività di servizio, della Presidenza della Commissione per le cure balneo termali riunitasi nel periodo autunnale di ogni anno, la censura è generica e, come tale, inammissibile. Il ricorrente, pur certificando, per l’anno 2001, il provvedimento di nomina, non ha fornito alcun elemento probatorio in ordine alla effettiva partecipazione, onde potere sindacare il provvedimento di recupero gravato anche sotto tale profilo.
V.3. Per quanto concerne l’attività lavorativa extraprofessionale svolta presso l’A.C.I. di OMISSIS, accertata in astratto la legittimità della prestazione, la Commissione rettamente ne contesta le modalità di effettuazione, espletate, almeno in parte, in orario di servizio. Lo stesso ricorrente ha ammesso, in sede di indagine amministrativa, il differimento dell’orario di inizio della prestazione lavorativa, in luogo dell’annotazione delle interruzioni effettuate, per recarsi a svolgere tali attività professionali private. Si riporta, a pag. 12 della relazione di indagine prodotta in atti, che il ricorrente avrebbe evidenziato che “nel periodo marzo 2000-maggio 2001, per le prestazioni fornite al mattino, ha sospeso il servizio per periodo tra 30 e 45 minuti, intorno alle ore 8.45-9.30, per recarsi all’ACI. In tal caso ha provveduto a posticipare sul foglio firma l’orario di inizio di attività”.
VI. In definitiva, devono ritenersi adeguatamente documentate ed esenti da vizi di palese irragionevolezza le conclusioni istruttorie cui è pervenuta la Commissione di indagine, atti presupposti per l’addebito della responsabilità amministrativo – patrimoniale e per il conseguente provvedimento amministrativo di recupero, gravato nel presente giudizio.
VII. Sulla base delle sovra esposte considerazioni, il ricorso va respinto.
VIII. Attesa la peculiarità della questione, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e competenze di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Terza definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa tra le parti le spese e competenze di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 26 gennaio 2012 con l’intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Ettore Manca, Consigliere
Gabriella Caprini, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/02/2012
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce - Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale ….. del 2005, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dall’avv. OMISSIS, elettivamente domiciliato presso l’avv. OMISSIS;
contro
Ministero della Difesa - Roma, Comando dello Stato Maggiore dell’Aereonautica, Distaccamento OMISSIS, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale, domiciliataria per legge in Lecce, via F. Rubichi;
per l’annullamento
- del decreto n. …. del 23 agosto 2005 del Comando Logistico dell’Aeronautica Militare nonché della lettera di addebito e messa in mora del 27 settembre 2005 del Comando Distaccamento OMISSIS, entrambi notificati il 28 settembre 2005;
- di ogni altro atto presupposto, conseguente e comunque connesso.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
OMISSIS;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
I. Il ricorrente, Ten. Col. dell’Aeronautica militare impugna il decreto di liquidazione del danno erariale, quantificato in €. …….., per avere svolto attività extra professionale presso l’ACI di OMISSIS durante l’orario di servizio e per avere prestato attività lavorativa in misura minore rispetto a quella dichiarata (carente di n. 666 ore e 24 minuti) nel periodo considerato (1 ottobre 1999 - 31 ottobre 2001).
II. A sostegno del gravame deduce i seguenti motivi:
a) erronea applicazione delle norme sull’orario di servizio e del rapporto di impiego del personale militare;
b) eccesso di potere per travisamento dei fatti ed erronea valutazione dei presupposti, carenza di istruttoria, inosservanza di norme interne, manifesta illogicità e ingiustizia.
III. Si è costituita l’Amministrazione intimata, concludendo per il rigetto del ricorso.
IV. All’udienza pubblica del 26 gennaio 2012, fissata per la trattazione, la causa è stata trattenuta per la decisione.
V. Il ricorso è infondato.
V.1. A parere del ricorrente la Commissione interna di inchiesta, incaricata di verificare eventuali responsabilità amministrative, avrebbe condotto una istruttoria carente ed erronea.
In particolare:
a) avrebbe limitato gli accertamenti sull’orario di lavoro esclusivamente all’attività lavorativa prestata nei sedimi aeroportuali di ……. e ……, omettendo di considerare quella espletata anche all’esterno del sedime aeroportuale di ……. e ……, quale Capo f.f. della ….. sezione distaccata di ….. dell’Istituto medico-legale per l’Aeronautica Militare di Roma e quale Presidente della Commissione Straordinaria per le cure balneo termali e quale membro della Commissione medica locale patenti di guida.
b) sarebbe incorsa in evidente travisamento dei fatti nella valutazione dell’attività extra professionale presso l’A.C.I. di ….., non tenendo in debito conto che la stessa si è svolta in orario di apertura pomeridiano, fuori dall’ordinario orario di servizio.
c) con riferimento alle concrete modalità di accertamento, avrebbe attribuito valore preminente alle rilevazioni dei Corpi di Guardia, rispetto alle attestazioni presentate dal ricorrente, omettendo, altresì, di computare i tempi di percorrenza.
V.2. Con riferimento al mancato computo dell’attività espletata all’esterno delle aree di sedime aeroportuali e alle modalità di calcolo si osserva quanto segue.
L’orario di lavoro, quale elemento del sinallagma contrattuale prestazione/retribuzione che caratterizza il rapporto di lavoro, deve essere documentato e accertato mediante controlli di tipo automatico o, comunque, obiettivi e verificabili. L’obbligo vale per tutto il personale, senza distinzione di grado (art. 11 del d.P.R. n. 163/2002; normativa interna: SMA-ORD-011, pag. 15).
Inoltre, “le presenze devono coincidere con l’orario giornaliero (“rectius” di servizio), stabilito per il Reparto/Ente di appartenenza, che il dipendente è tenuto a rispettare, a norma dell’art. 44 del Regolamento di Disciplina Militare” (“Normativa generale sull’orario di servizio e sul lavoro straordinario” dello Stato maggiore dell’Aeronautica” - SMA-ORD-011 ed. febbraio 2003, in atti).
V.2.1. Ora, se è vero che, le citate disposizioni organizzative interne consentono al personale provvisto del grado di Tenente Colonnello che assolva le funzioni di Comandante del Corpo di autocertificare la propria attività lavorativa, dalla verifica della documentazione acquisita dalla Commissione di indagine emergono delle significative discrasie nell’indicazione degli orari, rispettivamente: a) rilevati dagli organi di vigilanza del …. Stormo di …… e del Distaccamento di ……..(ingresso/uscita); b) autocertificati nello statino giornaliero delle presenze; c) autocertificati negli specchi riepilogativi, comunicati mensilmente al Comandante del Corpo; d) riportati nei visti apposti sui CC.VV. in occasione delle missioni a cura dell’Ufficio Comando di OMISSIS.
V.2.2. Ciò premesso, quanto affermato dal ricorrente, al fine di superare le contraddizioni e dimostrare il completamento del monte ore, non è supportato da sufficienti principi di prova e, vale, per il resto, a confermare le conclusioni della Commissione di indagine:
1) con riferimento al rispetto dell’orario di lavoro non vi sono riscontri oggettivi circa la frequenza e periodicità dell’attività di sorveglianza sanitaria presso le postazioni esterne ai sedimi. Il ricorrente si limita ad affermare che si trattava di compiti svolti prima o dopo l’espletamento delle proprie prestazioni presso le basi aeroportuali, raggiungendo le sedi con l’utilizzo di auto privata (senza, cioè, fare ricorso ai locali autoparchi) e di non avere relazionato, a consuntivo, sull’attività svolta per esigenze di sicurezza, riferendo, se del caso, oralmente ai Comandanti responsabili.
2) con riguardo al rispetto dell’orario di servizio, lo stesso ricorrente afferma:
a) che il proprio orario di lavoro poteva variare dalle ore 6.00 alle 22.00 (a fronte di un orario di servizio articolato come segue: 8.00-16.00 e 8.00-12.00, il venerdì).
Vero è che, secondo le disposizioni interne del 2000 (SMA/102/13572/F3-1/2 del 31 luglio 2000), “Nelle unità operative, addestrative, logistiche, gli orari di inizio e termine dell’attività … possono essere articolate, in relazione a particolari esigenze di servizio, anche su diverse fasce orarie comprese nell’arco diurno che va dalle 6.00 alle 22.00” ma è anche disposto che “le eventuali proposte relative a varianti rispetto all’orario di base di F.A., opportunamente motivate, devono essere rappresentate per via gerarchica allo Stato Maggiore A.M. per le successive determinazioni del Signor capo si S.M.A.” e, ancora, che “I Comandanti di Corpo possono apportare all’orario dell’Ente/Comando/Reparto modifiche temporanee, purché occasionali…. Di tali modifiche, comunque, deve essere data tempestiva comunicazione all’Autorità sovraordinata”.
Nel caso di specie, non risulta alcuna comunicazione né preventiva né successiva in ordine alla diversa articolazione dell’orario di lavoro.
b) in occasione di temporanee sospensioni dal servizio non ha annotato sul foglio firma la sospensione ma ha posticipato l’inizio;
c) nello specchio riepilogativo mensile non ha indicato gli orari di entrata/uscita, ma, previo calcolo dell’orario svolto desunto dai fogli firma giornalieri, ha riportato un orario standard, già compensato delle eccedenze/carenze.
Tali circostanze rendono complessivamente inattendibili le dichiarazioni effettuate dal ricorrente in ordine al rispetto dell’orario di lavoro e di servizio.
V.2.3. Puntuale e scevra da profili di irrazionalità è stata, invece, l’attività istruttoria di ricostruzione dell’effettivo servizio svolto presso le basi di OMISSIS, OMISSIS e presso gli altri Enti di missione.
A) I criteri utilizzati attribuiscono, secondo ragionevolezza, il seguente ordine di prevalenza, privilegiando quanto oggettivamente riscontrato: 1) entrata/uscita presso i sedimi aeroportuali, riportate nelle registrazioni annotate dal personale di vigilanza; 2) in mancanza, quanto certificato dall’Ufficio Comando con appositi visti sui CC.VV. compilati, relativamente alle missioni per OMISSIS o altri Enti; 3) in mancanza, si considera osservato l’orario di servizio previsto per ciascuna giornata.
B) La Commissione, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, ha provveduto a computare nell’orario di servizio espletato, ai fini del raggiungimento del monte ore previsto: a) l’attività di componente e vice presidente della “Commissione medica locale patenti di guida” (totale: n. 435 ore lavorate) prendendo atto della certificazione prodotta dall’organo di riferimento; nonché b) il servizio di reperibilità svolto durante il corso di sopravvivenza dal 20 al 28 agosto 2000 (totale: n. 9 ore).
C) Con riferimento alla mancata valutazione, tra le attività di servizio, della Presidenza della Commissione per le cure balneo termali riunitasi nel periodo autunnale di ogni anno, la censura è generica e, come tale, inammissibile. Il ricorrente, pur certificando, per l’anno 2001, il provvedimento di nomina, non ha fornito alcun elemento probatorio in ordine alla effettiva partecipazione, onde potere sindacare il provvedimento di recupero gravato anche sotto tale profilo.
V.3. Per quanto concerne l’attività lavorativa extraprofessionale svolta presso l’A.C.I. di OMISSIS, accertata in astratto la legittimità della prestazione, la Commissione rettamente ne contesta le modalità di effettuazione, espletate, almeno in parte, in orario di servizio. Lo stesso ricorrente ha ammesso, in sede di indagine amministrativa, il differimento dell’orario di inizio della prestazione lavorativa, in luogo dell’annotazione delle interruzioni effettuate, per recarsi a svolgere tali attività professionali private. Si riporta, a pag. 12 della relazione di indagine prodotta in atti, che il ricorrente avrebbe evidenziato che “nel periodo marzo 2000-maggio 2001, per le prestazioni fornite al mattino, ha sospeso il servizio per periodo tra 30 e 45 minuti, intorno alle ore 8.45-9.30, per recarsi all’ACI. In tal caso ha provveduto a posticipare sul foglio firma l’orario di inizio di attività”.
VI. In definitiva, devono ritenersi adeguatamente documentate ed esenti da vizi di palese irragionevolezza le conclusioni istruttorie cui è pervenuta la Commissione di indagine, atti presupposti per l’addebito della responsabilità amministrativo – patrimoniale e per il conseguente provvedimento amministrativo di recupero, gravato nel presente giudizio.
VII. Sulla base delle sovra esposte considerazioni, il ricorso va respinto.
VIII. Attesa la peculiarità della questione, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese e competenze di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Terza definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Compensa tra le parti le spese e competenze di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 26 gennaio 2012 con l’intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Ettore Manca, Consigliere
Gabriella Caprini, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 29/02/2012
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
Attività extraprofessionale, Art. 53, comma 7 D.lgs 165/2001.
1) - L’art. 53, comma 7, D.lgs. 165/2001 (TU Pubblico impiego) dispone in via generale che i dipendenti pubblici non possano svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
2) - In caso di inosservanza del divieto, salva la responsabilità disciplinare, è previsto espressamente che il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte sia versato nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
3) - Tale norma si applica a tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche compresi per espressa previsione dello stesso art. 53, comma 6 quelli di cui all'articolo 3 del medesimo Testo Unico ovverosia i dipendenti del cd. regime pubblico non privatizzato, tra cui notoriamente rientra il personale militare.
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N. 01157/2012 REG.PROV.COLL.
N. 01729/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce - Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1729 del 2011, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
G. C., rappresentato e difeso dagli avv. Alessandro Lucchetti, Elena Daniele, Valeria Pellegrino, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima in Lecce, via Augusto Imperatore, 16;
contro
Ministero della Difesa, Direzione Commissariato Marina Militare di Taranto, Centro Ospedaliero Militare Medaglie D'Oro “G. Venticinque” di Taranto, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliataria per legge in Lecce, via F. Rubichi 23;
per l'annullamento
- della nota prot. n. 41278 del 19 luglio 2011 della Marina Militare, Direzione Commissariato Militare Marittimo di Taranto, notificato in data 4 agosto 2011;
- della nota prot. n. M_D_MDPTTA 0009927 8 giugno 2011 del Comando in capo del Dipartimento Militare Marittim della Jonio e del Canale d'Otranto diretta al C.O.M. Taranto e notificata al ricorrente in data 14 giugno 2011;
- della nota prot. n. M_D_ GMIL III750235842 del 12 maggio 2011 del Ministero della Difesa;
- della nota prot. n. DFP_IFP_RA0000295 P- dell'1 febbraio 2011 della Presidenza del Consiglio dei Ministri con l'allegata relazione del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Ancona, nella quale si individuano le prestazioni extraprofessionali svolte dal ricorrente e si quantificano i compensi indebitamente percepiti;
- per quanto occorrere possa, della Circolare del Ministero della Difesa DPGM 301 del 1999, della nota prot. n. M_D GMIL_04_0396572 del 31 luglio 2008, nonché dell'ordine del giorno n. 31 del 12 aprile 2011 del Centro di Selezione della Marina Militare di Ancona;
- nonché di ogni altro atto presupposto, consequenziale, connesso o collegato;
per l'accertamento della nullità della nota prot. n. 41278 del 19 luglio 2011 della Marina Militare, Direzione di Commissariato Militare Marittimo di Taranto, nonché comunque dell'insussistenza del diritto della P.A. intimata a procedere ad iniziative di recupero o sanzionatorie avverso il ricorrente;
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa e di Direzione Commissariato Marina Militare di Taranto e di Centro Ospedaliero Militare di Taranto;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2012 il dott. Luca De Gennaro e uditi per le parti i difensori avv. Daniele per il ricorrente e, nei preliminari, avv. dello Stato Libertini;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il sig. C…. è Sottufficiale della Marina Militare in servizio presso la sede di Taranto con mansioni di assistente sanitario-infermiere.
A seguito di accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza è emerso che il sig. C….. ha svolto prestazioni professionali presso una casa di cura privata, senza autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza, percependo la somma complessiva di € 120.566,23.
Sulla base di tale accertamento l’Amministrazione ha avviato, ai sensi dell’art. 53, comma 7 D.lgs 165/2001, le procedure di recupero delle somme percepite, da versarsi nel conto dell’entrata del bilancio dell’Amministrazione di appartenenza (v. la nota impugnata prot. 41278 del 19 luglio 2011, con cui l’Amministrazione militare ha preannunciato il recupero delle somme percepite).
Avverso tali atti di recupero il ricorrente propone impugnativa deducendo le seguenti censure:
- violazione dell’art. 21 septies L. 241/1990, nullità della nota prot. 41278/2011 per difetto dei requisiti essenziali, conseguente invalidità della procedura di recupero;
- violazione dell’art. 896, comma 4 D.lgs 66/2010, violazione degli artt. 51 e 3 D.lgs 165/2001, violazione del principio di legalità, violazione art. 3 L. 241/1990 ed eccesso di potere per difetto di motivazione come conseguenza della violazione degli obblighi di partecipazione procedimentale;
- violazione del principio dell’affidamento in buona fede del militare nella stabilità della disciplina dettata dai superiori, eccesso di potere nella figura sintomatica del difetto di motivazione, ingiustizia manifesta;
- in subordine, illegittimità costituzionale dell’art. 210 dell’Ordinamento militare per contrasto con gli artt. 3 e 97, anche in riferimento alla L. 43/2006;
- violazione dell’art. 1, comma 6 D.lgs 66/2010 in combinato disposto con l’art. 5 e 7 della L. 241/1990, violazione art. 3 L. 241/1990, eccesso di potere per difetto di istruttoria, sviamento di potere, prescrizione dell’azione di recupero;
- in stretto subordine, violazione dell’art. 53 D.lgs 165/2001 in ordine alla necessaria preventiva escussione del datore di lavoro;
- in ulteriore subordine, violazione art. 53 D.lgs 165/2001 in relazione al conteggio delle somme da ripetere.
Con nota dell’11 ottobre 2011, notificata il 19 dicembre 2011, l’Amministrazione ha rappresentato che dal mese di ottobre 2011 sarebbe iniziato il recupero delle somme percepite.
Tale nota è stata impugnata con motivi aggiunti.
Si è costituita l’Amministrazione chiedendo la reiezione del ricorso.
Con ordinanza 827/2011 è stata concessa la tutela cautelare.
2. All’udienza del 18 aprile 2012 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
Si deve preliminarmente dichiarare la competenza di questo Tribunale sulla base dell’art. 13, comma 2 cod. proc. amm., in quanto il ricorrente è attualmente in servizio presso il Centro Ospedaliero di Taranto.
Ininfluente a tal fine è l’impugnazione puramente nominale delle circolari sopra indicate, atteso che verso di queste non sono articolate specifiche censure; non vi sono quindi presupposti per invocare i principi stabiliti dall’Adunanza Plenaria (nn. 19 e 20 /2011) in materia competenza con riferimento alle impugnative connesse.
3. Il ricorso è fondato nei soli limiti indicati in motivazione.
3.1 Con il primo motivo la parte ricorrente deduce la nullità della nota del 19 luglio 2011 per carenza degli elementi essenziali dell’atto amministrativo.
La censura è manifestamente infondata.
Con la nota richiamata, notificata al ricorrente, l’Amministrazione ha costituito in mora il ricorrente e ha preannunciato l’avvio del recupero coattivo delle some percepite in virtù di attività extraprofessionale.
Tale atto presenta quindi tutti gli elementi essenziali richiesti:
- la forma è scritta, l’atto proviene chiaramente dagli uffici ministeriali ed è sottoscritto dal responsabile del servizio amministrativo;
- l’oggetto è chiaramente individuabile, concernendo le conseguenze patrimoniali della mancanza di autorizzazione per l’attività svolta presso case di cura private;
- il contenuto dispositivo attiene alla manifestazione di volontà relativo all’avvio della procedura di rimborso delle somme percepite, da attuarsi eventualmente in via coattiva e da definirsi con atti successivi.
3.2 Con il secondo motivo di doglianza il ricorrente deduce che l’art. 53 D.lgs. 165/2001 che prevede lo storno in favore dell’Amministrazione dei compensi ricevuti in virtù di attività svolta senza autorizzazione non sarebbe applicabile al personale militare.
La censura è infondata.
L’art. 53, comma 7, D.lgs. 165/2001 (TU Pubblico impiego) dispone in via generale che i dipendenti pubblici non possano svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
In caso di inosservanza del divieto, salva la responsabilità disciplinare, è previsto espressamente che il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte sia versato nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
Tale norma si applica a tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche compresi per espressa previsione dello stesso art. 53, comma 6 quelli di cui all'articolo 3 del medesimo Testo Unico ovverosia i dipendenti del cd. regime pubblico non privatizzato, tra cui notoriamente rientra il personale militare.
L’applicazione di tale disciplina al caso di specie non risulta impedita dall’entrata in vigore del D.lgs. 66/2010 (Codice dell’Ordinamento militare) in quanto:
- l’entrata in vigore del suddetto Codice è successiva all’attività illecitamente svolta, che risale a un periodo temporale che va dal 2001 e arriva al 2008; si deve quindi ritenere che i relativi rapporti giuridici tra dipendente e Amministrazione siano regolati dalla normativa in vigore all’epoca dell’attività extraprofessionale svolta, attività che costituisce il presupposto dell’obbligazione di versamento all’erario delle somme percepite;
- il Codice dell’Ordinamento militare, volto essenzialmente a riordinare i molteplici testi normativi in materia militare, non ha abrogato la disposizione in esame; in tale senso ad avviso del Collegio non depone la clausola di compatibilità di cui all’art. 896 D.lgs 66/2010 che si limita a far salva l’applicazione - in quanto compatibile con le disposizioni codicistiche - dell’articolo 53, commi da 8 a 16-bis D.lgs 165/2001; pertanto in assenza di previsione espressa si deve ritenere che il comma 7 suindicato, di cui nulla si dispone e facente già parte del regime normativo di tutti i dipendenti pubblici, compresi quelli per cui vige il regime pubblicistico, continui ad applicarsi anche nei confronti del personale militare.
3.3 Con il terzo motivo si contesta la violazione del legittimo affidamento del sig. B….. che avrebbe confidato nella legittimità del proprio operato indotto dall’inerzia dei superiori gerarchici.
La censura non ha pregio.
Perché si possa riconoscere un atteggiamento di colpevole inerzia in capo all’Amministrazione militare, occorrerebbe che la stessa fosse stata informata dello svolgimento dell’attività extraprofessionali.
Tale informativa, ed è proprio l’essenza dell’illecito contestato al ricorrente, non vi è mai stata in forma ufficiale né risulta dimostrata in giudizio la presunta conoscenza per vie indirette in capo al Comando militare che il sig. B….. svolgesse attività di infermiere presso istituti sanitari privati.
Si osserva che comunque, in via di mera ipotesi, qualsiasi atteggiamento accomodante, comunque indimostrato, dei superiori gerarchici non giustificherebbe di per sé la disapplicazione di una norma di rango primario; lo stesso militare in servizio è poi tenuto a conoscere obblighi e doveri inerenti al proprio status fermo che in tale ambito vale il principio dell’inescusabilità dell’ignorantia legis.
In tale prospettiva non hanno rilevanza l’esistenza di circolari nel periodo interessato che non davano conto della possibilità prevista dalla normativa primaria di recupero delle somme percepite.
Le circolari nel caso di specie, aventi una semplice valenza organizzativa volto alla ricognizione della normativa in vigore, non hanno alcuna incidenza esterna; va pertanto escluso che esse possano influire sull’applicabilità di norme primarie di legge o introdurre specifiche deroghe alla stessa.
Le eventuali carenze nella loro redazione non esonerano poi il dipendente pubblico dalla conoscenza delle norme legislative riguardanti il proprio status, rilevando eventualmente la buona fede in sede disciplinare.
Difatti l’autonomo rilievo della responsabilità disciplinare ("ferma restando la responsabilità disciplinare") porta ad escludere, già sotto l'aspetto strettamente testuale, che l'obbligo di versamento del compenso dovuto per le prestazioni svolte in dispregio del divieto sia configurabile quale sanzione disciplinare (in termini cfr. Cass 7343/2010).
Si osserva infine che, anche se sul piano delle conseguenze patrimoniali tali circolari non fossero state esaurienti, comunque sull’illiceità della propria condotta non è riconoscibile alcuna ambiguità né normativa né amministrativa posto che era chiaramente evidenziato nella normativa interna il divieto per il militare di esercitare attività extraprofessionale se non in presenza di specifica autorizzazione dell’Amministrazione. Nessuna buona fede è quindi riconoscibile in capo al ricorrente circa la liceità della propria condotta.
3.4 Con il quarto motivo si deduce l’illegittimità costituzionale dei limiti all’esercizio extra-professionale per gli infermieri posto che per la professione di medico, con la quale vi sarebbero numerosi caratteri comuni, l’art. 210 dell’ordinamento militare prevede un regime più favorevole.
La questione è manifestamente infondata.
Tale posizione di privilegio, riconosciuta dall’ordinamento militare al personale medico, non è estesa né ad altre professioni intellettuali (avvocati, ingegneri, commercialisti) né ad altre categorie del personale militare sanitario (psicologi, odontoiatri, infermieri).
Il ricorrente pone quindi in rilievo la disparità di trattamento tra la professione di medico e tutte le altre figure professionali impiegate nell’Amministrazione, in quanto agli appartenenti alla prima sarebbe consentita una maggiore libertà di esercizio extraprofessionale.
In tal modo, nell’ambito dell’invocato giudizio di ragionevolezza costituzionale, il ricorrente mira ad estendere al caso personale non la disciplina generale di incompatibilità vigente ma la norma derogatoria o eccezionale prevista per i medici, individuata come cd. tertium comparationis.
In tale prospettiva la questione di costituzionalità sollevata non supera il vaglio preliminare di non manifesta infondatezza posto che, per orientamento consolidato della Corte Costituzionale in presenza di norme generali e norme derogatorie può porsi una questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di eguaglianza solo quando si assuma che queste ultime, poste in relazione alle prime, siano in contrasto con tale principio. Viceversa, “quando si adotti come tertium comparationis la norma derogatrice, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale non può essere se non il ripristino della disciplina generale, ingiustamente derogata da quella particolare, non l’estensione ad altri casi di quest’ultima” (cfr. in termini ex pluribus Corte Cost. 298/1994, 418/2004, 344/2008).
Risultano peraltro evidenti caratteri di disomogeneità, in termini di qualificazione, responsabilità, posizione, che distinguono la professione di infermiere da quella di medico, nonostante che la L. 43/2006 abbia introdotto l’obbligo di iscrizione all’albo professionale di iscrizione all’albo professionale. Tali differenze portano comunque ad escludere che vi sia un trattamento difforme per posizione di natura identica.
3.5 Con il quinto motivo si deduce la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e la decorrenza del termine di prescrizione per la restituzione delle somme.
Il motivo è infondato.
Il provvedimento impugnato è privo di qualsiasi carattere discrezionale trattandosi di attività, a fronte dei presupposti di legge, doverosa per l’Amministrazione.
E’ pertanto applicabile il disposto dell’art. 21-octies L. 241/1990 secondo cui non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento quando per la natura vincolata del provvedimento, il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Non può inoltre essere condivisa l’eccezione di prescrizione quinquennale avanzata dal ricorrente.
Nel caso di specie, posto che il Ministero agisce per l’adempimento di un’obbligazione al pagamento di una somma pecuniaria, il cui presupposto è individuato ex lege, deve applicarsi l’ordinario termine di prescrizione decennale ex art. 2946 c.c (“salvi i casi in cui la legge dispone diversamente i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”).
3.6 Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente si duole che l’Amministrazione non abbia preventivamente escusso l’ente erogante come previsto dal richiamato art. 53, comma 7.
Il motivo è fondato.
L’art. 53 prevede che in caso di inosservanza del divieto di prestazioni extraprofessionali, il compenso dovuto per l’attività prestata “deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore”; tale disposizione stabilisce ad avviso del Collegio un espresso beneficium excussionis a favore del pubblico impiegato nel senso che l’Amministrazione non può procedere coattivamente a carico del socio se non dopo aver agito infruttuosamente nei confronti del soggetto erogante.
La circostanza che il pagamento del compenso sia già avvenuto non possiede, ad avviso del Collegio, valore dirimente posto che:
- incombe anche sul soggetto estraneo al rapporto d’impiego, il divieto di non avviare rapporti di collaborazione non autorizzati con dipendenti pubblici;
- tale divieto è presidiato dalle sanzioni previste dall’art. 57 D.lgs. 165/2001;
- il pagamento del compenso al dipendente non ha effettiva capacità solutoria posto che per espressa previsione di legge, tale compenso avrebbe dovuto essere versato direttamente al fondo richiamato al comma 7 del citato art. 53.
Ne consegue che l’effettivo esborso dei compensi non libera l’ente erogante dall’obbligazione di pagamento in favore dell’Amministrazione, che resta quindi tenuta ad escutere prioritariamente il soggetto che ha ricevuto la prestazione extraprofessionale.
3.7 Le ulteriori censure contenute nel gravame principale, ed articolate in via subordinata, sono assorbite.
3.8. I motivi aggiunti, che replicano le censure dedotte con il gravame principale, sono ugualmente fondati nei limiti e nei termini in cui è accolta l’impugnativa principale.
4. In conclusione, il ricorso, integrato da motivi aggiunti, è accolto nei limiti indicati in motivazione.
In considerazione della peculiarità delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Terza definitivamente pronunciando accoglie il ricorso, come in epigrafe proposto, nei limiti e nei termini indicati in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2012 con l'intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Ettore Manca, Consigliere
Luca De Gennaro, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 02/07/2012
1) - L’art. 53, comma 7, D.lgs. 165/2001 (TU Pubblico impiego) dispone in via generale che i dipendenti pubblici non possano svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
2) - In caso di inosservanza del divieto, salva la responsabilità disciplinare, è previsto espressamente che il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte sia versato nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
3) - Tale norma si applica a tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche compresi per espressa previsione dello stesso art. 53, comma 6 quelli di cui all'articolo 3 del medesimo Testo Unico ovverosia i dipendenti del cd. regime pubblico non privatizzato, tra cui notoriamente rientra il personale militare.
