naturopata ha scritto: ↑gio giu 06, 2019 1:47 pm
panorama ha scritto: ↑mer giu 05, 2019 11:06 pm
Ora in più di qualche sentenza della CdC regionale, si inizia a leggere i riferimenti alle 2 sentenze Favorevoli all'art. 54.
Qui sotto posto la sentenza della CdC Lazio n. 197/2019 del 09/05/2019, in cui si legge:
- Sez. II Appello n. 61/2019;
- Corte conti Sez. I n. 422/2018.
Solo per precisione, il giudice fa riferimento solo a quella della I^ sez. centrale, il richiamo a quella della II^ Sez. è del legale di parte ricorrente che non viene in alcun modo richiamata nelle argomentazioni di diritto dal Giudice.
N.B.: per il collega "naturopata".
In questa diversa sentenza della CdC Veneto n. 63/2019, non è il legale del ricorrente (rispetto alla precedente) che cita la sentenza della 2^ Sez. d'appello n. 61/2019 ma, è DIRETTAMENTE il Giudice che la cita in Diritto al punto n. 4, in quanto anche recepita dal citato Giudice, infatti possiamo leggere qui sotto:
"Nel merito, questo Giudice prende, preliminarmente, atto del contrasto giurisprudenziale che si è formato sulla questione sottoposta all’esame di questo Giudice concernente l’applicazione dell’art. 54 D.P.R. n. 1092 del 1973 (vedasi, ex multis Sez. I Centr. Appello sentenza n. 422/2018, Sez. Giurisd. Calabria n. 39/2019, Sez. II Giurisd. App. n. 61/2019)."
P.S.: se questa sentenza dovrebbe essere ribaltata in Appello, aprirebbe altre strade sotto un particolare, giacché il ricorrente come si legge in sentenza, si è arruolato il 25 settembre 1989.
Per tutti, qui sotto la sentenza
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Sezione SEZIONE GIURISDIZIONALE VENETO Esito SENTENZA Materia PENSIONISTICA
Anno 2019 Numero 63 Pubblicazione 15/05/2019
N°63/2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE VENETO
in composizione monocratica nella persona del Consigliere Marta Tonolo, in funzione di Giudice Unico delle pensioni, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio iscritto al n. 30763 del registro di segreteria promosso dal sig. S. G., nato a OMISSIS , C.F. OMISSIS, residente in OMISSIS, rappresentato e difeso dall’Avv.to Mario Bacci ed elettivamente domiciliato presso e nello studio del proprio procuratorem ad litem, sito in Roma alla Via Luigi Capuana n. 207
contro
INPS – DIREZIONE PROVINCIALE DI PADOVA, in persona del Dirigente pro tempore, con sede in Viale Delù n. 3, Padova;
Ministero dell’Economia e Finanza, Comando Generale della Guardia di Finanza, in persona del legale rappresentante p.t., domiciliato ex lege presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di VENEZIA;
VISTO il ricorso depositato presso la segreteria di questa Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti il 12 febbraio 2019;
ESAMINATI tutti gli atti e documenti di causa;
CHIAMATO il giudizio alla pubblica udienza del 14 maggio 2019 con l’assistenza della segretaria sig.ra Doriana Tornielli, sono presenti l'avv. Mario Bacci per il ricorrente, il capitano Silvia Pettine per la Guardia di Finanza e l’avv. Filippo Doni per l’INPS;
FATTO
1. Con il gravame in epigrafe, il sig. S. G. – già appartenente al Corpo della Guardia di Finanza, arruolato il 25 settembre 1989 e posto in congedo alla data del 10 settembre 2013 – fa presente di essere destinatario del trattamento pensionistico ordinario diretto di inabilità, integrato con trattamento di privilegio, elaborato, in virtù della Riforma Dini L. n. 335 del 1995 con sistema misto, avendo maturato alla data del 31.12.1995 meno di 18 anni di servizio utile (retributivo sino al 31/12/95 e contributivo a decorrere dal 01/01/1996).
Rileva, al riguardo, che l'INPS, nel liquidare il trattamento di pensione, con riferimento alle quote A e B, da calcolare con il sistema retributivo, non ha applicato l’aliquota di rendimento del 44% pervista dall'art. 54, co. 1 del D.P.R. n. 1092 del 1973 per il personale militare in violazione della predetta disposizione e della Legge n. 335 del 1995. A suo dire, infatti – essendo cessato dal servizio dopo il 31.12.1995 – l’INPS avrebbe dovuto applicare l’aliquota al 44 % quale base pensionabile per il calcolo delle quote da computarsi secondo il sistema retributivo e non, invece, i coefficienti di rendimento previsti per il personale civile ex art. 44 del DPR1092\73.
