Ricorso ACCOLTO
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1) - l’Amministrazione rigettava tale richiesta di aspettativa “poiché l’art. 22 della legge 240/2010 si limita a far riferimento solo ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche” con la conseguenza “che la disposizione non si applica al personale in regime di diritto pubblico.
2) - A fronte di tale diniego, notificatogli l’8 giugno 2013, il ricorrente rinunciava all’assegno di ricerca conferitogli dall’Università di Ferrara.
IL TAR VENETO scrive:
3) - La questione sottoposta all’esame del Collegio è se un appartenente al Corpo della Polizia Penitenziaria che sia risultato vincitore di una selezione pubblica per il conferimento di un assegno per lo svolgimento di attività di ricerca, in quanto soggetto alla disciplina riservata al personale in regime di diritto pubblico (ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), possa o meno essere collocato in aspettativa senza assegni per l’intero periodo di durata dell’attività stessa in applicazione del beneficio previsto dall’art. 22 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario).
Per la novità del fatto leggete il tutto qui sotto.
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SENTENZA ,sede di VENEZIA ,sezione SEZIONE 1 ,numero provv.: 201401457 2014-12-02
N. 01457/2014 REG.PROV.COLL.
N. 01290/2013 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
(Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1290 del 2013, proposto da:
OMISSIS, rappresentato e difeso dall’avv. Eugenio Pini, con domicilio eletto presso Andrea Mel in Venezia, San Marco, 4600;
contro
Ministero della Giustizia, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura Distrett. Stato, domiciliata in Venezia, San Marco, 63; Ministero della Giustizia Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria;
per l’annullamento
del diniego di concessione dell’aspettativa non retribuita espresso con determinazione prot. n. 19941 del 5.6.2013, del Ministero intimato; nonchè di ogni atto annesso, connesso o presupposto.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero della Giustizia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 1 ottobre 2014 la dott.ssa Silvia Coppari e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Il ricorrente è un appartenente al corpo della polizia penitenziaria e presta servizio dal 2005 presso la casa circondariale di Verona con il grado di assistente capo.
2. Premette in fatto di aver vinto una selezione pubblica indetta, dall’Università di Ferrara con decreto recettoriale n. 312 del 2013, per il conferimento di un assegno di ricerca per il settore scientifico disciplinare M.-PSI/02 sul tema: “effetti dell’attività motoria e riabilitativa e di compiti cognitivi sensomotori sulle eccitabilità corticospinale sull’attività muscolare posturale anticipatoria”.
2.1. Pertanto, con istanza del 15 maggio 2013, richiedeva al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Provveditorato regionale per il Veneto - Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, di essere collocato in aspettativa senza assegni.
2.2. Con provvedimento datato 5 giugno 2013, l’Amministrazione rigettava tale richiesta di aspettativa “poiché l’art. 22 della legge 240/2010 si limita a far riferimento solo ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche” con la conseguenza “che la disposizione non si applica al personale in regime di diritto pubblico. Se il legislatore della legge 240/2010, infatti, avesse voluto estendere anche a quest’ultimo personale la titolarità e fruizione dell’assegno di ricerca, avrebbe dovuto utilizzare la stessa formula utilizzata al comma 6 dell’art. 56 del d.lgs. n. 165 del 2001, specificando che dell’aspettativa possono fruire tutti i dipendenti pubblici ivi compreso il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 165 del 2001” (così nota prot. 19941 del 5 giugno 2013, doc. 1 di parte ricorrente).
2.3. A fronte di tale diniego, notificatogli l’8 giugno 2013, il ricorrente rinunciava all’assegno di ricerca conferitogli dall’Università di Ferrara (cfr. doc. 7 di parte ricorrente).
3. Il ricorrente ha impugnato il suddetto provvedimento di diniego sulla base dei seguenti motivi:
1) violazione dell’art. 22 della legge n. 240 del 2010 poiché l’ interpretazione restrittiva operata dall’amministrazione introdurrebbe una disparità di trattamento, in danno dei dipendenti in regime di diritto pubblico, non giustificata né dalle peculiari mansioni che essi svolgono né dal ruolo che ricoprono;
2) eccesso di potere, in quanto l’interpretazione restrittiva dell’art. 22 su cui si fonda il diniego impugnato si porrebbe in contraddizione con quella fatta propria dalla medesima Amministrazione, nel 2008, allorché ha concesso il congedo straordinario per dottorato di ricerca ai sensi dell’art. 2 della legge n. 476 del 1984, nonostante le “due disposizioni definiscano.