^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
N. 01157/2012 REG.PROV.COLL.
N. 01729/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia
Lecce - Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1729 del 2011, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
G. C., rappresentato e difeso dagli avv. Alessandro Lucchetti, Elena Daniele, Valeria Pellegrino, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima in Lecce, via Augusto Imperatore, 16;
contro
Ministero della Difesa, Direzione Commissariato Marina Militare di Taranto, Centro Ospedaliero Militare Medaglie D'Oro “G. Venticinque” di Taranto, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale Stato, domiciliataria per legge in Lecce, via F. Rubichi 23;
per l'annullamento
- della nota prot. n. 41278 del 19 luglio 2011 della Marina Militare, Direzione Commissariato Militare Marittimo di Taranto, notificato in data 4 agosto 2011;
- della nota prot. n. M_D_MDPTTA 0009927 8 giugno 2011 del Comando in capo del Dipartimento Militare Marittim della Jonio e del Canale d'Otranto diretta al C.O.M. Taranto e notificata al ricorrente in data 14 giugno 2011;
- della nota prot. n. M_D_ GMIL III750235842 del 12 maggio 2011 del Ministero della Difesa;
- della nota prot. n. DFP_IFP_RA0000295 P- dell'1 febbraio 2011 della Presidenza del Consiglio dei Ministri con l'allegata relazione del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Ancona, nella quale si individuano le prestazioni extraprofessionali svolte dal ricorrente e si quantificano i compensi indebitamente percepiti;
- per quanto occorrere possa, della Circolare del Ministero della Difesa DPGM 301 del 1999, della nota prot. n. M_D GMIL_04_0396572 del 31 luglio 2008, nonché dell'ordine del giorno n. 31 del 12 aprile 2011 del Centro di Selezione della Marina Militare di Ancona;
- nonché di ogni altro atto presupposto, consequenziale, connesso o collegato;
per l'accertamento della nullità della nota prot. n. 41278 del 19 luglio 2011 della Marina Militare, Direzione di Commissariato Militare Marittimo di Taranto, nonché comunque dell'insussistenza del diritto della P.A. intimata a procedere ad iniziative di recupero o sanzionatorie avverso il ricorrente;
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa e di Direzione Commissariato Marina Militare di Taranto e di Centro Ospedaliero Militare di Taranto;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2012 il dott. Luca De Gennaro e uditi per le parti i difensori avv. Daniele per il ricorrente e, nei preliminari, avv. dello Stato Libertini;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il sig. C…. è Sottufficiale della Marina Militare in servizio presso la sede di Taranto con mansioni di assistente sanitario-infermiere.
A seguito di accertamenti svolti dalla Guardia di Finanza è emerso che il sig. C….. ha svolto prestazioni professionali presso una casa di cura privata, senza autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza, percependo la somma complessiva di € 120.566,23.
Sulla base di tale accertamento l’Amministrazione ha avviato, ai sensi dell’art. 53, comma 7 D.lgs 165/2001, le procedure di recupero delle somme percepite, da versarsi nel conto dell’entrata del bilancio dell’Amministrazione di appartenenza (v. la nota impugnata prot. 41278 del 19 luglio 2011, con cui l’Amministrazione militare ha preannunciato il recupero delle somme percepite).
Avverso tali atti di recupero il ricorrente propone impugnativa deducendo le seguenti censure:
- violazione dell’art. 21 septies L. 241/1990, nullità della nota prot. 41278/2011 per difetto dei requisiti essenziali, conseguente invalidità della procedura di recupero;
- violazione dell’art. 896, comma 4 D.lgs 66/2010, violazione degli artt. 51 e 3 D.lgs 165/2001, violazione del principio di legalità, violazione art. 3 L. 241/1990 ed eccesso di potere per difetto di motivazione come conseguenza della violazione degli obblighi di partecipazione procedimentale;
- violazione del principio dell’affidamento in buona fede del militare nella stabilità della disciplina dettata dai superiori, eccesso di potere nella figura sintomatica del difetto di motivazione, ingiustizia manifesta;
- in subordine, illegittimità costituzionale dell’art. 210 dell’Ordinamento militare per contrasto con gli artt. 3 e 97, anche in riferimento alla L. 43/2006;
- violazione dell’art. 1, comma 6 D.lgs 66/2010 in combinato disposto con l’art. 5 e 7 della L. 241/1990, violazione art. 3 L. 241/1990, eccesso di potere per difetto di istruttoria, sviamento di potere, prescrizione dell’azione di recupero;
- in stretto subordine, violazione dell’art. 53 D.lgs 165/2001 in ordine alla necessaria preventiva escussione del datore di lavoro;
- in ulteriore subordine, violazione art. 53 D.lgs 165/2001 in relazione al conteggio delle somme da ripetere.
Con nota dell’11 ottobre 2011, notificata il 19 dicembre 2011, l’Amministrazione ha rappresentato che dal mese di ottobre 2011 sarebbe iniziato il recupero delle somme percepite.
Tale nota è stata impugnata con motivi aggiunti.
Si è costituita l’Amministrazione chiedendo la reiezione del ricorso.
Con ordinanza 827/2011 è stata concessa la tutela cautelare.
2. All’udienza del 18 aprile 2012 il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
Si deve preliminarmente dichiarare la competenza di questo Tribunale sulla base dell’art. 13, comma 2 cod. proc. amm., in quanto il ricorrente è attualmente in servizio presso il Centro Ospedaliero di Taranto.
Ininfluente a tal fine è l’impugnazione puramente nominale delle circolari sopra indicate, atteso che verso di queste non sono articolate specifiche censure; non vi sono quindi presupposti per invocare i principi stabiliti dall’Adunanza Plenaria (nn. 19 e 20 /2011) in materia competenza con riferimento alle impugnative connesse.
3. Il ricorso è fondato nei soli limiti indicati in motivazione.
3.1 Con il primo motivo la parte ricorrente deduce la nullità della nota del 19 luglio 2011 per carenza degli elementi essenziali dell’atto amministrativo.
La censura è manifestamente infondata.
Con la nota richiamata, notificata al ricorrente, l’Amministrazione ha costituito in mora il ricorrente e ha preannunciato l’avvio del recupero coattivo delle some percepite in virtù di attività extraprofessionale.
Tale atto presenta quindi tutti gli elementi essenziali richiesti:
- la forma è scritta, l’atto proviene chiaramente dagli uffici ministeriali ed è sottoscritto dal responsabile del servizio amministrativo;
- l’oggetto è chiaramente individuabile, concernendo le conseguenze patrimoniali della mancanza di autorizzazione per l’attività svolta presso case di cura private;
- il contenuto dispositivo attiene alla manifestazione di volontà relativo all’avvio della procedura di rimborso delle somme percepite, da attuarsi eventualmente in via coattiva e da definirsi con atti successivi.
3.2 Con il secondo motivo di doglianza il ricorrente deduce che l’art. 53 D.lgs. 165/2001 che prevede lo storno in favore dell’Amministrazione dei compensi ricevuti in virtù di attività svolta senza autorizzazione non sarebbe applicabile al personale militare.
La censura è infondata.
L’art. 53, comma 7, D.lgs. 165/2001 (TU Pubblico impiego) dispone in via generale che i dipendenti pubblici non possano svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
In caso di inosservanza del divieto, salva la responsabilità disciplinare, è previsto espressamente che il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte sia versato nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
Tale norma si applica a tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche compresi per espressa previsione dello stesso art. 53, comma 6 quelli di cui all'articolo 3 del medesimo Testo Unico ovverosia i dipendenti del cd. regime pubblico non privatizzato, tra cui notoriamente rientra il personale militare.
L’applicazione di tale disciplina al caso di specie non risulta impedita dall’entrata in vigore del D.lgs. 66/2010 (Codice dell’Ordinamento militare) in quanto:
- l’entrata in vigore del suddetto Codice è successiva all’attività illecitamente svolta, che risale a un periodo temporale che va dal 2001 e arriva al 2008; si deve quindi ritenere che i relativi rapporti giuridici tra dipendente e Amministrazione siano regolati dalla normativa in vigore all’epoca dell’attività extraprofessionale svolta, attività che costituisce il presupposto dell’obbligazione di versamento all’erario delle somme percepite;
- il Codice dell’Ordinamento militare, volto essenzialmente a riordinare i molteplici testi normativi in materia militare, non ha abrogato la disposizione in esame; in tale senso ad avviso del Collegio non depone la clausola di compatibilità di cui all’art. 896 D.lgs 66/2010 che si limita a far salva l’applicazione - in quanto compatibile con le disposizioni codicistiche - dell’articolo 53, commi da 8 a 16-bis D.lgs 165/2001; pertanto in assenza di previsione espressa si deve ritenere che il comma 7 suindicato, di cui nulla si dispone e facente già parte del regime normativo di tutti i dipendenti pubblici, compresi quelli per cui vige il regime pubblicistico, continui ad applicarsi anche nei confronti del personale militare.
3.3 Con il terzo motivo si contesta la violazione del legittimo affidamento del sig. B….. che avrebbe confidato nella legittimità del proprio operato indotto dall’inerzia dei superiori gerarchici.
La censura non ha pregio.
Perché si possa riconoscere un atteggiamento di colpevole inerzia in capo all’Amministrazione militare, occorrerebbe che la stessa fosse stata informata dello svolgimento dell’attività extraprofessionali.
Tale informativa, ed è proprio l’essenza dell’illecito contestato al ricorrente, non vi è mai stata in forma ufficiale né risulta dimostrata in giudizio la presunta conoscenza per vie indirette in capo al Comando militare che il sig. B….. svolgesse attività di infermiere presso istituti sanitari privati.
Si osserva che comunque, in via di mera ipotesi, qualsiasi atteggiamento accomodante, comunque indimostrato, dei superiori gerarchici non giustificherebbe di per sé la disapplicazione di una norma di rango primario; lo stesso militare in servizio è poi tenuto a conoscere obblighi e doveri inerenti al proprio status fermo che in tale ambito vale il principio dell’inescusabilità dell’ignorantia legis.
In tale prospettiva non hanno rilevanza l’esistenza di circolari nel periodo interessato che non davano conto della possibilità prevista dalla normativa primaria di recupero delle somme percepite.
Le circolari nel caso di specie, aventi una semplice valenza organizzativa volto alla ricognizione della normativa in vigore, non hanno alcuna incidenza esterna; va pertanto escluso che esse possano influire sull’applicabilità di norme primarie di legge o introdurre specifiche deroghe alla stessa.
Le eventuali carenze nella loro redazione non esonerano poi il dipendente pubblico dalla conoscenza delle norme legislative riguardanti il proprio status, rilevando eventualmente la buona fede in sede disciplinare.
Difatti l’autonomo rilievo della responsabilità disciplinare ("ferma restando la responsabilità disciplinare") porta ad escludere, già sotto l'aspetto strettamente testuale, che l'obbligo di versamento del compenso dovuto per le prestazioni svolte in dispregio del divieto sia configurabile quale sanzione disciplinare (in termini cfr. Cass 7343/2010).
Si osserva infine che, anche se sul piano delle conseguenze patrimoniali tali circolari non fossero state esaurienti, comunque sull’illiceità della propria condotta non è riconoscibile alcuna ambiguità né normativa né amministrativa posto che era chiaramente evidenziato nella normativa interna il divieto per il militare di esercitare attività extraprofessionale se non in presenza di specifica autorizzazione dell’Amministrazione. Nessuna buona fede è quindi riconoscibile in capo al ricorrente circa la liceità della propria condotta.
3.4 Con il quarto motivo si deduce l’illegittimità costituzionale dei limiti all’esercizio extra-professionale per gli infermieri posto che per la professione di medico, con la quale vi sarebbero numerosi caratteri comuni, l’art. 210 dell’ordinamento militare prevede un regime più favorevole.
La questione è manifestamente infondata.
Tale posizione di privilegio, riconosciuta dall’ordinamento militare al personale medico, non è estesa né ad altre professioni intellettuali (avvocati, ingegneri, commercialisti) né ad altre categorie del personale militare sanitario (psicologi, odontoiatri, infermieri).
Il ricorrente pone quindi in rilievo la disparità di trattamento tra la professione di medico e tutte le altre figure professionali impiegate nell’Amministrazione, in quanto agli appartenenti alla prima sarebbe consentita una maggiore libertà di esercizio extraprofessionale.
In tal modo, nell’ambito dell’invocato giudizio di ragionevolezza costituzionale, il ricorrente mira ad estendere al caso personale non la disciplina generale di incompatibilità vigente ma la norma derogatoria o eccezionale prevista per i medici, individuata come cd. tertium comparationis.
In tale prospettiva la questione di costituzionalità sollevata non supera il vaglio preliminare di non manifesta infondatezza posto che, per orientamento consolidato della Corte Costituzionale in presenza di norme generali e norme derogatorie può porsi una questione di legittimità costituzionale per violazione del principio di eguaglianza solo quando si assuma che queste ultime, poste in relazione alle prime, siano in contrasto con tale principio. Viceversa, “quando si adotti come tertium comparationis la norma derogatrice, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale non può essere se non il ripristino della disciplina generale, ingiustamente derogata da quella particolare, non l’estensione ad altri casi di quest’ultima” (cfr. in termini ex pluribus Corte Cost. 298/1994, 418/2004, 344/2008).
Risultano peraltro evidenti caratteri di disomogeneità, in termini di qualificazione, responsabilità, posizione, che distinguono la professione di infermiere da quella di medico, nonostante che la L. 43/2006 abbia introdotto l’obbligo di iscrizione all’albo professionale di iscrizione all’albo professionale. Tali differenze portano comunque ad escludere che vi sia un trattamento difforme per posizione di natura identica.
3.5 Con il quinto motivo si deduce la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e la decorrenza del termine di prescrizione per la restituzione delle somme.
Il motivo è infondato.
Il provvedimento impugnato è privo di qualsiasi carattere discrezionale trattandosi di attività, a fronte dei presupposti di legge, doverosa per l’Amministrazione.
E’ pertanto applicabile il disposto dell’art. 21-octies L. 241/1990 secondo cui non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento quando per la natura vincolata del provvedimento, il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Non può inoltre essere condivisa l’eccezione di prescrizione quinquennale avanzata dal ricorrente.
Nel caso di specie, posto che il Ministero agisce per l’adempimento di un’obbligazione al pagamento di una somma pecuniaria, il cui presupposto è individuato ex lege, deve applicarsi l’ordinario termine di prescrizione decennale ex art. 2946 c.c (“salvi i casi in cui la legge dispone diversamente i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni”).
3.6 Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente si duole che l’Amministrazione non abbia preventivamente escusso l’ente erogante come previsto dal richiamato art. 53, comma 7.
Il motivo è fondato.
L’art. 53 prevede che in caso di inosservanza del divieto di prestazioni extraprofessionali, il compenso dovuto per l’attività prestata “deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore”; tale disposizione stabilisce ad avviso del Collegio un espresso beneficium excussionis a favore del pubblico impiegato nel senso che l’Amministrazione non può procedere coattivamente a carico del socio se non dopo aver agito infruttuosamente nei confronti del soggetto erogante.
La circostanza che il pagamento del compenso sia già avvenuto non possiede, ad avviso del Collegio, valore dirimente posto che:
- incombe anche sul soggetto estraneo al rapporto d’impiego, il divieto di non avviare rapporti di collaborazione non autorizzati con dipendenti pubblici;
- tale divieto è presidiato dalle sanzioni previste dall’art. 57 D.lgs. 165/2001;
- il pagamento del compenso al dipendente non ha effettiva capacità solutoria posto che per espressa previsione di legge, tale compenso avrebbe dovuto essere versato direttamente al fondo richiamato al comma 7 del citato art. 53.
Ne consegue che l’effettivo esborso dei compensi non libera l’ente erogante dall’obbligazione di pagamento in favore dell’Amministrazione, che resta quindi tenuta ad escutere prioritariamente il soggetto che ha ricevuto la prestazione extraprofessionale.
3.7 Le ulteriori censure contenute nel gravame principale, ed articolate in via subordinata, sono assorbite.
3.8. I motivi aggiunti, che replicano le censure dedotte con il gravame principale, sono ugualmente fondati nei limiti e nei termini in cui è accolta l’impugnativa principale.
4. In conclusione, il ricorso, integrato da motivi aggiunti, è accolto nei limiti indicati in motivazione.
In considerazione della peculiarità delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce - Sezione Terza definitivamente pronunciando accoglie il ricorso, come in epigrafe proposto, nei limiti e nei termini indicati in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2012 con l'intervento dei magistrati:
Rosaria Trizzino, Presidente
Ettore Manca, Consigliere
Luca De Gennaro, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 02/07/2012
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
Recupero somma per attività extraprofessionale non autorizzata. Art. 53 D.lgs. n. 165/2001
1) - L’Amministrazione, avendo ricevuto la comunicazione di nomina del ricorrente alla carica di membro del consiglio di amministrazione senza contestare al riguardo alcuna incompatibilità al suo svolgimento, nel termine di 30 giorni previsto dall’art. 53 c. 10 del D.lgs. n. 165/2001 avrebbe tacitamente assentito allo svolgimento della carica pubblica.
2) - Il comportamento acquiescente dell’Amministrazione avrebbe indotto il ricorrente a svolgere, in assoluta buona fede e confidando nell’affidamento in tal modo ingeneratogli, in maniera del tutto occasionale e saltuaria ed al di fuori dell’orario di servizio, la carica “de qua”.
Ricorso straordinario al PDR respinto.
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14/07/2012 201102236 Definitivo 2 Adunanza di Sezione 14/03/2012
Numero 03233/2012 e data 14/07/2012
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 14 marzo 2012
NUMERO AFFARE 02236/2011
OGGETTO:
Ministero della difesa.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da OMISSIS, M.llo 1^ Cl. dell’A.M., per l’annullamento – previa sospensione - del provvedimento del Comando …… Stormo di OMISSIS in data 17.05.2005 di recupero somma € 1.865,00.
LA SEZIONE
Visto il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica datato 30.06.2010, proposto dal signor OMISSIS contro il Ministero della Difesa, depositato presso la Segreteria del Consiglio di Stato in data 1 giugno 2011, ai sensi dell’art. 11, secondo comma, del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199;
Visto il parere interlocutorio espresso nell’adunanza 12 ottobre 2011, con il quale si invitava l’Amministrazione della Difesa a trasmettere il ricorso in originale con i relativi atti, nonché la relazione istruttoria, anche ai fini dell’istanza cautelare;
Vista la nota prot. n. M.DGMILIII750041971 del 31 gennaio 2012, pervenuta il 9 febbraio successivo, con la quale il Ministero riferente trasmette la richiesta relazione istruttoria e gli atti in essa richiamati, unitamente all’originale del ricorso;
Vista la richiamata relazione prot. n. M.DGMILIII750526918 in data 29.12.2011;
Esaminati gli atti e udito il relatore ed estensore consigliere Carlo Visciola;
RITENUTO E CONSIDERATO:
IN FATTO:
A seguito di verifiche effettuate dalla G.d.F. risultava che il M.llo di 1^ cl. A.M. OMISSIS, in servizio presso il ……. stormo di OMISSIS, nel periodo dal 12 ottobre 2007 al 15 maggio 2008 aveva assunto la carica di membro del consiglio di amministrazione della società agricola “Il Terzo s.p.a.”, con la percezione di un compenso di € 1.865,00.
Con provvedimento M.D.AGR001 17/05/20100009991 in data 17.05.2010, il Comando del …….. Stormo – Servizio Amministrativo di OMISSIS - informava l’interessato che in ottemperanza a quanto comunicato con foglio Prot. n. SQA – 251/142/-07-336/PG-3 del 30.04.2010, avrebbe provveduto al recupero della somma di € 1865,00 mediante addebito sulle competenze mensili a far data dal giugno 2010 (per l’importo di € 365,00 il primo mese e di € 300,00 per i cinque mesi successivi).
Avverso tale provvedimento insorgeva l’interessato, chiedendone l’annullamento previa sospensiva, con ricorso datato 30.06.2010 e pervenuto all’Amministrazione della Difesa il 20 luglio successivo, a sostegno del quale deduceva:
1°) Violazione e falsa applicazione dell’art. 53 D.lgs. n. 165/2001; eccesso di potere per carenza e difetto di istruttoria, contraddittorietà ed assenza dei presupposti.
L’Amministrazione, avendo ricevuto la comunicazione di nomina del ricorrente alla carica di membro del consiglio di amministrazione senza contestare al riguardo alcuna incompatibilità al suo svolgimento, nel termine di 30 giorni previsto dall’art. 53 c. 10 del D.lgs. n. 165/2001 avrebbe tacitamente assentito allo svolgimento della carica pubblica in discorso da parte del OMISSIS.
2°) Eccesso di potere per travisamento, illogicità, contraddittorietà e mancata ricognizione di elementi di fatto, disparità di trattamento.
Il comportamento acquiescente dell’Amministrazione avrebbe indotto il ricorrente a svolgere, in assoluta buona fede e confidando nell’affidamento in tal modo ingeneratogli, in maniera del tutto occasionale e saltuaria ed al di fuori dell’orario di servizio, la carica “de qua”.
IN DIRITTO:
Come riconosce in ricorso lo stesso interessato, la nota a carattere provvedimentale formalmente impugnata e della quale il M.llo di 1^ cl. OMISSIS chiede in questa sede l’annullamento, previa sospensiva, risulta emessa in esecuzione del foglio n. M.D GMILIII9.5.0159522 datato 02.04.2010, che il ricorrente definisce “… presupposto dell’atto oggetto di gravame”, espressamente richiamato nella nota in discorso e nel quale vanno individuate, dunque, le ragioni del contestato recupero.
Si legge in tale foglio – notificato al OMISSIS in data 17.05.2010, unitamente alla nota del Comando di Squadra Aerea prot. n. SQAA-241/142/-07/336/PG-3 del 30 aprile 2010 - che dalla relazione del Nucleo Speciale Spesa Pubblica e Repressione Frodi Comunitarie della G.d.F. era emerso che il sottufficiale ricorrente, nel periodo dal 12 ottobre 2007 al 15 maggio 2008, ha ricoperto la carica di membro del consiglio di amministrazione della società “Il Terzo s.p.a.”, senza l’autorizzazione della D.G. per il Personale Militare, percependo somme per un totale di euro 1.865,00.
Per quanto sopra, la stessa Direzione Generale riteneva che il sottufficiale avesse violato l’art. 12, comma 2, della L. 31 luglio 1954 n. 599, nonché l’art. 53 comma 7 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 “… ai sensi del quale i compensi indebitamente percepiti e indicati nella predetta relazione devono essere versati a cura del percettore nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente mediante apposita attivazione delle procedure previste in seno alle amministrazioni stesse. L’eventuale inadempienza può configurare l’ipotesi di danno erariale a cura dell’Amministrazione competente a tale tutela”.
Tanto premesso in punto di fatto, ritiene la Sezione che il ricorso sia infondato nel merito.
Recita testualmente il richiamato art. 53 comma 8° del D.Lgs. 30.03.2001 n. 165, al quale l’Amministrazione della Difesa ha inteso dare applicazione nel caso concreto, che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza … In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’agente o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
La norma testé richiamata impone, dunque, anzitutto all’ente erogante (ossia ad un soggetto estraneo al rapporto lavorativo) e, in difetto, al lavoratore che lo ha percepito, l’obbligo del versamento del compenso dovuto al pubblico dipendente per le prestazioni rese in spregio al divieto di assunzione di incarichi senza l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
Tale obbligo, che non è configurabile quale sanzione disciplinare, richiede quale presupposto l’assenza della preventiva autorizzazione, che il pubblico dipendente è tenuto a chiedere – e l’ente erogante ad esigere - prima dello svolgimento della relativa prestazione.
Nel caso concreto non risulta che lo svolgimento dell’incarico in questione sia stato previamente autorizzato dall’Amministrazione di appartenenza avendo, anzi, il Capo Sezione Personale del …… Stormo, con fg. prot. n. QS4- 02.1/6781/P.12.01 in data 31 dicembre 2007, nel rigettare la richiesta dell’interessato di fruire dei permessi e delle licenze previste dall’art. 79 del D. Lgs. 267/2000, espressamente informato il M.llo 1^ cl. OMISSIS che “… il Comando Squadra Aerea, analizzando i dati forniti, ha affermato che il ruolo di amministrazione attiva ai fini imprenditoriali, svolta in seno alla Società Agricola <<Il Terzo s.p.A.”>> deve configurarsi come <<attività extraprofessionale>> e, come tale, incompatibile con lo status di Sottufficiale.
Ad escludere la doverosità – e legittimità – del disposto recupero della somma percepita dal ricorrente per l’attività non autorizzata non può valere il richiamo, operato dall’interessato, al comma 10° dello stesso art. 53 del D. Lgs. n° 16572001, di cui il OMISSIS invoca la violazione da parte dell’Amministrazione della Difesa.
A tenore dell’indicato comma 10, invero, “L’autorizzazione di cui ai commi precedenti, deve essere richiesta all’amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati che intendono conferire l’incarico; può, altresì, essere richiesta dal dipendente interessato. L’amministrazione di appartenenza deve pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta stessa”.
La norma, dunque, non prevede alcuna formazione del “silenzio-accoglimento” – peraltro escluso dal richiamato foglio del Comando del ….. Stormo in data 31.12.2007 – ma si limita a ribadire il divieto di svolgimento di incarichi retribuiti da parte di pubblici dipendenti senza la preventiva autorizzazione dell’Amministrazione che, nella specie, non risulta concessa, restando quindi indifferente la natura pubblica o privata dell’ente che ha conferito l’incarico, non avendo l’Amministrazione della Difesa mai contestato sotto tale aspetto l’incarico svolto dal ricorrente.
In ogni caso, l’eventuale formazione del silenzio-accoglimento, decorso il termine per provvedere decorrente dalla ricezione della richiesta del dipendente potrebbe invocarsi solo ove la richiesta provenga da “amministrazioni pubbliche”, dovendosi negli altri casi l’autorizzazione considerarsi definitivamente negata, come precisato anche dalla giurisprudenza richiamata dallo stesso interessato (TAR Lazio – SEZ. I, 13 aprile 2007 n. 3453).
Amministrazioni pubbliche cui è estraneo il concetto di “società per azioni”, ancorché a capitale interamente pubblico, quale risulta essere la Società Agricola “Il Terzo”.
Avendo il soggetto erogante già integralmente corrisposto gli importi al prestatore per l’attività extraprofessionale svolta, in relazione all’incarico non previamente autorizzato, ben poteva l’Amministrazione, come ha fatto con l’atto impugnato, rivalersi direttamente su quest’ultimo, limitandosi al recupero delle relative somme attraverso addebito sulle competenze mensili nei termini poc’anzi precisati.
La riconosciuta doverosità e legittimità del recupero disposto dall’Amministrazione della Difesa con il provvedimento impugnato comporta l’inconferenza, oltre che l’inammissibilità, del vizio di eccesso di potere, sotto tutti i profili invocati dal ricorrente con parte del primo e col secondo motivo di gravame, con il quale viene invocata anche una presunta disparità di trattamento che sarebbe stata operata “in casi analoghi”, di cui non viene fornita alcuna concreta indicazione e che, in ogni caso, non avrebbe di per sé comportato l’illegittimità di un recupero disposto in puntuale applicazione della normativa invocata a fondamento della contestata determinazione.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso va, conclusivamente, respinto unitamente all’istanza cautelare.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere respinto, unitamente all’istanza cautelare.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Carlo Visciola Pietro Falcone
IL SEGRETARIO
D.ssa Tiziana Tomassini
1) - L’Amministrazione, avendo ricevuto la comunicazione di nomina del ricorrente alla carica di membro del consiglio di amministrazione senza contestare al riguardo alcuna incompatibilità al suo svolgimento, nel termine di 30 giorni previsto dall’art. 53 c. 10 del D.lgs. n. 165/2001 avrebbe tacitamente assentito allo svolgimento della carica pubblica.
2) - Il comportamento acquiescente dell’Amministrazione avrebbe indotto il ricorrente a svolgere, in assoluta buona fede e confidando nell’affidamento in tal modo ingeneratogli, in maniera del tutto occasionale e saltuaria ed al di fuori dell’orario di servizio, la carica “de qua”.
Ricorso straordinario al PDR respinto.
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14/07/2012 201102236 Definitivo 2 Adunanza di Sezione 14/03/2012
Numero 03233/2012 e data 14/07/2012
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 14 marzo 2012
NUMERO AFFARE 02236/2011
OGGETTO:
Ministero della difesa.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da OMISSIS, M.llo 1^ Cl. dell’A.M., per l’annullamento – previa sospensione - del provvedimento del Comando …… Stormo di OMISSIS in data 17.05.2005 di recupero somma € 1.865,00.
LA SEZIONE
Visto il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica datato 30.06.2010, proposto dal signor OMISSIS contro il Ministero della Difesa, depositato presso la Segreteria del Consiglio di Stato in data 1 giugno 2011, ai sensi dell’art. 11, secondo comma, del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199;
Visto il parere interlocutorio espresso nell’adunanza 12 ottobre 2011, con il quale si invitava l’Amministrazione della Difesa a trasmettere il ricorso in originale con i relativi atti, nonché la relazione istruttoria, anche ai fini dell’istanza cautelare;
Vista la nota prot. n. M.DGMILIII750041971 del 31 gennaio 2012, pervenuta il 9 febbraio successivo, con la quale il Ministero riferente trasmette la richiesta relazione istruttoria e gli atti in essa richiamati, unitamente all’originale del ricorso;
Vista la richiamata relazione prot. n. M.DGMILIII750526918 in data 29.12.2011;
Esaminati gli atti e udito il relatore ed estensore consigliere Carlo Visciola;
RITENUTO E CONSIDERATO:
IN FATTO:
A seguito di verifiche effettuate dalla G.d.F. risultava che il M.llo di 1^ cl. A.M. OMISSIS, in servizio presso il ……. stormo di OMISSIS, nel periodo dal 12 ottobre 2007 al 15 maggio 2008 aveva assunto la carica di membro del consiglio di amministrazione della società agricola “Il Terzo s.p.a.”, con la percezione di un compenso di € 1.865,00.
Con provvedimento M.D.AGR001 17/05/20100009991 in data 17.05.2010, il Comando del …….. Stormo – Servizio Amministrativo di OMISSIS - informava l’interessato che in ottemperanza a quanto comunicato con foglio Prot. n. SQA – 251/142/-07-336/PG-3 del 30.04.2010, avrebbe provveduto al recupero della somma di € 1865,00 mediante addebito sulle competenze mensili a far data dal giugno 2010 (per l’importo di € 365,00 il primo mese e di € 300,00 per i cinque mesi successivi).