Reputa, pertanto, che la pensione sia stata determinata secondo i seguenti criteri errati:
“1) Servizio utile conteggiato (b) al 31.12.1992, pari ad anni 9 e mesi 2: Coefficiente rendimento D.P.R. 1092\73 0,21389;
2) Servizio utile conteggiato (a) al 31.12.1995, pari ad anni 12 e mesi 9;
3) Quota A) totale Coefficienti di rendimento Servizio utile a) + b) = 0,2975.”
Al proposito, sottolinea come “tali dati, in estrema sintesi, evidenziano che la percentuale di rendimento applicata dall’INPS è stata pari al 2,33% annuo, pervenendo al 35% con 15 anni e, dunque, in definitiva secondo l’aliquota prevista per il personale civile ex art. 44 del DPR1092\73” e che l’Inps ha operato una inesatta commistione tra ambiti di disciplina tra di loro differenti al fine di omologare situazioni e personale tutt'altro che assimilabili.
Afferma, quindi, che - avendo maturato al 31.12.1992 un servizio utile pari a anni 9 e mesi 2 ed al 31.12.1995 un servizio utile pari a anni 12 e mesi 9 - il coefficiente di rendimento da applicare al servizio ante 31.12.1992 deve essere pari a 26,8583 (ventisei/8583) circa (formula: 44% : 15 X anni di servizio) e non quello del D.P.R. 1092\73: 0,21389; ritiene, altresì, che, anche nel suo caso, debbano trovare applicazione i principi affermati dalla giurisprudenza della Corte dei conti a lui favorevole e, in particolare, dalla sentenza della Sezione Giurisdizionale d’Appello n. 422/2018. Conclude per l’accoglimento del ricorso.
2. Con memoria del 29.4.2019, si è costituita in giudizio la Guardia di Finanza che ha eccepito, in primis, il difetto di legittimazione passiva e chiesto la propria estromissione dal giudizio in quanto spetta all’INPS la gestione dei trattamenti pensionistici dei dipendenti.
Nel merito, ha evidenziato che il ricorrente, arruolato nel 1989 e cessato a domanda nel 2013, alla data del 31 dicembre 1995 non aveva un’anzianità contributiva pari a 15 anni (servizio utile pari a 12 anni e 9 mesi) e, pertanto, non aveva diritto al calcolo della pensione con le aliquote in misura intera in base all’art. 54 del DPR n. 1092/1973.
Concludeva per il rigetto del ricorso.
3. Con memoria depositata il 7 maggio 2019, l’INPS ha eccepito, preliminarmente, la decadenza triennale dal diritto di ottenere il ricalcolo del trattamento di cui è causa, ex art. 205 D.P.R. n. 1092/73, e la prescrizione quinquennale.
Nel merito, l’Istituto previdenziale ha rilevato che parte ricorrente chiede di estendere una disposizione, testualmente destinata a chi va in pensione con un’anzianità complessivamente pari a quella indicata dall’art. 54 D.P.R. 1092/73 (tra i 15 e i 20 anni), anche a coloro che vi accedono con un’anzianità complessivamente maggiore, frammentando l’anzianità contributiva complessiva, aumentando artificiosamente il peso della quota retributiva (anteriore al 31.12.1995) ed utilizzando in tal modo l’art. 54 cit. come parametro per la determinazione della successione dei regimi previdenziali nel tempo.
Parte resistente contesta, infatti, la fondatezza delle argomentazioni attoree rilevando come la norma non possa trovare applicazione nei confronti del militare posto in quiescenza con un’anzianità ben superiore a quanto previsto dalla stessa in quanto ciò altererebbe il rapporto tra quota retributiva e quota contributiva nei trattamenti di pensione soggetti al regime c.d. misto creando, altresì, situazioni di ingiustificabile disparità di trattamento tra gli stessi militari.
Non sarebbe possibile, inoltre, attribuire a tale norma una valenza di disciplina intertemporale quanto ai sistemi di calcolo delle pensioni; diversamente, si finirebbe per utilizzare l’art. 54 cit. per snaturare il sistema e il meccanismo stabiliti dalla legge n. 335/1995 adottando un parametro non voluto dal legislatore e facendo prevalere norme anteriori (scritte 22 anni prima della riforma), non confermate neppure dal decreto legislativo n. 165/1997.