3.1. Il ricorrente ha chiesto inoltre la condanna dell’Amministrazione al risarcimento del danno subito consistito «nella perdita di chance ovvero dal venir meno della possibilità di arricchire il proprio bagaglio culturale e professionale e di aspirare ad eventuali future opportunità lavorative nel settore scientifico e universitario».
3.2. Quanto alla quantificazione delle somme dovute a tale titolo, il ricorrente ha richiesto al Tribunale di effettuare una quantificazione equitativa ovvero, ai sensi dell’art. 34, comma 4, c.p.a., di demandare tale attività al Ministero resistente.
4. Si è costituito in giudizio il Ministero della Giustizia chiedendo il rigetto del ricorso perché infondato nel merito.
5. All’udienza pubblica del 1° ottobre 2014 la causa è stata trattenuta in decisione.
6. La questione sottoposta all’esame del Collegio è se un appartenente al Corpo della Polizia Penitenziaria che sia risultato vincitore di una selezione pubblica per il conferimento di un assegno per lo svolgimento di attività di ricerca, in quanto soggetto alla disciplina riservata al personale in regime di diritto pubblico (ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), possa o meno essere collocato in aspettativa senza assegni per l’intero periodo di durata dell’attività stessa in applicazione del beneficio previsto dall’art. 22 della legge 30 dicembre 2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario).
7. L’art. 22, comma 3, della l. n. 240 del 2010 citata prevede, in particolare, che: «Gli assegni possono avere una durata compresa tra uno e tre anni, sono rinnovabili e non cumulabili con borse di studio a qualsiasi titolo conferite, ad eccezione di quelle concesse da istituzioni nazionali o straniere utili ad integrare, con soggiorni all’estero, l’attività di ricerca dei titolari. La durata complessiva dei rapporti instaurati ai sensi del presente articolo, compresi gli eventuali rinnovi, non può comunque essere superiore a quattro anni, ad esclusione del periodo in cui l’assegno è stato fruito in coincidenza con il dottorato di ricerca, nel limite massimo della durata legale del relativo corso. La titolarità dell’assegno non è compatibile con la partecipazione a corsi di laurea, laurea specialistica o magistrale, dottorato di ricerca con borsa o specializzazione medica, in Italia o all’estero, e comporta il collocamento in aspettativa senza assegni per il dipendente in servizio presso amministrazioni pubbliche».
8. Secondo l’Amministrazione resistente il beneficio in questione potrebbe essere riconosciuto esclusivamente al personale c.d. “privatizzato” e non anche al personale in regime di diritto pubblico in servizio presso amministrazioni pubbliche, in quanto se il legislatore avesse voluto una siffatta estensione avrebbe utilizzato la stessa formula contenuta nell’art. 53, comma 6, del d.lgs. n. 161 del 2001 che così recita «I commi da 7 a 13 del presente articolo si applicano ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, compresi quelli di cui all’articolo 3».
9. Tale tesi non è condivisibile poiché si fonda sull’erroneo presupposto interpretativo secondo cui la distinzione tra dipendenti pubblici cd. privatizzati e personale in regime di diritto pubblico introdotta dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), escluderebbe quest’ultima categoria dall’ambito di applicazione della disciplina dettata (successivamente alla c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro di pubblico impiego) per i dipendenti “in servizio presso amministrazioni pubbliche”, rendendosi, a tal fine, necessaria un’espressa previsione estensiva.
9.1. Al contrario, la disciplina introdotta dal citato decreto legislativo, relativa all’ «organizzazione degli uffici e i rapporti di lavoro e di impiego alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche» (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001) si applica a «tutte le amministrazioni pubbliche dello Stato» nella cui nozione devono evidentemente farsi rientrare anche quelle concernenti le categorie di pubblici dipendenti c.d. escluse (cfr. art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001).
9.2. Cosicché, l’espressa deroga all’art. 2, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 165 introdotta dall’art. 3 del d.lgs. n. 165 del 2001, che individua con la tecnica dell’elencazione e della tipizzazione le categorie di pubblici dipendenti sottratte, in via di eccezione, alla generale disciplina del lavoro pubblico “privatizzato”, presuppone logicamente che anche tali figure debbano essere ricomprese nella più ampia nozione di “dipendenti di amministrazione pubbliche” di cui all’art. 1, comma 2.