Avverso tale provvedimento insorgeva l’interessato, chiedendone l’annullamento previa sospensiva, con ricorso datato 30.06.2010 e pervenuto all’Amministrazione della Difesa il 20 luglio successivo, a sostegno del quale deduceva:
1°) Violazione e falsa applicazione dell’art. 53 D.lgs. n. 165/2001; eccesso di potere per carenza e difetto di istruttoria, contraddittorietà ed assenza dei presupposti.
L’Amministrazione, avendo ricevuto la comunicazione di nomina del ricorrente alla carica di membro del consiglio di amministrazione senza contestare al riguardo alcuna incompatibilità al suo svolgimento, nel termine di 30 giorni previsto dall’art. 53 c. 10 del D.lgs. n. 165/2001 avrebbe tacitamente assentito allo svolgimento della carica pubblica in discorso da parte del OMISSIS.
2°) Eccesso di potere per travisamento, illogicità, contraddittorietà e mancata ricognizione di elementi di fatto, disparità di trattamento.
Il comportamento acquiescente dell’Amministrazione avrebbe indotto il ricorrente a svolgere, in assoluta buona fede e confidando nell’affidamento in tal modo ingeneratogli, in maniera del tutto occasionale e saltuaria ed al di fuori dell’orario di servizio, la carica “de qua”.
IN DIRITTO:
Come riconosce in ricorso lo stesso interessato, la nota a carattere provvedimentale formalmente impugnata e della quale il M.llo di 1^ cl. OMISSIS chiede in questa sede l’annullamento, previa sospensiva, risulta emessa in esecuzione del foglio n. M.D GMILIII9.5.0159522 datato 02.04.2010, che il ricorrente definisce “… presupposto dell’atto oggetto di gravame”, espressamente richiamato nella nota in discorso e nel quale vanno individuate, dunque, le ragioni del contestato recupero.
Si legge in tale foglio – notificato al OMISSIS in data 17.05.2010, unitamente alla nota del Comando di Squadra Aerea prot. n. SQAA-241/142/-07/336/PG-3 del 30 aprile 2010 - che dalla relazione del Nucleo Speciale Spesa Pubblica e Repressione Frodi Comunitarie della G.d.F. era emerso che il sottufficiale ricorrente, nel periodo dal 12 ottobre 2007 al 15 maggio 2008, ha ricoperto la carica di membro del consiglio di amministrazione della società “Il Terzo s.p.a.”, senza l’autorizzazione della D.G. per il Personale Militare, percependo somme per un totale di euro 1.865,00.
Per quanto sopra, la stessa Direzione Generale riteneva che il sottufficiale avesse violato l’art. 12, comma 2, della L. 31 luglio 1954 n. 599, nonché l’art. 53 comma 7 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 “… ai sensi del quale i compensi indebitamente percepiti e indicati nella predetta relazione devono essere versati a cura del percettore nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente mediante apposita attivazione delle procedure previste in seno alle amministrazioni stesse. L’eventuale inadempienza può configurare l’ipotesi di danno erariale a cura dell’Amministrazione competente a tale tutela”.
Tanto premesso in punto di fatto, ritiene la Sezione che il ricorso sia infondato nel merito.
Recita testualmente il richiamato art. 53 comma 8° del D.Lgs. 30.03.2001 n. 165, al quale l’Amministrazione della Difesa ha inteso dare applicazione nel caso concreto, che “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza … In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’agente o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
La norma testé richiamata impone, dunque, anzitutto all’ente erogante (ossia ad un soggetto estraneo al rapporto lavorativo) e, in difetto, al lavoratore che lo ha percepito, l’obbligo del versamento del compenso dovuto al pubblico dipendente per le prestazioni rese in spregio al divieto di assunzione di incarichi senza l’autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
Tale obbligo, che non è configurabile quale sanzione disciplinare, richiede quale presupposto l’assenza della preventiva autorizzazione, che il pubblico dipendente è tenuto a chiedere – e l’ente erogante ad esigere - prima dello svolgimento della relativa prestazione.
Nel caso concreto non risulta che lo svolgimento dell’incarico in questione sia stato previamente autorizzato dall’Amministrazione di appartenenza avendo, anzi, il Capo Sezione Personale del …… Stormo, con fg. prot. n. QS4- 02.1/6781/P.12.01 in data 31 dicembre 2007, nel rigettare la richiesta dell’interessato di fruire dei permessi e delle licenze previste dall’art. 79 del D. Lgs. 267/2000, espressamente informato il M.llo 1^ cl. OMISSIS che “… il Comando Squadra Aerea, analizzando i dati forniti, ha affermato che il ruolo di amministrazione attiva ai fini imprenditoriali, svolta in seno alla Società Agricola <<Il Terzo s.p.A.”>> deve configurarsi come <<attività extraprofessionale>> e, come tale, incompatibile con lo status di Sottufficiale.
Ad escludere la doverosità – e legittimità – del disposto recupero della somma percepita dal ricorrente per l’attività non autorizzata non può valere il richiamo, operato dall’interessato, al comma 10° dello stesso art. 53 del D. Lgs. n° 16572001, di cui il OMISSIS invoca la violazione da parte dell’Amministrazione della Difesa.
A tenore dell’indicato comma 10, invero, “L’autorizzazione di cui ai commi precedenti, deve essere richiesta all’amministrazione di appartenenza del dipendente dai soggetti pubblici o privati che intendono conferire l’incarico; può, altresì, essere richiesta dal dipendente interessato. L’amministrazione di appartenenza deve pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione entro trenta giorni dalla ricezione della richiesta stessa”.
La norma, dunque, non prevede alcuna formazione del “silenzio-accoglimento” – peraltro escluso dal richiamato foglio del Comando del ….. Stormo in data 31.12.2007 – ma si limita a ribadire il divieto di svolgimento di incarichi retribuiti da parte di pubblici dipendenti senza la preventiva autorizzazione dell’Amministrazione che, nella specie, non risulta concessa, restando quindi indifferente la natura pubblica o privata dell’ente che ha conferito l’incarico, non avendo l’Amministrazione della Difesa mai contestato sotto tale aspetto l’incarico svolto dal ricorrente.
In ogni caso, l’eventuale formazione del silenzio-accoglimento, decorso il termine per provvedere decorrente dalla ricezione della richiesta del dipendente potrebbe invocarsi solo ove la richiesta provenga da “amministrazioni pubbliche”, dovendosi negli altri casi l’autorizzazione considerarsi definitivamente negata, come precisato anche dalla giurisprudenza richiamata dallo stesso interessato (TAR Lazio – SEZ. I, 13 aprile 2007 n. 3453).
Amministrazioni pubbliche cui è estraneo il concetto di “società per azioni”, ancorché a capitale interamente pubblico, quale risulta essere la Società Agricola “Il Terzo”.
Avendo il soggetto erogante già integralmente corrisposto gli importi al prestatore per l’attività extraprofessionale svolta, in relazione all’incarico non previamente autorizzato, ben poteva l’Amministrazione, come ha fatto con l’atto impugnato, rivalersi direttamente su quest’ultimo, limitandosi al recupero delle relative somme attraverso addebito sulle competenze mensili nei termini poc’anzi precisati.
La riconosciuta doverosità e legittimità del recupero disposto dall’Amministrazione della Difesa con il provvedimento impugnato comporta l’inconferenza, oltre che l’inammissibilità, del vizio di eccesso di potere, sotto tutti i profili invocati dal ricorrente con parte del primo e col secondo motivo di gravame, con il quale viene invocata anche una presunta disparità di trattamento che sarebbe stata operata “in casi analoghi”, di cui non viene fornita alcuna concreta indicazione e che, in ogni caso, non avrebbe di per sé comportato l’illegittimità di un recupero disposto in puntuale applicazione della normativa invocata a fondamento della contestata determinazione.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso va, conclusivamente, respinto unitamente all’istanza cautelare.
P.Q.M.
Esprime il parere che il ricorso debba essere respinto, unitamente all’istanza cautelare.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Carlo Visciola Pietro Falcone
IL SEGRETARIO
D.ssa Tiziana Tomassini
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
Esercizio di attività privata extra-professionale non autorizzata e recupero compensi indebitamente percepiti per attività lavorativa non autorizzata.
Ricorso Accolto
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N. 01916/2012 REG.PROV.COLL.
N. 00061/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 61 del 2011, proposto dal sig. M. A., rappresentato e difeso dall'avv. Nunzia Guida, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.A.R. in Firenze, via Ricasoli 40;
contro
il Ministero della Difesa in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato presso la quale è domiciliato in Firenze, via degli Arazzieri 4; il Corpo della Guardia di Finanza – primo Gruppo Funzione Pubblica in persona del legale rappresentante in carica, n.c.;
per l'annullamento
del provvedimento emesso il 28/9/2010 dal Ministero della Difesa D.G.P.M. III Reparto-Roma, prot. n. M-D.GMIL III 7 5/……., notificato al Maresciallo 1^ cl. A. M. in data 19/10/2010 ed avente ad oggetto "esercizio di attività privata extra-professionale non autorizzata nonché dei conseguenti provvedimenti: atto dispositivo n. 2600 emesso il 22/11/2010 dal1'Aeronautica Militare 46^a Brigata aerea-servizio amministrativo di Pisa e sottoscritto dal comandante gen. B.A. Stefano Fort, notificato al Maresciallo 1^ cl. A. M. in data 25/11/2010 e avente ad oggetto "recupero compensi indebitamente percepiti per attività lavorativa non autorizzata", ed infine provvedimento emesso e notificato in data 30/11/2010 dall'Aeronautica Militare 46^a Brigata aerea-servizio amministrativo di Pisa, protocollo n. MD.A.PI001.19.02.03.00/……./F.04.07, avente ad oggetto recupero somme per attività extra-professionale non autorizzata e di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 novembre 2012 il dott. Alessandro Cacciari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Premesso che il ricorrente, Maresciallo dell’Aeronautica Militare, impugna i provvedimenti mediante i quali l’Amministrazione intimata ha disposto il recupero delle somme da lui asseritamene guadagnate a seguito dello svolgimento attività extraprofessionale che non era stata autorizzata lamentando da un lato, violazioni procedimentali consistenti nella mancata comunicazione di avvio procedimento, mancata indicazione del termine e dell’autorità cui ricorrere e mancanza del provvedimento presupposto a quello finale; dall’altro lato, difetto di motivazione circa la quantificazione della somma di cui è stato disposto il recupero;
Considerato che il ricorso appare fondato sotto tale ultimo profilo poiché da alcun atto del procedimento è possibile desumere i criteri seguiti per quantificare in € 59.340,00 la somma dovuta dal ricorrente all’Amministrazione, e tale difetto di istruttoria appare ancor più pregnante a fronte della produzione, da parte sua, delle dichiarazioni dei redditi che per gli anni 2005 e 2006 evidenziano perdite di impresa;
Ritenuto pertanto di accogliere il presente ricorso per tale motivo, con assorbimento delle ulteriori censure e annullamento dei provvedimenti impugnati, salvi restando gli ulteriori atti dell’Amministrazione;
Ritenuto inoltre di condannare le intimate Amministrazioni, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali che vengono quantificate nella misura di € 2.000,00 (duemila/00) oltre accessori di legge;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla i provvedimenti impugnati.
Condanna le Amministrazioni intimate, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali nella misura di € 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Buonvino, Presidente
Riccardo Giani, Consigliere
Alessandro Cacciari, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/11/2012
Ricorso Accolto
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N. 01916/2012 REG.PROV.COLL.
N. 00061/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 61 del 2011, proposto dal sig. M. A., rappresentato e difeso dall'avv. Nunzia Guida, con domicilio eletto presso la Segreteria del T.A.R. in Firenze, via Ricasoli 40;
contro
il Ministero della Difesa in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato presso la quale è domiciliato in Firenze, via degli Arazzieri 4; il Corpo della Guardia di Finanza – primo Gruppo Funzione Pubblica in persona del legale rappresentante in carica, n.c.;
per l'annullamento
del provvedimento emesso il 28/9/2010 dal Ministero della Difesa D.G.P.M. III Reparto-Roma, prot. n. M-D.GMIL III 7 5/……., notificato al Maresciallo 1^ cl. A. M. in data 19/10/2010 ed avente ad oggetto "esercizio di attività privata extra-professionale non autorizzata nonché dei conseguenti provvedimenti: atto dispositivo n. 2600 emesso il 22/11/2010 dal1'Aeronautica Militare 46^a Brigata aerea-servizio amministrativo di Pisa e sottoscritto dal comandante gen. B.A. Stefano Fort, notificato al Maresciallo 1^ cl. A. M. in data 25/11/2010 e avente ad oggetto "recupero compensi indebitamente percepiti per attività lavorativa non autorizzata", ed infine provvedimento emesso e notificato in data 30/11/2010 dall'Aeronautica Militare 46^a Brigata aerea-servizio amministrativo di Pisa, protocollo n. MD.A.PI001.19.02.03.00/……./F.04.07, avente ad oggetto recupero somme per attività extra-professionale non autorizzata e di tutti gli atti presupposti, connessi e consequenziali.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 novembre 2012 il dott. Alessandro Cacciari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Premesso che il ricorrente, Maresciallo dell’Aeronautica Militare, impugna i provvedimenti mediante i quali l’Amministrazione intimata ha disposto il recupero delle somme da lui asseritamene guadagnate a seguito dello svolgimento attività extraprofessionale che non era stata autorizzata lamentando da un lato, violazioni procedimentali consistenti nella mancata comunicazione di avvio procedimento, mancata indicazione del termine e dell’autorità cui ricorrere e mancanza del provvedimento presupposto a quello finale; dall’altro lato, difetto di motivazione circa la quantificazione della somma di cui è stato disposto il recupero;
Considerato che il ricorso appare fondato sotto tale ultimo profilo poiché da alcun atto del procedimento è possibile desumere i criteri seguiti per quantificare in € 59.340,00 la somma dovuta dal ricorrente all’Amministrazione, e tale difetto di istruttoria appare ancor più pregnante a fronte della produzione, da parte sua, delle dichiarazioni dei redditi che per gli anni 2005 e 2006 evidenziano perdite di impresa;
Ritenuto pertanto di accogliere il presente ricorso per tale motivo, con assorbimento delle ulteriori censure e annullamento dei provvedimenti impugnati, salvi restando gli ulteriori atti dell’Amministrazione;
Ritenuto inoltre di condannare le intimate Amministrazioni, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali che vengono quantificate nella misura di € 2.000,00 (duemila/00) oltre accessori di legge;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla i provvedimenti impugnati.
Condanna le Amministrazioni intimate, in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali nella misura di € 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 7 novembre 2012 con l'intervento dei magistrati:
Paolo Buonvino, Presidente
Riccardo Giani, Consigliere
Alessandro Cacciari, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/11/2012
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
Infermiere professionale.
1) - il recupero viene operato in applicazione dell’art. 53, comma 7, del D.Lg.vo n. 165/2001 e corrisponde ai compensi percepiti dal ricorrente per lo svolgimento, di attività professionali non autorizzate dall’amministrazione di appartenenza.
2) - Il ricorrente deduce, articolati motivi di censura del recupero in questione, segnalando in particolare, da ultimo, il tenore del comma 7 bis, introdotto nell’art. 53 del D.Lg.vo n. 165/2001 dall’art. 1, comma 42, lett. d) della legge n. 190 del 6 novembre 2012, e la giurisprudenza precedente che ha ritenuto sussistente, in casi analoghi, la giurisdizione contabile.
Il TAR precisa:
3) - Il ricorso è inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
4) - Del resto, siffatta lettura della disposizione in questione ha trovato piena conferma con l’introduzione – segnalata dallo stesso ricorrente - da parte della legge n. 190/2012 del comma 7 bis dell’art. 53, che precisa che “l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
5) - In relazione a quanto precede, la controversia oggetto del presente giudizio appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, sicché il ricorso in esame va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Il resto x completezza leggetelo qui sotto.
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25/06/2013 201300943 Sentenza 2
N. 00943/2013 REG.PROV.COLL.
N. 00023/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 23 del 2012, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dagli avv. Gino Bertoni, Clara Cinquanta e Marco Giannini, con domicilio eletto presso la segreteria del Tribunale;
contro
Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in Genova, viale Brigate Partigiane, 2;
Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore;
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore;
entrambi non costituiti in giudizio;
per l'annullamento
del provvedimento n. ……. del 3.10.2011 della Direzione di Commissariato della Marina Militare della Spezia comunicato il 19.10.2011;
del dispaccio n. MDGMILIII/7/5/……… del 2.5.2011 della Direzione Generale per il personale militare nonché della riservata personale del Direttore del Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della allegata relazione del Comandante della II sezione;
del foglio n. …….. del 2.9.2011 della Guardia di Finanza;
del processo verbale di contestazione della Guardia di finanza del 20.10.2010;
di ogni altro atto preparatorio, presupposto e/o consequenziale;
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Vista l’ordinanza di questa Sezione n. 62 del 16 febbraio 2012, di rigetto della domanda cautelare avanzata dal ricorrente;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 maggio 2013 il dott. Giuseppe Caruso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con atto notificato il 14 dicembre 2011 e depositato il 12 gennaio 2012, il sig. OMISSIS – Sottufficiale della Marina militare in servizio, quale infermiere professionale, presso la sala ………. – contesta il recupero nei suoi confronti, disposto dalle impugnate determinazioni dell’amministrazione, della somma di € 81.027, tramite rate mensili di 389 euro, dal mese di ottobre 2011 al mese di gennaio 2029. Tale recupero viene operato in applicazione dell’art. 53, comma 7, del D.Lg.vo n. 165/2001 e corrisponde ai compensi percepiti dal ricorrente per lo svolgimento, dal 2002 al 2009, di attività professionali non autorizzate dall’amministrazione di appartenenza.
Il ricorrente deduce, anche con successivi motivi aggiunti, articolati motivi di censura del recupero in questione, segnalando in particolare, da ultimo, il tenore del comma 7 bis, introdotto nell’art. 53 del D.Lg.vo n. 165/2001 dall’art. 1, comma 42, lett. d) della legge n. 190 del 6 novembre 2012, e la giurisprudenza precedente che ha ritenuto sussistente, in casi analoghi, la giurisdizione contabile.
Per il Ministero della difesa si è costituita in giudizio l’Avvocatura dello Stato ed ha sostenuto l’irricevibilità del ricorso e dei motivi aggiunti, nonché, nel merito, la piena legittimità dell’operato dell’amministrazione.
La causa è stata assunta in decisione nella pubblica udienza del 22 maggio 2013.
Il ricorso è inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
La controversia in esame attiene al recupero di somme, contestato dall’interessato, che l’amministrazione ha disposto nei confronti di militare che aveva svolto senza autorizzazione prestazioni professionali a favore di terzi, percependo i relativi compensi.
L’amministrazione assume le proprie determinazioni sulla base del comma 7 dell’art. 53 del D.Lg.vo n. 165/2001, secondo cui "i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza ... In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente …".
Con riferimento alle controversie attinenti a siffatti recuperi, la giurisprudenza non è univoca (v., nel senso della giurisdizione del giudice del rapporto di lavoro, Corte dei conti, sez. reg. Lombardia, 27 gennaio 2012, n. 31; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 25 gennaio 2013, n. 96; nel senso invece della giurisdizione contabile, Corte dei conti, sez. reg. Marche, 22 maggio 2012, n. 60; Cass., SS.UU., 2 novembre 2011, n. 22688).
Il collegio condivide al riguardo l’orientamento espresso nel 2011 dalle Sezioni unite della Cassazione, secondo il quale la violazione da parte dei dipendenti pubblici del dovere di chiedere l'autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extralavorativi e il conseguente (rafforzativo) obbligo di riversare all'amministrazione i compensi per essi comunque ricevuti configurano prescrizioni chiaramente strumentali al corretto esercizio delle mansioni, in quanto preordinate a garantirne il proficuo svolgimento attraverso il previo controllo dell'amministrazione sulla possibilità, per il dipendente, d'impegnarsi in un'ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti d'istituto. Ne discende che la loro violazione può essere addotta come fonte di responsabilità amministrativa, capace di radicare la giurisdizione della Corte dei conti (Cass., SS.UU., n. 22688/2011, cit.).
Del resto, siffatta lettura della disposizione in questione ha trovato piena conferma con l’introduzione – segnalata dallo stesso ricorrente - da parte della legge n. 190/2012 del comma 7 bis dell’art. 53, che precisa che “l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
In relazione a quanto precede, la controversia oggetto del presente giudizio appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, sicché il ricorso in esame va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Sussistono i presupposti di legge per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di causa.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Seconda) dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe, in quanto rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Genova nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Caruso, Presidente, Estensore
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Paolo Peruggia, Consigliere
IL PRESIDENTE, ESTENSORE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/06/2013
1) - il recupero viene operato in applicazione dell’art. 53, comma 7, del D.Lg.vo n. 165/2001 e corrisponde ai compensi percepiti dal ricorrente per lo svolgimento, di attività professionali non autorizzate dall’amministrazione di appartenenza.
2) - Il ricorrente deduce, articolati motivi di censura del recupero in questione, segnalando in particolare, da ultimo, il tenore del comma 7 bis, introdotto nell’art. 53 del D.Lg.vo n. 165/2001 dall’art. 1, comma 42, lett. d) della legge n. 190 del 6 novembre 2012, e la giurisprudenza precedente che ha ritenuto sussistente, in casi analoghi, la giurisdizione contabile.
Il TAR precisa:
3) - Il ricorso è inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
4) - Del resto, siffatta lettura della disposizione in questione ha trovato piena conferma con l’introduzione – segnalata dallo stesso ricorrente - da parte della legge n. 190/2012 del comma 7 bis dell’art. 53, che precisa che “l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
5) - In relazione a quanto precede, la controversia oggetto del presente giudizio appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, sicché il ricorso in esame va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Il resto x completezza leggetelo qui sotto.
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25/06/2013 201300943 Sentenza 2
N. 00943/2013 REG.PROV.COLL.
N. 00023/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 23 del 2012, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dagli avv. Gino Bertoni, Clara Cinquanta e Marco Giannini, con domicilio eletto presso la segreteria del Tribunale;
contro
Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata in Genova, viale Brigate Partigiane, 2;
Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore;
Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro tempore;
entrambi non costituiti in giudizio;
per l'annullamento
del provvedimento n. ……. del 3.10.2011 della Direzione di Commissariato della Marina Militare della Spezia comunicato il 19.10.2011;
del dispaccio n. MDGMILIII/7/5/……… del 2.5.2011 della Direzione Generale per il personale militare nonché della riservata personale del Direttore del Dipartimento della Funzione Pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della allegata relazione del Comandante della II sezione;
del foglio n. …….. del 2.9.2011 della Guardia di Finanza;
del processo verbale di contestazione della Guardia di finanza del 20.10.2010;
di ogni altro atto preparatorio, presupposto e/o consequenziale;
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;
Vista l’ordinanza di questa Sezione n. 62 del 16 febbraio 2012, di rigetto della domanda cautelare avanzata dal ricorrente;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 maggio 2013 il dott. Giuseppe Caruso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con atto notificato il 14 dicembre 2011 e depositato il 12 gennaio 2012, il sig. OMISSIS – Sottufficiale della Marina militare in servizio, quale infermiere professionale, presso la sala ………. – contesta il recupero nei suoi confronti, disposto dalle impugnate determinazioni dell’amministrazione, della somma di € 81.027, tramite rate mensili di 389 euro, dal mese di ottobre 2011 al mese di gennaio 2029. Tale recupero viene operato in applicazione dell’art. 53, comma 7, del D.Lg.vo n. 165/2001 e corrisponde ai compensi percepiti dal ricorrente per lo svolgimento, dal 2002 al 2009, di attività professionali non autorizzate dall’amministrazione di appartenenza.
Il ricorrente deduce, anche con successivi motivi aggiunti, articolati motivi di censura del recupero in questione, segnalando in particolare, da ultimo, il tenore del comma 7 bis, introdotto nell’art. 53 del D.Lg.vo n. 165/2001 dall’art. 1, comma 42, lett. d) della legge n. 190 del 6 novembre 2012, e la giurisprudenza precedente che ha ritenuto sussistente, in casi analoghi, la giurisdizione contabile.
Per il Ministero della difesa si è costituita in giudizio l’Avvocatura dello Stato ed ha sostenuto l’irricevibilità del ricorso e dei motivi aggiunti, nonché, nel merito, la piena legittimità dell’operato dell’amministrazione.
La causa è stata assunta in decisione nella pubblica udienza del 22 maggio 2013.
Il ricorso è inammissibile, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
La controversia in esame attiene al recupero di somme, contestato dall’interessato, che l’amministrazione ha disposto nei confronti di militare che aveva svolto senza autorizzazione prestazioni professionali a favore di terzi, percependo i relativi compensi.
L’amministrazione assume le proprie determinazioni sulla base del comma 7 dell’art. 53 del D.Lg.vo n. 165/2001, secondo cui "i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza ... In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente …".
Con riferimento alle controversie attinenti a siffatti recuperi, la giurisprudenza non è univoca (v., nel senso della giurisdizione del giudice del rapporto di lavoro, Corte dei conti, sez. reg. Lombardia, 27 gennaio 2012, n. 31; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 25 gennaio 2013, n. 96; nel senso invece della giurisdizione contabile, Corte dei conti, sez. reg. Marche, 22 maggio 2012, n. 60; Cass., SS.UU., 2 novembre 2011, n. 22688).
Il collegio condivide al riguardo l’orientamento espresso nel 2011 dalle Sezioni unite della Cassazione, secondo il quale la violazione da parte dei dipendenti pubblici del dovere di chiedere l'autorizzazione allo svolgimento degli incarichi extralavorativi e il conseguente (rafforzativo) obbligo di riversare all'amministrazione i compensi per essi comunque ricevuti configurano prescrizioni chiaramente strumentali al corretto esercizio delle mansioni, in quanto preordinate a garantirne il proficuo svolgimento attraverso il previo controllo dell'amministrazione sulla possibilità, per il dipendente, d'impegnarsi in un'ulteriore attività senza pregiudizio dei compiti d'istituto. Ne discende che la loro violazione può essere addotta come fonte di responsabilità amministrativa, capace di radicare la giurisdizione della Corte dei conti (Cass., SS.UU., n. 22688/2011, cit.).
Del resto, siffatta lettura della disposizione in questione ha trovato piena conferma con l’introduzione – segnalata dallo stesso ricorrente - da parte della legge n. 190/2012 del comma 7 bis dell’art. 53, che precisa che “l’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
In relazione a quanto precede, la controversia oggetto del presente giudizio appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, sicché il ricorso in esame va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Sussistono i presupposti di legge per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di causa.
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Seconda) dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe, in quanto rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Genova nella camera di consiglio del giorno 22 maggio 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Caruso, Presidente, Estensore
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Paolo Peruggia, Consigliere
IL PRESIDENTE, ESTENSORE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 25/06/2013
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
attività non autorizzate, come previsto dall’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Art. 53, comma 7, recita:
7. I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto.
In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
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1) - La difesa erariale, ...., ha precisato che, alla luce delle indicazioni formulate dal legislatore con l’approvazione della legge 6 novembre 2012, n. 190, doveva individuarsi nella Corte dei conti il giudice competente a conoscere in via esclusiva della vicenda.
2) - Parte ricorrente, invece, con memoria depositata il giorno successivo, afferma che la fattispecie controversa rientrerebbe nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a., non potendosi peraltro ipotizzare, al di fuori della materia pensionistica, l’esperimento di un giudizio impugnatorio dinanzi al giudice contabile da parte del pubblico dipendente.
3) - Con l’art. 1, comma 42, lett. d), della legge 6 novembre 2012, n. 190, è stato introdotto il nuovo comma 7-bis dell’art. 53, così formulato: “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
4) - La nuova disciplina normativa è entrata in vigore il 28 novembre 2012 e, in forza del principio della perpetuatio, non esplica effetti diretti nel presente giudizio, introdotto con atto notificato il 30 ottobre 2012.
5) - Ritiene il Collegio, tuttavia, che il nuovo comma 7-bis non abbia carattere realmente novativo, avendo invece il legislatore inteso rendere esplicita la natura della sanzione apprestata per combattere il fenomeno del “doppio lavoro” dei pubblici dipendenti.
6) - In relazione a quanto precede, deve conclusivamente stabilirsi che, come già affermato in identica fattispecie dalla Sezione (cfr. sentenza n. 943 del 25 giugno 2013), la controversia oggetto del presente giudizio appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, sicché il ricorso in esame va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Il resto leggetelo qui sotto.
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10/01/2014 201400068 Sentenza 2
N. 00068/2014 REG.PROV.COLL.
N. 01113/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1113 del 2012, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
D. C., rappresentato e difeso dall’avv. G. M., con domicilio eletto presso l’avv. A. R. nel suo studio in Genova, via XII Ottobre, 10/12;
contro
Ministero della difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Genova, viale Brigate Partigiane, 2;
nei confronti di
Casa di cura …….. S.r.l., rappresentata e difesa dall’avv. E. S. D., con domicilio eletto presso l’avv. F. S. nel suo studio in Genova, via Martin Piaggio, 17/1;
per l'annullamento
della nota ………. del 8/8/2012, pervenuta in data 5/9/2012, con la quale la Direzione di Commissariato …… ha richiesto al ricorrente il versamento di € 34.656,17 quale importo dovuto per l’asserita violazione dell’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 163/2001;
nonché, ove necessario, per l’annullamento
OMISSIS
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 ottobre 2013 il dott. Richard Goso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Il ricorrente è un …… della Marina militare, iscritto all’albo degli infermieri professionali, che, come accertato dalla guardia di finanza di OMISSIS nel corso di un’attività di controllo svolta nel 2010, aveva precedentemente svolto prestazioni lavorative presso due case di cura private ed una cooperativa sociale, in assenza di autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
E’ stato quindi avviato il procedimento per il ricupero degli importi corrispondenti agli importi percepiti dall’interessato per le attività non autorizzate, come previsto dall’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Con nota del 8 agosto 2012, la Direzione di commissariato …… intimava il pagamento, per la causale sopra descritta, della somma complessiva di € 34.656,17.
Controdeduceva l’interessato, con nota del 10 settembre 2012, chiedendo che fosse temporaneamente sospesa la procedura di ricupero o, in subordine, che gli importi dovuti fossero rideterminati al netto delle imposte.
Quest’ultima istanza era ritenuta meritevole di condivisione dall’Amministrazione che, con nota della Direzione di commissariato …… in data 29 ottobre 2012, invitava il dipendente a comunicare il netto percepito.