Non assumerebbe, conclusivamente, alcun rilievo l’anzianità di servizio al 31/12/1995 se non quale momento di cesura tra diversi sistemi di computo degli elementi utili ai fini del calcolo della pensione e non come momento a cui far riferimento per il calcolo di quote retributive artificiosamente aumentate in deroga alla legge n. 335/1995.
L’INPS rileva, inoltre, che l’applicazione dell’intera misura dell’aliquota di rendimento del 44% prevista dall’art. 54, comma 1, “fa oggi riferimento a coloro che cessino dal servizio nell’arco compreso tra i 15 e i 20 anni di servizio effettivo con il sistema interamente retributivo (…)” e che “dal 21º anno la percentuale di cui sopra è incrementata dell’1,8%, ma ciò solo perché la pensione era nel 1973 interamente retributiva e pertanto si applica oggi solo alle pensioni che restino retributive anche dopo il 31/12/1995 (e fino al 31/12/2011)”.
Nel ritenere del tutto ingiustificate le tesi del ricorrente - atteso, tra l’altro, che lo stesso aveva al 31/12/1995 un’anzianità di servizio inferiore ai 18 anni - conclude per la reiezione del ricorso contestando gli errori di calcolo in cui sarebbe incorsa la controparte nel computo della propria pensione.
4. All'odierna udienza, l’avv. Mario Bacci per il ricorrente ha esposto le proprie tesi a sostegno della domanda giudiziale mentre la Guardia di Finanza ha chiesto la propria estromissione dal giudizio per difetto di legittimazione passiva, riportandosi, in ogni caso, alla memoria depositata.
L’avv. Filippo Doni per l’INPS ha ribadito le conclusioni di cui alla memoria scritta.
La causa è passata in decisione.
DIRITTO
1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
2. Preliminarmente dev’essere respinta l’eccezione di difetto di legittimazione passiva formulata dal Comando della Guardia di Finanza convenuto posto che lo stesso riveste il ruolo di ordinatore primario di spesa e, in quanto tale, gli vanno riconosciuti specifica competenza nel procedimento di liquidazione del trattamento pensionistico quale datore di lavoro di parte ricorrente e interesse a contraddire.
Come affermato da consolidata giurisprudenza sul punto, le attribuzioni di “ordinatore principale e secondario di spesa” rappresentano una mera ripartizione di competenze degli apparati della pubblica amministrazione che costituiscono nel loro complesso la figura di obbligato passivo; la citazione in giudizio dell’amministrazione che ha emesso l’atto pensionistico garantisce, infatti, non solo l’interesse del ricorrente, ma anche quello del datore di lavoro, quanto meno ai fini della individuazione del soggetto tenuto a pagare le spese di lite in funzione della soccombenza.
3. Va, altresì, respinta l’eccezione sollevata dall’INPS di inammissibilità del ricorso, ex art. 205 DPR n. 1092/73, per non aver il ricorrente, titolare di pensione definitiva sin dal 2013, proposto all’INPS istanza volta alla riliquidazione della pensione entro il termine decadenziale triennale previsto dalla citata disposizione.
In aderenza a condivisibile orientamento giurisprudenziale (Corte dei conti, Sezione I giurisdizionale di appello, sent. n. 349/2018), questo Giudice ritiene che la norma in esame si riferisca esclusivamente alla possibilità per l'interessato di sollecitare l'Amministrazione all'esercizio del proprio potere di revoca o modifica della liquidazione della pensione. Il termine decadenziale – previsto per la proposizione di tale istanza all'amministrazione - non costituisce, quindi, un presupposto processuale per l’esercizio del diritto dell’interessato a far valere dinnanzi al giudice contabile le pretese afferenti il proprio trattamento pensionistico.
4. Nel merito, questo Giudice prende, preliminarmente, atto del contrasto giurisprudenziale che si è formato sulla questione sottoposta all’esame di questo Giudice concernente l’applicazione dell’art. 54 D.P.R. n. 1092 del 1973 (vedasi, ex multis Sez. I Centr. Appello sentenza n. 422/2018, Sez. Giurisd. Calabria n. 39/2019, Sez. II Giurisd. App. n. 61/2019).
Tuttavia, non reputa di aderire all’impianto motivazionale che ha indotto le diverse Sezioni di questa Corte ad accogliere i ricorsi dei militari afferenti la medesima questione di cui è causa, ritenendo, viceversa, di condividere la lineare ricostruzione normativa e le argomentazioni tracciate con le sentenze di questa Sezione giurisdizionale nn. 42 e 43/2019 alle quali intende riportarsi e a cui fa integrale riferimento.