9.3. Venendo alla disciplina introdotta in materia di assegni di ricerca dall’art. 22, comma 3, della l. n. 240 del 2010 sopra richiamata, deve pertanto escludersi, in mancanza di un’espressa deroga di rango legislativo, l’ammissibilità di un’interpretazione applicativa che introduca un trattamento differenziato nell’ambito del medesimo rapporto di lavoro dei “dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.
9.5. Tanto più se si considera che il beneficio in questione è chiara espressione del diritto costituzionalmente garantito allo studio, rispetto al quale non possono darsi disparità di trattamento contrarie al principio di uguaglianza.
9.6. Né potrebbero trarsi elementi a sostegno dell’interpretazione “discriminatoria” nei confronti dei dipendenti “in regime pubblico” rispetto a quelli c.d. privatizzati (fatta propria dall’Amministrazione resistente con il provvedimento impugnato) sulla base della formulazione contenuta nell’art. 56, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, poiché essa risulta circoscritta nei ristretti limiti di applicazione della disposizione medesima, non essendo espressione di alcun principio generale idoneo a vincolare discipline collocate in ambiti normativi diversi e addirittura successivi.
9.7. Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, deve essere dichiarata l’illegittimità del provvedimento di diniego impugnato, con conseguente suo annullamento.
10. Passando all’esame della domanda di risarcimento del danno, essa risulta allo stato del tutto generica in ordine all’individuazione delle conseguenze di danno in tesi subite.
10.1. Il ricorrente si è infatti limitato sul punto ad allegare un danno curriculare «rappresentato dalla perdita di chance ovvero dal venir meno della possibilità di arricchire il proprio bagaglio culturale e professionale e di aspirare ad eventuali future opportunità lavorative nel settore scientifico e universitario», rimettendone al giudice la quantificazione in via equitativa, considerato che «la perdita di chance impedisce l’esatta quantificazione» di esso.
10.2. Tuttavia poiché la chance non è una mera aspettativa di fatto, ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, la perdita di essa configura un’autonoma voce di danno patrimoniale attuale, già presente nel patrimonio del soggetto al verificarsi dell’illecito e che va commisurato alla perdita di possibilità di conseguire un risultato positivo che non siano meramente ipotetiche o semplicemente presunte.
10.3. Conseguentemente la richiesta di risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo – da sussumersi nello schema dell’illecito extracontrattuale – deve essere adeguatamente supportata dalla prova dell’esistenza del danno, non potendosi al riguardo invocare il c.d. principio acquisitivo perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti.
10.4. L’assolvimento dell’onere probatorio è infatti ineludibile posto che, come noto, il diritto entra nel processo attraverso le prove ma queste ultime devono avere ad oggetto fatti circostanziati.
10.5. Sotto tale angolazione ben si comprende che, sebbene sia ammesso il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque indefettibile l’obbligo, a monte, di allegare circostanze di fatto precise relativamente alle perdite ingiuste che si assumono derivate dal comportamento dell’Amministrazione. Obbligo che, nel caso in esame, impone di specificare i termini concreti in cui la perdita dell’assegno di ricerca in questione abbia concretamente inciso nelle aspettative di carriera del ricorrente.
10.9. Né tale genericità potrebbe essere superata mediante la richiesta di liquidare il danno con il ricorso all’equità c.d. integrativa ex art. 1226 c.c., poiché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pregiudizio subito, ma non di individuare gli elementi costitutivi del pregiudizio medesimo, alla cui prova e idonea allegazione è pur sempre tenuto il soggetto interessato.
11. In conclusione il ricorso deve essere accolto con riferimento alla richiesta di annullamento dell’atto impugnato, mentre deve dichiararsi l’inammissibilità, per genericità, della domanda di risarcimento dei danni.
12. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Prima) definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui alla motivazione.
Condanna l’Amministrazione resistente a rifondere al ricorrente le spese di giudizio che si liquidano in complessive Euro 1500,00 (euro millecinquecento/00), oltre alla refusione del contributo unificato se ed in quanto effettivamente assolto.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 1 ottobre 2014 con l’intervento dei magistrati:
Bruno Amoroso, Presidente
Silvia Coppari, Referendario, Estensore
Enrico Mattei, Referendario
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
Il 02/12/2014
Aspettativa non retribuita ai sensi di legge 240/2010
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