Anziché ottemperare a quanto richiestogli, l’interessato, con atto notificato il 30 ottobre 2012 e depositato il successivo 22 novembre, ha impugnato dinanzi a questo Tar l’intimazione di pagamento 8/8/2012 e gli atti antecedenti del procedimento.
L’esponente denuncia la mancata comunicazione di avvio del procedimento, il difetto di istruttoria e la violazione, sotto plurimi profili, del citato art. 53.
Si è costituita in giudizio l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Genova, in rappresentanza dell’intimato Ministero della difesa, argomentando nel senso dell’infondatezza del ricorso e opponendosi al suo accoglimento.
All’udienza camerale del 13 dicembre 2012, il difensore intervenuto per il ricorrente ha dichiarato di rinunciare all’istanza cautelare incidentalmente proposta con l’atto introduttivo del giudizio.
Con ricorso per motivi aggiunti notificato il 23 gennaio 2013 e depositato il successivo 13 febbraio, l’interessato ha impugnato la nota del 18 ottobre 2012, conosciuta solo a seguito del deposito in giudizio, con cui il Ministero della difesa, tra l’altro, aveva disatteso le doglianze formulate con la citata comunicazione 10/9/2012.
Nelle more del giudizio, è intervenuta ad opponendum la Casa di cura …… S.r.l., una delle strutture sanitarie presso le quali il ricorrente aveva svolto le attività extraistituzionali cui si riferisce la vertenza, alla quale, per tale ragione, era stata applicata una sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti al militare.
L’interveniente eccepisce l’incompletezza del contraddittorio e l’infondatezza del ricorso nel merito.
In prossimità della pubblica udienza del 20 giugno 2013, le parti costituite hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive posizioni.
All’esito dell’udienza suddetta, è stata adottata l’ordinanza n. 933/2013, con cui Collegio ha segnalato alle parti, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., la questione inerente al possibile difetto di giurisdizione del giudice adito (con riferimento alla natura sanzionatoria del provvedimento impugnato in principalità) e assegnato termini a difesa.
Le parti hanno preso posizione sulla questione segnalata d’ufficio.
La difesa erariale, con memoria depositata il 24 luglio 2013, ha precisato che, alla luce delle indicazioni formulate dal legislatore con l’approvazione della legge 6 novembre 2012, n. 190, doveva individuarsi nella Corte dei conti il giudice competente a conoscere in via esclusiva della vicenda.
Parte ricorrente, invece, con memoria depositata il giorno successivo, afferma che la fattispecie controversa rientrerebbe nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a., non potendosi peraltro ipotizzare, al di fuori della materia pensionistica, l’esperimento di un giudizio impugnatorio dinanzi al giudice contabile da parte del pubblico dipendente.
Analoga posizione ha assunto la difesa della controinteressata, con il supporto di plurimi richiami giurisprudenziali favorevoli a tale impostazione.
Il ricorso, infine, è stato chiamato alla pubblica udienza del 30 ottobre 2013 e ritenuto in decisione.
DIRITTO
La controversia dedotta in giudizio concerne la verifica di legittimità delle misure adottate dal Ministero della difesa nei confronti del dipendente che ha svolto prestazioni lavorative extraistituzionali non preventivamente autorizzate dall’Amministrazione di appartenenza.
La soluzione della questione di giurisdizione, sollevata d’ufficio nel corso del giudizio, precede naturalmente la disamina di ogni altra questione preliminare e del merito della vicenda.
Va precisato che l’amministrazione fonda la pretesa alla restituzione delle somme percepite dal dipendente per lo svolgimento di incarichi non autorizzati sul disposto dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Tale disposizione, nel testo vigente ratione temporis, stabiliva che “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Con l’art. 1, comma 42, lett. d), della legge 6 novembre 2012, n. 190, è stato introdotto il nuovo comma 7-bis dell’art. 53, così formulato: “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
La nuova disciplina normativa è entrata in vigore il 28 novembre 2012 e, in forza del principio della perpetuatio, non esplica effetti diretti nel presente giudizio, introdotto con atto notificato il 30 ottobre 2012.
Ritiene il Collegio, tuttavia, che il nuovo comma 7-bis non abbia carattere realmente novativo, avendo invece il legislatore inteso rendere esplicita la natura della sanzione apprestata per combattere il fenomeno del “doppio lavoro” dei pubblici dipendenti.
La prescrizione che impone a tali lavoratori di chiedere il rilascio di preventiva autorizzazione per lo svolgimento di incarichi retribuiti extraistituzionali (e il rafforzativo obbligo di riversare all’amministrazione i compensi percepiti per gli incarichi non autorizzati) ha lo scopo, infatti, di precludere lo svolgimento di attività che, in ipotesi, potrebbero risultare pregiudizievoli per l’efficiente espletamento dei compiti di istituto ovvero determinare situazioni non compatibili con la posizione di imparzialità che discende dall’inserimento nell’apparato amministrativo.
Come precisato in analoga fattispecie dal giudice regolatore della giurisdizione, la richiesta (e il previo rilascio) dell’autorizzazione in parola configura un obbligo strumentale al corretto esercizio delle mansioni connesse al rapporto di impiego, la cui violazione “può essere pertanto addotta come fonte di responsabilità amministrativa capace di radicare la giurisdizione della Corte dei conti”, quale giudice naturale per quanto riguarda la responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti (Cass. civ., sez. un., 2 novembre 2011, n. 22688).
In tale prospettiva, che il Collegio condivide e fa propria, la fonte del danno all’erario non era rappresentata, anche prima della novella legislativa, dallo svolgimento di prestazioni lavorative non autorizzate (peraltro non incompatibili, in ipotesi, con il dovere di esclusività gravante sul pubblico dipendente), bensì dalle trasgressioni inerenti alla mancata richiesta della preventiva autorizzazione e all’omesso versamento dei compensi percepiti, ossia dalla violazione di doveri strumentali al corretto esercizio delle mansioni che, secondo la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, valgono a radicare la giurisdizione della Corte dei conti.
In relazione a quanto precede, deve conclusivamente stabilirsi che, come già affermato in identica fattispecie dalla Sezione (cfr. sentenza n. 943 del 25 giugno 2013), la controversia oggetto del presente giudizio appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, sicché il ricorso in esame va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Sussistono i presupposti di legge per l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti costituite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Seconda) dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe, in quanto rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Genova nella camera di consiglio del giorno 30 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Caruso, Presidente
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Richard Goso, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/01/2014
Art. 53, comma 7, recita:
7. I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza.
Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto.
In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
1) - La difesa erariale, ...., ha precisato che, alla luce delle indicazioni formulate dal legislatore con l’approvazione della legge 6 novembre 2012, n. 190, doveva individuarsi nella Corte dei conti il giudice competente a conoscere in via esclusiva della vicenda.
2) - Parte ricorrente, invece, con memoria depositata il giorno successivo, afferma che la fattispecie controversa rientrerebbe nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a., non potendosi peraltro ipotizzare, al di fuori della materia pensionistica, l’esperimento di un giudizio impugnatorio dinanzi al giudice contabile da parte del pubblico dipendente.
3) - Con l’art. 1, comma 42, lett. d), della legge 6 novembre 2012, n. 190, è stato introdotto il nuovo comma 7-bis dell’art. 53, così formulato: “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
4) - La nuova disciplina normativa è entrata in vigore il 28 novembre 2012 e, in forza del principio della perpetuatio, non esplica effetti diretti nel presente giudizio, introdotto con atto notificato il 30 ottobre 2012.
5) - Ritiene il Collegio, tuttavia, che il nuovo comma 7-bis non abbia carattere realmente novativo, avendo invece il legislatore inteso rendere esplicita la natura della sanzione apprestata per combattere il fenomeno del “doppio lavoro” dei pubblici dipendenti.
6) - In relazione a quanto precede, deve conclusivamente stabilirsi che, come già affermato in identica fattispecie dalla Sezione (cfr. sentenza n. 943 del 25 giugno 2013), la controversia oggetto del presente giudizio appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, sicché il ricorso in esame va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Il resto leggetelo qui sotto.
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10/01/2014 201400068 Sentenza 2
N. 00068/2014 REG.PROV.COLL.
N. 01113/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1113 del 2012, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
D. C., rappresentato e difeso dall’avv. G. M., con domicilio eletto presso l’avv. A. R. nel suo studio in Genova, via XII Ottobre, 10/12;
contro
Ministero della difesa, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Genova, viale Brigate Partigiane, 2;
nei confronti di
Casa di cura …….. S.r.l., rappresentata e difesa dall’avv. E. S. D., con domicilio eletto presso l’avv. F. S. nel suo studio in Genova, via Martin Piaggio, 17/1;
per l'annullamento
della nota ………. del 8/8/2012, pervenuta in data 5/9/2012, con la quale la Direzione di Commissariato …… ha richiesto al ricorrente il versamento di € 34.656,17 quale importo dovuto per l’asserita violazione dell’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 163/2001;
nonché, ove necessario, per l’annullamento
OMISSIS
Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 ottobre 2013 il dott. Richard Goso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Il ricorrente è un …… della Marina militare, iscritto all’albo degli infermieri professionali, che, come accertato dalla guardia di finanza di OMISSIS nel corso di un’attività di controllo svolta nel 2010, aveva precedentemente svolto prestazioni lavorative presso due case di cura private ed una cooperativa sociale, in assenza di autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza.
E’ stato quindi avviato il procedimento per il ricupero degli importi corrispondenti agli importi percepiti dall’interessato per le attività non autorizzate, come previsto dall’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Con nota del 8 agosto 2012, la Direzione di commissariato …… intimava il pagamento, per la causale sopra descritta, della somma complessiva di € 34.656,17.
Controdeduceva l’interessato, con nota del 10 settembre 2012, chiedendo che fosse temporaneamente sospesa la procedura di ricupero o, in subordine, che gli importi dovuti fossero rideterminati al netto delle imposte.
Quest’ultima istanza era ritenuta meritevole di condivisione dall’Amministrazione che, con nota della Direzione di commissariato …… in data 29 ottobre 2012, invitava il dipendente a comunicare il netto percepito.
Anziché ottemperare a quanto richiestogli, l’interessato, con atto notificato il 30 ottobre 2012 e depositato il successivo 22 novembre, ha impugnato dinanzi a questo Tar l’intimazione di pagamento 8/8/2012 e gli atti antecedenti del procedimento.
L’esponente denuncia la mancata comunicazione di avvio del procedimento, il difetto di istruttoria e la violazione, sotto plurimi profili, del citato art. 53.
Si è costituita in giudizio l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Genova, in rappresentanza dell’intimato Ministero della difesa, argomentando nel senso dell’infondatezza del ricorso e opponendosi al suo accoglimento.
All’udienza camerale del 13 dicembre 2012, il difensore intervenuto per il ricorrente ha dichiarato di rinunciare all’istanza cautelare incidentalmente proposta con l’atto introduttivo del giudizio.
Con ricorso per motivi aggiunti notificato il 23 gennaio 2013 e depositato il successivo 13 febbraio, l’interessato ha impugnato la nota del 18 ottobre 2012, conosciuta solo a seguito del deposito in giudizio, con cui il Ministero della difesa, tra l’altro, aveva disatteso le doglianze formulate con la citata comunicazione 10/9/2012.
Nelle more del giudizio, è intervenuta ad opponendum la Casa di cura …… S.r.l., una delle strutture sanitarie presso le quali il ricorrente aveva svolto le attività extraistituzionali cui si riferisce la vertenza, alla quale, per tale ragione, era stata applicata una sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti al militare.
L’interveniente eccepisce l’incompletezza del contraddittorio e l’infondatezza del ricorso nel merito.
In prossimità della pubblica udienza del 20 giugno 2013, le parti costituite hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive posizioni.
All’esito dell’udienza suddetta, è stata adottata l’ordinanza n. 933/2013, con cui Collegio ha segnalato alle parti, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., la questione inerente al possibile difetto di giurisdizione del giudice adito (con riferimento alla natura sanzionatoria del provvedimento impugnato in principalità) e assegnato termini a difesa.
Le parti hanno preso posizione sulla questione segnalata d’ufficio.
La difesa erariale, con memoria depositata il 24 luglio 2013, ha precisato che, alla luce delle indicazioni formulate dal legislatore con l’approvazione della legge 6 novembre 2012, n. 190, doveva individuarsi nella Corte dei conti il giudice competente a conoscere in via esclusiva della vicenda.
Parte ricorrente, invece, con memoria depositata il giorno successivo, afferma che la fattispecie controversa rientrerebbe nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo prevista dall’art. 133, comma 1, lett. i), c.p.a., non potendosi peraltro ipotizzare, al di fuori della materia pensionistica, l’esperimento di un giudizio impugnatorio dinanzi al giudice contabile da parte del pubblico dipendente.
Analoga posizione ha assunto la difesa della controinteressata, con il supporto di plurimi richiami giurisprudenziali favorevoli a tale impostazione.
Il ricorso, infine, è stato chiamato alla pubblica udienza del 30 ottobre 2013 e ritenuto in decisione.
DIRITTO
La controversia dedotta in giudizio concerne la verifica di legittimità delle misure adottate dal Ministero della difesa nei confronti del dipendente che ha svolto prestazioni lavorative extraistituzionali non preventivamente autorizzate dall’Amministrazione di appartenenza.
La soluzione della questione di giurisdizione, sollevata d’ufficio nel corso del giudizio, precede naturalmente la disamina di ogni altra questione preliminare e del merito della vicenda.
Va precisato che l’amministrazione fonda la pretesa alla restituzione delle somme percepite dal dipendente per lo svolgimento di incarichi non autorizzati sul disposto dell’art. 53, comma 7, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
Tale disposizione, nel testo vigente ratione temporis, stabiliva che “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Con l’art. 1, comma 42, lett. d), della legge 6 novembre 2012, n. 190, è stato introdotto il nuovo comma 7-bis dell’art. 53, così formulato: “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
La nuova disciplina normativa è entrata in vigore il 28 novembre 2012 e, in forza del principio della perpetuatio, non esplica effetti diretti nel presente giudizio, introdotto con atto notificato il 30 ottobre 2012.
Ritiene il Collegio, tuttavia, che il nuovo comma 7-bis non abbia carattere realmente novativo, avendo invece il legislatore inteso rendere esplicita la natura della sanzione apprestata per combattere il fenomeno del “doppio lavoro” dei pubblici dipendenti.
La prescrizione che impone a tali lavoratori di chiedere il rilascio di preventiva autorizzazione per lo svolgimento di incarichi retribuiti extraistituzionali (e il rafforzativo obbligo di riversare all’amministrazione i compensi percepiti per gli incarichi non autorizzati) ha lo scopo, infatti, di precludere lo svolgimento di attività che, in ipotesi, potrebbero risultare pregiudizievoli per l’efficiente espletamento dei compiti di istituto ovvero determinare situazioni non compatibili con la posizione di imparzialità che discende dall’inserimento nell’apparato amministrativo.
Come precisato in analoga fattispecie dal giudice regolatore della giurisdizione, la richiesta (e il previo rilascio) dell’autorizzazione in parola configura un obbligo strumentale al corretto esercizio delle mansioni connesse al rapporto di impiego, la cui violazione “può essere pertanto addotta come fonte di responsabilità amministrativa capace di radicare la giurisdizione della Corte dei conti”, quale giudice naturale per quanto riguarda la responsabilità amministrativa dei pubblici dipendenti (Cass. civ., sez. un., 2 novembre 2011, n. 22688).
In tale prospettiva, che il Collegio condivide e fa propria, la fonte del danno all’erario non era rappresentata, anche prima della novella legislativa, dallo svolgimento di prestazioni lavorative non autorizzate (peraltro non incompatibili, in ipotesi, con il dovere di esclusività gravante sul pubblico dipendente), bensì dalle trasgressioni inerenti alla mancata richiesta della preventiva autorizzazione e all’omesso versamento dei compensi percepiti, ossia dalla violazione di doveri strumentali al corretto esercizio delle mansioni che, secondo la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, valgono a radicare la giurisdizione della Corte dei conti.
In relazione a quanto precede, deve conclusivamente stabilirsi che, come già affermato in identica fattispecie dalla Sezione (cfr. sentenza n. 943 del 25 giugno 2013), la controversia oggetto del presente giudizio appartiene alla giurisdizione della Corte dei conti, sicché il ricorso in esame va dichiarato inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Sussistono i presupposti di legge per l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti costituite.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria (Sezione Seconda) dichiara inammissibile il ricorso in epigrafe, in quanto rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Genova nella camera di consiglio del giorno 30 ottobre 2013 con l'intervento dei magistrati:
Giuseppe Caruso, Presidente
Oreste Mario Caputo, Consigliere
Richard Goso, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 10/01/2014
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
Ecco la nuova disposizione (2014) del Ministero della Difesa in materia di esercizio di attività extraprofessionale.
Vedi allegato qui sotto.
Vedi allegato qui sotto.
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Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
Polizia di Stato.
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negata l'autorizzazione a svolgere l'attivita' di mediatore civile
IL TAR scrive:
1) - L’attività di mediatore non ha carattere continuativo e può ridursi allo svolgimento di poche ore di attività al di fuori dell’orario lavorativo.
2) - Il ricorso deve pertanto essere accolto con annullamento dell’atto impugnato e la pubblica amministrazione competente deve essere tenuta a riesaminare l’istanza sulla base delle indicazioni di cui in motivazione, con specifico riferimento alla genericità della formulata istanza, salva l’insussistenza di un’astratta incompatibilità tra l’attività svolta dal ricorrente e le funzioni di mediatore.
Il resto leggetelo qui sotto x completezza.
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26/05/2014 201400813 Sentenza 1
N. 00813/2014 REG.PROV.COLL.
N. 00870/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 870 del 2011, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dall'avv. Cono Cantelmi, con domicilio eletto presso Cono Cantelmi in Catanzaro Lido, via Torrazzo,22;
contro
Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distr.le Catanzaro, domiciliata in Catanzaro, via G.Da Fiore, 34;
per l'annullamento del provvedimento n 333/d del 04/04/2011 con il quale veniva negata l'autorizzazione a svolgere l'attivita' di mediatore civile
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 aprile 2014 il dott. Raffaele Tuccillo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso, OMISSIS chiedeva di annullare il provvedimento n. 333-d/122.M.2.6 emesso dal Ministero dell’Interno, Sezione Affari Generali, in data 4.4.2011, con il quale veniva negata al ricorrente l’autorizzazione allo svolgimento di attività di mediatore civile previa iscrizione nel relativo elenco.
Riferiva:
di essere dipendente del Ministero dell’Interno, quale Assistente capo della Polizia di Stato e in servizio effettivo presso OMISSIS;
che nel giugno 2010 conseguiva il titolo di conciliatore professionista;
che nel gennaio 2011 conseguiva il titolo di mediatore civile;
che in data 3.2.2011 richiedeva il nulla osta allo svolgimento dell’attività di mediatore civile.
Impugnava il provvedimento per illegittimità, eccesso di potere e carenza di motivazione, nonché per irragionevolezza del provvedimento. Riferiva:
che la funzione di mediatore era compatibile con quella di pubblico dipendente;
che il provvedimento di diniego era motivato con pretestuosi argomenti di incompatibilità;
che l’iscrizione nell’albo non comportava alcun impegno di continuità costanza o prevalenza rispetto al ruolo istituzionale svolto dal ricorrente;
che la funzione di mediatore era relazionata a un singolo affare e aveva una durata non superiore a quattro mesi;
che non incideva sulla professionalità;
che la funzione di arbitro poteva essere assunta da un pubblico dipendente;
che l’elenco dei mediatori non costituiva un ordine professionale.
Si costituiva il Ministero resistente chiedendo di rigettare il ricorso.
Riferiva:
che il personale della Polizia di Stato non poteva fornire prestazioni lavorative non attinenti al servizio d’istituto come previsto dall’art. 24 del d.p.r. 782/1985;
che ne derivava l’esclusività della prestazione lavorativa;
che erano pertanto vietate tutte le attività che con carattere di continuità costanza e prevalenza potevano risultare inconciliabili con gli obblighi del pubblico impiego;
che il ricorrente rivestiva permanentemente la qualifica di agente di Pubblica Sicurezza e Ufficiale di polizia giudiziaria;
che l’iscrizione in questione abilitava l’esercizio dell’attività di mediazione nel campo civile e commerciale;
che gli obblighi di segretezza e di inutilizzazione delle informazioni erano in contrasto con il dovere di esclusività della prestazione di lavoro dell’appartenente alla polizia di stato;
che riguardava lo svolgimento di attività professionale, che, inoltre, l’iscrizione consentiva di svolgere una serie indefinita di prestazioni;
che inoltre il dipendente era addetto alla OMISSIS, con potenziale conflitto con l’attività istituzionale espletata.
2. Il ricorso proposto da parte ricorrente deve trovare accoglimento nei limiti di cui in motivazione.
L’istanza di autorizzazione proposta da parte ricorrente risulta generica e a contenuto indeterminato, deve tuttavia rilevarsi che non emerge dalla normativa vigente una generale incompatibilità tra l’attività svolta dal ricorrente e l’incarico di mediatore civile e commerciale, ferma l’ovvia considerazione che l’autorizzazione non può in alcun modo riguardare in generale l’iscrizione e lo svolgimento dell’incarico, ma deve essere richiesta con specifico riferimento al singolo organo o elenco al quale il ricorrente ritenga di iscriversi e con riferimento a ogni singolo incarico di mediazione conferito al dipendente pubblico al fine di esaminare la compatibilità della specifica controversia assegnata o in corso di assegnazione al mediatore in relazione all’attività professionale dallo stesso svolto – esame da compiersi caso per caso e con riferimento al numero di procedimenti eventualmente già autorizzati –.
L’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, anche in virtù del richiamo dell’art. 60 del t.u. n. 3/57, statuisce il dovere di esclusività per il personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche, fissando l’inibitoria del commercio, dell’industria e di professioni o dell’assunzioni di impieghi presso privati e di incarichi presso società costituite a fine di lucro (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. V, 17 settembre 2008, n. 4394; C.d.S., Sez. V, 7 settembre 2007, n. 4708; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 29; TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 11 settembre 2008, n. 1910). L’art. 50 del d.p.r. 1982 n. 335, nel regolamentare l’ordinamento della Polizia di Stato, dispone che il personale di cui al decreto legislativo non può esercitare il commercio, l’industria né alcuna professione o mestiere o assumere impieghi pubblici o privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, salvo i casi previsti da disposizioni speciali. Il personale può essere prescelto come perito o arbitro, previa autorizzazione del Ministro o del capo dell’ufficio da lui delegato.
La disciplina che regolamenta specificamente l’ordinamento della Polizia di Stato impone prescrizioni più restrittive, atte a introdurre una sorta di incompatibilità assoluta con altre attività, indipendentemente dalla natura privata o pubblica che connota le stesse. Deve, pertanto, riscontrarsi l’obbligo di operare esclusivamente a favore della Polizia di Stato, anche in considerazione della particolare gravosità riconosciuta alle relative funzioni. Ne deriva che l’eventuale esercizio di ulteriori funzioni non può che assumere indiscusso carattere eccezionale, nel rispetto della salvaguardia primaria della dedizione del dipendente ai propri compiti di appartenente alla Polizia di Stato.
Nel caso di specie, l’iscrizione all’albo e l’eventuale esercizio dell’attività di mediatore non contrasta con il disposto dell’art. 50 né delle altre disposizioni in tema di autorizzazione agli incarichi per dipendenti pubblici o appartenenti alla Polizia di Stato, in considerazione della sostanziale assimilabilità dell’incarico in questione alle funzioni di arbitro o di conciliatore. Il carattere dell’attività in questione, successivamente all’eventuale iscrizione negli elenchi previsti, può infatti concretizzarsi nello svolgimento anche di pochissimi incarichi all’anno – anche uno o nessuno –, al di fuori dell’orario lavorativo ed, eventualmente, del luogo di lavoro del ricorrente, fermo l’accertamento da svolgersi in concreto sulla compatibilità del singolo incarico con le funzioni svolte e con i compiti istituzionali.
L’attività di mediatore non ha carattere continuativo e può ridursi allo svolgimento di poche ore di attività al di fuori dell’orario lavorativo. La pubblica amministrazione resistente non ha provveduto a un esame concreto della compatibilità dell’eventuale incarico, da verificarsi, in concreto e caso per caso (con riferimento allo specifico albo e alla specifica controversia per il quale il ricorrente è, eventualmente, chiamato a svolgere le funzioni di mediatore), ferma la genericità dell’istanza formulata dal ricorrente.
Il ricorso deve pertanto essere accolto con annullamento dell’atto impugnato e la pubblica amministrazione competente deve essere tenuta a riesaminare l’istanza sulla base delle indicazioni di cui in motivazione, con specifico riferimento alla genericità della formulata istanza, salva l’insussistenza di un’astratta incompatibilità tra l’attività svolta dal ricorrente e le funzioni di mediatore.
3. In considerazione delle peculiarità della questione di lite, della novità della stessa e della mancanza di precedenti giurisprudenziali specifici sussistono adeguati motivi per compensare le spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione, e, per l’effetto, annulla l’atto impugnato.
Spese di lite compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 11 aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:
Guido Salemi, Presidente
Giovanni Iannini, Consigliere
Raffaele Tuccillo, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/05/2014
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negata l'autorizzazione a svolgere l'attivita' di mediatore civile
IL TAR scrive:
1) - L’attività di mediatore non ha carattere continuativo e può ridursi allo svolgimento di poche ore di attività al di fuori dell’orario lavorativo.
2) - Il ricorso deve pertanto essere accolto con annullamento dell’atto impugnato e la pubblica amministrazione competente deve essere tenuta a riesaminare l’istanza sulla base delle indicazioni di cui in motivazione, con specifico riferimento alla genericità della formulata istanza, salva l’insussistenza di un’astratta incompatibilità tra l’attività svolta dal ricorrente e le funzioni di mediatore.
Il resto leggetelo qui sotto x completezza.
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26/05/2014 201400813 Sentenza 1
N. 00813/2014 REG.PROV.COLL.
N. 00870/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 870 del 2011, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dall'avv. Cono Cantelmi, con domicilio eletto presso Cono Cantelmi in Catanzaro Lido, via Torrazzo,22;
contro
Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Distr.le Catanzaro, domiciliata in Catanzaro, via G.Da Fiore, 34;
per l'annullamento del provvedimento n 333/d del 04/04/2011 con il quale veniva negata l'autorizzazione a svolgere l'attivita' di mediatore civile
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 aprile 2014 il dott. Raffaele Tuccillo e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso, OMISSIS chiedeva di annullare il provvedimento n. 333-d/122.M.2.6 emesso dal Ministero dell’Interno, Sezione Affari Generali, in data 4.4.2011, con il quale veniva negata al ricorrente l’autorizzazione allo svolgimento di attività di mediatore civile previa iscrizione nel relativo elenco.
Riferiva:
di essere dipendente del Ministero dell’Interno, quale Assistente capo della Polizia di Stato e in servizio effettivo presso OMISSIS;
che nel giugno 2010 conseguiva il titolo di conciliatore professionista;
che nel gennaio 2011 conseguiva il titolo di mediatore civile;
che in data 3.2.2011 richiedeva il nulla osta allo svolgimento dell’attività di mediatore civile.
Impugnava il provvedimento per illegittimità, eccesso di potere e carenza di motivazione, nonché per irragionevolezza del provvedimento. Riferiva:
che la funzione di mediatore era compatibile con quella di pubblico dipendente;
che il provvedimento di diniego era motivato con pretestuosi argomenti di incompatibilità;
che l’iscrizione nell’albo non comportava alcun impegno di continuità costanza o prevalenza rispetto al ruolo istituzionale svolto dal ricorrente;
che la funzione di mediatore era relazionata a un singolo affare e aveva una durata non superiore a quattro mesi;
che non incideva sulla professionalità;
che la funzione di arbitro poteva essere assunta da un pubblico dipendente;
che l’elenco dei mediatori non costituiva un ordine professionale.
Si costituiva il Ministero resistente chiedendo di rigettare il ricorso.
Riferiva:
che il personale della Polizia di Stato non poteva fornire prestazioni lavorative non attinenti al servizio d’istituto come previsto dall’art. 24 del d.p.r. 782/1985;
che ne derivava l’esclusività della prestazione lavorativa;
che erano pertanto vietate tutte le attività che con carattere di continuità costanza e prevalenza potevano risultare inconciliabili con gli obblighi del pubblico impiego;
che il ricorrente rivestiva permanentemente la qualifica di agente di Pubblica Sicurezza e Ufficiale di polizia giudiziaria;
che l’iscrizione in questione abilitava l’esercizio dell’attività di mediazione nel campo civile e commerciale;
che gli obblighi di segretezza e di inutilizzazione delle informazioni erano in contrasto con il dovere di esclusività della prestazione di lavoro dell’appartenente alla polizia di stato;
che riguardava lo svolgimento di attività professionale, che, inoltre, l’iscrizione consentiva di svolgere una serie indefinita di prestazioni;
che inoltre il dipendente era addetto alla OMISSIS, con potenziale conflitto con l’attività istituzionale espletata.
2. Il ricorso proposto da parte ricorrente deve trovare accoglimento nei limiti di cui in motivazione.
L’istanza di autorizzazione proposta da parte ricorrente risulta generica e a contenuto indeterminato, deve tuttavia rilevarsi che non emerge dalla normativa vigente una generale incompatibilità tra l’attività svolta dal ricorrente e l’incarico di mediatore civile e commerciale, ferma l’ovvia considerazione che l’autorizzazione non può in alcun modo riguardare in generale l’iscrizione e lo svolgimento dell’incarico, ma deve essere richiesta con specifico riferimento al singolo organo o elenco al quale il ricorrente ritenga di iscriversi e con riferimento a ogni singolo incarico di mediazione conferito al dipendente pubblico al fine di esaminare la compatibilità della specifica controversia assegnata o in corso di assegnazione al mediatore in relazione all’attività professionale dallo stesso svolto – esame da compiersi caso per caso e con riferimento al numero di procedimenti eventualmente già autorizzati –.