Le richiamate pronunce esaminano, infatti, tutte le tesi poste a sostegno dell’accoglimento dei gravami proposti in materia dai militari tratteggiando, preliminarmente e compiutamente, l’evolversi della normativa pensionistica di cui va tenuto conto nella risoluzione delle questioni interpretative poste all’attenzione dei giudici e, in particolare, nel caso specifico ove il militare, alla data del 31 dicembre 1995, non aveva maturato neppure il limite minimo dei quindici anni richiesti per l’applicazione dell’art. 54 DPR n. 1072/1973 (servizio utile 12 anni e 9 mesi).
Va evidenziato, innanzitutto, come il contesto normativo [D.P.R. n. 1092/1973 - Capo II: Personale militare. Art. 52 (diritto al trattamento normale), Art. 53 (Base pensionabile); Art. 54 (misura del trattamento nomale)] e il tenore letterale della norma di cui si chiede l’applicazione (“La pensione spettante al militare che abbia maturato almeno 15 anni e non più di vent’anni di servizio utile è pari al 44% della base pensionabile, salvo quanto disposto nel penultimo comma del presente articolo”) consentano di affermare che, con l’art. 54 del D.P.R. cit., il legislatore abbia inteso attribuire – nella vigenza di un sistema pensionistico “retributivo puro” (art. 53 - ultima retribuzione percepita) - un trattamento di favore nei confronti di una limitata categoria di militari (ove certamente non rientra l’odierno ricorrente) e cioè a favore di coloro che cessavano dal servizio avendo maturato il minimo pensionabile (15 anni) senza poter contare su vent’anni di servizio utile, salvo prevedere un aumento percentuale di 1,80 per ogni anno di servizio utile in più oltre al ventesimo.
In tal senso, è stato, già, correttamente rilevato che “la previsione del secondo comma dell’art. 54, riferita ai militari con un’anzianità di servizio superiore ai vent’anni, in verità non presuppone il trattamento più favorevole dettato dal primo comma dell’art. 54, ma l’applicazione del trattamento ordinario previsto all’art. 44 e applicato dall’Inps all’odierno ricorrente. Secondo tale disposizione, infatti al dipendente che venga posto in quiescenza con 15 anni di servizio, spetta una pensione calcolata nella misura del 35% della base pensionabile e per gli anni successivi si applica l’aliquota annua dell’1,80% sino al raggiungimento del massimo dell’80%. A ben vedere, dunque al dipendente, civile o militare che sia, che ha raggiunto l’anzianità di servizio utile di vent’anni, spetta una pensione calcolata nella misura del 44% della base pensionabile (35%+ 1,80%x 5= 44); per gli anni successivi l’aliquota è in ogni caso pari all’1,80% con il tetto massimo dell’80%. Ciò conferma che il primo comma dell’art. 54 costituisce disposizione di favore per coloro che siano costretti a cessare dal servizio con un’anzianità compresa tra i 15 e i vent’anni mentre il secondo comma si limita a ribadire che, per coloro che maturano un’anzianità di servizio maggiore, continuano a valere le aliquote previste dall’art. 44. Deve, infine, considerarsi che è principio generale che il trattamento di quiescenza si determina con riferimento alla situazione e alle norme vigenti al momento della cessazione dal servizio (Sezione Terza Centrale, sent. n. 273/2018) ed è incontestato che ricorrente è stato posto in quiescenza, nella vigenza della legge n. 335/1995” (Sez. Giurisd. Emilia-Romagna sent. n. 197/2018).
Di conseguenza, “con l’elevazione dell’anzianità contributiva minima per il conseguimento del diritto a pensione a vent’anni ad opera del decreto legislativo n. 503 del 1992 (art. 6, primo comma e art. 2, primo comma), la disposizione ha perso utilità essendone venuta meno la ratio” (Sez. Giurisd. Veneto sent. n. 43/2019 cit.).
Il richiamato decreto legislativo n. 503, infatti, nel prevedere all’art. 2, I comma, che: “ Nel regime dell'assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti ed i lavoratori autonomi il diritto alla pensione di vecchiaia è riconosciuto quando siano trascorsi almeno venti anni dall'inizio dell'assicurazione e risultino versati o accreditati in favore dell'assicurato almeno venti anni di contribuzione, fermi restando i requisiti previsti dalla previgente normativa per le pensioni ai superstiti”, ha posto nel nulla la previsione dell’art. 54 cit. innalzando il diritto a pensione a vent’anni ed estendendo, di fatto, l’aliquota del 44% a tutti i dipendenti, civili e militari.