L’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, anche in virtù del richiamo dell’art. 60 del t.u. n. 3/57, statuisce il dovere di esclusività per il personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche, fissando l’inibitoria del commercio, dell’industria e di professioni o dell’assunzioni di impieghi presso privati e di incarichi presso società costituite a fine di lucro (cfr., tra le altre, C.d.S., Sez. V, 17 settembre 2008, n. 4394; C.d.S., Sez. V, 7 settembre 2007, n. 4708; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 13 gennaio 2010, n. 29; TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 11 settembre 2008, n. 1910). L’art. 50 del d.p.r. 1982 n. 335, nel regolamentare l’ordinamento della Polizia di Stato, dispone che il personale di cui al decreto legislativo non può esercitare il commercio, l’industria né alcuna professione o mestiere o assumere impieghi pubblici o privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, salvo i casi previsti da disposizioni speciali. Il personale può essere prescelto come perito o arbitro, previa autorizzazione del Ministro o del capo dell’ufficio da lui delegato.
La disciplina che regolamenta specificamente l’ordinamento della Polizia di Stato impone prescrizioni più restrittive, atte a introdurre una sorta di incompatibilità assoluta con altre attività, indipendentemente dalla natura privata o pubblica che connota le stesse. Deve, pertanto, riscontrarsi l’obbligo di operare esclusivamente a favore della Polizia di Stato, anche in considerazione della particolare gravosità riconosciuta alle relative funzioni. Ne deriva che l’eventuale esercizio di ulteriori funzioni non può che assumere indiscusso carattere eccezionale, nel rispetto della salvaguardia primaria della dedizione del dipendente ai propri compiti di appartenente alla Polizia di Stato.
Nel caso di specie, l’iscrizione all’albo e l’eventuale esercizio dell’attività di mediatore non contrasta con il disposto dell’art. 50 né delle altre disposizioni in tema di autorizzazione agli incarichi per dipendenti pubblici o appartenenti alla Polizia di Stato, in considerazione della sostanziale assimilabilità dell’incarico in questione alle funzioni di arbitro o di conciliatore. Il carattere dell’attività in questione, successivamente all’eventuale iscrizione negli elenchi previsti, può infatti concretizzarsi nello svolgimento anche di pochissimi incarichi all’anno – anche uno o nessuno –, al di fuori dell’orario lavorativo ed, eventualmente, del luogo di lavoro del ricorrente, fermo l’accertamento da svolgersi in concreto sulla compatibilità del singolo incarico con le funzioni svolte e con i compiti istituzionali.
L’attività di mediatore non ha carattere continuativo e può ridursi allo svolgimento di poche ore di attività al di fuori dell’orario lavorativo. La pubblica amministrazione resistente non ha provveduto a un esame concreto della compatibilità dell’eventuale incarico, da verificarsi, in concreto e caso per caso (con riferimento allo specifico albo e alla specifica controversia per il quale il ricorrente è, eventualmente, chiamato a svolgere le funzioni di mediatore), ferma la genericità dell’istanza formulata dal ricorrente.
Il ricorso deve pertanto essere accolto con annullamento dell’atto impugnato e la pubblica amministrazione competente deve essere tenuta a riesaminare l’istanza sulla base delle indicazioni di cui in motivazione, con specifico riferimento alla genericità della formulata istanza, salva l’insussistenza di un’astratta incompatibilità tra l’attività svolta dal ricorrente e le funzioni di mediatore.
3. In considerazione delle peculiarità della questione di lite, della novità della stessa e della mancanza di precedenti giurisprudenziali specifici sussistono adeguati motivi per compensare le spese di lite tra le parti.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima)
definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in motivazione, e, per l’effetto, annulla l’atto impugnato.
Spese di lite compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Catanzaro nella camera di consiglio del giorno 11 aprile 2014 con l'intervento dei magistrati:
Guido Salemi, Presidente
Giovanni Iannini, Consigliere
Raffaele Tuccillo, Referendario, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 26/05/2014
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
- Infermieri civili che svolgono analoga professione in case di cura e/o riposo, cliniche;
- medici civili di varie branche che svolgono analoga professione in altri enti ed altro;
- fisioterapisti che svolgono la loro professione in altre strutture;
- medici militari che svolgono lavoro altrove, ecc, ecc,.
Tutti chiamati in causa presso la Corte dei Conti per restituire (non bonariamente) previa condanna tutti le somme percepite.
Non vedo perché bisogna fare queste "furbizie non comunicate all'Amministrazione". Vi posso dire che conviene chiedere l'autorizzazione altrimenti si rischia che OGGI si incassano enorme somme per poi vederli restituire DOMANI con tutte le conseguenze.
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Ecco alcuni punti di una sentenza della Corte dei Conti per complessivi euro 44.539,14. Logicamente l'infermiere è stato condannato alla restituzione.
1) - ha inoltre svolto l’ attività esterna senza autorizzazione, in violazione della norma contenuta nell’art.53, comma 7, D.Lgs. n.165/2001, a mente della quale “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza….”
2) - infermiere professionale in servizio presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti Umberto I°, G.M. Lancisi e G. Salesi” di Ancona per sentirlo condannare al risarcimento del pregiudizio erariale, quantificato in complessivi euro 44.539,14, assertivamente cagionato all’amministrazione di appartenenza a seguito dell’intervenuto svolgimento di attività libero – professionale esterna in carenza dei presupposti di legge e, significativamente, in assenza di autorizzazione preventiva.
3) - La vicenda illecita risulta portata a conoscenza dell’organo requirente dal Comando Carabinieri per la Tutela della Salute – N.A.S. di Ancona (comunicazione del ... settembre 2010) ed è stata successivamente delineata nei suoi elementi costitutivi attraverso specifica attività istruttoria delegata dalla Procura Regionale al medesimo Comando dell’Arma dei Carabinieri.
4) - ha violato l’obbligo di servizio – direttamente connesso al suo status di dipendente pubblico – che gli imponeva di svolgere l’ attività lavorativa esclusivamente presso l’ente ospedaliero di appartenenza. Segnatamente l’art.53, comma 1, D.Lgs. n.165/2001 (originariamente art.58, D.Lgs. n.29/1993) nel suo combinato disposto con l’art.1, commi 56 e seguenti. La normativa richiamata è infatti chiarissima nel consentire lo svolgimento attività esterne da parte del pubblico dipendente (con esclusione degli appartenenti al personale militare, a quello delle Forze di polizia e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco) soltanto nelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia stato ammesso in regime di part – time con un’articolazione della prestazioni in misura inferiore al 50% del debito lavorativo ordinario.
5) - L’art.1, comma 42, Legge n.190/2012 ha introdotto il comma 7-bis all’impianto normativo e ha sancito che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
Sarò stato chiaro?
- medici civili di varie branche che svolgono analoga professione in altri enti ed altro;
- fisioterapisti che svolgono la loro professione in altre strutture;
- medici militari che svolgono lavoro altrove, ecc, ecc,.
Tutti chiamati in causa presso la Corte dei Conti per restituire (non bonariamente) previa condanna tutti le somme percepite.
Non vedo perché bisogna fare queste "furbizie non comunicate all'Amministrazione". Vi posso dire che conviene chiedere l'autorizzazione altrimenti si rischia che OGGI si incassano enorme somme per poi vederli restituire DOMANI con tutte le conseguenze.
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Ecco alcuni punti di una sentenza della Corte dei Conti per complessivi euro 44.539,14. Logicamente l'infermiere è stato condannato alla restituzione.
1) - ha inoltre svolto l’ attività esterna senza autorizzazione, in violazione della norma contenuta nell’art.53, comma 7, D.Lgs. n.165/2001, a mente della quale “I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza….”
2) - infermiere professionale in servizio presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti Umberto I°, G.M. Lancisi e G. Salesi” di Ancona per sentirlo condannare al risarcimento del pregiudizio erariale, quantificato in complessivi euro 44.539,14, assertivamente cagionato all’amministrazione di appartenenza a seguito dell’intervenuto svolgimento di attività libero – professionale esterna in carenza dei presupposti di legge e, significativamente, in assenza di autorizzazione preventiva.
3) - La vicenda illecita risulta portata a conoscenza dell’organo requirente dal Comando Carabinieri per la Tutela della Salute – N.A.S. di Ancona (comunicazione del ... settembre 2010) ed è stata successivamente delineata nei suoi elementi costitutivi attraverso specifica attività istruttoria delegata dalla Procura Regionale al medesimo Comando dell’Arma dei Carabinieri.
4) - ha violato l’obbligo di servizio – direttamente connesso al suo status di dipendente pubblico – che gli imponeva di svolgere l’ attività lavorativa esclusivamente presso l’ente ospedaliero di appartenenza. Segnatamente l’art.53, comma 1, D.Lgs. n.165/2001 (originariamente art.58, D.Lgs. n.29/1993) nel suo combinato disposto con l’art.1, commi 56 e seguenti. La normativa richiamata è infatti chiarissima nel consentire lo svolgimento attività esterne da parte del pubblico dipendente (con esclusione degli appartenenti al personale militare, a quello delle Forze di polizia e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco) soltanto nelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia stato ammesso in regime di part – time con un’articolazione della prestazioni in misura inferiore al 50% del debito lavorativo ordinario.
5) - L’art.1, comma 42, Legge n.190/2012 ha introdotto il comma 7-bis all’impianto normativo e ha sancito che “L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
Sarò stato chiaro?
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
E' un fatto diverso ma che potrebbe interessare a qualcuno. Questo caso riguarda un appartenente alla PolStato.
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1) - diniego all'autorizzazione ad esercitare attività extraprofessionale, in qualità di socio in Società Agricola semplice a conduzione familiare gestita dalla moglie, per la ragione che nelle società di persone è sempre prevista un’attività del socio.
2) - L’Amministrazione ritiene il ricorso infondato, trattandosi per l’appunto di una società di persone, nella quale, oltre alla responsabilità dei soci, vi è anche l’impegno degli stessi alla gestione della medesima società.
Il Consiglio di Stato a tal riguardo ha precisato:
3) - Non può non rilevarsi, infatti, che al di là della qualità giuridica della società in parola (società di persone) e al di là di ciò che avviene normalmente nelle società appartenenti a tale tipologia, nella specie il ricorrente ha richiesto l’autorizzazione soltanto a detenere una quota di proprietà della società in parola, e poiché tale qualità assimilabile a quella di proprietario non determina necessariamente l’assunzione di alcuna attività operativa, l’Amministrazione avrebbe dovuto approfondire l’istruttoria in concreto mentre si è limitata a rappresentare la considerazione giuridica astratta che nelle società di persone vi è una partecipazione diretta, anche se non necessaria, dei soci alla gestione della società.
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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 1 ,numero provv.: 201404354 - Public 2014-12-31 –
Numero ricorso:201402381
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Numero 04354/2014 e data 31/12/2014
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 10 dicembre 2014
NUMERO AFFARE 02381/2014
OGGETTO:
Ministero dell'interno - Dipartimento della pubblica sicurezza.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal signor OMISSIS, avverso il diniego all'autorizzazione ad esercitare attività extraprofessionale;
LA SEZIONE
Vista la relazione n. 333-A/U.C.1242/2687/V del 29/10/2014 con il quale il Ministero dell'interno dipartimento della pubblica sicurezza ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Eugenio Mele;
Premesso:
Ricorre il sostituto commissario della polizia di Stato OMISSIS, il quale impugna il provvedimento di diniego all’autorizzazione a porre in essere attività extraprofessionale, in qualità di socio in società agricola semplice a conduzione familiare gestita dalla moglie, per la ragione che nelle società di persone è sempre prevista un’attività del socio.
Ritiene il ricorrente che l’Amministrazione non ha svolto un’adeguata istruttoria sull’attività da svolgersi da parte del ricorrente nella società gestita dalla moglie.
L’Amministrazione ritiene il ricorso infondato, trattandosi per l’appunto di una società di persone, nella quale, oltre alla responsabilità dei soci, vi è anche l’impegno degli stessi alla gestione della medesima società.,
Considerato:
Ritiene la Sezione che il ricorso sia da accogliere per carenza di istruttoria da parte dell’Amministrazione di appartenenza del ricorrente.
Non può non rilevarsi, infatti, che al di là della qualità giuridica della società in parola (società di persone) e al di là di ciò che avviene normalmente nelle società appartenenti a tale tipologia, nella specie il ricorrente ha richiesto l’autorizzazione soltanto a detenere una quota di proprietà della società in parola, e poiché tale qualità assimilabile a quella di proprietario non determina necessariamente l’assunzione di alcuna attività operativa, l’Amministrazione avrebbe dovuto approfondire l’istruttoria in concreto mentre si è limitata a rappresentare la considerazione giuridica astratta che nelle società di persone vi è una partecipazione diretta, anche se non necessaria, dei soci alla gestione della società.
Il ricorso va, pertanto, accolto, con annullamento del provvedimento impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.
P.Q.M.
La Sezione è del parere che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica indicato in epigrafe debba essere accolto e il provvedimento impugnato annullato, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Eugenio Mele Giuseppe Barbagallo
IL SEGRETARIO
Giuseppe Testa
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1) - diniego all'autorizzazione ad esercitare attività extraprofessionale, in qualità di socio in Società Agricola semplice a conduzione familiare gestita dalla moglie, per la ragione che nelle società di persone è sempre prevista un’attività del socio.
2) - L’Amministrazione ritiene il ricorso infondato, trattandosi per l’appunto di una società di persone, nella quale, oltre alla responsabilità dei soci, vi è anche l’impegno degli stessi alla gestione della medesima società.
Il Consiglio di Stato a tal riguardo ha precisato:
3) - Non può non rilevarsi, infatti, che al di là della qualità giuridica della società in parola (società di persone) e al di là di ciò che avviene normalmente nelle società appartenenti a tale tipologia, nella specie il ricorrente ha richiesto l’autorizzazione soltanto a detenere una quota di proprietà della società in parola, e poiché tale qualità assimilabile a quella di proprietario non determina necessariamente l’assunzione di alcuna attività operativa, l’Amministrazione avrebbe dovuto approfondire l’istruttoria in concreto mentre si è limitata a rappresentare la considerazione giuridica astratta che nelle società di persone vi è una partecipazione diretta, anche se non necessaria, dei soci alla gestione della società.
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PARERE ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 1 ,numero provv.: 201404354 - Public 2014-12-31 –
Numero ricorso:201402381
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Numero 04354/2014 e data 31/12/2014
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Prima
Adunanza di Sezione del 10 dicembre 2014
NUMERO AFFARE 02381/2014
OGGETTO:
Ministero dell'interno - Dipartimento della pubblica sicurezza.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal signor OMISSIS, avverso il diniego all'autorizzazione ad esercitare attività extraprofessionale;
LA SEZIONE
Vista la relazione n. 333-A/U.C.1242/2687/V del 29/10/2014 con il quale il Ministero dell'interno dipartimento della pubblica sicurezza ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull'affare consultivo in oggetto;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Eugenio Mele;
Premesso:
Ricorre il sostituto commissario della polizia di Stato OMISSIS, il quale impugna il provvedimento di diniego all’autorizzazione a porre in essere attività extraprofessionale, in qualità di socio in società agricola semplice a conduzione familiare gestita dalla moglie, per la ragione che nelle società di persone è sempre prevista un’attività del socio.
Ritiene il ricorrente che l’Amministrazione non ha svolto un’adeguata istruttoria sull’attività da svolgersi da parte del ricorrente nella società gestita dalla moglie.
L’Amministrazione ritiene il ricorso infondato, trattandosi per l’appunto di una società di persone, nella quale, oltre alla responsabilità dei soci, vi è anche l’impegno degli stessi alla gestione della medesima società.,
Considerato:
Ritiene la Sezione che il ricorso sia da accogliere per carenza di istruttoria da parte dell’Amministrazione di appartenenza del ricorrente.
Non può non rilevarsi, infatti, che al di là della qualità giuridica della società in parola (società di persone) e al di là di ciò che avviene normalmente nelle società appartenenti a tale tipologia, nella specie il ricorrente ha richiesto l’autorizzazione soltanto a detenere una quota di proprietà della società in parola, e poiché tale qualità assimilabile a quella di proprietario non determina necessariamente l’assunzione di alcuna attività operativa, l’Amministrazione avrebbe dovuto approfondire l’istruttoria in concreto mentre si è limitata a rappresentare la considerazione giuridica astratta che nelle società di persone vi è una partecipazione diretta, anche se non necessaria, dei soci alla gestione della società.
Il ricorso va, pertanto, accolto, con annullamento del provvedimento impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.
P.Q.M.
La Sezione è del parere che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica indicato in epigrafe debba essere accolto e il provvedimento impugnato annullato, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Eugenio Mele Giuseppe Barbagallo
IL SEGRETARIO
Giuseppe Testa
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
Ordinanza della Corte Costituzionale n. 41/2015 emessa in data 17/03/2015
art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
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ORDINANZA N. 41
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo Maria NAPOLITANO Giudice
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, nel procedimento vertente tra la Residenze OMISSIS e il Ministero della difesa ed altri con ordinanza del 27 giugno 2013, iscritta al n. 242 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione della Residenze OMISSIS, di C.G., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati Stefano Claudio Tani per la Residenze OMISSIS, Alessandro Lucchetti per C. G. e l’avvocato dello Stato Mario Antonio Scino per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che, con ordinanza del 27 giugno 2013 (r.o. n. 242 del 2013), il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, ha sollevato, in riferimento agli artt. 36, primo comma, 41, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che, per i dipendenti pubblici che abbiano svolto incarichi retribuiti non conferiti o previamente autorizzati dalla amministrazione di appartenenza, «il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti»;
che il giudice rimettente premette di essere stato investito da un ricorso in opposizione di terzo, proposto da una società a responsabilità limitata, a norma dell’art. 108 dell’Allegato 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo), contro la sentenza che, in accoglimento del ricorso di un sottufficiale della Marina militare, aveva annullato gli atti con i quali era stata a quest’ultimo richiesta, ai sensi della norma ora censurata, la restituzione dei compensi percepiti per prestazioni lavorative di tipo infermieristico svolte in favore della società opponente senza l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza;
che, nel ricorso in opposizione, detta società aveva rilevato di essere stata richiesta, dalla predetta amministrazione, del versamento della somma erogata in favore del militare, in applicazione del principio affermato nella pronuncia impugnata, secondo cui l’amministrazione di appartenenza deve prioritariamente escutere il soggetto che ha ricevuto le prestazioni non autorizzate, senza che a nulla rilevi l’eventuale già avvenuto pagamento a favore del prestatore d’opera;
che la società medesima, lamentando di essere stata pretermessa nel giudizio opposto, ha chiesto l’annullamento della relativa sentenza per violazione della regola del contraddittorio, oltre che per falsa applicazione della disposizione qui denunciata, osservando, a quest’ultimo riguardo, che il principio affermato dal TAR presupponeva la consapevolezza, da parte della società opponente, della sussistenza del rapporto di pubblico impiego, contrastata, nel caso di specie, a vantaggio della buona fede dell’opponente, dalla dichiarazione, da parte del militare, di non trovarsi in situazioni di incompatibilità;
che, secondo il giudice a quo, l’interpretazione della disposizione denunciata adottata nella sentenza opposta si porrebbe in termini di dubbia compatibilità con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., non risultando chiaro come dell’obbligo di esclusività del rapporto di pubblico impiego “possa essere chiamato a rispondere un soggetto estraneo alla P.A. e, quindi, non sottoposto al regime giuridico proprio dei dipendenti pubblici”;
che, peraltro, dal momento che la norma in discorso “sembra prescindere totalmente dal fatto” che le prestazioni siano state o meno pagate, esponendo l’ente a “versare nuovamente all’Amministrazione” somme già erogate al lavoratore, si configurerebbe un contrasto anche con il principio di libertà di iniziativa economica privata, di cui all’art. 41 Cost.;
che, d’altra parte, nel tentativo di rinvenire una soluzione ermeneutica costituzionalmente compatibile, il giudice rimettente individua un “recente orientamento giurisprudenziale” secondo cui andrebbe riconosciuto rilievo dirimente all’avvenuto pagamento delle prestazioni lavorative in assenza della prescritta autorizzazione, consentendo all’amministrazione di agire direttamente nei confronti del proprio dipendente;
che, tuttavia, neppure questa opzione si sottrarrebbe a dubbi di costituzionalità, risultando, in questo caso, in contrasto sia con l’art. 36 Cost. – nella misura in cui, indipendentemente dal doveroso procedimento disciplinare, essa “pone a carico del dipendente pubblico l’obbligo di restituire all’Amministrazione di appartenenza i compensi percepiti per incarichi extraistituzionali privi della prescritta autorizzazione preventiva”, senza una verifica circa l’incidenza negativa che lo svolgimento di tali incarichi abbia prodotto sugli obblighi istituzionali o, in genere, sul buon andamento dell’azione amministrativa – sia con l’art. 97 Cost., in quanto la restituzione di quanto percepito in assenza di pregiudizio determinerebbe, in capo alla amministrazione, un arricchimento ingiustificato, in violazione del principio di imparzialità e di buon andamento;
che, infine, la questione sarebbe rilevante non apparendo ravvisabile, “oltre a quelle sospettate di incostituzionalità, un’interpretazione alternativa, costituzionalmente orientata” della disposizione oggetto di denuncia;
che nel giudizio si è costituita la Residenze OMISSIS, chiedendo dichiararsi inammissibile la questione proposta in quanto non rilevante o, in subordine, manifestamente infondata;
che, sul presupposto che la sentenza opposta sia stata pronunciata, con pregiudizio dei diritti della società opponente, in assenza della medesima, sicuramente controinteressata, e che la mancata notificazione integrerebbe un vizio della sentenza rilevabile anche d’ufficio, con conseguente “inammissibilità del giudizio di primo grado, concluso in violazione degli artt. 27 e 42 c.p.a.”, la questione relativa alla norma denunciata non rileverebbe in alcun modo agli effetti della decisione richiesta, potendo semmai riguardare un eventuale successivo giudizio;
che, quanto al merito, in contrasto alla tesi dell’obbligo della “preventiva escussione”, la norma in discorso coinvolgerebbe l’“erogante” solo in quanto il compenso non sia stato corrisposto, dovendo diversamente essere versato dal percettore;
che questa lettura parrebbe avvalorata dalla norma di cui al comma 7-bis dello stesso art. 53 denunciato, che assoggetta a giudizio di responsabilità erariale soltanto il pubblico dipendente “indebito percettore” di quel compenso che abbia omesso di versare alla amministrazione;
che si è anche costituito il militare originario ricorrente nel giudizio opposto, il quale ha chiesto dichiararsi l’illegittimità costituzionale della norma censurata;
che, rievocata diffusamente la vicenda processuale e le considerazioni svolte nell’ordinanza di rimessione, la memoria di costituzione segnala la rilevanza della questione in quanto, nell’ipotesi del rigetto, il militare si troverebbe esposto all’ingiustificato versamento della somma percepita, sottolineandosi, peraltro, che, in base all’art. 896 del codice dell’ordinamento militare, incomprensibilmente ritenuto ratione temporis inapplicabile dal TAR, la norma denunciata non si applicherebbe al personale militare;
che la questione sarebbe, nel merito, fondata per più ragioni ed in riferimento a vari parametri: in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., in quanto la disciplina della prestazione di lavoro resa in violazione di norme imperative non potrebbe determinare la negazione del compenso; in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto il recupero delle somme, da un lato, sarebbe irragionevole “per difetto di proporzionalità” e, d’altro lato, l’entità del reintegro sarebbe stabilita astrattamente, senza possibilità di prova contraria; in riferimento agli artt. 3, 97, 23 e 53 Cost., in quanto si determinerebbe un ingiustificato arricchimento per l’amministrazione, con introduzione per il dipendente di una sanzione per illecito di “pericolo”, in assenza, inoltre, delle condizioni previste per pretendere prestazioni patrimoniali personali; in relazione agli artt. 3, 24 e 103 Cost., infine, in quanto non sarebbe consentito al lavoratore di dedurre l’inesistenza di un concreto pregiudizio per la pubblica amministrazione;
che, quanto ai princìpi di cui all’art. 36 Cost., la rilevanza disciplinare della condotta serbata dal militare non dovrebbe, comunque, pregiudicare il diritto alla remunerazione per il lavoro svolto, senza che risulti dimostrata la sussistenza di un pregiudizio a danno dell’amministrazione;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;
che, secondo l’Avvocatura, l’ordinanza di rimessione non chiarirebbe l’opzione interpretativa del giudice rimettente e, dunque, la norma sulla quale egli appunta le censure;
che nel dispositivo dell’ordinanza sarebbe, infatti, enunciato come parametro anche l’art. 41 Cost., richiamato nella motivazione a sostegno dei dubbi che riguardano l’interpretazione cui ha aderito la sentenza opposta, dandosi così vita a due questioni di legittimità costituzionale fra loro alternative, restando, nella sostanza, immotivato il riferimento alla violazione dell’art. 97 Cost.;
che, nel merito, i dubbi sarebbero infondati, atteso che, quanto al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, la norma denunciata mirerebbe a rafforzare la garanzia che il lavoro dei pubblici dipendenti a favore di terzi non si riverberi negativamente sul servizio d’istituto e, quanto alla libertà di iniziativa economica, la stessa prevedrebbe limiti in ragione dell’interesse generale;
che il richiamo dell’art. 36 Cost. si rivelerebbe “palesemente improprio”, dal momento che la norma censurata non inciderebbe in alcun modo sul diritto del pubblico dipendente alla propria retribuzione;
che, infine, “non sembra possa avere diritto di cittadinanza il beneficio dell’escussione a carico dell’erogante disciplinato dall’articolo 53 comma 7, soprattutto nel caso in cui il soggetto obbligato a dover versare per primo il compenso non sia una pubblica amministrazione come nella fattispecie concreta qui all’esame (società opponente)” e tanto più quando i compensi siano stati già erogati;
che, in prossimità dell’udienza, la Residenze OMISSIS ha depositato una memoria nella quale ha ribadito la richiesta di una declaratoria di inammissibilità della questione, sul fondamento dei rilievi già esposti, sottolineando, peraltro, come, poco dopo la pubblicazione della sentenza opposta, sia entrata in vigore la norma di cui al comma 7-bis dello stesso art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, che stabilisce un’ipotesi di responsabilità contabile per il pubblico dipendente in relazione alle somme indebitamente percepite per attività non autorizzate;
che, in prossimità dell’udienza, ha depositato memoria anche la parte privata ricorrente nell’originario giudizio, insistendo nella richiesta di accoglimento della questione, per gli argomenti già esposti;
che la disposizione denunciata, oltre che imporre il versamento della retribuzione percepita dal pubblico dipendente senza alcun “titolo causale” per l’amministrazione, si rivelerebbe, per il suo “automatismo”, irragionevolmente afflittiva e in contrasto con la tradizione civilistica, dal momento che:
a) si cumulerebbe con le sanzioni disciplinari;
b) priverebbe il dipendente di tutti i corrispettivi percepiti senza limiti temporali di recupero;
c) prescinderebbe da qualsiasi accertamento in ordine al pregiudizio subìto dall’amministrazione;
che lo ius superveniens, di cui al comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, avvalorerebbe, d’altra parte, la tesi secondo la quale, al pari di ogni altra ipotesi di responsabilità erariale, sarebbe necessario accertare se la prestazione non autorizzata abbia determinato un danno in concreto alla pubblica amministrazione, diversamente evidenziandosi l’ulteriore irragionevolezza dell’automatismo sanzionatorio, in contrasto con l’art. 36 Cost.
Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, con ordinanza depositata il 27 giugno 2013, ha sollevato, in riferimento agli artt. 36, primo comma, 41, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che, per i dipendenti pubblici che abbiano svolto incarichi retribuiti non conferiti o previamente autorizzati dalla amministrazione di appartenenza, «il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti»;
che il giudice rimettente preliminarmente rileva di essere chiamato a pronunciarsi sulla opposizione di terzo proposta, a norma dell’art. 108 dell’Allegato 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo) dalla società Residenze OMISSIS, intesa ad ottenere la caducazione della sentenza pronunciata dal medesimo giudice, che aveva accolto il ricorso presentato da un sottufficiale della Marina militare avverso il provvedimento con il quale l’amministrazione di appartenenza aveva richiesto, in base alla norma ora censurata, la restituzione dei compensi percepiti per le prestazioni lavorative di tipo infermieristico dal medesimo svolte in favore della società opponente, la quale appunto si doleva, attraverso l’atto di opposizione, di essere stata indebitamente pretermessa da quel giudizio, con conseguente lesione dei propri diritti e interessi;
che la disposizione denunciata era stata interpretata, nella sentenza oggetto di opposizione, nel senso che, “in presenza di incarichi extraistituzionali non autorizzati, l’Amministrazione di appartenenza deve prioritariamente escutere il soggetto che ha ricevuto le prestazioni lavorative non autorizzate da parte del dipendente pubblico e che a nulla rilevi l’eventuale già avvenuto pagamento delle medesime, essendo la restituzione delle somme erogate diretta ad integrare il ‘fondo di produttività’ o ‘fondi equivalenti’”;
che, alla stregua di tale interpretazione, la normativa censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 97, primo comma, Cost., in quanto − considerato che la sua finalità “è quella di tutelare il principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego” – “non si vede perché della violazione di questo obbligo possa essere chiamato a rispondere un soggetto estraneo alla P.A. e, quindi, non sottoposto al regime giuridico proprio dei dipendenti pubblici”;
che inoltre – sottolinea il Tribunale rimettente – “richiedendo al dipendente pubblico sic et simpliciter la restituzione di quanto percepito per incarichi non autorizzati, senza una preventiva verifica dell’incidenza di questi incarichi sullo svolgimento delle prestazioni lavorative che connotano l’oggetto del rapporto di pubblico impiego, l’Amministrazione verrebbe anche a conseguire un arricchimento ingiustificato, di dubbia compatibilità con il principio di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.”;
che, in base alla richiamata interpretazione, risulterebbe violato anche l’art. 41, primo comma, Cost., in quanto “la disposizione in questione sembra prescindere totalmente dal fatto che le prestazioni lavorative siano state o meno pagate, con la conseguenza che l’ente che si sia avvalso” di tali prestazioni, “ignorando in buona fede lo status di pubblico dipendente del soggetto incaricato” e che abbia regolarmente pagato le relative prestazioni, “potrebbe essere costretto a versare nuovamente all’Amministrazione di appartenenza gli importi già erogati al lavoratore”, così configurandosi “una possibile violazione della libertà di iniziativa economica privata”;
che, peraltro, anche a voler aderire ad un diverso recente orientamento giurisprudenziale – secondo cui, in ipotesi di avvenuto pagamento delle prestazioni lavorative del pubblico dipendente non autorizzate, l’amministrazione di appartenenza avrebbe titolo per agire direttamente nei confronti del medesimo, avendo questi disatteso l’obbligo di esclusività del rapporto di pubblico impiego – si incorrerebbe parimenti in censure di illegittimità costituzionale;
che, infatti, alla stregua di tale ultima opzione ermeneutica, la disciplina in discorso contrasterebbe con l’art. 36, primo comma, Cost., in quanto finirebbe per porre “a carico del dipendente pubblico l’obbligo di restituire all’Amministrazione di appartenenza i compensi percepiti per incarichi extraistituzionali privi della prescritta autorizzazione preventiva”, senza una previa verifica circa la “incidenza negativa dello svolgimento dei predetti incarichi lavorativi sul corretto adempimento degli obblighi istituzionali del dipendente o, in generale, sul buon andamento dell’azione amministrativa”;
che la questione risulta, dunque, proposta sulla base di una duplice e irrisolta prospettiva interpretativa, senza che il giudice rimettente abbia optato per l’una o per l’altra delle segnalate ricostruzioni ermeneutiche, ciascuna delle quali orientata a un proprio petitum e a una differente soluzione decisoria, a seconda della posizione soggettiva che si consideri meritevole di tutela, e in riferimento, oltre che a parametri costituzionali diversi, a interessi sostanziali riferibili a soggetti concretamente posti in posizione antagonistica;
che, di conseguenza, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (tra le pronunce, ordinanze n. 91 del 2014 e n. 265 del 2011), la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sollevata, in riferimento agli artt. 36, primo comma, 41, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo per la Puglia, sezione di Lecce, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2015.
art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
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ORDINANZA N. 41
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Paolo Maria NAPOLITANO Giudice
- Giuseppe FRIGO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, nel procedimento vertente tra la Residenze OMISSIS e il Ministero della difesa ed altri con ordinanza del 27 giugno 2013, iscritta al n. 242 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti gli atti di costituzione della Residenze OMISSIS, di C.G., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi gli avvocati Stefano Claudio Tani per la Residenze OMISSIS, Alessandro Lucchetti per C. G. e l’avvocato dello Stato Mario Antonio Scino per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che, con ordinanza del 27 giugno 2013 (r.o. n. 242 del 2013), il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, ha sollevato, in riferimento agli artt. 36, primo comma, 41, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che, per i dipendenti pubblici che abbiano svolto incarichi retribuiti non conferiti o previamente autorizzati dalla amministrazione di appartenenza, «il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti»;
che il giudice rimettente premette di essere stato investito da un ricorso in opposizione di terzo, proposto da una società a responsabilità limitata, a norma dell’art. 108 dell’Allegato 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo), contro la sentenza che, in accoglimento del ricorso di un sottufficiale della Marina militare, aveva annullato gli atti con i quali era stata a quest’ultimo richiesta, ai sensi della norma ora censurata, la restituzione dei compensi percepiti per prestazioni lavorative di tipo infermieristico svolte in favore della società opponente senza l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza;
che, nel ricorso in opposizione, detta società aveva rilevato di essere stata richiesta, dalla predetta amministrazione, del versamento della somma erogata in favore del militare, in applicazione del principio affermato nella pronuncia impugnata, secondo cui l’amministrazione di appartenenza deve prioritariamente escutere il soggetto che ha ricevuto le prestazioni non autorizzate, senza che a nulla rilevi l’eventuale già avvenuto pagamento a favore del prestatore d’opera;
che la società medesima, lamentando di essere stata pretermessa nel giudizio opposto, ha chiesto l’annullamento della relativa sentenza per violazione della regola del contraddittorio, oltre che per falsa applicazione della disposizione qui denunciata, osservando, a quest’ultimo riguardo, che il principio affermato dal TAR presupponeva la consapevolezza, da parte della società opponente, della sussistenza del rapporto di pubblico impiego, contrastata, nel caso di specie, a vantaggio della buona fede dell’opponente, dalla dichiarazione, da parte del militare, di non trovarsi in situazioni di incompatibilità;
che, secondo il giudice a quo, l’interpretazione della disposizione denunciata adottata nella sentenza opposta si porrebbe in termini di dubbia compatibilità con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., non risultando chiaro come dell’obbligo di esclusività del rapporto di pubblico impiego “possa essere chiamato a rispondere un soggetto estraneo alla P.A. e, quindi, non sottoposto al regime giuridico proprio dei dipendenti pubblici”;
che, peraltro, dal momento che la norma in discorso “sembra prescindere totalmente dal fatto” che le prestazioni siano state o meno pagate, esponendo l’ente a “versare nuovamente all’Amministrazione” somme già erogate al lavoratore, si configurerebbe un contrasto anche con il principio di libertà di iniziativa economica privata, di cui all’art. 41 Cost.;
che, d’altra parte, nel tentativo di rinvenire una soluzione ermeneutica costituzionalmente compatibile, il giudice rimettente individua un “recente orientamento giurisprudenziale” secondo cui andrebbe riconosciuto rilievo dirimente all’avvenuto pagamento delle prestazioni lavorative in assenza della prescritta autorizzazione, consentendo all’amministrazione di agire direttamente nei confronti del proprio dipendente;
che, tuttavia, neppure questa opzione si sottrarrebbe a dubbi di costituzionalità, risultando, in questo caso, in contrasto sia con l’art. 36 Cost. – nella misura in cui, indipendentemente dal doveroso procedimento disciplinare, essa “pone a carico del dipendente pubblico l’obbligo di restituire all’Amministrazione di appartenenza i compensi percepiti per incarichi extraistituzionali privi della prescritta autorizzazione preventiva”, senza una verifica circa l’incidenza negativa che lo svolgimento di tali incarichi abbia prodotto sugli obblighi istituzionali o, in genere, sul buon andamento dell’azione amministrativa – sia con l’art. 97 Cost., in quanto la restituzione di quanto percepito in assenza di pregiudizio determinerebbe, in capo alla amministrazione, un arricchimento ingiustificato, in violazione del principio di imparzialità e di buon andamento;
che, infine, la questione sarebbe rilevante non apparendo ravvisabile, “oltre a quelle sospettate di incostituzionalità, un’interpretazione alternativa, costituzionalmente orientata” della disposizione oggetto di denuncia;
che nel giudizio si è costituita la Residenze OMISSIS, chiedendo dichiararsi inammissibile la questione proposta in quanto non rilevante o, in subordine, manifestamente infondata;
che, sul presupposto che la sentenza opposta sia stata pronunciata, con pregiudizio dei diritti della società opponente, in assenza della medesima, sicuramente controinteressata, e che la mancata notificazione integrerebbe un vizio della sentenza rilevabile anche d’ufficio, con conseguente “inammissibilità del giudizio di primo grado, concluso in violazione degli artt. 27 e 42 c.p.a.”, la questione relativa alla norma denunciata non rileverebbe in alcun modo agli effetti della decisione richiesta, potendo semmai riguardare un eventuale successivo giudizio;
che, quanto al merito, in contrasto alla tesi dell’obbligo della “preventiva escussione”, la norma in discorso coinvolgerebbe l’“erogante” solo in quanto il compenso non sia stato corrisposto, dovendo diversamente essere versato dal percettore;
che questa lettura parrebbe avvalorata dalla norma di cui al comma 7-bis dello stesso art. 53 denunciato, che assoggetta a giudizio di responsabilità erariale soltanto il pubblico dipendente “indebito percettore” di quel compenso che abbia omesso di versare alla amministrazione;
che si è anche costituito il militare originario ricorrente nel giudizio opposto, il quale ha chiesto dichiararsi l’illegittimità costituzionale della norma censurata;
che, rievocata diffusamente la vicenda processuale e le considerazioni svolte nell’ordinanza di rimessione, la memoria di costituzione segnala la rilevanza della questione in quanto, nell’ipotesi del rigetto, il militare si troverebbe esposto all’ingiustificato versamento della somma percepita, sottolineandosi, peraltro, che, in base all’art. 896 del codice dell’ordinamento militare, incomprensibilmente ritenuto ratione temporis inapplicabile dal TAR, la norma denunciata non si applicherebbe al personale militare;
che la questione sarebbe, nel merito, fondata per più ragioni ed in riferimento a vari parametri: in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., in quanto la disciplina della prestazione di lavoro resa in violazione di norme imperative non potrebbe determinare la negazione del compenso; in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto il recupero delle somme, da un lato, sarebbe irragionevole “per difetto di proporzionalità” e, d’altro lato, l’entità del reintegro sarebbe stabilita astrattamente, senza possibilità di prova contraria; in riferimento agli artt. 3, 97, 23 e 53 Cost., in quanto si determinerebbe un ingiustificato arricchimento per l’amministrazione, con introduzione per il dipendente di una sanzione per illecito di “pericolo”, in assenza, inoltre, delle condizioni previste per pretendere prestazioni patrimoniali personali; in relazione agli artt. 3, 24 e 103 Cost., infine, in quanto non sarebbe consentito al lavoratore di dedurre l’inesistenza di un concreto pregiudizio per la pubblica amministrazione;
che, quanto ai princìpi di cui all’art. 36 Cost., la rilevanza disciplinare della condotta serbata dal militare non dovrebbe, comunque, pregiudicare il diritto alla remunerazione per il lavoro svolto, senza che risulti dimostrata la sussistenza di un pregiudizio a danno dell’amministrazione;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;
che, secondo l’Avvocatura, l’ordinanza di rimessione non chiarirebbe l’opzione interpretativa del giudice rimettente e, dunque, la norma sulla quale egli appunta le censure;
che nel dispositivo dell’ordinanza sarebbe, infatti, enunciato come parametro anche l’art. 41 Cost., richiamato nella motivazione a sostegno dei dubbi che riguardano l’interpretazione cui ha aderito la sentenza opposta, dandosi così vita a due questioni di legittimità costituzionale fra loro alternative, restando, nella sostanza, immotivato il riferimento alla violazione dell’art. 97 Cost.;
che, nel merito, i dubbi sarebbero infondati, atteso che, quanto al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, la norma denunciata mirerebbe a rafforzare la garanzia che il lavoro dei pubblici dipendenti a favore di terzi non si riverberi negativamente sul servizio d’istituto e, quanto alla libertà di iniziativa economica, la stessa prevedrebbe limiti in ragione dell’interesse generale;
che il richiamo dell’art. 36 Cost. si rivelerebbe “palesemente improprio”, dal momento che la norma censurata non inciderebbe in alcun modo sul diritto del pubblico dipendente alla propria retribuzione;
che, infine, “non sembra possa avere diritto di cittadinanza il beneficio dell’escussione a carico dell’erogante disciplinato dall’articolo 53 comma 7, soprattutto nel caso in cui il soggetto obbligato a dover versare per primo il compenso non sia una pubblica amministrazione come nella fattispecie concreta qui all’esame (società opponente)” e tanto più quando i compensi siano stati già erogati;
che, in prossimità dell’udienza, la Residenze OMISSIS ha depositato una memoria nella quale ha ribadito la richiesta di una declaratoria di inammissibilità della questione, sul fondamento dei rilievi già esposti, sottolineando, peraltro, come, poco dopo la pubblicazione della sentenza opposta, sia entrata in vigore la norma di cui al comma 7-bis dello stesso art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, che stabilisce un’ipotesi di responsabilità contabile per il pubblico dipendente in relazione alle somme indebitamente percepite per attività non autorizzate;
che, in prossimità dell’udienza, ha depositato memoria anche la parte privata ricorrente nell’originario giudizio, insistendo nella richiesta di accoglimento della questione, per gli argomenti già esposti;
che la disposizione denunciata, oltre che imporre il versamento della retribuzione percepita dal pubblico dipendente senza alcun “titolo causale” per l’amministrazione, si rivelerebbe, per il suo “automatismo”, irragionevolmente afflittiva e in contrasto con la tradizione civilistica, dal momento che:
a) si cumulerebbe con le sanzioni disciplinari;
b) priverebbe il dipendente di tutti i corrispettivi percepiti senza limiti temporali di recupero;
c) prescinderebbe da qualsiasi accertamento in ordine al pregiudizio subìto dall’amministrazione;
che lo ius superveniens, di cui al comma 7-bis dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001, avvalorerebbe, d’altra parte, la tesi secondo la quale, al pari di ogni altra ipotesi di responsabilità erariale, sarebbe necessario accertare se la prestazione non autorizzata abbia determinato un danno in concreto alla pubblica amministrazione, diversamente evidenziandosi l’ulteriore irragionevolezza dell’automatismo sanzionatorio, in contrasto con l’art. 36 Cost.
Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione di Lecce, con ordinanza depositata il 27 giugno 2013, ha sollevato, in riferimento agli artt. 36, primo comma, 41, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che, per i dipendenti pubblici che abbiano svolto incarichi retribuiti non conferiti o previamente autorizzati dalla amministrazione di appartenenza, «il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti»;
che il giudice rimettente preliminarmente rileva di essere chiamato a pronunciarsi sulla opposizione di terzo proposta, a norma dell’art. 108 dell’Allegato 1 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 recante delega al Governo per il riordino del processo amministrativo) dalla società Residenze OMISSIS, intesa ad ottenere la caducazione della sentenza pronunciata dal medesimo giudice, che aveva accolto il ricorso presentato da un sottufficiale della Marina militare avverso il provvedimento con il quale l’amministrazione di appartenenza aveva richiesto, in base alla norma ora censurata, la restituzione dei compensi percepiti per le prestazioni lavorative di tipo infermieristico dal medesimo svolte in favore della società opponente, la quale appunto si doleva, attraverso l’atto di opposizione, di essere stata indebitamente pretermessa da quel giudizio, con conseguente lesione dei propri diritti e interessi;
che la disposizione denunciata era stata interpretata, nella sentenza oggetto di opposizione, nel senso che, “in presenza di incarichi extraistituzionali non autorizzati, l’Amministrazione di appartenenza deve prioritariamente escutere il soggetto che ha ricevuto le prestazioni lavorative non autorizzate da parte del dipendente pubblico e che a nulla rilevi l’eventuale già avvenuto pagamento delle medesime, essendo la restituzione delle somme erogate diretta ad integrare il ‘fondo di produttività’ o ‘fondi equivalenti’”;
che, alla stregua di tale interpretazione, la normativa censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 97, primo comma, Cost., in quanto − considerato che la sua finalità “è quella di tutelare il principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego” – “non si vede perché della violazione di questo obbligo possa essere chiamato a rispondere un soggetto estraneo alla P.A. e, quindi, non sottoposto al regime giuridico proprio dei dipendenti pubblici”;
che inoltre – sottolinea il Tribunale rimettente – “richiedendo al dipendente pubblico sic et simpliciter la restituzione di quanto percepito per incarichi non autorizzati, senza una preventiva verifica dell’incidenza di questi incarichi sullo svolgimento delle prestazioni lavorative che connotano l’oggetto del rapporto di pubblico impiego, l’Amministrazione verrebbe anche a conseguire un arricchimento ingiustificato, di dubbia compatibilità con il principio di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.”;
che, in base alla richiamata interpretazione, risulterebbe violato anche l’art. 41, primo comma, Cost., in quanto “la disposizione in questione sembra prescindere totalmente dal fatto che le prestazioni lavorative siano state o meno pagate, con la conseguenza che l’ente che si sia avvalso” di tali prestazioni, “ignorando in buona fede lo status di pubblico dipendente del soggetto incaricato” e che abbia regolarmente pagato le relative prestazioni, “potrebbe essere costretto a versare nuovamente all’Amministrazione di appartenenza gli importi già erogati al lavoratore”, così configurandosi “una possibile violazione della libertà di iniziativa economica privata”;
che, peraltro, anche a voler aderire ad un diverso recente orientamento giurisprudenziale – secondo cui, in ipotesi di avvenuto pagamento delle prestazioni lavorative del pubblico dipendente non autorizzate, l’amministrazione di appartenenza avrebbe titolo per agire direttamente nei confronti del medesimo, avendo questi disatteso l’obbligo di esclusività del rapporto di pubblico impiego – si incorrerebbe parimenti in censure di illegittimità costituzionale;
che, infatti, alla stregua di tale ultima opzione ermeneutica, la disciplina in discorso contrasterebbe con l’art. 36, primo comma, Cost., in quanto finirebbe per porre “a carico del dipendente pubblico l’obbligo di restituire all’Amministrazione di appartenenza i compensi percepiti per incarichi extraistituzionali privi della prescritta autorizzazione preventiva”, senza una previa verifica circa la “incidenza negativa dello svolgimento dei predetti incarichi lavorativi sul corretto adempimento degli obblighi istituzionali del dipendente o, in generale, sul buon andamento dell’azione amministrativa”;
che la questione risulta, dunque, proposta sulla base di una duplice e irrisolta prospettiva interpretativa, senza che il giudice rimettente abbia optato per l’una o per l’altra delle segnalate ricostruzioni ermeneutiche, ciascuna delle quali orientata a un proprio petitum e a una differente soluzione decisoria, a seconda della posizione soggettiva che si consideri meritevole di tutela, e in riferimento, oltre che a parametri costituzionali diversi, a interessi sostanziali riferibili a soggetti concretamente posti in posizione antagonistica;
che, di conseguenza, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (tra le pronunce, ordinanze n. 91 del 2014 e n. 265 del 2011), la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), sollevata, in riferimento agli artt. 36, primo comma, 41, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale amministrativo per la Puglia, sezione di Lecce, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 17 marzo 2015.
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
SENTENZA N. 98
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria DE PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale ordinario di Ancona nel procedimento vertente tra R.G. ed altre e l’Agenzia delle entrate − Direzione provinciale di Ancona, con ordinanza del 20 febbraio 2014, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti l’atto di costituzione di R.G. ed altre, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi l’avvocato Giovanni Paolo Businello per R.G. ed altre e l’avvocato dello Stato Barbara Tidore per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.− Il Tribunale ordinario di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, solleva – in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, e in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) nonché alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) – questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall’art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), nella parte in cui dispone che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».
Premette il Tribunale di essere chiamato a decidere sull’opposizione proposta da alcuni soggetti privati avverso una serie di ordinanze-ingiunzione emesse dall’Agenzia delle entrate per sanzioni amministrative pecuniarie irrogate, a norma dell’art. 6 del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, per avere conferito a due dipendenti della Marina militare incarico di attività professionale senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, negli anni 2008 e 2009, e per non aver comunicato alla stessa amministrazione i compensi erogati nei medesimi anni.
Risulta pacifico – sottolinea il giudice a quo – che i ricorrenti non abbiano adempiuto agli obblighi di comunicazione prescritti per chi conferisca incarichi a pubblici dipendenti, a norma dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001; così come risulta pacifico che essa medesima fosse a conoscenza del fatto che i propri collaboratori erano dipendenti pubblici militari.
Dopo aver riprodotto il testo di diversi commi dell’art. 53 in discorso e in contrasto alla tesi degli opponenti (secondo cui «non dovrebbe ricevere sanzione, per i militari, l’omessa comunicazione all’amministrazione di appartenenza dei compensi erogati imposta dal comma 11 del citato art. 53, in quanto il comma 6, che regola l’ambito di applicazione della norma, fa riferimento ai commi da 7 a 13, escludendo, dunque, il comma 15, contenente l’apparato sanzionatorio, differentemente da quanto disposto nella versione precedente del predetto comma 6 che richiamava, al contrario, anche i commi fino al 16»), il Tribunale reputa che l’eliminazione, dal comma 6 dell’articolo impugnato, del riferimento al comma 15 si giustifichi per il fatto che la sanzione per l’omessa comunicazione «non viene irrogata ai dipendenti pubblici, ma soltanto ai soggetti che si avvalgono della loro opera»; con la conseguente piena applicabilità nei confronti di questi ultimi delle sanzioni previste – in caso di omessa comunicazione, da parte dell’ente conferente, dei compensi erogati ogni anno – dall’art. 6 del d.l. n. 79 del 1997 in relazione ai dipendenti destinatari di incarichi retribuiti. Troverebbe, quindi, applicazione, nel caso di specie, la normativa di cui al comma 15 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Ripercorsa la disciplina delle leggi-delega n. 59 del 1997 e n. 421 del 1992, dalla prima richiamata, il giudice rimettente osserva come l’art. 26 del d.lgs. n. 80 del 1998, nell’introdurre importanti modifiche all’art. 58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), abbia, da un lato, sostituito «l’obbligo della mera comunicazione dell’incarico con l’obbligo di ottenere la previa autorizzazione» dell’amministrazione, prevedendo, correlativamente, che la sanzione amministrativa si applichi «all’inadempimento all’obbligo di autorizzazione»; dall’altro lato, introdotto «un’altra identica [sanzione] anche in caso di inottemperanza all’obbligo di comunicazione dei compensi erogati».
Dalla riportata normativa emergerebbe come «la legge delega non contenesse alcun riferimento alla possibilità di introduzione di sanzioni amministrative in caso di inottemperanza agli obblighi di pubblicità degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti», malgrado anche le sanzioni amministrative rispondano al principio di legalità e richiedano, perciò, se disposte in base a una legge di delega, l’enunciazione di precisi criteri direttivi. D’altra parte, pur ricorrendo «ad un apprezzamento in precedenza espresso dallo stesso legislatore», si ricaverebbe che l’ipotesi di un illecito amministrativo, già introdotta dal legislatore nella precipua materia, era stata limitata «espressamente alla condotta relativa alla mancata comunicazione dell’incarico, con esclusione, invece, della diversa ma conseguente condotta della mancata comunicazione di compensi».
D’altra parte, dovendo le disposizioni della delega essere interpretate secondo il criterio della ragionevolezza, questo non sarebbe stato, nella specie, rispettato: sia per la previsione di una doppia sanzione, «peraltro particolarmente afflittiva nel quantum», sia perché «le esigenze di buon andamento della p.a., di trasparenza e di compatibilità dell’incarico privato con l’impiego pubblico» sarebbero garantite già «dalla necessità di ottenere la previa autorizzazione», «ponendosi l’obbligo aggiuntivo della comunicazione dei compensi come un mero adempimento accessorio».
La doppia sanzione, d’altra parte, porrebbe «il soggetto che, per ignoranza o negligenza, non abbia chiesto la previa autorizzazione all’incarico nell’alternativa di perseguire nell’illecito, con rischio di comminazione della doppia sanzione, laddove scoperto, o di autodenunciarsi, provvedendo alla comunicazione del compenso», «con conseguente violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost.».
2.− Si sono costituiti in giudizio i soggetti ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata.
Dopo la rievocazione dei fatti di causa e delle difese ivi dispiegate, viene dedotto il vizio di difetto di delega, sottolineando come la giurisprudenza costituzionale non abbia mancato di puntualizzare che, anche per le sanzioni amministrative, i criteri della delega «devono essere precisi e vanno rigorosamente interpretati», dovendosi, nella specie, escludere che la valutazione della necessità di una sanzione possa trarsi da un apprezzamento in precedenza espresso dal legislatore, in ragione del principio della successione delle leggi nel tempo.
Richiamato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, si chiede l’accoglimento della questione anche in riferimento al dedotto profilo di violazione del criterio di ragionevolezza.
3.− È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare inammissibile e comunque di respingere la proposta questione.
Osserva l’Avvocatura generale che l’introduzione di una fattispecie di illecito è un ordinario strumento di normazione per rafforzare la tutela dei beni protetti, sicché tali fattispecie rappresenterebbero un coerente sviluppo delle indicazioni fornite dal legislatore delegante.
Quanto alla pretesa violazione del principio di ragionevolezza, il giudice rimettente avrebbe trascurato di considerare la distinta offensività delle due condotte sanzionate: mentre, infatti, l’acquisizione del preventivo consenso mirerebbe ad evitare possibili conflitti di interesse, l’obbligo della comunicazione dei compensi risponderebbe alla finalità «di aggiornamento costante della banca dati presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, utilizzata per il monitoraggio degli incarichi extraistituzionali».
Gli aspetti relativi all’esercizio del diritto di difesa, infine, sarebbero irrilevanti – la società opponente era a conoscenza della qualità di dipendenti pubblici delle persone occupate – e comunque infondati, posto che, se l’ignoranza inescusabile della norma regolativa dell’illecito non è esimente, a maggior ragione non potrebbe parlarsi di una violazione del diritto di difesa.
4.− In prossimità dell’udienza, le parti private costituite hanno depositato una “memoria illustrativa” per contrastare gli argomenti svolti dall’Avvocatura generale, ribadendo richieste e conclusioni già rassegnate nell’atto di costituzione.
Considerato in diritto
1.− Il Tribunale ordinario di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, solleva, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, e in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) nonché alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall’art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Secondo il giudice rimettente, la legge di delegazione, sulla cui base è stata adottata la disciplina di cui alla disposizione denunciata, non conteneva alcuna indicazione relativa alla possibilità di introdurre sanzioni amministrative pecuniarie per l’inosservanza dei previsti obblighi di pubblicità degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti e di comunicazione dei relativi compensi.
Le disposizioni della delega, d’altra parte, non sarebbero state interpretate secondo il criterio della ragionevolezza: sia per la previsione di una doppia sanzione, «peraltro particolarmente afflittiva nel quantum», sia perché «le esigenze di buon andamento della p.a., di trasparenza e di compatibilità dell’incarico privato con l’impiego pubblico» sarebbero garantite già «dalla necessità di ottenere la previa autorizzazione», «ponendosi l’obbligo aggiuntivo della comunicazione dei compensi come un mero adempimento accessorio».
Costituendosi in giudizio, i soggetti ricorrenti nel giudizio principale hanno chiesto una declaratoria di illegittimità costituzionale.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto, invece, di dichiarare inammissibile e comunque di respingere la proposta questione.
2.− La questione è fondata.
2.1.− Come si è accennato in parte narrativa, il Tribunale rimettente censura la previsione di cui all’art. 53, comma 15, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui è stabilito che i soggetti di cui al comma 9 – vale a dire gli enti pubblici economici e i privati che conferiscono incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione della amministrazione di appartenenza, e che omettano le comunicazioni di cui al comma 11 (a norma del quale «entro quindici giorni dalla erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all’amministrazione di appartenenza l’ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici») – sono assoggettati alle sanzioni di cui allo stesso comma 9; il quale, a sua volta, prevede l’applicazione dell’art. 6, comma 1, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140 e successive modificazioni ed integrazioni, che stabilisce una «sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma a dipendenti pubblici».
Nella prospettazione del giudice rimettente, le censure fanno essenzialmente leva sulla circostanza che, nei confronti degli enti o dei privati che conferiscano incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione, si applicherebbe una doppia sanzione, di eguale ammontare: una prima sanzione per il conferimento dell’incarico senza autorizzazione ed una seconda sanzione per l’omessa tempestiva comunicazione dell’ammontare dei compensi, per la quale ultima si profilerebbe, fra l’altro, una sorta di obbligo di “autodenuncia” da parte del terzo datore di lavoro, non sintonica con il diritto di difesa.
Il nucleo della doglianza ruota intorno al dedotto vizio di carenza di “copertura” della disposizione impugnata rispetto alle direttive della legge di delega, la quale non conterrebbe indicazioni tali da legittimare la previsione del contestato meccanismo sanzionatorio – in sé, particolarmente afflittivo – specie se interpretate alla luce del principio di ragionevolezza, alla stregua del quale deve essere apprezzata la coerenza della normativa delegata rispetto ai corrispondenti criteri direttivi.
2.2.− Lo specifico quadro normativo di riferimento appare, peraltro, particolarmente complesso, data la significativa stratificazione delle varie disposizioni succedutesi nel tempo e l’innesto di discipline di varia fonte, definitivamente confluite in quella di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, destinato a svolgere una funzione, in parte, meramente ricognitiva e riepilogativa: a norma, infatti, dell’art. 1, comma 8, della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), richiamato nel preambolo del predetto decreto legislativo, il Governo era stato delegato «ad emanare un testo unico per il riordino delle norme, diverse da quelle del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, che regolano i rapporti di lavoro dei dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, secondo quanto disposto dall’articolo 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, apportando le modifiche necessarie per il migliore coordinamento delle diverse disposizioni».
Il medesimo preambolo fa poi riferimento all’art. 2 della legge n. 421 del 1992, con il quale il Governo aveva ottenuto (comma 1) la delega ad emanare, entro la data ivi fissata, «uno o più decreti legislativi, diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell’efficienza e della produttività, nonché alla sua riorganizzazione», sulla base di una serie di criteri direttivi, fra i quali viene in questa sede in particolare evidenza quello sancito alla lettera p): che il Governo potesse «prevedere che qualunque tipo di incarico a dipendenti della pubblica amministrazione possa essere conferito in casi rigorosamente predeterminati» e che, tuttavia, «l’amministrazione, ente, società o persona fisica che hanno conferito al personale dipendente da una pubblica amministrazione incarichi previsti dall’articolo 24 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, entro sei mesi dall’emanazione dei decreti legislativi di cui al presente articolo, siano tenuti a comunicare alle amministrazioni di appartenenza del personale medesimo gli emolumenti corrisposti in relazione ai predetti incarichi, allo scopo di favorire la completa attuazione dell’anagrafe delle prestazioni prevista dallo stesso articolo 24».
In attuazione della richiamata delega legislativa era stato emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), il quale sotto l’art. 58 – divenuto, poi, l’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 – prevedeva (comma 6) l’obbligo di comunicazione degli incarichi conferiti da privati o enti pubblici a dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in attuazione dell’anagrafe delle prestazioni, di cui al già richiamato art. 24 della legge n. 412 del 1991; nonché (comma 7) l’obbligo di comunicazione dei relativi compensi, senza, tuttavia, la previsione di alcun genere di sanzioni.
Veniva successivamente emanata la legge-delega n. 59 del 1997, anch’essa espressamente richiamata nel preambolo del d.lgs. n. 165 del 2001, la quale, peraltro, non conteneva alcun principio o criterio direttivo avente attinenza o interferenza specifica con il tema qui in discorso.
Subito dopo la promulgazione di quest’ultima legge di delega, veniva emanato il d.l. n. 79 del 1997, come convertito dalla legge n. 140 del 1997, il cui art. 6 introduceva nel sistema, per la prima volta, la previsione di una sanzione amministrativa nei confronti dei soggetti pubblici o privati che non avessero ottemperato all’obbligo di cui all’art. 58, comma 6, del già citato d.lgs. n. 29 del 1993: vale a dire l’obbligo di comunicazione alle amministrazioni di appartenenza degli incarichi conferiti, da privati o enti pubblici, ad appartenenti alle pubbliche amministrazioni.