Quanto alle modalità di computo della pensione di cui è causa (cessazione al 2013), dunque, trova applicazione, per il periodo precedente al 31.12.1995 (12 anni e 9 mesi), il sistema retributivo risultante dalla riforma del 1992 secondo cui “il diritto alla pensione si conseguiva, per tutti, civili e militari, al raggiungimento dell’anzianità contributiva minima di 20 anni (secondo la tab. b allegata al D.Lgs n. 503/92 la soglia minima di 20 anni trova applicazione dal 2001 in poi) e con l’applicazione della aliquota a tale anzianità corrispondente, pari al 44% tanto per i civili che per i militari, ad una base pensionabile che, fino al 31.12.92 era costituita dall’ultima retribuzione e, dal 1.1.93, dalla media delle ultime retribuzioni, ed in cui anzianità inferiori dovevano essere valorizzate con l’applicazione dell’aliquota del 2,2% annuo (pari ad 1/20 di 44%) per ogni anno di servizio utile. Il sistema retributivo vigente non era, quindi, quello di cui all’art. 52 e ss. del D.P.R.1092/73 (in coerenza al quale era nato l’art. 54), in quanto sostituito e/o modificato ed integrato da norme successive nel tempo (e, quindi, in virtù del criterio cronologico di composizione delle antinomie normative, prevalenti, non potendosi riconoscere carattere di specialità alla previgente disciplina in rapporto a quella successiva, essendo entrambe specificamente dirette ai medesimi destinatari)” (Sez. Giurisd. Veneto sent. n. 42/2019).
Meritano, inoltre, piena condivisione, le osservazioni svolte, nella richiamata pronuncia di questa Sezione, circa l’interpretazione dell’art. 1867 C.O.M. (“1. Con effetto dal 1° gennaio 1998, l'aliquota annua di rendimento ai fini della determinazione della misura della pensione è determinata ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, ferma restando l'applicazione della riduzione di cui all'articolo 59, comma 1 della legge 27 dicembre 1997, n. 449, con la stessa decorrenza. 2. Ai sensi dell'articolo 2, comma 19, della legge 8 agosto 1995, n. 335, l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 1 non può comportare un trattamento superiore a quello che sarebbe spettato in base all'applicazione delle aliquote di rendimento previste dalle norme di cui all'articolo 54 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092.”) il quale fa riferimento alla disposizione di cui all’art. 54, comma 1, cit. soltanto per fissare un limite massimo di trattamento derivante dall’applicazione (a decorrere dall’1.1.1998) delle nuove aliquote di rendimento di cui all’art. 17, comma 1, della legge 724/94.
In un contesto normativo teso ad armonizzare i regimi pensionistici come espressamente previsto dall’art. 1839 del C.O.M., ( “Il trattamento pensionistico normale, diretto e di reversibilità, é corrisposto al personale militare e agli altri aventi diritto secondo le disposizioni stabilite per i dipendenti dello Stato, in quanto compatibili con le norme del presente codice”) non è dato ritenere ancora applicabile una normativa che aveva una sua precisa ratio nella vigenza di un diverso sistema pensionistico e che a tutt’oggi non risulta applicabile essendo stata confermata la soglia minima per il diritto a pensione in 20 anni di anzianità contributiva (“Il personale di cui al comma 1 è collocato a riposo, con diritto a pensione, al raggiungimento del limite di età, se in possesso dell'anzianità contributiva stabilita dall'articolo 6 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503.” - art. 1840, II comma, C.O.M.).
La disposizione in parola, inoltre, non può, in tutta evidenza, trovare applicazione nei confronti del ricorrente che non solo non è cessato dal servizio nella vigenza della stessa, ma alla data del 31 dicembre 1995 non aveva maturato neppure i quindici anni di servizio utile richiesti dalla norma per l’applicazione del coefficiente di favore.
Conclusivamente, per le motivazioni esposte, questo Giudice ritiene che la domanda attorea non meriti accoglimento.
3.Visti la natura della questione e i contrasti giurisprudenziali in materia, sussistono giusti motivi per l’integrale compensazione delle spese di lite, ex art. 31, comma 3, c.g.c..
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Veneto, in composizione monocratica quale Giudice Unico delle Pensioni, definitivamente pronunciando, respinge il ricorso in epigrafe.
Compensa le spese di giudizio ai sensi dell’art. 31, comma 3, c.g.c..
Così deciso, in Venezia, all’esito della pubblica udienza del 14 maggio 2019.
IL GIUDICE UNICO
F.to Cons. Marta TONOLO
Depositata in Segreteria il 15/05/2019
Il Funzionario Preposto
F.to Nadia Tonolo