Dunque, come esattamente messo in luce dal Tribunale rimettente, al momento della approvazione del decreto legislativo n. 80 del 1998, adottato in esercizio della delega di cui alla predetta legge n. 59 del 1997, il quadro normativo vigente prevedeva l’applicazione di sanzioni amministrative nei confronti di coloro che avessero omesso di comunicare alle amministrazioni di appartenenza gli incarichi conferiti a pubblici dipendenti, ma non sanzionava in alcun modo la mancata comunicazione dei compensi erogati.
L’art. 26 del predetto d.lgs. n. 80 del 1998, nell’introdurre rilevanti modificazioni all’art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, sostituiva l’obbligo della mera comunicazione dell’incarico con quello della previa autorizzazione da parte della amministrazione di appartenenza e, correlativamente, stabiliva l’applicazione della sanzione amministrativa per l’inadempimento di tale obbligo (comma 9).
Ma – ed è questo il dato qui di maggior interesse – con il medesimo art. 26 il legislatore delegato ha ritenuto di introdurre, per la prima volta, una identica sanzione anche per l’ipotesi in cui i soggetti conferenti incarichi non autorizzati avessero omesso di comunicare alle amministrazioni stesse, «entro il 30 aprile di ciascun anno», l’ammontare dei «compensi erogati nell’anno precedente» (commi 11 e 15).
Tale ultima disciplina – recepita, al pari dell’altra, nel nuovo decreto delegato e oggetto della attuale denuncia – risulta, dunque, non riconducibile a princìpi o criteri direttivi enunciati nelle leggi di delega succedutesi nel tempo: ciò in contrasto con gli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte in tema di rapporti tra disciplina delegante, di competenza del Parlamento, e disciplina delegata, affidata alle scelte – a discrezionalità “circoscritta” – del Governo.
2.3.− Può, infatti, rammentarsi come si sia, in più occasioni, puntualizzato che i vincoli derivanti dall’art. 76 Cost., per l’esercizio della funzione legislativa da parte del Governo, non inibiscano a quest’ultimo l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo o un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal primo (tra le tante pronunce, più di recente, la sentenza n. 229 del 2014). Ove così non fosse, del resto, al legislatore delegato verrebbe riservata una funzione di rango quasi regolamentare, priva di autonomia precettiva, in aperto contrasto con il carattere, pur sempre primario, del provvedimento legislativo delegato.
La delega legislativa, in altri termini, non esclude qualsiasi discrezionalità del legislatore delegato, destinata a risultare più o meno ampia in relazione al grado di specificità dei criteri fissati dalla legge di delega: sicché la valutazione dell’eccesso, o del difetto, nell’esercizio della delega, va compiuta in rapporto proprio alla ratio della delega medesima, onde stabilire se la norma delegata sia coerente (sentenza n. 119 del 2013) o compatibile con quella delegante.
È, tuttavia, del pari evidente che, ove – come nella situazione di specie – si discuta della predisposizione, da parte del legislatore delegato, di un meccanismo di tipo sanzionatorio privo di espressa indicazione nell’ambito della delega, lo scrutinio di “conformità” tra le discipline appare particolarmente delicato.
Non può, infatti, presupporsi che, in una direttiva intesa a conferire al legislatore delegato il còmpito di prevedere come obbligatoria una determinata condotta, sia necessariamente ricompresa – sempre e comunque – anche la facoltà di stabilire eventuali correlative sanzioni per l’inosservanza di quest’obbligo, posto che, in linea di principio, la sanzione non rappresenta affatto l’indispensabile corollario di una prescrizione e che quest’ultima può naturalmente svolgere, di per sé, una propria autosufficiente funzione, richiedendo e ottenendo un’esauriente ed efficace osservanza.
Né potranno risultare trascurabili, nella vicenda normativa in esame, alcuni ulteriori rilievi. La previsione della sanzione per l’omessa comunicazione dei compensi corrisposti a dipendenti delle pubbliche amministrazioni per incarichi non previamente autorizzati finisce per risultare particolarmente vessatoria, atteso che la sanzione si duplica rispetto a quella già prevista – nella stessa, grave misura – per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione, con un effetto moltiplicativo raccordato ad un inadempimento di carattere formale.
La sanzione, in altri termini, per la violazione di un obbligo che appare del tutto “servente” rispetto a quello relativo alla comunicazione del conferimento di un incarico – previsto in funzione delle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione, connesse, come si è più volte sottolineato, al funzionamento della anagrafe delle prestazioni, tenuto anche conto delle modifiche apportate all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 ad opera dell’art. 1, comma 42, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) – viene a sovrapporsi irragionevolmente – perequando fra loro situazioni del tutto differenziate, per gravità e natura – a quella prevista per la violazione di un obbligo di carattere sostanziale.
Il che, fra l’altro, conferisce alla sanzione “accessoria” di cui qui si discute – posta a carico, per di più, di un soggetto comunque terzo rispetto al rapporto di servizio tra pubblica amministrazione e dipendente – un carattere di automatismo e di non graduabilità non poco contrastante con i princìpi di proporzionalità ed adeguatezza che devono, in linea generale, essere osservati anche nella disciplina delle sanzioni amministrative.
In quanto adottata in contrasto con gli artt. 3 e 76 Cost., la disposizione censurata deve, pertanto, essere dichiarata costituzionalmente illegittima, restando assorbiti i profili di censura relativi agli altri parametri evocati.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 aprile 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2015.
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria DE PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale ordinario di Ancona nel procedimento vertente tra R.G. ed altre e l’Agenzia delle entrate − Direzione provinciale di Ancona, con ordinanza del 20 febbraio 2014, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti l’atto di costituzione di R.G. ed altre, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;
uditi l’avvocato Giovanni Paolo Businello per R.G. ed altre e l’avvocato dello Stato Barbara Tidore per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.− Il Tribunale ordinario di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, solleva – in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, e in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) nonché alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) – questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall’art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), nella parte in cui dispone che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».
Premette il Tribunale di essere chiamato a decidere sull’opposizione proposta da alcuni soggetti privati avverso una serie di ordinanze-ingiunzione emesse dall’Agenzia delle entrate per sanzioni amministrative pecuniarie irrogate, a norma dell’art. 6 del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, per avere conferito a due dipendenti della Marina militare incarico di attività professionale senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, negli anni 2008 e 2009, e per non aver comunicato alla stessa amministrazione i compensi erogati nei medesimi anni.
Risulta pacifico – sottolinea il giudice a quo – che i ricorrenti non abbiano adempiuto agli obblighi di comunicazione prescritti per chi conferisca incarichi a pubblici dipendenti, a norma dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001; così come risulta pacifico che essa medesima fosse a conoscenza del fatto che i propri collaboratori erano dipendenti pubblici militari.
Dopo aver riprodotto il testo di diversi commi dell’art. 53 in discorso e in contrasto alla tesi degli opponenti (secondo cui «non dovrebbe ricevere sanzione, per i militari, l’omessa comunicazione all’amministrazione di appartenenza dei compensi erogati imposta dal comma 11 del citato art. 53, in quanto il comma 6, che regola l’ambito di applicazione della norma, fa riferimento ai commi da 7 a 13, escludendo, dunque, il comma 15, contenente l’apparato sanzionatorio, differentemente da quanto disposto nella versione precedente del predetto comma 6 che richiamava, al contrario, anche i commi fino al 16»), il Tribunale reputa che l’eliminazione, dal comma 6 dell’articolo impugnato, del riferimento al comma 15 si giustifichi per il fatto che la sanzione per l’omessa comunicazione «non viene irrogata ai dipendenti pubblici, ma soltanto ai soggetti che si avvalgono della loro opera»; con la conseguente piena applicabilità nei confronti di questi ultimi delle sanzioni previste – in caso di omessa comunicazione, da parte dell’ente conferente, dei compensi erogati ogni anno – dall’art. 6 del d.l. n. 79 del 1997 in relazione ai dipendenti destinatari di incarichi retribuiti. Troverebbe, quindi, applicazione, nel caso di specie, la normativa di cui al comma 15 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Ripercorsa la disciplina delle leggi-delega n. 59 del 1997 e n. 421 del 1992, dalla prima richiamata, il giudice rimettente osserva come l’art. 26 del d.lgs. n. 80 del 1998, nell’introdurre importanti modifiche all’art. 58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), abbia, da un lato, sostituito «l’obbligo della mera comunicazione dell’incarico con l’obbligo di ottenere la previa autorizzazione» dell’amministrazione, prevedendo, correlativamente, che la sanzione amministrativa si applichi «all’inadempimento all’obbligo di autorizzazione»; dall’altro lato, introdotto «un’altra identica [sanzione] anche in caso di inottemperanza all’obbligo di comunicazione dei compensi erogati».
Dalla riportata normativa emergerebbe come «la legge delega non contenesse alcun riferimento alla possibilità di introduzione di sanzioni amministrative in caso di inottemperanza agli obblighi di pubblicità degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti», malgrado anche le sanzioni amministrative rispondano al principio di legalità e richiedano, perciò, se disposte in base a una legge di delega, l’enunciazione di precisi criteri direttivi. D’altra parte, pur ricorrendo «ad un apprezzamento in precedenza espresso dallo stesso legislatore», si ricaverebbe che l’ipotesi di un illecito amministrativo, già introdotta dal legislatore nella precipua materia, era stata limitata «espressamente alla condotta relativa alla mancata comunicazione dell’incarico, con esclusione, invece, della diversa ma conseguente condotta della mancata comunicazione di compensi».
D’altra parte, dovendo le disposizioni della delega essere interpretate secondo il criterio della ragionevolezza, questo non sarebbe stato, nella specie, rispettato: sia per la previsione di una doppia sanzione, «peraltro particolarmente afflittiva nel quantum», sia perché «le esigenze di buon andamento della p.a., di trasparenza e di compatibilità dell’incarico privato con l’impiego pubblico» sarebbero garantite già «dalla necessità di ottenere la previa autorizzazione», «ponendosi l’obbligo aggiuntivo della comunicazione dei compensi come un mero adempimento accessorio».
La doppia sanzione, d’altra parte, porrebbe «il soggetto che, per ignoranza o negligenza, non abbia chiesto la previa autorizzazione all’incarico nell’alternativa di perseguire nell’illecito, con rischio di comminazione della doppia sanzione, laddove scoperto, o di autodenunciarsi, provvedendo alla comunicazione del compenso», «con conseguente violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost.».
2.− Si sono costituiti in giudizio i soggetti ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata.
Dopo la rievocazione dei fatti di causa e delle difese ivi dispiegate, viene dedotto il vizio di difetto di delega, sottolineando come la giurisprudenza costituzionale non abbia mancato di puntualizzare che, anche per le sanzioni amministrative, i criteri della delega «devono essere precisi e vanno rigorosamente interpretati», dovendosi, nella specie, escludere che la valutazione della necessità di una sanzione possa trarsi da un apprezzamento in precedenza espresso dal legislatore, in ragione del principio della successione delle leggi nel tempo.
Richiamato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, si chiede l’accoglimento della questione anche in riferimento al dedotto profilo di violazione del criterio di ragionevolezza.
3.− È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare inammissibile e comunque di respingere la proposta questione.
Osserva l’Avvocatura generale che l’introduzione di una fattispecie di illecito è un ordinario strumento di normazione per rafforzare la tutela dei beni protetti, sicché tali fattispecie rappresenterebbero un coerente sviluppo delle indicazioni fornite dal legislatore delegante.
Quanto alla pretesa violazione del principio di ragionevolezza, il giudice rimettente avrebbe trascurato di considerare la distinta offensività delle due condotte sanzionate: mentre, infatti, l’acquisizione del preventivo consenso mirerebbe ad evitare possibili conflitti di interesse, l’obbligo della comunicazione dei compensi risponderebbe alla finalità «di aggiornamento costante della banca dati presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, utilizzata per il monitoraggio degli incarichi extraistituzionali».
Gli aspetti relativi all’esercizio del diritto di difesa, infine, sarebbero irrilevanti – la società opponente era a conoscenza della qualità di dipendenti pubblici delle persone occupate – e comunque infondati, posto che, se l’ignoranza inescusabile della norma regolativa dell’illecito non è esimente, a maggior ragione non potrebbe parlarsi di una violazione del diritto di difesa.
4.− In prossimità dell’udienza, le parti private costituite hanno depositato una “memoria illustrativa” per contrastare gli argomenti svolti dall’Avvocatura generale, ribadendo richieste e conclusioni già rassegnate nell’atto di costituzione.
Considerato in diritto
1.− Il Tribunale ordinario di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, solleva, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, e in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) nonché alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall’art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Secondo il giudice rimettente, la legge di delegazione, sulla cui base è stata adottata la disciplina di cui alla disposizione denunciata, non conteneva alcuna indicazione relativa alla possibilità di introdurre sanzioni amministrative pecuniarie per l’inosservanza dei previsti obblighi di pubblicità degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti e di comunicazione dei relativi compensi.
Le disposizioni della delega, d’altra parte, non sarebbero state interpretate secondo il criterio della ragionevolezza: sia per la previsione di una doppia sanzione, «peraltro particolarmente afflittiva nel quantum», sia perché «le esigenze di buon andamento della p.a., di trasparenza e di compatibilità dell’incarico privato con l’impiego pubblico» sarebbero garantite già «dalla necessità di ottenere la previa autorizzazione», «ponendosi l’obbligo aggiuntivo della comunicazione dei compensi come un mero adempimento accessorio».
Costituendosi in giudizio, i soggetti ricorrenti nel giudizio principale hanno chiesto una declaratoria di illegittimità costituzionale.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto, invece, di dichiarare inammissibile e comunque di respingere la proposta questione.
2.− La questione è fondata.
2.1.− Come si è accennato in parte narrativa, il Tribunale rimettente censura la previsione di cui all’art. 53, comma 15, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui è stabilito che i soggetti di cui al comma 9 – vale a dire gli enti pubblici economici e i privati che conferiscono incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione della amministrazione di appartenenza, e che omettano le comunicazioni di cui al comma 11 (a norma del quale «entro quindici giorni dalla erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all’amministrazione di appartenenza l’ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici») – sono assoggettati alle sanzioni di cui allo stesso comma 9; il quale, a sua volta, prevede l’applicazione dell’art. 6, comma 1, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140 e successive modificazioni ed integrazioni, che stabilisce una «sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma a dipendenti pubblici».
Nella prospettazione del giudice rimettente, le censure fanno essenzialmente leva sulla circostanza che, nei confronti degli enti o dei privati che conferiscano incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione, si applicherebbe una doppia sanzione, di eguale ammontare: una prima sanzione per il conferimento dell’incarico senza autorizzazione ed una seconda sanzione per l’omessa tempestiva comunicazione dell’ammontare dei compensi, per la quale ultima si profilerebbe, fra l’altro, una sorta di obbligo di “autodenuncia” da parte del terzo datore di lavoro, non sintonica con il diritto di difesa.
Il nucleo della doglianza ruota intorno al dedotto vizio di carenza di “copertura” della disposizione impugnata rispetto alle direttive della legge di delega, la quale non conterrebbe indicazioni tali da legittimare la previsione del contestato meccanismo sanzionatorio – in sé, particolarmente afflittivo – specie se interpretate alla luce del principio di ragionevolezza, alla stregua del quale deve essere apprezzata la coerenza della normativa delegata rispetto ai corrispondenti criteri direttivi.
2.2.− Lo specifico quadro normativo di riferimento appare, peraltro, particolarmente complesso, data la significativa stratificazione delle varie disposizioni succedutesi nel tempo e l’innesto di discipline di varia fonte, definitivamente confluite in quella di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, destinato a svolgere una funzione, in parte, meramente ricognitiva e riepilogativa: a norma, infatti, dell’art. 1, comma 8, della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), richiamato nel preambolo del predetto decreto legislativo, il Governo era stato delegato «ad emanare un testo unico per il riordino delle norme, diverse da quelle del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, che regolano i rapporti di lavoro dei dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, secondo quanto disposto dall’articolo 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, apportando le modifiche necessarie per il migliore coordinamento delle diverse disposizioni».
Il medesimo preambolo fa poi riferimento all’art. 2 della legge n. 421 del 1992, con il quale il Governo aveva ottenuto (comma 1) la delega ad emanare, entro la data ivi fissata, «uno o più decreti legislativi, diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell’efficienza e della produttività, nonché alla sua riorganizzazione», sulla base di una serie di criteri direttivi, fra i quali viene in questa sede in particolare evidenza quello sancito alla lettera p): che il Governo potesse «prevedere che qualunque tipo di incarico a dipendenti della pubblica amministrazione possa essere conferito in casi rigorosamente predeterminati» e che, tuttavia, «l’amministrazione, ente, società o persona fisica che hanno conferito al personale dipendente da una pubblica amministrazione incarichi previsti dall’articolo 24 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, entro sei mesi dall’emanazione dei decreti legislativi di cui al presente articolo, siano tenuti a comunicare alle amministrazioni di appartenenza del personale medesimo gli emolumenti corrisposti in relazione ai predetti incarichi, allo scopo di favorire la completa attuazione dell’anagrafe delle prestazioni prevista dallo stesso articolo 24».
In attuazione della richiamata delega legislativa era stato emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), il quale sotto l’art. 58 – divenuto, poi, l’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 – prevedeva (comma 6) l’obbligo di comunicazione degli incarichi conferiti da privati o enti pubblici a dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in attuazione dell’anagrafe delle prestazioni, di cui al già richiamato art. 24 della legge n. 412 del 1991; nonché (comma 7) l’obbligo di comunicazione dei relativi compensi, senza, tuttavia, la previsione di alcun genere di sanzioni.
Veniva successivamente emanata la legge-delega n. 59 del 1997, anch’essa espressamente richiamata nel preambolo del d.lgs. n. 165 del 2001, la quale, peraltro, non conteneva alcun principio o criterio direttivo avente attinenza o interferenza specifica con il tema qui in discorso.
Subito dopo la promulgazione di quest’ultima legge di delega, veniva emanato il d.l. n. 79 del 1997, come convertito dalla legge n. 140 del 1997, il cui art. 6 introduceva nel sistema, per la prima volta, la previsione di una sanzione amministrativa nei confronti dei soggetti pubblici o privati che non avessero ottemperato all’obbligo di cui all’art. 58, comma 6, del già citato d.lgs. n. 29 del 1993: vale a dire l’obbligo di comunicazione alle amministrazioni di appartenenza degli incarichi conferiti, da privati o enti pubblici, ad appartenenti alle pubbliche amministrazioni.
Dunque, come esattamente messo in luce dal Tribunale rimettente, al momento della approvazione del decreto legislativo n. 80 del 1998, adottato in esercizio della delega di cui alla predetta legge n. 59 del 1997, il quadro normativo vigente prevedeva l’applicazione di sanzioni amministrative nei confronti di coloro che avessero omesso di comunicare alle amministrazioni di appartenenza gli incarichi conferiti a pubblici dipendenti, ma non sanzionava in alcun modo la mancata comunicazione dei compensi erogati.
L’art. 26 del predetto d.lgs. n. 80 del 1998, nell’introdurre rilevanti modificazioni all’art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, sostituiva l’obbligo della mera comunicazione dell’incarico con quello della previa autorizzazione da parte della amministrazione di appartenenza e, correlativamente, stabiliva l’applicazione della sanzione amministrativa per l’inadempimento di tale obbligo (comma 9).
Ma – ed è questo il dato qui di maggior interesse – con il medesimo art. 26 il legislatore delegato ha ritenuto di introdurre, per la prima volta, una identica sanzione anche per l’ipotesi in cui i soggetti conferenti incarichi non autorizzati avessero omesso di comunicare alle amministrazioni stesse, «entro il 30 aprile di ciascun anno», l’ammontare dei «compensi erogati nell’anno precedente» (commi 11 e 15).
Tale ultima disciplina – recepita, al pari dell’altra, nel nuovo decreto delegato e oggetto della attuale denuncia – risulta, dunque, non riconducibile a princìpi o criteri direttivi enunciati nelle leggi di delega succedutesi nel tempo: ciò in contrasto con gli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte in tema di rapporti tra disciplina delegante, di competenza del Parlamento, e disciplina delegata, affidata alle scelte – a discrezionalità “circoscritta” – del Governo.
2.3.− Può, infatti, rammentarsi come si sia, in più occasioni, puntualizzato che i vincoli derivanti dall’art. 76 Cost., per l’esercizio della funzione legislativa da parte del Governo, non inibiscano a quest’ultimo l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo o un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal primo (tra le tante pronunce, più di recente, la sentenza n. 229 del 2014). Ove così non fosse, del resto, al legislatore delegato verrebbe riservata una funzione di rango quasi regolamentare, priva di autonomia precettiva, in aperto contrasto con il carattere, pur sempre primario, del provvedimento legislativo delegato.
La delega legislativa, in altri termini, non esclude qualsiasi discrezionalità del legislatore delegato, destinata a risultare più o meno ampia in relazione al grado di specificità dei criteri fissati dalla legge di delega: sicché la valutazione dell’eccesso, o del difetto, nell’esercizio della delega, va compiuta in rapporto proprio alla ratio della delega medesima, onde stabilire se la norma delegata sia coerente (sentenza n. 119 del 2013) o compatibile con quella delegante.
È, tuttavia, del pari evidente che, ove – come nella situazione di specie – si discuta della predisposizione, da parte del legislatore delegato, di un meccanismo di tipo sanzionatorio privo di espressa indicazione nell’ambito della delega, lo scrutinio di “conformità” tra le discipline appare particolarmente delicato.
Non può, infatti, presupporsi che, in una direttiva intesa a conferire al legislatore delegato il còmpito di prevedere come obbligatoria una determinata condotta, sia necessariamente ricompresa – sempre e comunque – anche la facoltà di stabilire eventuali correlative sanzioni per l’inosservanza di quest’obbligo, posto che, in linea di principio, la sanzione non rappresenta affatto l’indispensabile corollario di una prescrizione e che quest’ultima può naturalmente svolgere, di per sé, una propria autosufficiente funzione, richiedendo e ottenendo un’esauriente ed efficace osservanza.
Né potranno risultare trascurabili, nella vicenda normativa in esame, alcuni ulteriori rilievi. La previsione della sanzione per l’omessa comunicazione dei compensi corrisposti a dipendenti delle pubbliche amministrazioni per incarichi non previamente autorizzati finisce per risultare particolarmente vessatoria, atteso che la sanzione si duplica rispetto a quella già prevista – nella stessa, grave misura – per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione, con un effetto moltiplicativo raccordato ad un inadempimento di carattere formale.
La sanzione, in altri termini, per la violazione di un obbligo che appare del tutto “servente” rispetto a quello relativo alla comunicazione del conferimento di un incarico – previsto in funzione delle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione, connesse, come si è più volte sottolineato, al funzionamento della anagrafe delle prestazioni, tenuto anche conto delle modifiche apportate all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 ad opera dell’art. 1, comma 42, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) – viene a sovrapporsi irragionevolmente – perequando fra loro situazioni del tutto differenziate, per gravità e natura – a quella prevista per la violazione di un obbligo di carattere sostanziale.
Il che, fra l’altro, conferisce alla sanzione “accessoria” di cui qui si discute – posta a carico, per di più, di un soggetto comunque terzo rispetto al rapporto di servizio tra pubblica amministrazione e dipendente – un carattere di automatismo e di non graduabilità non poco contrastante con i princìpi di proporzionalità ed adeguatezza che devono, in linea generale, essere osservati anche nella disciplina delle sanzioni amministrative.
In quanto adottata in contrasto con gli artt. 3 e 76 Cost., la disposizione censurata deve, pertanto, essere dichiarata costituzionalmente illegittima, restando assorbiti i profili di censura relativi agli altri parametri evocati.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 aprile 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 giugno 2015.
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
Il CdS da ragione al Ministero dell'Interno, circa l'attività di "mediatore civile".
N.B.: la sentenza del Tar potete leggerla sopra.
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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 3 ,numero provv.: 201503843
- Public 2015-08-04 –
N. 03843/2015REG.PROV.COLL.
N. 00961/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 961 del 2015, proposto da:
Ministero dell'Interno, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
contro
OMISSIS;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CALABRIA - CATANZARO :SEZIONE I n. 00813/2014, resa tra le parti, concernente diniego autorizzazione a svolgere l'attivita' di mediatore civile
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 maggio 2015 il Pres. Pier Giorgio Lignani e udito l’avvocato dello Stato Soldani;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’appellato, già ricorrente in primo grado, è un graduato (assistente capo) della Polizia di Stato ed ha chiesto all’amministrazione di essere autorizzato allo svolgimento dell’attività di “mediatore civile” di cui all’articolo 60 della legge n. 69/2009, del decreto legislativo n. 28/2010 e del regolamento emanato con d.m. n. 180/2010.
Nella relativa istanza (2 febbraio 2011) l’interessato aveva esposto di aver conseguito il titolo di “conciliatore” previa frequenza di un corso presso un ente di formazione iscritto nell’elenco del Ministero della Giustizia; e di avere conseguito nel gennaio 2011 il titolo di “mediatore” di cui al d.m. n. 180/2010, previa frequenza di un ulteriore corso formativo. Aveva esposto, inoltre, che le funzioni di mediatore, secondo la normativa vigente, «hanno un carattere di saltuarietà e non di continuità».
L’amministrazione ha emesso un dettagliato “preavviso di rigetto” (nota 8 marzo 2011 della Direzione centrale risorse umane del Dipartimento della P.S.) cui l’interessato ha replicato con una nota, ancor più dettagliata del 24 marzo 2011. Nondimeno, il 4 aprile 2011 il Dipartimento della P.S. ha emesso il conclusivo provvedimento di rigetto.
2. L’interessato ha proposto ricorso al T.A.R. Calabria (R.G. n. 870/2011) contestando argomentatamente la legittimità del diniego.
Il T.A.R. ha accolto il ricorso con sentenza n. 813/2014, con le limitazioni e precisazioni che seguono.
In sintesi, il T.A.R. ha affermato che l’assunzione – formale ed astratta - della qualifica di “mediatore civile” non incorre in alcuna incompatibilità, non comporta, di per sé, alcuna interferenza con il servizio, e non pone neppure problemi di opportunità.
Semmai, sempre secondo il T.A.R., eventuali problemi potranno manifestarsi occasionalmente in relazione alle singole controversie nell’àmbito delle quali il ricorrente sarà chiamato, di volta in volta, a svolgere l’attività di mediatore. Pertanto l’amministrazione valuterà, caso per caso, se autorizzare o meno l’interessato ad accettare l’incarico.
3. La sentenza è stata appellata dall’Amministrazione dell’Interno, con domanda cautelare.
Questa Sezione ha accolto la domanda cautelare dell’appellante, contestualmente fissando la discussione del merito.
L’appellato non si è costituito.
4. La sentenza appellata, dopo aver ricordato i princìpi relativi al dovere di esclusività che grava sulla generalità dei pubblici dipendenti, così prosegue: «La disciplina che regolamenta specificamente l’ordinamento della Polizia di Stato impone prescrizioni più restrittive, atte a introdurre una sorta di incompatibilità assoluta con altre attività, indipendentemente dalla natura privata o pubblica che connota le stesse. Deve, pertanto, riscontrarsi l’obbligo di operare esclusivamente a favore della Polizia di Stato, anche in considerazione della particolare gravosità riconosciuta alle relative funzioni. Ne deriva che l’eventuale esercizio di ulteriori funzioni non può che assumere indiscusso carattere eccezionale, nel rispetto della salvaguardia primaria della dedizione del dipendente ai propri compiti di appartenente alla Polizia di Stato».
5. Queste affermazioni, pienamente condivisibili e del resto corrispondenti alle comuni opinioni, sembrerebbero condurre a conclusioni sfavorevoli alle pretese del ricorrente. La sentenza giunge invece all’esito opposto, accogliendo il ricorso.
Il passaggio essenziale del percorso logico seguìto dal T.A.R. a questi fini è quello – che si è sopra sintetizzato – nel quale si afferma che il problema dell’eventuale incompatibilità non sorge con l’assunzione della qualifica di mediatore, ma con l’accettazione del relativo incarico con riferimento ad una singola controversia.
La decisione pertanto sembra presupporre che il sistema contempli il dovere dell’interessato di chiedere, volta per volta, una specifica autorizzazione a svolgere le funzioni di mediatore in una determinata controversia – e reciprocamente il potere-dovere dell’amministrazione di pronunciarsi su tali richieste – il che renderebbe ingiustificato un diniego espresso in via generale e a priori.
A questa tesi però si deve obiettare che l’amministrazione si è pronunciata in via generale e preventiva, perché così era formulata la richiesta dell’interessato; e tale richiesta si basava a sua volta sul trasparente sottinteso che, una volta ricevuta quell’autorizzazione preventiva, egli non avrebbe avuto bisogno di ulteriori specifiche autorizzazioni per gli incarichi relativi a singole controversie, e non ne avrebbe richieste.
Anche la sentenza del T.A.R. dà atto che « l’istanza di autorizzazione proposta da parte ricorrente risulta generica e a contenuto indeterminato».
Tale essendo l’impostazione data dall’interessato, la risposta di diniego era – viste le premesse – inevitabile, o comunque era ragionevole e legittima, sulla base di quei princìpi in materia di esclusività del rapporto d’impiego dei dipendenti della Polizia di Stato, richiamati dallo stesso T.A.R..
6. Tanto basterebbe per riformare la sentenza appellata, anche perché la mancata costituzione del ricorrente preclude di prendere in esame le argomentazioni non prese in considerazione dal T.A.R. e a maggior ragione quelle rigettate.
Tuttavia può essere opportuno qualche approfondimento.
In buona sostanza, l’attività del mediatore – secondo la prospettazione fattane dal ricorrente in primo grado - sarebbe meramente occasionale, saltuaria, non impegnativa, un modo come un altro per occupare una parte del tempo libero in un’attività socialmente utile.
Peraltro, questa rappresentazione non è coerente con la disciplina che ne ha dato il legislatore, con la legge delega (art. 60 delle legge delega n. 69/2009), il decreto legislativo delegato (n. 28/2010) e il regolamento emanato con d.m. n. 180/2010. L’attività di mediazione infatti deve essere svolta da appositi organismi «professionali e indipendenti, stabilmente destinati all'erogazione del servizio di conciliazione» avvalendosi di personale dotato di una specifica formazione e retribuito.
Sembra evidente che si ponga il problema della compatibilità di queste funzioni con lo status di funzionario pubblico, se non altro nel senso che sia necessaria l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza.
E’ vero che l’art. 6, comma 4 del regolamento n. 180/2010 allude alla possibilità che le funzioni di mediatore siano svolte da pubblici dipendenti, ma in questa disposizione non si può leggere una sorta di autorizzazione generalizzata ed implicita a che ogni pubblico dipendente assume tale qualità. Essa invece si spiega con la considerazione che l’organizzazione del servizio di mediazione può essere intrapresa anche da enti pubblici (tipicamente, ad esempio, le camere di commercio) avvalendosi di propri dipendenti.
7. Riassumendo, non si può giudicare illegittima la posizione assunta dall’amministrazione della Polizia di Stato, che ritiene opportuno non autorizzare i propri agenti e funzionari ad assumere la qualità di mediatore. Fermo restando che si tratta di valutazioni discrezionali rispetto alle quali la stessa amministrazione potrebbe in futuro decidere diversamente.
Si può segnalare che analoga questione è stata già decisa nello stesso senso, sul ricorso straordinario di altro interessato, dalla I Sezione del Consiglio di Stato con parere n. 1516 nell’adunanza del 6 febbraio 2013.
8. In conclusione, l’appello va accolto e in riforma della sentenza appellata va respinto il ricorso proposto in primo grado.
Si ravvisano motivi di equità per compensare le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) accoglie l’appello e in riforma della sentenza del T.A.R. rigetta il ricorso proposto in primo grado.
Spese compensate per i due gradi.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2015 con l'intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente, Estensore
Salvatore Cacace, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere
Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere
IL PRESIDENTE, ESTENSORE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/08/2015
N.B.: la sentenza del Tar potete leggerla sopra.
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SENTENZA ,sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 3 ,numero provv.: 201503843
- Public 2015-08-04 –
N. 03843/2015REG.PROV.COLL.
N. 00961/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 961 del 2015, proposto da:
Ministero dell'Interno, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;
contro
OMISSIS;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. CALABRIA - CATANZARO :SEZIONE I n. 00813/2014, resa tra le parti, concernente diniego autorizzazione a svolgere l'attivita' di mediatore civile
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 maggio 2015 il Pres. Pier Giorgio Lignani e udito l’avvocato dello Stato Soldani;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. L’appellato, già ricorrente in primo grado, è un graduato (assistente capo) della Polizia di Stato ed ha chiesto all’amministrazione di essere autorizzato allo svolgimento dell’attività di “mediatore civile” di cui all’articolo 60 della legge n. 69/2009, del decreto legislativo n. 28/2010 e del regolamento emanato con d.m. n. 180/2010.
Nella relativa istanza (2 febbraio 2011) l’interessato aveva esposto di aver conseguito il titolo di “conciliatore” previa frequenza di un corso presso un ente di formazione iscritto nell’elenco del Ministero della Giustizia; e di avere conseguito nel gennaio 2011 il titolo di “mediatore” di cui al d.m. n. 180/2010, previa frequenza di un ulteriore corso formativo. Aveva esposto, inoltre, che le funzioni di mediatore, secondo la normativa vigente, «hanno un carattere di saltuarietà e non di continuità».
L’amministrazione ha emesso un dettagliato “preavviso di rigetto” (nota 8 marzo 2011 della Direzione centrale risorse umane del Dipartimento della P.S.) cui l’interessato ha replicato con una nota, ancor più dettagliata del 24 marzo 2011. Nondimeno, il 4 aprile 2011 il Dipartimento della P.S. ha emesso il conclusivo provvedimento di rigetto.
2. L’interessato ha proposto ricorso al T.A.R. Calabria (R.G. n. 870/2011) contestando argomentatamente la legittimità del diniego.
Il T.A.R. ha accolto il ricorso con sentenza n. 813/2014, con le limitazioni e precisazioni che seguono.
In sintesi, il T.A.R. ha affermato che l’assunzione – formale ed astratta - della qualifica di “mediatore civile” non incorre in alcuna incompatibilità, non comporta, di per sé, alcuna interferenza con il servizio, e non pone neppure problemi di opportunità.
Semmai, sempre secondo il T.A.R., eventuali problemi potranno manifestarsi occasionalmente in relazione alle singole controversie nell’àmbito delle quali il ricorrente sarà chiamato, di volta in volta, a svolgere l’attività di mediatore. Pertanto l’amministrazione valuterà, caso per caso, se autorizzare o meno l’interessato ad accettare l’incarico.
3. La sentenza è stata appellata dall’Amministrazione dell’Interno, con domanda cautelare.
Questa Sezione ha accolto la domanda cautelare dell’appellante, contestualmente fissando la discussione del merito.
L’appellato non si è costituito.
4. La sentenza appellata, dopo aver ricordato i princìpi relativi al dovere di esclusività che grava sulla generalità dei pubblici dipendenti, così prosegue: «La disciplina che regolamenta specificamente l’ordinamento della Polizia di Stato impone prescrizioni più restrittive, atte a introdurre una sorta di incompatibilità assoluta con altre attività, indipendentemente dalla natura privata o pubblica che connota le stesse. Deve, pertanto, riscontrarsi l’obbligo di operare esclusivamente a favore della Polizia di Stato, anche in considerazione della particolare gravosità riconosciuta alle relative funzioni. Ne deriva che l’eventuale esercizio di ulteriori funzioni non può che assumere indiscusso carattere eccezionale, nel rispetto della salvaguardia primaria della dedizione del dipendente ai propri compiti di appartenente alla Polizia di Stato».
5. Queste affermazioni, pienamente condivisibili e del resto corrispondenti alle comuni opinioni, sembrerebbero condurre a conclusioni sfavorevoli alle pretese del ricorrente. La sentenza giunge invece all’esito opposto, accogliendo il ricorso.
Il passaggio essenziale del percorso logico seguìto dal T.A.R. a questi fini è quello – che si è sopra sintetizzato – nel quale si afferma che il problema dell’eventuale incompatibilità non sorge con l’assunzione della qualifica di mediatore, ma con l’accettazione del relativo incarico con riferimento ad una singola controversia.
La decisione pertanto sembra presupporre che il sistema contempli il dovere dell’interessato di chiedere, volta per volta, una specifica autorizzazione a svolgere le funzioni di mediatore in una determinata controversia – e reciprocamente il potere-dovere dell’amministrazione di pronunciarsi su tali richieste – il che renderebbe ingiustificato un diniego espresso in via generale e a priori.
A questa tesi però si deve obiettare che l’amministrazione si è pronunciata in via generale e preventiva, perché così era formulata la richiesta dell’interessato; e tale richiesta si basava a sua volta sul trasparente sottinteso che, una volta ricevuta quell’autorizzazione preventiva, egli non avrebbe avuto bisogno di ulteriori specifiche autorizzazioni per gli incarichi relativi a singole controversie, e non ne avrebbe richieste.
Anche la sentenza del T.A.R. dà atto che « l’istanza di autorizzazione proposta da parte ricorrente risulta generica e a contenuto indeterminato».
Tale essendo l’impostazione data dall’interessato, la risposta di diniego era – viste le premesse – inevitabile, o comunque era ragionevole e legittima, sulla base di quei princìpi in materia di esclusività del rapporto d’impiego dei dipendenti della Polizia di Stato, richiamati dallo stesso T.A.R..
6. Tanto basterebbe per riformare la sentenza appellata, anche perché la mancata costituzione del ricorrente preclude di prendere in esame le argomentazioni non prese in considerazione dal T.A.R. e a maggior ragione quelle rigettate.
Tuttavia può essere opportuno qualche approfondimento.
In buona sostanza, l’attività del mediatore – secondo la prospettazione fattane dal ricorrente in primo grado - sarebbe meramente occasionale, saltuaria, non impegnativa, un modo come un altro per occupare una parte del tempo libero in un’attività socialmente utile.
Peraltro, questa rappresentazione non è coerente con la disciplina che ne ha dato il legislatore, con la legge delega (art. 60 delle legge delega n. 69/2009), il decreto legislativo delegato (n. 28/2010) e il regolamento emanato con d.m. n. 180/2010. L’attività di mediazione infatti deve essere svolta da appositi organismi «professionali e indipendenti, stabilmente destinati all'erogazione del servizio di conciliazione» avvalendosi di personale dotato di una specifica formazione e retribuito.
Sembra evidente che si ponga il problema della compatibilità di queste funzioni con lo status di funzionario pubblico, se non altro nel senso che sia necessaria l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza.
E’ vero che l’art. 6, comma 4 del regolamento n. 180/2010 allude alla possibilità che le funzioni di mediatore siano svolte da pubblici dipendenti, ma in questa disposizione non si può leggere una sorta di autorizzazione generalizzata ed implicita a che ogni pubblico dipendente assume tale qualità. Essa invece si spiega con la considerazione che l’organizzazione del servizio di mediazione può essere intrapresa anche da enti pubblici (tipicamente, ad esempio, le camere di commercio) avvalendosi di propri dipendenti.
7. Riassumendo, non si può giudicare illegittima la posizione assunta dall’amministrazione della Polizia di Stato, che ritiene opportuno non autorizzare i propri agenti e funzionari ad assumere la qualità di mediatore. Fermo restando che si tratta di valutazioni discrezionali rispetto alle quali la stessa amministrazione potrebbe in futuro decidere diversamente.
Si può segnalare che analoga questione è stata già decisa nello stesso senso, sul ricorso straordinario di altro interessato, dalla I Sezione del Consiglio di Stato con parere n. 1516 nell’adunanza del 6 febbraio 2013.
8. In conclusione, l’appello va accolto e in riforma della sentenza appellata va respinto il ricorso proposto in primo grado.
Si ravvisano motivi di equità per compensare le spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza) accoglie l’appello e in riforma della sentenza del T.A.R. rigetta il ricorso proposto in primo grado.
Spese compensate per i due gradi.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2015 con l'intervento dei magistrati:
Pier Giorgio Lignani, Presidente, Estensore
Salvatore Cacace, Consigliere
Bruno Rosario Polito, Consigliere
Lydia Ada Orsola Spiezia, Consigliere
Paola Alba Aurora Puliatti, Consigliere
IL PRESIDENTE, ESTENSORE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 04/08/2015
Re: Attività extra professionale, lavoro ordinario/straordin
sanzione disciplinare per il seguente motivo: "Comandante di Stazione ometteva di comunicare al Comandante di Corpo l’assunzione della carica di vice presidente di associazione privata”.
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1) - Il CdS con il Parere trattato scrive: La Sezione ritiene che il ricorso in esame risulti fondato nei termini che seguono.
Cmq. leggete i motivi qui sotto.
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PARERE , sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201503072 - Public 2015-11-11 -
Numero 03072/2015 e data 11/11/2015
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 21 ottobre 2015
NUMERO AFFARE 00985/2013
OGGETTO:
Ministero della difesa.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal Maresciallo ordinario dell’Arma dei Carabinieri -OMISSIS- per l’annullamento della sanzione disciplinare -OMISSIS-, con cui il Comandante interregionale dell’Arma dei Carabinieri “-OMISSIS-” ha rigettato il ricorso gerarchico proposto dal ricorrente avverso il succitato provvedimento sanzionatorio nonché di ogni altro atto preordinato, connesso o conseguenziale.
LA SEZIONE
Vista la nota del -OMISSIS-, con la quale il Ministero della difesa ha chiesto il parere sull’affare di cui in oggetto;
Visto l’art. 52, comma 2 del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Claudio Boccia.
Premesso.
1. Con il provvedimento n. -OMISSIS- sulla base della seguente motivazione: “il Comandante di Stazione ometteva di comunicare al Comandante di Corpo l’assunzione della carica di vice presidente di associazione privata”.
Con il ricorso del -OMISSIS- ha impugnato il precitato provvedimento per via gerarchica che è stato rigettato con la delibera n. -OMISSIS-“-OMISSIS-”.
2. Avverso i succitati provvedimenti il Maresciallo ordinario -OMISSIS- ha presentato il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in epigrafe, chiedendone l’annullamento.
A sostegno del gravame il ricorrente ha dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per errata e/o falsa interpretazione e applicazione degli artt. 10 e 52 del regolamento di disciplina militare approvato con d. P.R. n. 545 del 1986 (di seguito indicato r.d.m.);
-) eccesso di potere sotto i profili dell’illogicità, della contraddittorietà, del difetto di motivazione e dello sviamento;
-) errata e falsa applicazione della disposizione di cui al n. 3 dell’Allegato C al r.d.m. e conseguente violazione dell’art. 14 della legge n. 382 del 1978;
-) violazione dell’art. 23 della legge n. 382 del 1978;
-) violazione dell’art. 58 del r.d.m. nonché per difetto di motivazione.
Secondo il ricorrente, infatti, la contestazione mossa nei suoi confronti, ovvero quella di aver assunto la carica di vice presidente di una associazione privata, non potrebbe rientrare nel campo di applicazione dell’art. 10 del r.d.m. - nella parte in cui, all’epoca dei fatti, prescriveva che il militare, nel rispetto dei “doveri attinenti al grado”, “deve astenersi, anche fuori servizio, da comportamenti che possano comunque condizionare l’esercizio delle sue funzioni” o che possano “ledere il prestigio dell’istituzione a cui appartiene” - e ciò in considerazione della circostanza che tale comportamento non potrebbe in alcun modo inficiare lo svolgimento delle sue funzioni né il prestigio dell’Arma dei Carabinieri.
Inoltre, nella fattispecie, i provvedimenti impugnati non motiverebbero l’iter logico seguito dai superiori gerarchici nel ritenere la condotta tenuta dal ricorrente come rientrante fra i comportamenti sanzionati dal succitato art. 10, con la conseguenza che tali provvedimenti non potrebbero che ritenersi illegittimi.
In secondo luogo, il comportamento contestato non potrebbe rientrare neanche nelle fattispecie previste dall’art. 52 del r. d. m. - il quale, al comma 5, disponeva che “il militare deve altresì dare sollecita comunicazione al proprio comando o ente: ….b) degli eventi di cui fosse rimasto coinvolto e che possono avere riflessi sul servizio” - atteso che l’assunzione di una carica all’interno di una associazione privata non avrebbe alcun risvolto sul servizio svolto dal ricorrente come, peraltro, confermato dall’assenza di motivazioni sul punto da parte dell’Amministrazione.
Sotto un differente profilo, inoltre, il provvedimento n. -OMISSIS-- in assenza di una concreta violazione dei doveri previsti dagli artt. 10 e 52 del r.d.m., così come precedentemente evidenziato - sarebbe in realtà stato adottato in ragione della mancata condivisone, da parte dei suoi superiori gerarchici, -OMISSIS-“-OMISSIS-.”.
In altri termini, nel caso di specie, il provvedimento sanzionatorio sarebbe affetto da eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento, atteso che quest’ultimo, lungi dal voler sanzionare un comportamento in contrasto con il r.d.m., sarebbe invece finalizzato a sanzionare il ricorrente in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione i cui scopi non sarebbero condivisi dai suoi superiori.
Il citato provvedimento non avrebbe, poi, sanzionato il comportamento del ricorrente in ragione della sussistenza di “violazioni rilevanti dei doveri attinenti al grado ed alle funzioni del proprio stato” - come invece richiesto dall’Allegato C al r.d.m. - ma esclusivamente “sulla base di qualità ed incarichi dell’agente”, con la conseguenza che la citata sanzione dovrebbe ritenersi illegittima.
Nella fattispecie, inoltre, ad avviso del ricorrente, avrebbe dovuto trovare applicazione il disposto dell’art. 23 della legge n. 382 del 1978 - nella parte in cui prevede che “l’esercizio di un diritto ai sensi della presente legge esclude l’applicabilità della sanzioni disciplinari” - atteso che la sanzione comminata dall’Amministrazione si sostanzierebbe in un limite “al diritto di associazione … che va al di là dei limiti previsti dalla legge” n. 382 del 1978.
Il medesimo ricorrente ha, inoltre, dedotto l’illegittimità del rapporto informativo redatto dal Comandante provinciale dell’Arma - che ha dato avvio al contestato procedimento disciplinare - atteso che tale rapporto conterrebbe l’indicazione della specie della sanzione da infliggere al ricorrente, in aperta violazione del disposto dell’art. 58 del r.d.m., nella parte in cui prevede che “il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione”.
Infine, il ricorrente ha dedotto l’illegittimità della delibera n. -OMISSIS-, di rigetto del ricorso gerarchico dal medesimo presentato, per difetto di motivazione, atteso che il Comandante interregionale dell’Arma dei Carabinieri “-OMISSIS-”, nell’adottare tale provvedimento, non avrebbe esplicitato puntualmente le ragioni sottese a tale rigetto e non avrebbe, inoltre, proceduto a contestare puntualmente le singole deduzioni formulate dal militare in detta sede.
3. Con la relazione istruttoria del -OMISSIS- il Ministero riferente si è espresso per il rigetto nel merito del ricorso in esame.
Considerato.
4. La Sezione ritiene che il ricorso in esame risulti fondato nei termini che seguono.
Rileva, preliminarmente, la Sezione che l’art. 58 del r.d.m. - nel testo vigente ratione temporis - prevedeva che “ogni superiore che rilevi l'infrazione disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad infliggere la sanzione, deve far constatare la mancanza al trasgressore, procedere alla sua identificazione e fare rapporto senza ritardo allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare. Il rapporto deve indicare con chiarezza e concisione ogni elemento di fatto obiettivo, utile a configurare esattamente l'infrazione. Il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione. Se il superiore che ha rilevato l'infrazione ed il militare che l'ha commessa appartengono allo stesso corpo, il rapporto è inviato: … b) per via gerarchica al comandante del corpo, se trattasi di militare di altro reparto”.
Orbene, nel caso di specie, il Comandante provinciale dell’Arma - ritenendosi correttamente incompetente a comminare una sanzione nei confronti del ricorrente - ha proceduto a redigere un rapporto disciplinare informativo indirizzato al Comandante di corpo, in base al quale ha preso l’avvio il contestato procedimento disciplinare.
In tale rapporto disciplinare il superiore gerarchico del ricorrente ha, in primo luogo, proceduto a comunicare al Comandante di corpo la condotta tenuta dal ricorrente e le circostanze utili a “configurare esattamente” l’infrazione asseritamente posta in essere dal militare, in conformità a quanto disposto dalla normativa di settore precedentemente citata.
In tale rapporto, tuttavia, il Comandante provinciale ha altresì proceduto a proporre al Comandante di corpo di “attivare … la procedura per infliggere la consegna di rigore” al ricorrente.
Il contenuto del succitato rapporto quindi - nella parte in cui ha proposto l’irrogazione nei confronti del ricorrente di una determinata specie di sanzione disciplinare - si pone in contrasto con quanto esplicitamente disposto dal richiamato art. 58 del r.d.m., nella parte in cui, all’epoca dei fatti controversi, disponeva che “il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione”.
A quanto esposto non può, peraltro, opporsi la circostanza - esplicitata dall’Amministrazione riferente - secondo cui la succitata proposta, formulata dal superiore gerarchico del ricorrente, non concerneva la sanzione ma soltanto il procedimento da seguire per infliggerla, e ciò in quanto tale rapporto ha in ogni caso individuato la specifica procedura prevista per la sola consegna di rigore, proponendo in tale modo - seppur indirettamente - una peculiare “specie” di sanzione disciplinare, in contrasto con la normativa precedentemente richiamata.
L’impugnato rapporto disciplinare risulta, quindi, illegittimo per violazione del più volte citato art. 58 del r.d.m., con la conseguenza che il medesimo deve essere annullato.
Quanto precede consente, infine, alla Sezione di poter prescindere dall’esame delle ulteriori doglianze formulate dalla parte ricorrente tramite il ricorso in esame.
5. Alla stregua delle suesposte considerazioni il ricorso risulta fondato e deve, conseguentemente, essere accolto, con salvezza degli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione riterrà di adottare il relazione alla presente fattispecie.
P.Q.M.
La Sezione esprime il parere che il ricorso deve essere accolto nei termini di cui in motivazione.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 2 del d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi del soggetto indicato nel presente parere, manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Claudio Boccia Sergio Santoro
IL SEGRETARIO
Maria Grazia Nusca
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1) - Il CdS con il Parere trattato scrive: La Sezione ritiene che il ricorso in esame risulti fondato nei termini che seguono.
Cmq. leggete i motivi qui sotto.
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PARERE , sede di CONSIGLIO DI STATO ,sezione SEZIONE 2 ,numero provv.: 201503072 - Public 2015-11-11 -
Numero 03072/2015 e data 11/11/2015
REPUBBLICA ITALIANA
Consiglio di Stato
Sezione Seconda
Adunanza di Sezione del 21 ottobre 2015
NUMERO AFFARE 00985/2013
OGGETTO:
Ministero della difesa.
Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dal Maresciallo ordinario dell’Arma dei Carabinieri -OMISSIS- per l’annullamento della sanzione disciplinare -OMISSIS-, con cui il Comandante interregionale dell’Arma dei Carabinieri “-OMISSIS-” ha rigettato il ricorso gerarchico proposto dal ricorrente avverso il succitato provvedimento sanzionatorio nonché di ogni altro atto preordinato, connesso o conseguenziale.
LA SEZIONE
Vista la nota del -OMISSIS-, con la quale il Ministero della difesa ha chiesto il parere sull’affare di cui in oggetto;
Visto l’art. 52, comma 2 del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196;
Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Claudio Boccia.
Premesso.
1. Con il provvedimento n. -OMISSIS- sulla base della seguente motivazione: “il Comandante di Stazione ometteva di comunicare al Comandante di Corpo l’assunzione della carica di vice presidente di associazione privata”.
Con il ricorso del -OMISSIS- ha impugnato il precitato provvedimento per via gerarchica che è stato rigettato con la delibera n. -OMISSIS-“-OMISSIS-”.
2. Avverso i succitati provvedimenti il Maresciallo ordinario -OMISSIS- ha presentato il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica in epigrafe, chiedendone l’annullamento.
A sostegno del gravame il ricorrente ha dedotto l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per errata e/o falsa interpretazione e applicazione degli artt. 10 e 52 del regolamento di disciplina militare approvato con d. P.R. n. 545 del 1986 (di seguito indicato r.d.m.);
-) eccesso di potere sotto i profili dell’illogicità, della contraddittorietà, del difetto di motivazione e dello sviamento;
-) errata e falsa applicazione della disposizione di cui al n. 3 dell’Allegato C al r.d.m. e conseguente violazione dell’art. 14 della legge n. 382 del 1978;
-) violazione dell’art. 23 della legge n. 382 del 1978;
-) violazione dell’art. 58 del r.d.m. nonché per difetto di motivazione.
Secondo il ricorrente, infatti, la contestazione mossa nei suoi confronti, ovvero quella di aver assunto la carica di vice presidente di una associazione privata, non potrebbe rientrare nel campo di applicazione dell’art. 10 del r.d.m. - nella parte in cui, all’epoca dei fatti, prescriveva che il militare, nel rispetto dei “doveri attinenti al grado”, “deve astenersi, anche fuori servizio, da comportamenti che possano comunque condizionare l’esercizio delle sue funzioni” o che possano “ledere il prestigio dell’istituzione a cui appartiene” - e ciò in considerazione della circostanza che tale comportamento non potrebbe in alcun modo inficiare lo svolgimento delle sue funzioni né il prestigio dell’Arma dei Carabinieri.
Inoltre, nella fattispecie, i provvedimenti impugnati non motiverebbero l’iter logico seguito dai superiori gerarchici nel ritenere la condotta tenuta dal ricorrente come rientrante fra i comportamenti sanzionati dal succitato art. 10, con la conseguenza che tali provvedimenti non potrebbero che ritenersi illegittimi.
In secondo luogo, il comportamento contestato non potrebbe rientrare neanche nelle fattispecie previste dall’art. 52 del r. d. m. - il quale, al comma 5, disponeva che “il militare deve altresì dare sollecita comunicazione al proprio comando o ente: ….b) degli eventi di cui fosse rimasto coinvolto e che possono avere riflessi sul servizio” - atteso che l’assunzione di una carica all’interno di una associazione privata non avrebbe alcun risvolto sul servizio svolto dal ricorrente come, peraltro, confermato dall’assenza di motivazioni sul punto da parte dell’Amministrazione.
Sotto un differente profilo, inoltre, il provvedimento n. -OMISSIS-- in assenza di una concreta violazione dei doveri previsti dagli artt. 10 e 52 del r.d.m., così come precedentemente evidenziato - sarebbe in realtà stato adottato in ragione della mancata condivisone, da parte dei suoi superiori gerarchici, -OMISSIS-“-OMISSIS-.”.
In altri termini, nel caso di specie, il provvedimento sanzionatorio sarebbe affetto da eccesso di potere sotto il profilo dello sviamento, atteso che quest’ultimo, lungi dal voler sanzionare un comportamento in contrasto con il r.d.m., sarebbe invece finalizzato a sanzionare il ricorrente in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione i cui scopi non sarebbero condivisi dai suoi superiori.
Il citato provvedimento non avrebbe, poi, sanzionato il comportamento del ricorrente in ragione della sussistenza di “violazioni rilevanti dei doveri attinenti al grado ed alle funzioni del proprio stato” - come invece richiesto dall’Allegato C al r.d.m. - ma esclusivamente “sulla base di qualità ed incarichi dell’agente”, con la conseguenza che la citata sanzione dovrebbe ritenersi illegittima.
Nella fattispecie, inoltre, ad avviso del ricorrente, avrebbe dovuto trovare applicazione il disposto dell’art. 23 della legge n. 382 del 1978 - nella parte in cui prevede che “l’esercizio di un diritto ai sensi della presente legge esclude l’applicabilità della sanzioni disciplinari” - atteso che la sanzione comminata dall’Amministrazione si sostanzierebbe in un limite “al diritto di associazione … che va al di là dei limiti previsti dalla legge” n. 382 del 1978.
Il medesimo ricorrente ha, inoltre, dedotto l’illegittimità del rapporto informativo redatto dal Comandante provinciale dell’Arma - che ha dato avvio al contestato procedimento disciplinare - atteso che tale rapporto conterrebbe l’indicazione della specie della sanzione da infliggere al ricorrente, in aperta violazione del disposto dell’art. 58 del r.d.m., nella parte in cui prevede che “il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione”.
Infine, il ricorrente ha dedotto l’illegittimità della delibera n. -OMISSIS-, di rigetto del ricorso gerarchico dal medesimo presentato, per difetto di motivazione, atteso che il Comandante interregionale dell’Arma dei Carabinieri “-OMISSIS-”, nell’adottare tale provvedimento, non avrebbe esplicitato puntualmente le ragioni sottese a tale rigetto e non avrebbe, inoltre, proceduto a contestare puntualmente le singole deduzioni formulate dal militare in detta sede.
3. Con la relazione istruttoria del -OMISSIS- il Ministero riferente si è espresso per il rigetto nel merito del ricorso in esame.
Considerato.
4. La Sezione ritiene che il ricorso in esame risulti fondato nei termini che seguono.
Rileva, preliminarmente, la Sezione che l’art. 58 del r.d.m. - nel testo vigente ratione temporis - prevedeva che “ogni superiore che rilevi l'infrazione disciplinare, per la quale non sia egli stesso competente ad infliggere la sanzione, deve far constatare la mancanza al trasgressore, procedere alla sua identificazione e fare rapporto senza ritardo allo scopo di consentire una tempestiva instaurazione del procedimento disciplinare. Il rapporto deve indicare con chiarezza e concisione ogni elemento di fatto obiettivo, utile a configurare esattamente l'infrazione. Il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione. Se il superiore che ha rilevato l'infrazione ed il militare che l'ha commessa appartengono allo stesso corpo, il rapporto è inviato: … b) per via gerarchica al comandante del corpo, se trattasi di militare di altro reparto”.
Orbene, nel caso di specie, il Comandante provinciale dell’Arma - ritenendosi correttamente incompetente a comminare una sanzione nei confronti del ricorrente - ha proceduto a redigere un rapporto disciplinare informativo indirizzato al Comandante di corpo, in base al quale ha preso l’avvio il contestato procedimento disciplinare.
In tale rapporto disciplinare il superiore gerarchico del ricorrente ha, in primo luogo, proceduto a comunicare al Comandante di corpo la condotta tenuta dal ricorrente e le circostanze utili a “configurare esattamente” l’infrazione asseritamente posta in essere dal militare, in conformità a quanto disposto dalla normativa di settore precedentemente citata.
In tale rapporto, tuttavia, il Comandante provinciale ha altresì proceduto a proporre al Comandante di corpo di “attivare … la procedura per infliggere la consegna di rigore” al ricorrente.
Il contenuto del succitato rapporto quindi - nella parte in cui ha proposto l’irrogazione nei confronti del ricorrente di una determinata specie di sanzione disciplinare - si pone in contrasto con quanto esplicitamente disposto dal richiamato art. 58 del r.d.m., nella parte in cui, all’epoca dei fatti controversi, disponeva che “il rapporto non deve contenere proposte relative alla specie ed alla entità della sanzione”.
A quanto esposto non può, peraltro, opporsi la circostanza - esplicitata dall’Amministrazione riferente - secondo cui la succitata proposta, formulata dal superiore gerarchico del ricorrente, non concerneva la sanzione ma soltanto il procedimento da seguire per infliggerla, e ciò in quanto tale rapporto ha in ogni caso individuato la specifica procedura prevista per la sola consegna di rigore, proponendo in tale modo - seppur indirettamente - una peculiare “specie” di sanzione disciplinare, in contrasto con la normativa precedentemente richiamata.
L’impugnato rapporto disciplinare risulta, quindi, illegittimo per violazione del più volte citato art. 58 del r.d.m., con la conseguenza che il medesimo deve essere annullato.
Quanto precede consente, infine, alla Sezione di poter prescindere dall’esame delle ulteriori doglianze formulate dalla parte ricorrente tramite il ricorso in esame.
5. Alla stregua delle suesposte considerazioni il ricorso risulta fondato e deve, conseguentemente, essere accolto, con salvezza degli ulteriori provvedimenti che l’Amministrazione riterrà di adottare il relazione alla presente fattispecie.
P.Q.M.
La Sezione esprime il parere che il ricorso deve essere accolto nei termini di cui in motivazione.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 2 del d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all'oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi del soggetto indicato nel presente parere, manda alla Segreteria di procedere all'annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Claudio Boccia Sergio Santoro
IL SEGRETARIO
Maria Grazia Nusca
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